sabato 20 aprile 2024

A SWEDISH LOVE STORY

(En kärlekshistoria di Roy Andersson, 1970)

Opera prima del regista svedese Roy Andersson che dopo i primi due lungometraggi degli anni 70 sparisce dagli schermi per tornarvi solo venticinque anni più tardi; nel 2014 gode di una seconda e diffusa popolarità grazie al film Un piccione seduto sul ramo riflette sull'esistenza, Leone d'oro al Festival di Venezia. A swedish love story è l'ottimo esordio di un regista allora ventisettenne che guarda all'amore negli anni dell'adolescenza in maniera delicata e altrettanto profonda ed evocativa, in un film che visto oggi riporta la memoria non solo per ogni spettatore al suo "tempo delle mele" ma anche a un immaginario anni 70 che, seppur qui ovviamente svedese, richiama stili, abitudini e comportamenti non solo europei ma universali (con tendenze occidentali, dell'altra parte del mondo almeno gli scenari, se non i sentimenti, erano diversi). Con il suo esordio Andersson cerca di cogliere le istanze che in quegli anni, e già nei precedenti in realtà, abitavano il cinema europeo (ma anche statunitense se pensiamo alla New Hollywood) con uno sguardo sia alle nuove generazioni, qui rappresentate dalla storia d'amore del titolo tra i giovani Annika e Pär, sia allo status quo relativo alla situazione sociale, con un focus sulle famiglie, per nulla sereno e rassicurante.

Annika (Ann-Sofie Kylin) è una tredicenne molto bella, i suoi genitori portano avanti un matrimonio poco sereno, suo padre John (Bertil Norström), venditore di frigoriferi, ha inoltre problemi con il lavoro, si sente poco realizzato e non apprezzato agli occhi della moglie. Pär (Rolf Sohlman) va a scuola e lavora anche nella carrozzeria di suo padre Lasse (Lennart Tellfelt), nel tempo libero il ragazzo va in giro sul suo motorino poco performante insieme a un gruppetto di amici che iniziano ad avere in testa le esponenti dell'altro sesso. Sia Annika che Pär sono ragazzi molto timidi, il loro primo incontro avviene durante una visita delle rispettive famiglie a dei parenti ricoverati in casa di riposo. Dopo questo primo contatto visivo i due si cercano con difficoltà, nessuno riesce a fare il primo passo. Nel frattempo Annika si confida con la zia Eva (Anita Lindblom), Pär ha il suo gruppetto di amici. Quando finalmente i due ragazzi riusciranno a conoscersi la loro storia correrà in parallelo a quella delle loro famiglie nello scenario di una Svezia anni 70 i cui ragazzi giovani guardano nel look e nei modi a ciò che arriva da oltreoceano. Questa inedita situazione sarà per Annika e Pär tutta una scoperta.

Roy Andersson ci mostra una visione amorevole e delicata della nascita del rapporto tra questi due adolescenti belli e puri, riesce a farlo ponendo l'accento su piccoli gesti, particolari minimi che potrebbero sembrare banali ma che ricondotti all'età dell'adolescenza, al momento in cui tra mille timori si cerca di dichiarare o far percepire all'altro il proprio amore, titubando, con la paura di sbagliare, di fare figuracce che a quell'età possono sembrare irreparabili, beh, allora in quel caso nulla è banale, nemmeno il gesto più innocente del mondo. A questo proposito Andersson infila alcune sequenze deliziose, in una di queste i due ragazzi si confidano con i rispettivi amici, nessuno di loro ha il coraggio di palesare l'interesse per l'altro, hanno paura di apparire stupidi, il gruppo torna verso casa, i ragazzi spingono a mano i loro motorini, Pär apre il gruppo, Annika è in coda, sono distanti, lei guadagna terreno, fa il primo passo (le donne sono sempre più coraggiose in questo), poggia la mano sul sellino del motorino di Pär, un gesto all'apparenza semplice, senza importanza, ma è facile immaginare e percepire quanto i cuori di Annika e di Pär battano veloci in quel momento, quanto può essere costato in termini di coraggio quel gesto all'apparenza infinitesimale, una vertigine che apre a sentimenti di tenerezza e nostalgia per un tempo puro e andato, per emozioni che oggi non ci sono più se non di riflesso (bravissimo Andersson a farcele rivivere). Poi la luce cambia, è passato del tempo, la mano di Annika è ancora su quel sellino ma i due ragazzi parlano tra loro, si è instaurata un minimo di confidenza, una musica dolce li accompagna, non sentiamo quel che si dicono ma non è necessario, sentiamo la sintonia del battito dei loro cuori, poi un treno, due parole, finalmente un bacio e l'abbandono in un abbraccio. Una piccola sequenza perfetta. Ottimo il lavoro sul contesto, siamo in un'altra epoca, vediamo questi tredicenni fumare senza remore, il look è mutuato dai modelli nordamericani, motori, giacche di pelle, chewingum immancabile, ottima la scelta dei brani a corredo (la scena in discoteca ad esempio), Andersson coglie bene anche i turbamenti di quell'età, l'umiliazione delle botte prese davanti alla ragazza di cui si è innamorati, la vergogna e la fuga che portano a dover cominciare tutto da capo, una vergogna difficile da affrontare e superare, il tradimento degli amici: "Cosa le dico ora? Non ce la faccio. E tu te ne sei stato lì a guardare". Lui la ignora per un po', lei soffre poi lo chiama (è di nuovo lei a muoversi per prima), grida il suo nome sopra il rumore dei motorino, lo insegue, lui scappa, il volto bellissimo di Annika è rigato dalle lacrime, finalmente lui trova il coraggio di tornare, salta giù dal motorino, la abbraccia. Altra piccola sequenza perfetta come perfetta è l'inquadratura finale. Andersson dà poi sempre più spazio alla famiglie, al disagio del contesto fino ad arrivare a un finale che porta in sé un tocco di grottesco surreale da applausi. Forse in A swedish love story c'è davvero il meglio dell'adolescenza.

mercoledì 17 aprile 2024

THE DOOR IN THE FLOOR

(di Tod Williams, 2004)

Chi segue almeno da qualche tempo questo spazio virtuale avrà ormai capito (non posso pensare altrimenti) che il primo scopo di chi scrive non è quello di aggiornarvi sull'ultima uscita cinematografica, cosa che di quando in quando peraltro può anche capitare; per quello ci sono già centinaia di spazi e (per fortuna) fior di professionisti che campano di cinema e al cinema possono dedicare l'intera giornata lavorativa e magari anche di più, fornendo così un servizio esaustivo e puntuale. Qui interessa anche e soprattutto recuperare pellicole dal passato, recente, recentissimo ma anche remoto o remotissimo se capita, opere passate sotto silenzio, dimenticate o anche note e meritevoli di una seconda visione e di nuova attenzione presso un pubblico magari assente, per qualsivoglia motivo, al momento del primo passaggio in sala (non sempre sicuro e scontato). Per fortuna oggi, tra piattaforme varie e supporti fisici è possibile riappropriarsi di un cospicuo numero di quelle opere considerate "minori" o comunque meno viste alle quali può valer comunque la pena di dare un'occhiata, perché alla fine nessuno può sapere in anticipo dove possa nascondersi il suo film della vita o anche solo quello dell'anno, che è già cosa da ricordare e da tenere da conto (nel mio caso, negli ultimi anni, erano nascosti in uno splendido film georgiano e nell'opera unica e disperata di un regista cinese poi morto suicida, tanto per dire). Dall'infinito (a volte penso lo sia davvero) catalogo Prime Video oggi andiamo a ripescare The door in the floor di Tod Williams, dramma familiare con protagonisti il sempre ottimo Jeff Bridges, una Elle Fanning bambina e una dolente Kim Basinger.

I coniugi Cole sono sposati ormai da tempo, Ted (Jeff Bridges) è uno scrittore di racconti per ragazzi di un certo successo, illustra da sé i suoi libri e coltiva la passione per l'arte e per il disegno in sessioni dal vivo con modelle tra le quali vi è l'amica Evelyn (Mimi Rogers). La moglie Marion (Kim Basinger) è una donna ancora bellissima alla quale però si è estinta la scintilla vitale; la donna è preda di uno stato depressivo a causa della perdita dei due figli maschi in un incidente stradale avvenuto qualche tempo prima. La coppia ha ancora una figlia, la piccola Ruth (Elle Fanning) amorevolmente accudita soprattutto dal padre Ted. La bambina è ancora molto legata al ricordo dei due fratelli che tiene vivo confrontandosi continuamente con una parete piena di foto di famiglia provenienti da un'epoca precedente il mortale incidente. In estate Ted assume come assistente il giovane Eddie (Jon Foster), un ragazzo timido e ben educato che coltiva il sogno di diventare scrittore e ammira molto il lavoro di Ted; lo scopo principale di questo rapporto di lavoro sarebbe quello di far fare a Eddie un po' di praticantato in modo che questi possa imparare qualche trucco del mestiere da Ted e allo stesso tempo dargli una mano con le incombenze quotidiane e fargli da autista (comprensibilmente Ted non vuole più guidare). Eddie conosce così la famiglia Cole, il ragazzo ricorda a Marion uno dei suoi figli, questo e altri motivi spingeranno la signora Cole ad avvicinarsi sempre più al giovane, cosa che scardinerà i già poco stabili equilibri familiari.

Tod Williams non è un regista troppo conosciuto, quattro film all'attivo e nessuno di primissimo piano anche se nel mazzo compaiono il Cell tratto da Stephen King e uno degli episodi della saga Paranormal activities. In effetti sotto il punto di vista della regia The door in the floor non sviluppa segni particolari per farsi ricordare, nondimeno il film gode di una narrazione classica ma non stereotipata che lavora bene su tutti i personaggi principali e costruisce un bel dramma familiare capace di affrontare il tema del lutto e della perdita in maniera credibile e non abusata mettendo in scena due reazioni al dolore quasi opposte incarnate da un lato dall'iperattività di Ted che scrive, dipinge, tiene letture pubbliche, gioca a squash, quasi a voler tenersi occupato per scacciare il dolore, e dall'altro dall'inedia di Marion che si scuoterà, in superficie, solo con l'arrivo di Eddie. Nel film sono inseriti alcuni rimandi che troveranno poi un loro significato sul finale come l'attenzione per i piedi nelle foto dei due fratelli da parte di Ruth o il significato del titolo stesso del film; la vicenda viene sorretta anche da un Bridges che è un corpo attoriale fenomenale qui in contrasto a una Basinger splendidamente dimessa in sottrazione perenne. Curioso rivedere la Fanning bimbetta vivace all'età di sei anni, ottimi apporti anche da parte di Mimi Rogers che si concede in nudo integrale e del giovane Jon Foster. Come si diceva sopra, un film che non sarà mai tassello fondamentale del cinema del nuovo millennio ma che nemmeno merita l'oblio a cui sembra destinato. Diamogliela un'altra occasione a questi film.

sabato 13 aprile 2024

PARKER: L'INFERNO IN TERRA

(The hunter; The outfit, The handle di Richard Stark, 1962/1963/1966)

Parker: L'inferno in terra è una raccolta di tre romanzi scritti dall'autore newyorkese Donald E. Westlake sotto lo pseudonimo di Richard Stark. Questa raccolta venne edita parecchi anni fa, attorno al 2008, da Mondadori nella collana Supergiallo: I grandi Maestri, un supplemento a Supergiallo, costola della gloriosa I gialli Mondadori. Questa piccola antologia raccoglie alcuni dei primi romanzi che Richard Stark (usiamo pure lo pseudonimo) dedicò al personaggio di Parker, un criminale che in seguito trovò diverse volte la strada per arrivare sul grande schermo; nella fattispecie i tre titoli presentati sono Anonima carogne del 1962, Liquidate quel Parker! del '63 e infine Parker: a ferro e a fuoco del 1967. Potremmo dire che Richard Stark è un po' il rovescio della medaglia di Donald Westlake, scrittore che nel corso della sua lunga e prolifica carriera ha siglato romanzi con una pletora di nomi da far girar la testa, ma qui limitiamoci pure a parlare dei due già citati. Nei romanzi a firma Westlake l'autore predilige, pur rimanendo nel genere crime, un approccio alla materia molto divertente (e sicuramente divertito): i toni sono spesso ironici, mai troppo truci o seriosi, a volte i protagonisti sono criminali da strapazzo, personaggi sopra le righe, colpevoli per caso o senza cattiveria, non è improbabile imbattersi in sue narrazioni nelle quali non si presenti nemmeno un omicidio (La danza degli aztechi per esempio). Stark è il suo opposto, Parker è il prototipo del protagonista noir, hard boiled, serio, dedito al lavoro (che poi sarebbe il crimine), spietato quando serve, pratico e deciso ma mai inutilmente crudele; non c'è ironia in questo protagonista e in questi romanzi, secchi e diretti verso la loro inevitabile conclusione. Appunto, due facce della stessa medaglia accomunate da una narrazione vista dalla prospettiva dei criminali, spesso le forze dell'ordine, dove presenti, si ritagliano il ruolo di semplici comprimari.

La serie dedicata a Parker conta un numero di titoli piuttosto importante, qui vengono presentati il primo, quello che sembra essere il terzo (in realtà il secondo è dello stesso anno) e il settimo della serie. Tra Anonima carogne e Liquidate quel Parker! sembra non esserci soluzione di continuità, le vicende che il protagonista si trova a dover affrontare nei primi due episodi della raccolta sembrano essere l'uno la diretta conseguenza dell'altro senza buchi narrativi nel mezzo. Discorso diverso per Parker: a ferro e a fuoco che si può considerare come un episodio successivo non troppo legato ai primi due. Si apre con Parker evaso di galera, incastrato dopo un colpo andato male e durante il quale il suo ex socio Mal, con l'involontaria complicità della stessa moglie di Parker, tentò di far fuori il Nostro abbandonandolo dopo averlo dato ormai per morto. In Anonima carogne assistiamo quindi al ritorno in libertà di Parker e alla sua vendetta nei confronti dell'ex socio ora entrato a far parte dell'Organizzazione, cosa che complicherà un poco la vita al nostro Parker. In Liquidate quel Parker! il discorso a base di vendetta si amplia ai vertici dell'Organizzazione che si sono trovati a dover fare i conti con un osso davvero troppo duro per i denti di molti di loro. Più avanti nella storia di Parker, in Parker: A ferro e a fuoco, il protagonista si troverà invece a collaborare con l'Organizzazione che ne richiede i servigi per eliminare un loro scomodo concorrente, una piccola parte nella vicenda qui l'avranno anche le forze dell'ordine che dovranno scontrarsi con l'incontenibile tenacia del Nostro.

Stark adotta per i romanzi di Parker una narrazione asciutta ed essenziale che si rifà ai più noti stilemi del noir e dell'hard boiled; il protagonista è un uomo granitico, deciso e sempre più che sicuro dei suoi mezzi, semmai dubita di tutti gli altri, monolitico nella sua tenacia, impermeabile a vizi e tentazioni quando è all'opera o in fase di preparazione di un colpo o di un'azione, un cliente difficile da trattare per chiunque, caratteristica questa che forse l'autore spinge in alcuni casi anche un poco troppo oltre, sembra infatti incredibile che un'organizzazione simile alla mafia italo-americana (l'esempio mi sembra più o meno calzante) non riesca a mettere il sale sulla coda a un singolo uomo per quanto in gamba questo possa essere. Stark intaglia un criminale duro ma anche giusto, leale ai compagni che si comportano con lui in modo corretto, tanto da arrivare a rischiare la vita per loro, non privo di pietà in taluni casi, spietato quando si sente tradito o minacciato, a ogni modo un vero criminale. Siamo nel campo dei classici del noir, il nome di Stark può essere annoverato tra i fondamentali del genere proprio grazie a Parker, magari accanto ad autori più noti e quotati come Dashiel Hammett o Raymond Chandler, ma i fan del genere questo già lo sanno.

venerdì 12 aprile 2024

POLAR

(di Jonas Åkerlund, 2019)

Polar nasce come fumetto pubblicato sul web; ideato dallo spagnolo Victor Santos il personaggio del killer a pagamento Duncan Vizla, detto il "Black Kaiser", sarà poi protagonista di diverse storie noir in origine pensate prive di testo e dialoghi, una narrazione per sole immagini capaci di bastare a loro stesse, realizzate con uno stile essenziale in bianco e nero con spruzzate di arancio come unico segno di colore; il lavoro compiuto da Santos è stato accostato per diversi aspetti a quello imbastito da Frank Miller per il suo Sin City, una delle opere imperdibili per chi ama il fumetto "moderno", ma oltre a questo lo stesso autore cita tra i suoi riferimenti anche il Nick Fury, agent of S.H.I.E.L.D. di Jim Steranko, notevolissima opera dai remoti anni 60 di casa Marvel. È di questo materiale di base che si appropria il regista svedese Jonas Åkerlund, più noto come direttore di video musicali che non come regista cinematografico (Metallica, Madonna, Jamiroquai, Iggy Pop, The Smashing Pumpkins, U2, Coldplay, Lady Gaga, Rammstein e molti altri, tutti nomi di primissimo piano dello stardom musicale). La trasposizione di Åkerlund non rispetta lo stile scelto per la sua narrazione da Victor Santos ma carica invece il "suo" Polar di colori saturissimi e sparati, ultraviolenza pop e postmoderna aderendo a una filosofia dell'eccesso che può divertire ma non è poi così scontato che possa pagare in toto, in fondo il Duncan Vizla col volto di Mads Mikkelsen potrebbe ben prestarsi a qualcosa di molto più serio e cupo.

L'eccentrico e pasciuto Blut (Matt Lucas) gestisce un'agenzia di killer professionisti tra i quali spicca per capacità il silenzioso e impeccabile Duncan Vizla (Mads Mikkelsen) conosciuto come il Black Kaiser, l'uomo di punta tra quelli sul libro paga di Blut. L'agenzia però ha una regola, arrivati ai 50 anni i suoi killer vengono sottoposti a pensionamento forzato, una liquidazione faraonica e una messa a riposo che mette l'agenzia a riparo da eventuali cali di prestazione dovuti all'età in avanzamento. L'agenzia però è in un momento di crisi economica, ricoperto dai debiti Blut pensa di poter risparmiare molto denaro sulle pensioni dei suoi ex dipendenti togliendoli di mezzo; organizza così un'ultima e finta missione per il suo Black Kaiser con l'unico scopo di attirarlo in trappola ed eliminarlo. Nel frattempo Vizla si ritira in una località sperduta in montagna dove conosce la sua nuova vicina di casa, una donna che sembra aver paura anche della sua ombra, la Camille interpretata da Vanessa Hudgens. Ovviamente Vizla non cadrà nella trappola ordita dall'agenzia e così Blunt, tramite l'intermediaria Vivian (Katheryn Winnick), manderà una squadra di killer spietati e dementi alla ricerca del suo ex numero uno, ne conseguiranno carneficine e torture a profusione.

Per questa trasposizione Jonas Åkerlund gioca su forma e superficie più che con la narrazione e lo sviluppo dei personaggi; nonostante la scelta di puntare su un'iperviolenza esibita e onnipresente che tocca vette di kitsch probabilmente ricercate ad arte dallo stesso regista e su un'approccio visivo dai toni accesi spesso sopra le righe, Polar non parte poi neanche male e trova in Mikkelsen il volto perfetto da cucire sulla figura di un killer infallibile. Purtroppo il film si accascia presto sul risaputo e sul prevedibile, perdendo via via d'interesse anche a causa di un reiterarsi di violenza e uccisioni che ben presto diventano il classico troppo che stroppia. Nel complesso il film, pur senza lasciare particolari tracce di sé, può anche rivelarsi una visione divertente per poi perdersi nella medietà anonima del catalogo Netflix che un po' ci ha abituati al consumo di questi prodotti usa e getta. È indubbio che Åkerlund almeno sotto il punto di vista tecnico il mestiere lo padroneggi, oggi è forse un po' poco guardare unicamente al post-moderno soprattutto nel genere crime dove, senza voler per forza scomodare Tarantino, abbiamo visto cose decisamente migliori, il primo Guy Ritchie ad esempio (impagabile) ma anche opere minori e meno conosciute ma meglio riuscite, al brucio mi viene in mente ad esempio In ordine di sparizione di Petter Moland, giusto per rimanere tra la neve e sui registi scandinavi. Detto questo comunque Polar una sufficienza la strappa, ci sono ingenuità narrative, sesso gratuito e abbastanza fuori contesto, ma anche passaggi divertenti e un ritmo discreto, quindi si può fare. Queste due ore però le si possono anche impiegare con qualcosa di meglio.

martedì 9 aprile 2024

SHORT SHARP SHOCK

(Kurz und schmerzlos di Fatih Akin, 1998)

Agli esordienti è solito consigliare di scrivere sempre di ciò che si conosce, consiglio questo che Fatih Akin per il suo lungometraggio d'esordio osservò più o meno alla lettera; il regista tedesco di origini turche è qui anche sceneggiatore e per questa sua prima opera attinge agli ambienti non sempre salubri della sua gioventù; ritorna così ai tempi in cui nel distretto periferico di Amburgo che va sotto il nome di Altona (più di 250.000 abitanti) Fatih frequentava le gang locali, erano anni in cui i rapporti tra tedeschi e figli di immigrati non sempre erano semplici e distesi. Come il regista stesso è poi riuscito a tirarsi fuori da giri poco puliti così tenta di fare il protagonista principale di questo Short sharp shock, titolo internazionale della pellicola che non trovò grande risalto qui da noi nonostante la menzione al festival di Locarno, il regista infatti, che oggi gode anche in Italia di una certa fama, si fece conoscere solo diversi anni più tardi con film come La sposa turca (2004) o Soul kitchen (2009). C'è da dire che questo Short sharp shock, magari corredato di una buona traduzione nel titolo, avrebbe sicuramente meritato maggior visibilità e un'attenzione degna di un esordio vitale e già ben calibrato e molto ben riuscito. Per fortuna il cinema resta e alcune pellicole come questa si fa sempre in tempo a recuperarle.

Il turco Gabriel (Mehmet Kurtulus) esce di galera e torna nel suo vecchio quartiere di Altona, ad Amburgo, torna dalla famiglia e dalla sorella Ceyda (Idil Üner), dai suoi amici, il serbo Bobby (Aleksandar Jovanović) e il greco Costa (Adam Bousdoukos) che attualmente sta frequentando proprio Ceyda. Il ritorno del giovane si trasforma ben presto in un giorno di festa, non solo per la famiglia ma anche per i due amici che per Gabriel, contraccambiati, provano un amore fraterno e sincero. L'incontro si apre davvero su una festa, si sposa infatti il fratello di Gabriel, questi offre un lavoro onesto al fratellino minore il quale sembra davvero intenzionato ad accettarlo e a rigar dritto, a maturare e crescere, a entrare nella società degli onesti e magari col tempo metter su famiglia. Ma Bobby e Costa non hanno le stesse intenzioni, forse perché non hanno provato la galera da vicino, il primo intenzionato a entrare nel giro della mala albanese alle dipendenze di Muhamer (Ralph Herforth), il secondo troppo sfaccendato e fuso per smettere di rubare. I due ragazzi non sono cattivi, anzi, sarebbero anche due elementi di buon cuore, hanno però una grande capacità di ficcarsi nei pasticci e l'ambiente circostante non è dei migliori e non perdona, sarà proprio Gabriel a dover intervenire per sistemare i guai dei suoi compari, in più c'è anche Alice (Regula Grauwiller), la bella donna di Bobby...

Forse le strade di Altona non sono proprio le mean streets scorsesiane ma la vitalità criminale e i legami interpersonali, così tragici, sinceri, legati da amore e morte, sono più o meno gli stessi. Quella di Fatih Akin è una visione della violenza credibile e misurata, seppur tragica mai calcata, parossistica o messa in ridicolo e ha del romantico la parabola di questi tre amici che si conoscono da sempre, i legami con le loro donne, mai sussidiarie e protagoniste anche loro a tutto tondo, donano profondità a un racconto che trova da subito uno stile narrativo e un equilibrio tale da permettere a questo Short sharp shock di imprimersi nella memoria ed esser ricordato (se se ne fosse solo parlato di più ai tempi...). Colorito e vivace lo spaccato multiculturale della Germania degli immigrati: tedeschi, albanesi, greci, serbi, balcanici, in un melting pot ricco e allo stesso tempo carico di tensioni e pericoli; in questo scenario Akin fa crescere i suoi personaggi e trova un gruppo di interpreti poco noti ma dai volti giusti che poi ricorreranno nel suo cinema, ottima l'intesa tra i tre ragazzi capaci di costruire un gruppo affiatato al quale ci si affeziona molto presto. Esordio che cattura, una visione soddisfacente non solo per gli amanti del genere criminale, chiaro esempio di come l'incrocio di culture abbia qui portato i suoi frutti, Akin un regista sicuramente da approfondire.

martedì 2 aprile 2024

TASTE

(VỊ di Le Bao, 2021)

Esordio del regista vietnamita Le Bao che con Taste (titolo internazionale) lascia il segno almeno per quel che riguarda l'aspetto visivo legato alla messa in scena di un film che ha più il sapore della videoarte, della fotografia in alcuni casi, che non del cinema tout-court, caratteristica questa che se da un lato permette di offrire allo sguardo dello spettatore immagini di grande fascino e costruzioni minuziosamente pensate e poi trasposte in video, trascura parecchio il lato narrativo dell'opera, molto blando se non proprio da considerare carente o addirittura inesistente. Rimane da decidere che cosa si voglia intendere per "cinema", definizione non così semplice e univoca da attribuire al termine, almeno non se sottostiamo a eminenti pareri della critica specializzata che anche su questo punto non manca di dividersi. Per alcuni la forma comanda; il cinema in fondo lavora sulle immagini, ci ripetiamo e ricordiamo una volta ancora ciò che affermò il regista gallese Peter Greenaway a proposito della settima arte, ovvero che "il cinema è un mezzo di espressione troppo ricco per lasciarlo ai narratori di storie". Dove c'è la forma, la cura dell'immagine, la comunicazione attraverso ciò che si vede e che dovrebbe bastare a sé stesso (e al pubblico quindi) per veicolare l'intenzione dell'autore, quale che sia, allora c'è cinema, a volte anche grande cinema. Per altri, molto spesso per la grandissima maggioranza del pubblico che non vuole essere abituato a forme di espressioni troppo diverse da quelle che già ama, riconosce e accetta di buon grado, è necessaria una struttura oltre l'immagine, un qualcosa che dove l'immagine non risulti sufficiente a sé stessa la renda meno sterile e più accessibile, pur senza snaturarne per forza l'essenza. È un dibattito questo, qui ovviamente semplificato e ridotto ai minimi termini, che ben si potrebbe applicare a questo Taste, opera prima di un regista a ogni modo interessante.

Siamo in Vietnam a Ho Chi Minh City, la città che fino al 1975 era conosciuta come Saigon. È una città di quasi nove milioni di abitanti, una città di cui non vediamo quasi nulla: un vicolo, un incrocio, un gruppo di case che danno su un fiume, poi solo interni. Siamo in un contesto povero; un uomo senegalese stabilitosi in Vietnam nella speranza di trovare il modo di crescere un figlio lontano gioca in una squadra di calcio insieme ad alcuni suoi connazionali. In seguito a un infortunio l'uomo viene escluso dalla squadra. Affranto a causa di questo episodio, si confida con alcune donne vietnamite, all'apparenza più grandi di lui, decide di andare con loro ad abitare in una casa in disuso dagli ampi spazi ma dagli arredi molto spogli. Con le quattro donne e un maiale l'uomo crea qui una comunità di sussistenza dove le occupazioni principali sono legate al cibo, al preparare da mangiare, al sesso, a prendersi cura l'uno dell'altro tramite gesti quotidiani come il lavarsi reciprocamente i capelli, massaggiarsi, solo qualche volta parlare. In questa bolla apparentemente pacifica non manca qualche segnale di screzio, per il resto la vita scorre lenta, quasi immobile, per piccoli ritratti che sembrano dei fermoimmagine di momenti finiti.

Le Bao traspone in video quadri di rara precisione con un'attenzione maniacale per le inquadrature, per la struttura e per le geometrie degli interni nei quali si svolge la quasi totalità di questo Taste. Questa scelta, seppur lecita, può esser vista come una limitazione; i pochissimi squarci esterni offrono infatti aperture dal fascino innegabile che sarebbe stato bello veder maggiormente esplorate: la città che affaccia sull'acqua, quel girovagare nella tinozza/barca, gli scampoli di vicoli, l'incrocio cittadino, offrono prospettive su scenari che molto avrebbero potuto offrire donando vivacità a un'opera ferma e troppo statica (se volete tra le righe potete leggere la parola "tedio"). La costruzione delle sequenze in interno non manca di colpire l'occhio, nella gestione delle altezze, nello sfruttare le scale come quinta (vedere la scena del pesce spada), nell'asciutta essenzialità di stanze disadorne che sembrano volutamente ripulite (in contrasto alla bella bottega da barbiere), asciugate da ogni arredo o quasi. Grande importanza rivestono la ritualità del cibo, l'essenzialità della vita con personaggi in quasi costante nudo integrale, la cura reciproca nei piccoli gesti con un Le Bao che riprende quelli che sembrano quasi dei "tableau vivants" in un contesto essenziale che contrasta con la diffusa presenza di elettrodomestici e apparecchi elettrici. Dove il regista voglia portarci e quale sia il senso ultimo dell'operazione rimane tutto da decidere; può bastare? L'impressione finale è che Taste non sia un film del tutto compiuto e che Le Bao, seppur promettente, possa giungere a un equilibrio maggiore in modo che la sua opera risulti meglio fruibile, in tal senso c'è ancora da lavorare parecchio.

sabato 30 marzo 2024

IL SAPORE DEL SANGUE

(Clay Pigeons di David Dobkin, 1998)

A volte i film si perdono, spariscono dalla memoria del grande pubblico e, seppur accessibili, vivono dimenticati in angoli remoti di cataloghi digitali infiniti all'interno dei quali non è facile essere ritrovati e riportati alla luce di schermi moderni. Accade spesso a quelle opere considerate di serie b, magari oneste, divertenti e per alcuni versi anche ben realizzate ma sommerse e sorpassate da altri titoli che, a torto o a ragione, sono riusciti a ritagliarsi maggior gloria e un posticino (o anche un meritato posto d'onore) all'interno dell'immaginario collettivo. Alcuni si perdono anche a causa dell'insignificanza di un titolo tradotto; prendiamo a esempio questo Il sapore del sangue: cosa ci dice questo titolo? Più che del sangue ha il sapore del prodotto di scarto, del fondo di magazzino, riporta alla mente l'odore del cestone dei dvd a un euro, delle visioni estive in seconda serata su canali di ripiego di una tv generalista di qualche decennio fa. Mettiamoci anche la firma di un regista non proprio di primo piano come David Dobkin, noto probabilmente solo a chi ama un certo tipo di commedia, e l'oblio sembra essere quasi assicurato. Eppure, e rimaniamo pure sempre al nostro esempio, in certi casi questo processo di scomparsa progressiva risulta essere un po' un peccato, perché alla fine questo Il sapore del sangue non è affatto male, certo rimaniamo nel mondo della serie b, ma di quella spassosa e anche succosa che può contare su mestiere ma anche su alcuni nomi di tutto rispetto, nella fattispecie quello di un molto giovane Joaquin Phoenix e quello del solo un pelo più maturo Vince Vaughn.

In un piccolo paese rurale del Montana Clay (Joaquin Phoenix) e il suo amico Earl (Gregory Sporleder) ammazzano il tempo sparando a bottiglie vuote e bevendo birra. Presto viene fuori che Earl è a conoscenza della relazione adulterina che sua moglie Amanda (Georgina Cates), una creatura tanto deliziosa quanto sfrontata e pericolosa, intrattiene proprio con il suo amico Clay. Essendo un buono Earl non è capace di sparare a quel traditore di Clay, decide così di togliersi la vita facendo in modo che le colpe ricadano sull'ex amico; questi però, nonostante il dolore sincero per la perdita di Earl, riesce a sfangarla allontanandosi poi da Amanda. Ma Amanda, come abbiamo già detto, è una testa calda che non accetta di lasciare libero Clay, inizia a comportarsi da vedova allegra affatto affranta mettendo in difficoltà il giovane ragazzo che proprio in quei giorni incontra un nuovo amico, il camionista dall'aspetto da cowboy Lester Long (Vince Vaughn) che diventa per Clay una valvola di sfogo per alleviare le tensioni del periodo. Un bel giorno, durante una battuta di pesca nel lago vicino al paese, i due uomini si imbattono nel cadavere affiorante di una giovane donna. Per Clay questo ritrovamento sarà un duro colpo (e non vi dirò perché) che coinvolgerà nelle indagini ufficiali lo sceriffo Mooney (Scott Wilson) che conosce Clay fin da quando era un ragazzino, e poi gli agenti dell'F.B.I. Shelby (Janeane Garofalo) e Reynard (Phil Morris).

David Dobkin, complice la sceneggiatura di Matt Healy, sceglie di narrare questo thriller di provincia (americana) con un piglio da commedia che in diversi hanno accostato allo stile dei fratelli Coen; a sottolineare questa scelta parecchio indovinata c'è il personaggio di Lester Long, un nome musicale in allitterazione per un carattere ambiguo, folle e divertente allo stesso tempo, graziato da una risatina idiota in grado di alzare il tasso di comicità delle sue uscite e interpretato davvero molto bene da un Vince Vaughn in palla che qui si ricorda ancor più del già bravo Joaquin Phoenix, ancora giovane e, come già accadeva nel quasi coevo Da morire di Gus Van Sant, preso per il naso da una donna avvenente e pericolosa. Il film riserva un paio di sorprese ben pensate e momenti giocosi come il parallelo dei due film guardati dai due agenti F.B.I. nelle rispettive camere d'albergo: Lassie e Alien, il film è tra l'altro prodotto dai due fratelli Scott, cosa che rende l'omaggio a Alien ancor più significativo e divertente. Ottima l'ambientazione nel paesino di provincia dove il protagonista lavora come meccanico, lo sceriffo ha un vice incline alla sonnolenza (e all'idiozia) e dove le ragazze non sanno scegliersi per benino i loro uomini. Alla fine Il sapore del sangue si guarda con molto piacere, è un film che non rimarrà negli annali del cinema ma che nemmeno merita quell'anonimato in cui è caduto a posteriori della sua uscita nelle sale, indi per cui se ne consiglia il recupero, lo si trova anche a gratis su Youtube sul canale Film&Clips.

giovedì 28 marzo 2024

ANATOMIA DI UNA CADUTA

(Anatomie d'une chute di Justine Triet, 2023)

In una baita ammantata dalla neve nelle vicinanze di Grenoble vivono Sandra (Sandra Hüller), Samuel (Samuel Theis) e loro figlio Daniel (Milo Machado Graner), un ragazzino di undici anni non vedente accompagnato costantemente dal suo cane guida Snoop (il Border Collie Messi, vincitore del Palm Dog Award... vabbè). Sandra è una scrittrice di un certo successo, accetta di concedere un'intervista in casa sua a Zoe (Camille Rutherford), una giovane studentessa con la quale si instaura un buon feeling; a causa di comportamenti poco urbani da parte di Samuel che continua a tenere in casa la musica a un volume assordante mentre effettua lavori di riparazione in mansarda, Sandra è costretta a congedare Zoe e rimandare l'intervista. Poco tempo dopo questo episodio Daniel inciampa nel corpo del padre; l'uomo è riverso sul terreno davanti la casa privo di vita, probabilmente caduto dalla finestra della mansarda durante i lavori di restauro della casa. Vista la mancanza di testimoni sarà necessario far partire delle indagini per accertare la dinamica dei fatti, sorge un lecito dubbio tra le varie ipotesi di incidente, di suicidio e finanche quella di omicidio perpetrato da Sandra ai danni del compagno. In aiuto della neo vedova arriva l'avvocato Vincent Renzi (Swann Arlaud), da tempo invaghito della donna e suo amico di lunga data. Si arriverà a un inevitabile processo lungo il quale l'anatomia di questa caduta verrà sviscerata in ogni suo aspetto, ma sarà il lato umano della vicenda a tenere banco con un occhio di riguardo alle sofferenze di un incolpevole e afflitto ragazzino che si trova nell'improvvisa condizione di orfano di padre e con una madre sotto processo a difendersi dall'accusa di uxoricidio.

Anatomia di una caduta è stato tra i film "da vedere" dello scorso anno, un Oscar alla sceneggiatura, miglior film straniero ai Golden Globe (la produzione è francese), ben sei premi agli European Film Awards, altri sei ai César, miglior film al British Indipendent Film Award e infine la Palma d'oro a Cannes. Opera quarta della regista francese Justine Triet fino ad ora poco conosciuta in Italia, Anatomia di una caduta nasconde dietro alla struttura del legal movie parecchio altro in una narrazione stratificata nella quale ogni parola ha un suo peso e la risoluzione del dubbio aleggiante (è stata lei o no?) non diventa mai il reale nodo d'interesse di un film che ha molto di più da raccontarci, ha molto di più su cui farci pensare e riflettere rispetto alla mera soluzione di un caso di omicidio (o suicidio o incidente che sia). A dimostrare quanto l'interesse anche degli autori (la Triet insieme al compagno Arthur Harari, regista anche lui) non stia tanto nella risoluzione processuale quanto nei rapporti tra gli attori coinvolti, c'è l'ambiguità della risoluzione finale la quale lascia ampissimi margini di dubbio, soggettività e discussione sul reale svolgimento dei fatti. I temi interessanti, come abbiamo detto, sono altri. Il cuore di Anatomia di una caduta è il rapporto tra Sandra (in presenza) e Samuel (in assenza), due persone che si amavano o che perlomeno si erano amate, che convivevano all'interno di un legame difficile che si nutriva (anche) di rancori, recriminazioni, invidie, momenti soffocanti, frustrazioni e di tutti quegli aspetti negativi che le relazioni a lungo termine spesso (quasi sempre?) si portano dietro. Entrambi scrittori (o aspiranti tali), una di successo, anche grazie a qualche idea di lui, l'altro frustrato e incapace di portare a termine un progetto, forse per favorire e assecondare l'ambizione della compagna dal carattere più deciso del suo. Emerge, delle difficoltà intrinseche a questa unione, un rapporto verso l'esterno obbligato dagli eventi a trovare una verità definitiva. Ma come possono persone estranee a un rapporto a due giudicare brani di conversazioni, pensieri riportati sui libri pubblicati da Sandra, esternazioni nate da momenti estemporanei di rabbia e conflitto, pareri e interpretazioni emersi dalla tempesta emotiva di un bambino che ha perso il padre e rischia di perdere anche la madre? Non si può, eppure si deve, la legge lo richiede. È questo rapporto tra l'inconoscibile e la parola che diventa pubblica l'aspetto più interessante del film della Triet che ricostruisce con dovizia di particolari e tempi lunghi (due ore e mezza di film) l'anatomia di questa caduta mettendo in scena un personaggio femminile non facile e non immediatamente accattivante per il pubblico (ottima la Hüller già apprezzata in Vi presento Toni Erdmann), una donna complessa e mai troppo accomodante verso l'esterno, verso un mondo che la accusa (nei panni dell'avvocato a lei avverso), anche con pregiudizio, senza possedere quegli elementi così necessari per entrare nelle dinamiche di quel rapporto che avrebbe potuto portare all'estremo gesto (che sia questo l'omicidio o il suicidio, le ipotesi restano entrambe valide). Alla fine l'unico a prendere una decisione netta sulla vicenda sarà il piccolo Daniel in un momento intenso, una decisione non dettata dai fatti ma dal cuore e dall'amore, sentimento che poi, per vie traverse e non semplici da seguire, è il nocciolo di tutta la questione.

domenica 24 marzo 2024

HOTEL GAGARIN

(di Simone Spada, 2018)

L'incubo del nostro cinema odierno è per molti (ma non per tutti) la sempre incombente "commedia media", assonanza terribile nel suono quanto nella sua coazione a ripetere, involontaria e autoflagellante, flagellante anche nei confronti di quello spettatore che vorrebbe un guizzo, un'alterità, uno sconfinare da quel prevedibile stato dell'arte che vorremmo in evoluzione, magari lenta e graduale ma comunque viva e di prospettiva. Invece spesso, non sempre per fortuna, lì si ricade, in quegli stereotipi che non si vorrebbero vedere, in parte ci batte la testa anche Simone Spada, regista e autore di questo Hotel Gagarin che però, perlomeno, si dimostra per taluni aspetti vivace e laterale (in Armenia non andiamo a girare tutti i giorni), capace di passaggi emotivi magari un po' risaputi ma sinceri, che sanno dove e come colpire lo spettatore rientrando in quell'onda nella quale è piacevole cullarsi, quella dei così detti "feel good movies" anche se qui la definizione non calza in toto al film e, nella fattispecie, quest'ultimo può essere visto anche come un aspetto positivo all'interno dell'economia di una commedia ben riuscita ma non proprio rivoluzionaria (e, per carità, il non esserlo non è per forza un delitto). Alla direzione di Hotel Gagarin Spada arriva dopo un'importante gavetta come aiuto regista durante la quale ebbe modo di partecipare a successi commerciali e collaborare con registi di talento come Claudio Caligari e Gabriele Mainetti, poi la regia di diversi corti e documentari e l'esordio nel lungometraggio con un film sulla vita di Maria Mazzarello. Nel 2018 arriva poi Hotel Gagarin...

Franco Paradiso (Tommaso Ragno) è un produttore cinematografico scalcagnato che tramite un amico europarlamentare riesce a ottenere dei fondi dalla Comunità Europea per girare un film italiano in Armenia; le sue mire sono quelle di assemblare una troupe più o meno improvvisata per raccogliere materiale da inviare in Europa, intascare l'anticipo dei fondi e sparire col malloppo, per far questo si fa aiutare da Valeria (Barbora Bobuľová), una sua vecchia conoscenza, un'organizzatrice di eventi russa con pochi scrupoli. Come soggetto viene scelto quello di Nicola (Giuseppe Battiston), professore alle superiori che tenta di insegnare la Storia a studenti disinteressati tramite i film di Sokurov, per le luci si opta per l'elettricista Elio (Claudio Amendola) che di come si faccia un film non ne sa assolutamente nulla, il fotografo strafatto Sergio (Luca Argentero) viene arruolato in quanto prima persona a rispondere all'annuncio messo da Paradiso, come volto per la protagonista de "Il viaggio di Marta" viene scelta Patrizia (Silvia D'Amico), una prostituta coatta, ingenua e svampita. Giunto in Armenia il gruppo sarà accompagnato dall'autista Kira (Caterina Shulha), una giovane punk in dolce attesa e dalla guida Aram (Hovhannes Azoyan), verranno tutti alloggiati all'hotel Gagarin. Intanto in Armenia scoppia la guerra con l'Azerbaigian e la "troupe" rimane bloccata in albergo, dovranno affrontare il fatto di essere stati truffati e ognuno di loro dovrà confrontarsi con le proprie aspettative e le sue motivazioni, in un crescendo di sogni, romanticismo e amicizia.

Hotel Gagarin è una commedia che si guarda con piacere, al suo interno non mancano alcune ingenuità in fase di scrittura e nella costruzione dei personaggi, lo sviluppo di questi nel tempo necessario a sviluppare il loro percorso è però gradevole e titilla i giusti sentimenti, cosa che tutto sommato basta a farsi perdonare alcune scelte standardizzate come la figura della prostituta buona e ingenua, quella dell'irriducibile sognatore o quello della stronza redenta (per non parlare poi della parte affidata a Philippe Leroy), tutti caratteri tagliati con l'accetta ma che guadagnano nelle interazioni tra loro e con il popolo armeno che scambia questa truppa scombinata per un vero comparto capace di dar corpo (filmico) ai sogni. Spada gioca molto anche con l'amore per il cinema, in primis nella figura del professore cinefilo ma non solo, gli attribuisce un potere di rivalsa e lavora sulla forza che quest'arte sprigiona nel portare serenità, felicità, tutto ciò abbinato all'esperienza del viaggio e dell'incrocio di culture diventa motore nella svolta di intere esistenze. Qualche ingenuità scappa anche nel percorso di costruzione di questa nuova armonia ritrovata, la partita di calcetto con gli stranieri (qui calcata anche dalla presenza dei soldati) ormai se la aspettano tutti, la presenza fantasmatica pure, però di calce a tenere insieme tutto quanto ce n'è a sufficienza, uno come Battiston poi non tradisce mai e anche (quasi) tutto il resto del cast sembra essere in parte. Ottima scelta quello di girare nei luoghi freddi e sconfinati dell'Armenia, una splendida cornice che fornisce a Hotel Gagarin una marcia in più insieme ad alcune scelte in colonna sonora parecchio indovinate.

giovedì 21 marzo 2024

IL SOSPETTO

(Suspicion di Alfred Hitchcock, 1941)

Torniamo agli albori del periodo americano di Sir Alfred Hitchcock dopo aver da poco parlato de Il prigioniero di Amsterdam, film girato da Hitch nel 1940; facciamo un piccolo passo avanti, siamo nel 1941 quando il regista britannico porta a compimento il suo quarto film americano nel giro di due anni: Il sospetto con Cary Grant e Joan Fontaine che per questa interpretazione si guadagnerà il premio Oscar come miglior protagonista (gli altri due film, oltre a Il prigioniero di Amsterdam, furono Rebecca - La prima moglie del 1940 e Il signore e la signora Smith del '41). Sono anni produttivi questi per il maestro del brivido, se Il prigioniero di Amsterdam e Il signore e la signora Smith non sono tra le opere più ricordate e citate di Hitchcock, già Rebecca - La prima moglie (primissimo film targato U.S.A.) e questo Il sospetto ricorrono molto spesso nella mente dei cinefili, quest'ultimo in virtù soprattutto della celebre scena del bicchiere di latte, sequenza che ha fatto scuola grazie alla grande inventiva del regista che oltre ad aver istituzionalizzato il MacGuffin riusciva ad aguzzare l'ingegno al fine di trovare soluzioni visivamente intriganti per aumentare la suspense e dirottare l'attenzione dello spettatore, a volte ingannandolo, dove a lui più faceva comodo all'interno della scena o della scenografia. Rispetto a Il prigioniero di Amsterdam questo Il sospetto è un film narrativamente più riuscito nonostante il minor dispendio di mezzi e una storia più intima e meno dinamica di quella del film precedente.

Johnnie Aysgarth (Cary Grant), un giovane piacente e all'apparenza molto distinto e la timida e riservata Lina McLaidlaw (Joan Fontaine) si conoscono in treno; pochi giorni dopo, a dispetto di un'iniziale ritrosia, Lina accetta di uscire con Johnnie, anche per dimostrare ai suoi genitori, convinti del contrario, di essere capace di intrattenere una relazione con un uomo. Lina rimane ben presto totalmente affascinata dall'uomo, tanto da convolare con lui a nozze segrete nel giro di pochissimo tempo. Trasferitisi in una bellissima casa con tanto di cameriera a servizio, la coppia inizia la loro vita insieme. Ben presto Lina scopre la tendenza del neo marito a spendere e spandere senza essere coperto; il giovane infatti non arriva da una famiglia ricca, non ha rendite né lavoro e tenta di mantenersi con soldi a prestito e scommettendo alle corse, infilandosi così in situazioni poco rispettabili. Lina tenta di riportarlo sulla buona strada, in fondo è sinceramente innamorata di Johnnie, col passare dei giorni però inizia a nascere nella donna il sospetto che il patrimonio della sua famiglia, così come le ricchezze di alcuni amici di Johnnie, possano far gola al marito ed essere state il vero motivo della nascita della loro relazione. Poco a poco i sospetti di Lina diverranno sempre più grandi e profondi mentre lo stile di vita di Johnnie sembra continuare a seguire un percorso del tutto scriteriato.

Hitchcock gira Il sospetto andando al risparmio, forse per compensare gli investimenti più ingenti dei film precedenti, ne esce un thriller psicologico che poggia, come da titolo esplicativo, sul crescente sospetto da parte della protagonista nei confronti del suo novello sposo, insieme al suo sospetto crescono quelli dello spettatore e la generale sensazione di tensione che trova il suo apice in un paio di sequenze poste verso il finale del film, una è quella famosissima che vede Cary Grant portare un bicchiere di latte alla moglie. In un bianco e nero espressivo, diverso nello stile dalla fotografia del resto del film, Hitchcock illumina quel bicchiere (con una luce a bella posta inserita al suo interno) per dirottare su di esso l'attenzione dello spettatore così da alimentare ipotesi e sospetti, spingere a credere, magari ingannando, in un certo tipo di risoluzione finale. L'altra sequenza è quella del dinamico viaggio in auto dei due coniugi, lanciati a velocità folle sul bordo di un dirupo: torna il tema dell'altezza, della vertigine, soluzione che Hitchcock proporrà più avanti in altre sue opere. Il sospetto è costruito con un crescendo dosato in maniera ottimale, il gioco tra i due coniugi è ben alleggerito, poi aggravato, dalla presenza di Nigel Bruce che qui interpreta Beaky Thwaite, il miglior amico di Johnnie. Dopo aver alimentato dubbi su dubbi Hitchcock sceglie (pare anche costretto dalla produzione) di optare per un finale ambiguo e aperto che non permette di dissipare ogni sospetto; lo spettatore è chiamato a scegliere su quale possa essere la realtà, come se quelle di Lina e Johnnie fossero due letture della stessa storia, una sola delle quali può essere eletta a verità. Ottima costruzione, sceneggiatura ben calibrata e due attori di peso garantiscono a Il sospetto di poter rientrare nella cerchia, ampia per fortuna, delle opere meglio riuscite del maestro, vista la concorrenza non è cosa di poco conto.

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