mercoledì 29 settembre 2010

NOTTE E DI'

(Night and day di Michael Curtiz, 1946)

Night and day, tradotto in italiano con Notte e dì, è un film del 1946 nel quale Cary Grant interpreta il famoso musicista Cole Porter.

Un biopic dove la carriera musicale del compositore la fà da padrone mentre la vita privata dell'uomo viene trattata con minore accuratezza.

Studente a Yale il giovane Porter capisce che la giurisprudenza non sarà mai la sua ragione di vita. Andando anche contro i voleri della famiglia e in particolare avversando i desideri del nonno che vede in Cole il suo erede, il futuro compositore decide di assecondare i suoi istinti e dedicarsi alla musica. Nello stesso periodo Porter conosce Linda (Alexis Smith), un'amica di sua cugina.

Con l'aiuto di un professore improvvisatosi impresario, raccoglie i soldi per una prima rappresentazione a Broadway di uno spettacolo con musiche da lui composte.
Sfortuna vuole che il debutto dell'opera prima di Porter coincida con lo scoppio dei primi fuochi che portarono alla prima guerra mondiale. La gente è presa da altro e il successo non arriva.

Arruolatosi nell'esercito e rimasto ferito, Porter torna in patria dove ritrova Linda in vesti di infermiera. Riprende anche la carriera musicale e questa volta il successo arriva ed è clamoroso. Le opere celebri si susseguono, Night and day il pezzo più sfruttato nel film, e la relazione con Linda sfocia in un annunciato matrimonio, un matrimonio che attraverserà momenti molto difficili a causa dello smisurato amore di Porter per il suo lavoro.

Questo almeno racconta il film che, se per l'aspetto musicale si può ritenere credibile, non è veritiero per quel che riguarda la vita privata del musicista. Pur rimanendo sposato a lungo con la sua Linda, Cole Porter non le nascose mai le sue tendenze omosessuali.

Forse l'argomento nel 1946 risultava troppo scabroso per essere trattato esplicitamente e Curtiz decise di edulcorare la vicenda. Sebbene ne risulti un biopic poco attendibile, il film in sè rimane comunque godibile. Cary Grant è il solito signore, difficile che una sua interpretazione non piaccia e i numeri musicali di contorno ai brani di Porter, pur non entusiasmando al livello di altri musical più famosi, si lasciano guardare.

Nel campo dei film musicali molto datati si trova sicuramente di meglio ma chi ama il cinema classico potrà apprezzare anche questa pellicola.

lunedì 27 settembre 2010

BACK TO THE PAST: 1967 PT. 3

Sebbene le influenze psichedeliche andarono a toccare un po' tutti i generi, i gruppi che continuavano a presentare sonorità più vicine al pop e a fenomeni degli anni precedenti come il beat continuavano a imperversare.

Ecco i The american breed con la cover di Bend me, shape me degli Outsider uscita come singolo nel 1967 e inclusa nel loro album d'esordio l'anno seguente.



I The Monkees, fautori di alcune hit di quegli anni, escono con la popolare Daydream believer. In realtà il gruppo era stato creato a tavolino per contrastare la Beatlemania con un prodotto statunitense. I componenti erano più che altro attori, della musica vera e propria se ne occupavano compositori scelti ad arte per raggingere lo scopo che era quello di vendere dischi. Per un paio di anni ci riuscirono infilando nelle charts alcuni pezzi davvero azzeccati.



Altro pezzo forte dell'annata l'hanno firmato i The Turtles. Il brano è Happy togheter.
Loro, come potete vedere nel video, sono una banda di cretini.



I The Kinks ai quali ormai comincio ad affezionarmi ci offrono Waterloo Sunset.

domenica 26 settembre 2010

FICTION PLANE

Qualche giorno fa stavo guidando e l'autoradio era sintonizzata su Virgin Radio. La musica era giusto un piacevole sottofondo in quanto la mia concentrazione andava principalmente alla strada come è giusto che sia.

Passava un brano gradevole, orecchiabile che per sonorità mi ricordava vagamente qualcosa (non ricordo bene cosa) dei Biffy Clyro, gruppo che ha accompagnato i Muse nel loro ultimo tour europeo compresa la data torinese alla quale ho assistito.

Incuriosito prestai attenzione a quel che diceva il Dj a fine brano scoprendo che il gruppo in questione si chiama Fiction Plane e nulla ha a che spartire con i sopra citati Biffy Clyro. La curiosità più grande è che il cantante/bassista del gruppo è Joe Sumner, figlio di cotanto padre in arte conosciuto come Sting.
Il DJ sottolineava la somiglianza del timbro vocale del ragazzo con quella del padre ma il brano era ormai andato e io non ci avevo fatto attenzione.

A casa, tornatami in mente la cosa, sono andato su Youtube per controllare la storia della somiglianza. Non sono riuscito a trovare lo stesso brano passato in radio (non subito almeno) e mi sono imbattuto in uno di quei video a immagine fissa intitolato "Two sisters". Era impressionante. Non avendo immagini in movimento a disposizione mi ero convinto che il pezzo fosse cantato proprio da Sting.

Ho cercato meglio e ne ho trovato una versione live. Ascoltate il figlio di Sting.

Fiction Plane - Two sisters.

sabato 25 settembre 2010

VISIONI 3

Dopo l'opera di un cantante e quella di un grande pittore non poteva mancare l'illustrazione di un disegnatore di fumetti.

Alex Ross è artefice di eccezionali lavori per Marvel e DC Comics. Sue le bellissime miniserie Kingdom Come (DC Comics) e Marvels (Marvel). Il suo stile fotografico e iperrealista è inconfondibile e riesce a dare un tocco di epicità a tutti i personaggi da lui ritratti.
Le sue tavole tratteggiano figure iconiche rendendo più veritiere le teorie che reputano i supereroi moderni eredi degli eroi dell'epica antica.

Nell'illustrazione qui sotto una chiara metafora della visione dell'artista su quella che è stata la politica di George W. Bush.

venerdì 24 settembre 2010

NIGHTMARE BEFORE CHRISTMAS

(di Henry Selick, 1993)

Ancora uno di quei casi (casi che per me ormai sono quasi la regola) di fruizione molto posticipata di datato acquisto. Nella fattispecie parliamo del DVD di Nightmare before Christmas acquistato parecchi anni or sono e visionato soltanto oggi in compagnia della mia bimba la quale, fugando ogni mio timore, non si è per niente impressionata nonostante le cupe atmosfere del film.

Film che proprio film non è trattandosi come noto di una pellicola in stop-motion realizzata usando pupazzi per attori.

Ero straconvinto che la regia fosse di Tim Burton che invece ha messo “solo” l’idea, il soggetto e i soldi lasciando la realizzazione dell’opera all'amico Henry Selick, regista anche del recente Coraline.

Una fiaba gotica che lascia a bocca aperta ancora oggi (è datata 1993 e sono passati già 17 anni) per la splendida realizzazione. L’inventiva e il genio dei due autori coinvolti sono innegabili e a dimostrarlo ci sono i riuscitissimi esperimenti successivi nel campo dell’animazione: La sposa cadavere per Burton e proprio Coraline per Selick.



Il mondo del protagonista Jack Skeletron, re delle zucche e personalità di spicco del regno di Helloween, è cupo fino all'inverosimile. Sembra un mondo privo di colore e anche qui, come succederà in futuro ne La sposa cadavere, si gioca sulla contrapposizione. Tanto è tetro il regno di Jack altrettanto è colorato il mondo del Natale. Jack è l’incaricato e il principale artefice della riuscita della celebrazione di Helloween. Anche quest’anno il successo è assicurato ma Jack è stufo di tutta questa mancanza di “colore”. Affranto vaga per i boschi con il suo cane Zero. I due si perdono e si trovano in un posto mai visto prima dal quale accederanno al mondo del Natale.
Qui Jack si rianima, assapora il calore, la gioia, il colore e l’atmosfera natalizia, tutte cose sconosciute nel regno di Halloween. Si mette in testa di esportare il Natale così come gli americani esportano la democrazia. Però come novello Babbo Natale ha qualche difficoltà e i suoi aiutanti faticheranno un po’ ad appropriarsi dello spirito della festa.
Ne verranno fuori dei guai ai quali si cercherà di porre rimedio con l’aiuto di Sally, segretamente innamorata di Jack.

Inutile ribadire che ogni dettaglio è curato nei minimi particolari.
Quel che a mio parere non funziona è la tenuta della storia. Qui ovviamente si entra nel campo dei gusti personali. Non amo particolarmente i film d’animazione con tante parti cantate e qui ce ne sono davvero troppe. La voce italiana di Jack è affidata a Renato Zero quindi si è caduti bene, Zero è bravo e offre ottime interpretazioni. Alla lunga però la noia prende il sopravvento, la trama è esile trattandosi di una fiaba in fin dei conti e il rischio è che il film piaccia solo ai fan di Burton o del genere gotico. La Pixar e i migliori film Disney sono un’altra cosa.

Ottima confezione ma se la noia fa capolino in un film di un’ora e un quarto qualche sospetto è lecito.

giovedì 23 settembre 2010

BACK TO THE PAST: 1967 PT. 2

L'Estate del 1967 è conosciuta come la "Summer of love". Il movimento hippie arriva al grande pubblico, i concerti diventano grandi happening dove l'uso delle droghe sintetiche abbonda.
San Francisco diventa l'epicentro del fenomeno psichedelico della West Coast.

I Jefferson Airplane sono uno dei gruppi di punta del movimento e una delle loro canzoni più celebri è Somebody to love.


Altro pezzo accostato alla Summer of love è The letter dei The box tops che avevano però un piglio più vicino al pop e al soul bianco.


Proprio San Francisco diventa protagonista di almeno due celebri pezzi di questa ricca annata.
Il primo porta il titolo della stessa città ed è cantata da Scott McKenzie, in futuro cantante dei Mamas & Papas: San Francisco.


Anche quest'anno The Animals. Quelli nuovi. Del vecchio gruppo rimane solo il cantante che per l'occasione cambia il nome alla band in Eric Burdon & the New Animals. Il pezzo è San Franciscan nights.

mercoledì 22 settembre 2010

ORA DEL DECESSO: 22.25


Mi sento un po' in colpa, forse non ci ho messo impegno. Non tutto quello che avrei potuto. La sua agonia non è stata lunga ma la fine è giunta inevitabile.
Eravamo preparati. Alle 22.25 del 22/09/2010 il progetto "Il collettivo" è stato dichiarato morto.
Il creatore sentitamente ringrazia chi ha voluto partecipare ;)

Trattandosi di finzione non è escluso, come succede spesso nei fumetti ad esempio, che qualcuno riporti in vita il progetto (si usi pure questo post).

Nel frattempo affranti salutiamo.

martedì 21 settembre 2010

ECCE BOMBO

(di Nanni Moretti, 1978)

Nanni Moretti non mi ha mai ispirato simpatia. Lo dico subito così mettiamo le carte in tavola e non se ne parla più. Partendo prevenuto mi sono anche avvicinato poco ai suoi film. Così, a pelle, mi è antipatico e non lo seguo. So che non è il modo migliore per valutare i lavori di un regista ma così è (quasi) sempre andata.

Poi ho voluto provare, andai anche a vedere La stanza del figlio al cinema. Osannato a Cannes e bravo lì e bravo là a me La stanza del figlio non è piaciuto per niente. Un film freddo, il suo faccione sempre presente, mi dava l’impressione di un ego un tantino smisurato. Forse ero davvero prevenuto.

E giù a stracciarci le palle con i girotondi poi, forse sono io che la politica la digerisco poco. O sono solo ignorante che può pure essere. Ma sì che magari serve a farci un po’ di cultura, guardiamoci Palombella Rossa. Mi sono fatto due palle così solo perché non ne avevo una terza a disposizione. Grande lavoro mi dicono. Sarà.
A mia moglie piace, dice che è bravo (non come attore magari, in senso lato).

L’unico ricordo decente che avevo era per Il portaborse che non era manco suo e più che altro il merito era di Silvio Orlando. Ma dai che ci si riprova. Mi sono visto Ecce Bombo. Oh, mi sono divertito.

Un film di pochi mezzi, azzeccato, divertente, mai prolisso dove i temi cari al regista già ci sono tutti ma amalgamati con una leggerezza che bisogna fargli i complimenti. Non è che ora mi rimanga simpatico ma diamo a Cesare quel che è di Cesare e a Moretti quel che è di Moretti. E bravo Nanni.

Il suo personaggio è qui ancora divertente e dico ancora perché, se non erro, dovrebbe essere lo stesso di Palombella Rossa dove lo sarà molto meno. Un gruppo di amici, tra i quali lo stesso Moretti (Michele), reduci dagli anni della contestazione, passano le giornate tra l’insoddisfazione perenne e la ricerca del cambiamento. La ribellione misurata, il disagio verso la famiglia, i rapporti con l’altro sesso e la voglia e la difficoltà di comunicare.

Brevi sequenze, montate una dietro l’altra, brevi attimi che inquadrano perfettamente i sentimenti di molti (allora) giovani condizionati dal momento politico e sociale che si trovavano a vivere. L’esigenza impellente e un po’ vuota di fare cose, vedere gente… una cricca di personaggi sfigati e quasi assurdi da rivelarsi subito simpatici. C’è pure un giovanissimo Mughini. E i ragazzi tra di loro parlano, tirano fuori le cose, creano quelli che sembrano quasi gruppi di sostegno e la loro voglia di cambiamento ormai sembra così lontana e, lasciatemelo dire, quasi ridicola.

Magari ne provo un altro. Consigli?

domenica 19 settembre 2010

BACK TO THE PAST: 1967 PT. 1

Esplode l'epoca psichedelica. Fenomeno prevalentemente americano portato avanti da svariati gruppi ispirati dall'uso di sostanze lisergiche. I nomi coinvolti sono molto grossi e, in contrasto con quanto appena scritto, il gruppo di maggior importanza e influenza per questo tipo di sonorità è inglese.

Gruppo seminale, i Pink Floyd incidono l'album simbolo di questa corrente musicale, The piper at the gates of dawn, trascinati da un diamante qui ancora in grado di intendere e di volere. Astronomy Domine in un video passato alla Rai quando la musica che contava ancora aveva spazio in TV.



Anche i Beatles entrano in psychedelic-mood con l'album Sgt. Pepper's lonely hearts club band. Album fantastico, pezzi dai testi psichedelici e un evidente omaggio all'acido lisergico. Lucy in the Sky with Diamond.



Come si diceva, nomi grossi. Come non ricordare Jim Morrison e i The Doors che della musica psichedelica fecero una ragione di vita e di morte. Il pezzo è Break on through.



Altra band inglese non baciata dallo stesso successo avuto dai loro conterranei di cui sopra. Il pezzo Hole in my shoe rientra a pieno diritto nel filone, loro sono i Traffic in un video che più Psych non si può.


TRAFFIC - Hole In My Shoe (1967) di zesuisla


Esponenti della scena Newyorchese (il fenomeno psichedelico si sviluppa prevalentemente sulla costa ovest con epicentro a San Francisco), più lontani dall'LSD e attratti maggiormente da droghe più pesanti, cantori della decadenza e legati a un'idea più universale dell'arte sono i Velvet Underground. Qui la delicata Sunday morning.

sabato 18 settembre 2010

KITCHEN

(di Banana Yoshimoto, 1988)

Qualche anno fa, parecchi a dire il vero, parliamo del ’95 o ’96, lavoravo per una cooperativa di servizi che operava all’interno del Lingotto Fiere, struttura che ormai, lavorativamente parlando, è diventata la mia seconda casa. Infatti pur facendo altro ci lavoro tuttora. Ricordo che all’epoca mi capitava molto spesso di vedere qualcuno dei miei colleghi, tutti ragazzi molto giovani, intento nella lettura di questo Kitchen della Yoshimoto. Era un libro che andava molto di moda, il nome dell’autrice incuriosiva ma io non ebbi mai la spinta giusta per avvicinarmi a questa opera in quel momento in cui era così popolare.
La spinta giusta è arrivata più o meno l’anno scorso quando in un mercatino dell’usato vidi il libro dell’autrice giapponese in vendita a un euro. Memore dei vecchi colleghi così presi dalla lettura di questo agile volumetto lo acquistai mettendolo da parte (il prezzo ha aiutato).
Finalmente, passato ancora un anno, il libro l’ho anche letto. Non sapevo bene di quali argomenti il libro trattasse ma mi aspettavo qualcosa di molto leggero.
Perdita ed elaborazione del lutto. Di questo si tratta a occhio e croce. Non aspettatevi però un libro pesante, il tocco della scrittrice è leggero e non indugia su commiserazione e patimenti. C’è dolore ovviamente e ce n’è molto. Ma c’è anche tanta forza e, nonostante tutto, tanta vitalità. Le descrizioni degli stati d’animo e dei sentimenti dei protagonisti non sono resi da verbosi fiumi di parole ma anzi sembrano realizzate “in punta di penna”, con una certa dose di delicatezza. Le descrizioni dei luoghi, delle situazioni e dei “momenti” sono sempre efficaci, leggendo frasi di poche parole si riesce con facilità a visualizzare un luogo, un attimo, uno sguardo anche se si tratta di situazioni immerse in una cultura a noi lontana e per la maggior parte sconosciuta.
Per alcuni aspetti ci viene in aiuto il cinema orientale ormai diffuso anche qui da noi. Creare mentalmente alcune immagini “nipponiche” risulta più facile dopo aver visto i film di Kitano o, ad esempio, pellicole come Ferro 3.
Nella tradizione nipponica, per quel poco che posso averne capito, ha molta importanza l’elemento fantastico. Anche in questo libro alcune situazioni, e si parla prevalentemente di piccoli eventi, sono risolte in maniera inspiegabile e fantastica
Lutti, incontri di solitudini e distacchi definitivi non sono argomenti allegri e pure il libro scorre. I personaggi dei due racconti, Kitchen è solo il primo seguito da Moonlight Shadow, reagiscono in qualche modo, cercano forza nel prossimo quasi a colmare il buco lasciato da chi è passato nel mondo dei più. Riprendono a vivere.
Il succo è tutto qui e se vogliamo è molto, ma non c’è altro. Un accumulo di situazioni e momenti che tratteggiano i protagonisti e il loro confrontarsi con il dolore. Moonlight Shadow è un racconto scritto come tesi di laurea, Kitchen un libro d’esordio. Tutto sommato niente male direi.

mercoledì 15 settembre 2010

UNCANNY X-MEN 512

Questo articolo è stato scritto per il sito fumettidicarta

Vent’anni di X-Men in Italia. All’interno dell’albo che festeggia il lieto anniversario viene presentato il cinquecentododicesimo numero della storica collana Uncanny X-Men. Un numero che viene proposto in quest’occasione speciale in ritardo di un paio di mesi rispetto a quella che avrebbe dovuto essere la sua cronologica collocazione sull’albo dei mutanti. Poco male visto che la storia si svolge prevalentemente nel passato e il lieve ritardo di pubblicazione non ne intacca la leggibilità.

Partiamo dalla suggestiva copertina di Yanick Paquette in stile retrò “finto usurato” che richiama atmosfere Steampunk e presenta alcuni dei nostri eroi in inediti costumi di inizio 900. Un azzeccato motivo ad elica di DNA incornicia questa bella illustrazione. Un’ottima presentazione che introduce il bel lavoro fatto da Paquette all’interno dell’albo.
Devo ammettere che il disegnatore non è mai stato tra i miei favoriti e i suoi lavori mi hanno sempre lasciato piuttosto indifferente. Sembra che con questo episodio il “ragazzo” ci abbia dato dentro e il risultato mi ha colpito non poco. Non capisco se l’ambientazione di inizio Novecento abbia fatto scattare una qualche molla particolare o se lo stile di Paquette sia maturato in maniera così evidente e inaspettata (guardando il lavoro di questo mese su Wolverine sembra proprio che sia così).

La storia parte da un tema cruciale nelle vicissitudini degli X-Men degli ultimi anni. La razza mutante è in via d’estinzione; la Bestia ha messo insieme una squadra scientifica per trovare una soluzione al problema. Il Dr. Nemesis (James Bradley), genio mutante insopportabilmente cinico e arrogante, il pacato Yuriko Takiguchi, esperto in mutazioni, il folle e paranoico Madison Jeffries al cospetto del quale le macchine si piegano e la genetista Kavita Rao. Psylocke e Arcangelo a supporto.
L’idea è quella di tornare nel 1906 e prelevare campioni di DNA dai genitori del Dr. Nemesis, uno dei primi mutanti, per capire cosa abbia acceso la scintilla del gene X.

Le matite di Paquette ci portano in una San Francisco del 1906 trattegiandola in maniera superba. Gli edifici, gli scorci della città, gli interni delle case sono definiti in maniera chiara e particolareggiata. I dettagli dei costumi, delle apparecchiature, fino alle tappezzerie delle camere danno l’idea di un’accurata ricostruzione storica. Tutto in chiave Steampunk.

Nicola Bradley è uno scienziato in cerca della chiave per l’energia senza fili. Sua moglie, Catherine, è una donna d’azione armata di pistole laser costruite in legno e ferro. Fanno capolino nella storia i componenti del Club Infernale che vogliono l’invenzione di Bradley per dare energia a un metallico robottone allo scopo di preservare la razza umana dall’avvento del super-uomo (i mutanti) profetizzato da Nice e da alcuni veggenti e sensitivi.

I motivi di interesse sono vari: i personaggi coinvolti nella storia sono stati finora poco sfruttati e hanno grandi potenzialità, destano interesse l’incontro del cinico Nemesis con i suoi genitori proprio nel periodo precedente la sua nascita e la coincidenza degli avvenimenti narrati nella storia con il terremoto devastante del 1906 a San Francisco (vuoi vedere che è colpa loro?).

Riusciranno infine i nostri eroi a venire a capo della minaccia che grava sul futuro della loro razza?
Forse che si, forse che no.

Matt Fraction dimostra qui, lontano dai grossi calibri degli X-Men, una maggiore confidenza con le atmosfere mutanti pur non abbondando con gli elementi legati alla loro cosmologia. E lo fa senza usare Wolverine cosa che di questi tempi non può che essere un merito. Il sottobosco mutante è pieno di personaggi interessanti e definire Wolverine “personaggio sovraesposto” sarebbe solo un gentile eufemismo.
La storia sicuramente gira su canovacci già sfruttati ma risulta ben concepita, lineare e molto divertente. Ottima l’intesa tra i due autori che sfornano un episodio extra-large degno di nota.

Da tenere d’occhio il Dr. Nemesis, personaggio ancora nebuloso ma decisamente il più interessante della squadra scientifica. Quando apre bocca raramente ne esce qualcosa di gentile, il suo cinismo dona alle storie nelle quali è presente un certo valore aggiunto.
Speriamo non faccia la fine di personaggi interessanti come Fantomex o Xorn ormai quasi dimenticati.

Gli incredibili X-Men, Panini Comics, 96 pp. 3,80 euro.

domenica 12 settembre 2010

LA STRISCIA

L'anno scorso ebbi l'occasione di stare alcuni giorni da solo. Mia moglie e mia figlia erano in vacanza e avevo tempo per far quel che mi pareva. Tra le altre cose buttai giù un racconto da presentare al concorso della GTT, cosa che poi non feci. Su consiglio dello Zio misi il racconto da parte con l'intenzione di partecipare quest'anno. Bene, pare che quest'anno il concorso non ci sarà e così il racconto troverà spazio su questo blog nella speranza che a qualcuno possa piacere.


LA STRISCIA
Uno. E ancora uno e un altro ancora. I giorni passavano e il foglio continuava a essere bianco. Eppure non era difficile: un cane che annusava in giro nella prima vignetta.
Un topo gli si avvicinava nella seconda: “Hai perso qualcosa?”.
Nella terza il cane si gira e lo guarda: “La felicità”.
Blocco. La matita tracciava solo righe sconnesse. Non mi convinceva, non ci riuscivo. Qualcosa non mi tornava. Andai fuori senza salutare. I soliti due passi per rilassarmi, un giro in edicola, un gelato. C’era qualcosa che non girava nel verso giusto. Che cosa? Non lo sapevo.
Ci pensavo e leccavo il gelato, leccavo il gelato e ci pensavo. Il gelato era fresco il mio modo di pensare stantio.
Camminando lanciai un saluto ad un conoscente ed il cono ormai vuoto in un cestino. Una sosta al toro verde e uno sguardo al caos del mercato mattutino. La gente sembrava decisa, sicura, sapeva dove andare e cosa comprare. Io non sapevo più un cazzo.
Costavano di più le zucchine o i pomodori? Quali erano verdi e quali rossi?
Cercai di ricordarne il sapore e ritrovai un po’ di lucidità. Il semaforo era rosso come i pomodori, un autobus giallo peperone mi passò davanti.
Lo guardai distrattamente e allora la vidi.
Neanche, la intuii. Un ricordo dal passato, un’emozione dimenticata. D’improvviso sentii il bisogno di prendere quel peperone ma il semaforo mi frenava. Mi sfidava. Senza pensarci troppo, cominciai a correre lungo la strada cercando di evitare il traffico. L’autobus si avvicinava alla fermata. Forse sarebbe scattato il rosso nell’altro senso di marcia e l’avrei raggiunto. Rosso, olè! Non mi restava che attraversare. In quel momento uno stronzo ne tamponò un altro. Strada bloccata e poi il verde. Il peperone ripartì: ero fregato. Non volevo arrendermi. Attraversai la strada e saltai la staccionata che delimitava il grosso parcheggio della piazza come neanche nella pubblicità dell’olio. Nel parcheggio non c’era traffico, la mia corsa ne guadagnò. L’autobus non aveva questo vantaggio. Ce la stavamo giocando quasi alla pari, la prossima fermata era vicina, la mia testa sgombra come non lo era da tempo. Urtai una signora che portava un sacchetto di carta. Mandarini in tutte le direzioni.
Con il fiato corto uscii dal parcheggio, l’autobus era imbottigliato nel traffico. Raggiunsi la fermata per primo stanco e accaldato. Le porte del bus si aprirono mostrandomi una folla accalcata e sudata. Salii e mi feci largo avanzando lentamente verso di lei. Quanto tempo era passato. Chiedendo permesso e ignorando le imprecazioni degli anziani infastiditi dai miei movimenti arrivai al centro dell’autobus. Solo un donnone con le borse della spesa mi separava da lei. Riuscivo a vedere i suoi capelli. Oltrepassai il donnone e finalmente la guardai da vicino. La fissai per un tempo indefinibile.
Ma chi cazzo era questa? Non l’avevo mai vista prima. Rimasi spiazzato.
Chi avevo visto, o meglio intuito, dal finestrino? Scesi alla fermata successiva e mi fermai a pensare. Non avevo neanche la minima idea di quel che fosse successo. Forse inconsciamente stavo cercando solo qualcosa da raccontare. Uno spunto. Tornando a casa pensai molto alla cosa. Forse avevano ragione i Therapy? quando cantavano “Happy people have no stories”. La gente felice non ha storie. Ed in fondo io ero felice. Rientrai in casa consapevole che il mio testo non funzionava. In pochi minuti, matita alla mano, la striscia era pronta. In fondo non era difficile.
Un cane che annusava in giro nella prima vignetta.
Un topo gli si avvicinava nella seconda: “Hai perso qualcosa?”.
Nella terza il cane si gira e lo guarda: “Fatti i cazzi tuoi”.

sabato 11 settembre 2010

ERSO,COSIP VOLO,VAIAR PRIMADISE TTERTELO! LFARFALLI OTRAIRIME NOCHEHAIP RVIREALTA ECUPERAREI

Oltre alle cose che mi fanno incazzare, e tenete ben presente che sto ANCORA scrivendo dal mio vecchio e lentissimo PC, ci sono anche cose che mi rilassano e mi danno una certa soddisfazione Una di queste è, incomprensibilmente, il gioco del corvo parlante della settimana enigmistica. Ricordo che già quando ero piccolo andavo a casa di mia nonna, grande compilatrice di cruciverba, e cercavo nei vari numeri del settimanale presenti in casa, il gioco del corvo. Decifravo la frase e mi mettevo alla ricerca dell'oggetto smarrito. Lo faccio ancora. Quando mia moglie, grande compilatrice di cruciverba, compra la rivista, la prima cosa che faccio è cercare il gioco del corvo. Se il gioco non c'è resto deluso... se c'è lo risolvo in circa un minuto. E' stupido però mi piace. Quali sono le cose stupide che vi danno piacere? PS: non sto a spiegare cosa sia il gioco del corvo perchè non voglio credere che ci sia qualcuno che non lo conosce. Trovate la soluzione dello strano esempio riportato qui sotto.

mercoledì 8 settembre 2010

THE AVIATOR

(di Martin Scorsese, 2004)

Come spesso mi è accaduto in passato con i film di Scorsese, anche con questo "The aviator" sono arrivato al momento dei titoli di coda, dopo quasi due ore e cinquanta minuti, pervaso da una certa soddisfazione.
Certo è che i fasti di capolavori inarrivabili ascrivibili a tempi passati sono oramai lontani. Film come "Mean streets", "Taxi driver", l'irresistibile commedia "Fuori orario", "Toro scatenato" e "Quei bravi ragazzi", uno tra i migliori gangster movie di sempre, sono pellicole di un altro livello.
Il paragone tra "The Aviator" e i film sopra citati sarebbe semplicemente ingeneroso ed è inoltre impensabile che nella carriera di un regista, pur del calibro di Scorsese, compaiano solo capolavori. Rimane il fatto che anche questa volta ci si trovi di fronte a un buon film.

Quella che Scorsese mette in scena è la vita di Howard Hughes, interpretato da Leonardo Di Caprio, ambizioso e tenace produttore Hollywoodiano e, in seguito, collaudatore e progettista di avveniristici aeroplani e proprietario della TWA, compagnia aerea statunitense.
La produzione di film sempre più ambiziosi, la costruzione di aerei sempre più moderni, le relazioni con Katharine Hepburn, Ava Gardner e Jean Harlow, i successi, i rischi e la lenta discesa verso la follia scatenata da una sempre crescente fissazione per l'igiene.

Le scelte stilistiche adottate dal regista danno al film un gusto "particolare". Molte scene, soprattutto quelle girate in esterni, sono caratterizzate da colori decisamente saturi che creano una sensazione di irrealtà. La messa in scena delle feste alle quali partecipano i divi di Hollywood e i produttori delle grandi Majors danno dei loro protagonisti una visione eccentrica, quasi surreale. I toni si alzano, la recitazione va decisamente sopra le righe, si intuisce un ritratto del mondo delle star non molto lusinghiero. Come non lo è quello reso alla famiglia della Hepburn, fiamma di Hughes prima della chiacchierata relazione adulterina con Spencer Tracy.

A proposito di recitazione un grande applauso va rivolto a Kate Blanchett. L'immedesimazione nel "personaggio" Hepburn è impressionante. Le movenze, lo stile, l'attitudine e gli atteggiamenti ricordano tantissimo la protagonista di tante commedie americane di successo.
Rese magistralmente anche l'inquietudine e le manie di Hughes da parte di Leonardo Di Caprio che ha ormai sostituito Robert De Niro nel cuore di Scorsese.

Un bel biopic su un importante personaggio della storia americana del nostro secolo.
Per approfondire, e si torna sempre lì, American Tabloid e Sei pezzi da mille. Ca va sans dire.

domenica 5 settembre 2010

VISIONI 2

L'anno scorso, leggendo un articolo su una mostra organizzata a Milano, venni a conoscenza dell'esistenza di un pittore di nome Edward Hopper.
Per qualche tempo mi venne un po' la fissa dei suoi quadri. Opere bellissime impregnate di malinconia e tristezza (almeno a me fanno questo effetto).

In questa seconda proposta dello spazio "Visioni" lascio quello che forse è il suo quadro più celebre. Il titolo è "The Nighthawks" (1942).
Le informazioni che seguono l'opera sono rubacchiate dalla rete da siti di lingua inglese, spero che la mia traduzione sia corretta.


Sembra che il quadro rappresenti non solo l'immagine della solitudine nelle grandi città, ma essenzialmente la solitudine della condizione umana. In opposizione al buio delle strade di New York, sembra che le luci del bar siano calde e accoglienti. Così non è. Non c'è modo d'entrare, non c'è porta d'ingresso. La luce espone gli uomini all'interno del bar rendendoli vulnerabili, le spalle curve come ad assumere una posa difensiva.

La donna è modellata sulla figura della moglie di Hopper, Jo. Hopper era un uomo difficile, pare che lei fosse molto più coinvolta nella loro relazione di quanto non lo fosse l'artista.

Dal diario di Jo si apprende qualcosa sul dipinto: Hopper considerava l'uomo dietro il bancone, sebbene imprigionato in un triangolo, come l'unico libero. Ha un lavoro, una casa, può entrare e uscire a piacimento. I predatori sono gli avventori. Ma sono gli uomini a predare la donna o è il contrario? Per l'autore l'uomo e la donna sono una coppia, come è intuibile dalla posizione delle loro mani, ma sono talmente persi nel loro disagio da non riuscire più a comunicare. Non hanno più nulla da dare l'uno all'altra.

Sono svariati i dipinti lasciati da Hopper, la maggior parte dei quali veramente affascinanti. Muovono qualcosa, catturano. Purtroppo mi sono perso la mostra, spero ci sia in futuro un'altra occasione per ammirarne i dipinti "dal vivo".

venerdì 3 settembre 2010

LE COSE CHE...

...vi fanno incazzare. Questo post ha origine da un fatto preciso. Da tempo pensavo di cambiare PC. Il mio comincia a essere vecchiotto, poca memoria, macina e macina. Ultimamente, frequentando un po' di più il mondo dei blog, mi capita di imbattermi in pagine sempre più pesanti. Non parliamo poi di Myspace. Per postare il video dei Neurz ho dovuto sudare le proverbiali sette camicie. Pagine pesantissime per il mio computer, altro che grafica stancante :) Il giorno dopo ho letto a fatica (sempre causa pagine pesanti, non per altro) sul blog Radio Nowhere un resoconto di un'interessante scambio d'opinioni sulla musica dei Pink Floyd. Volevo dire la mia. Niente da fare, tutto inchiodato. Ho valutato un potenziamento di memoria ma il gioco non valeva la candela. Bene, valuto varie offerte e decido di cambiare computer. Negozio di fiducia, un paio di giorni d'attesa per assemblarlo, spesa contenuta, non il meglio in assoluto ma un deciso passo in avanti. Già pregustavo la velocità con la quale avrei potuto gestire il mio blog e soprattutto quella con la quale sarei potuto intervenire su pagine altrui. OK. Mi chiamano. "Il Pc è pronto, venga a ritirarlo". Ci vado, pago. Con la massima cura lo sistemo e installo il sistema operativo. Primo errore. Subito. Schermata blu maleaugurante. Riprovo. Windows 7. Questa volta l'installazione riesce. Installo i vari driver. Apro una finestra. Errore. Apro gli scacchi. Errore. Comicio a incazzarmi. Installo i driver del modem. Errore. Un file di testo. Errore. L'incazzatura sale, comincio a sudare. Mi alzo e vado ad aprire la finestra ma porcaputtana errore. Bene, torno a Xp. Si va sul sicuro. Formatto tutto, 250 g di HD interno quindi neanche tanto velocemente. Xp ha sempre funzionato, lo uso da una vita, figurati. Formatta, estrae i file, riavvia il PC. Ci siamo quasi. Errore nel sistema operativo. Ma come? l'ho sempre usato. Che cazzo. Rifaccio tutto. Tutto uguale. Chiamo il negozio, spiego la cosa, reimpacchetto il PC e domani lo porterò indietro. Morale della favola: vi sto scrivendo dal mio caro vecchio PC lento come una lumaca che traina una tartaruga (delle Galapagos). Realizzo che, tra i problemi più o meno quotidiani, i casini al PC sono una delle cose che più mi mandano in bestia. Qui parte il sondaggio, tralasciando rapporti umani e massimi sistemi, quali sono le "piccole" cose che vi fanno incazzare?

mercoledì 1 settembre 2010

ROSSO FLOYD

(di Michele Mari, 2010)

Rosso Floyd è un libro che piacerà tantissimo agli amanti dei Pink Floyd ma che sarà apprezzato anche dagli appassionati di musica in generale e soddisferà chi sa apprezzare un libro ottimamente scritto e originale.
Se pensate di rientrare in tutte e tre le categorie sopra citate allora state perdendo tempo. Spegnete il computer, infilatevi le scarpe (non importa se siete in mutande, non state lì a far troppo i precisini) e recatevi presso la libreria più vicina ad acquistare questo libro.
ATTENZIONE: Se per voi la libreria più vicina è la Feltrinelli sita in un noto centro commerciale torinese tenete presente che qualche commessa potrebbe non conoscere Michele Mari (molto probabile) ma c’è il rischio che non conosca nemmeno i Pink Floyd. Nel fortunato caso che la stessa fosse stata informata dell’esistenza del gruppo, le possibilità che ne sappia scrivere il nome saranno esigue. Non lanciatevi in avventurosi tentativi di spelling, cercatevi il libro da soli, farete molto prima.
Riprendiamo il filo del discorso. Questo libro non è una biografia dei Pink Floyd né un trattato scientifico sulla loro produzione musicale. Non è neanche un romanzo nell’accezione pura del termine. Non c’è una trama, manca una storia che prosegue pagina dopo pagina.
Che cosa c’è allora? Vi chiederete.
Semplice: ci sono 30 confessioni, 53 testimonianze, 27 lamentazioni di cui 11 oltremondane, 6 interrogazioni, 3 esortazioni, 15 referti, una rivelazione e una contemplazione.
In parole semplici, nel libro di Mari, vari personaggi sono chiamati a testimoniare su qualche aspetto o su qualche episodio legato alla vita del gruppo o a quella dei suoi cinque componenti. Cinque perché si parla degli esordi come di tempi più recenti. Dei quattro che sono identificati dalla maggior parte delle persone come “Pink Floyd” e di un diamante. Anzi, di un Diamante.
Ognuno di loro testimonia come se fosse davanti a un giudice, un giudice molto ipotetico che potrebbe benissimo essere il lettore. A testimoniare ci saranno personalità di ogni tipo: quattro dei protagonisti che hanno fatto la storia del gruppo (e della musica), creature di fantasia, gente viva, gente morta, musicisti sconosciuti che hanno perso il treno, musicisti famosissimi, tecnici, roadie, impresari, parenti, amici, fan e chi più ne ha più ne metta. Ometto i nomi per non rovinarvi la sorpresa.
Un’unica anticipazione come assaggio. A testimoniare i Siamesi, creatura quasi mitologica nata dalla fusione di due musicisti.
Creatura quasi mitologica nata dalla fusione di due musicisti: potrebbe essere una buona metafora, non so se mi seguite.
Pian, piano, testimonianza dopo testimonianza, si comincerà a intravedere un centro, un punto verso il quale si converge. Gli episodi reali si mischiano alle ipotesi più fantasiose e quello che ne verrà fuori sarà un ritratto del gruppo (anche se spesso si fatica a pensare ai cinque in questi termini) affascinante, decisamente inquietante, a volte disarmante fino ad assumere toni sovrannaturali e spiazzanti. La musica dei Pink Floyd è quasi magia. Una magia che arriva da dove?
Come per le ciliegie, una testimonianza tira l’altra, sarà dura chiudere il libro e poggiarlo sul comodino. L’ultima pagina arriverà troppo in fretta.
Allora, ve le siete messe queste scarpe?

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