venerdì 30 gennaio 2015

ONCE

(di John Carney, 2006)

Once è uno di quei film piccoli, realizzati con pochi mezzi ma compensati da una grande passione, uno di quei film che riesce a giocarsi tutto sul livello del coinvolgimento emotivo, di quelli che riescono a rimetterti in pace con il mondo per un buon periodo di tempo. C'è da dire che è anche un film per chi ama la musica, per chi le dà la giusta importanza, è un film che vive di musica e sentimenti dall'inizio alla fine. A mio avviso, seppur povero di mezzi, proprio come i suoi protagonisti, Once è un grande film.

E' la storia di un amore, forse anche di due o tre. Un'amore nuovo, uno perso e quello per la musica. E' un film su una storia d'amore forse semplice, forse di quelle che si vedono solo al cinema, forse di quelle che tutti sogniamo e di cui tutti abbiamo bisogno. E' un film sull'amore ma di quelli che riescono a fermarsi prima di diventare melensi o posticci.

All'epoca dell'uscita della pellicola nelle sale una critica severa affermò tramite una metafora che Once è un film per chi ha bisogno di un pianto catartico per una storia mai iniziata. Con qualche canzone romantica. Critica che scrive tra l'altro per una rivista che stimo moltissimo, critica che ringrazio perché ancora una volta mi chiarisce il concetto che non bisogna mai fidarsi del giudizio di nessuno, solo del proprio, almeno per quel che riguarda la sfera emotiva. Rileggendola ora mi sembra che l'affermazione svilisca e sminuisca un film capace di emozionare chiunque (posso confermarvi che almeno io non sento il bisogno di pianti catartici, magari ogni tanto giusto quello di tirare due testate al muro), facendolo in modo genuino e naturale, due aggettivi che si adattano bene anche alla recitazione dei due protagonisti, Glen Hansard e Markéta Irglova, musicisti professionisti ma attori dilettanti (però bravi).


Lui è un ragazzo irlandese che vive con il padre, insieme gestiscono un negozietto dove si riparano aspirapolvere. Nel tempo libero lui suona la chitarra per le strade di Dublino per arrotondare e dare sfogo alla sua passione per la musica. Lei è un'immigrata ceca (della Repubblica) che si arrangia con piccoli lavoretti, anche lei grande amante della musica e ottima pianista. Dopo diversi incontri avvenuti per strada la ragazza riesce ad ascoltare una delle canzoni scritte dal ragazzo (i due non hanno nome nel film) che solitamente per strada si limita a suonare cover. Colpita dal brano, la ragazza confessa di saper suonare il piano che suona regolarmente in un negozio di strumenti musicali per gentile concessione del titolare. E' proprio lì che i due suoneranno insieme per la prima volta.

La storia scorre avvolta da una colonna sonora toccante e assolutamente godibile, i pezzi composti dagli stessi attori sono ottimi, Falling slowly vinse anche l'Oscar come miglior canzone, la Irglova riesce a essere dolcissima e Hansard straziante e rabbioso dove serve, il connubio immagine e musica contribuisce a creare scene bellissime nonostante la camera a mano e l'illuminazione fioca. Ottima, per citarne una, quella dove lei scende da casa di notte, in vestaglia, per andare a comprare le pile per il lettore cd nell'urgenza di donare un testo alla musica scritta da lui, testo che prenderà vita già nel tragitto di ritorno verso casa (il pezzo è If you want me).

Insomma il film ha colpito e affondato anche me che non godo proprio della fama di gran romanticone (ma forse lo sono dentro). Sinceramente penso che questo sia un film che non si possa non amare con buona pace degli eventuali detrattori. Valore aggiunto la possibilità di rivivere storia ed emozioni tramite la bella colonna sonora.


giovedì 29 gennaio 2015

BRADI PIT 120

In una società dove tutto corre, dove la tecnologia avanza a ritmi insostenibili, dove se rallenti ti fanno fuori, per rimanere a galla bisogna iniziare a sgomitare.


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mercoledì 28 gennaio 2015

MILK

(di Gus Van Sant, 2008)

Con Milk il regista Gus Van Sant torna a quello che si potrebbe definire un tipo di cinema molto mainstream; sia nell'aspetto formale che in quello dei contenuti Milk è infatti uno di quei film che potrebbe far facilmente presa sulla giuria degli Academy Awards, non a caso il film si portò a casa ben due Oscar (protagonista maschile e sceneggiatura originale).

Una forma cinema che può risultare un po' addomesticata, soprattutto dopo aver visto altre opere del regista quali, per esempio, Elephant o Paranoid Park, ciò non toglie che Van Sant sia riuscito a confezionare un buon film, un classico biopic che presenta qualche punto debole ma che ha dalla sua diversi punti di forza.

Si racconta la storia di Harvey Milk (Sean Penn), assicuratore omosessuale di New York che insieme al suo nuovo amore Scott Smith (James Franco) si trasferisce nel quartiere Castro a San Francisco, ritrovo e sorta di rifugio della comunità gay, dove aprirà un negozio di fotografia. Forte della maggiore apertura di San Francisco verso le minoranze rispetto ad altre città e grazie anche al sostegno dei sindacati dei lavoratori prima e del sindaco Moscone (Victor Garber) poi, Harvey Milk diventerà un punto di riferimento per la sua comunità affermandosi come primo uomo politico omosessuale dichiarato ad essere eletto ad una carica pubblica.


Van Sant può contare su attori in gran forma e su una coppia affiatata all'interno della quale la prova d'attore di Franco non ha nulla da invidiare a quella di Penn, soprattutto grazie a sguardi fatti di grande dolcezza capaci di trasmettere un amore pieno. Forse è proprio su questo aspetto che il regista avrebbe dovuto soffermarsi un poco di più, infatti il film pur coinvolgendo e raccontando accadimenti di grande interesse pecca a mio avviso sul versante emotivo. Comunque la scelta di privilegiare la sfera politica e di attivista di Harvey Milk rispetto a quella privata è rispettabile, inoltre i protagonisti sono immersi in una cornice a dir poco fantastica. Ottimi attori a reggere il gioco a Penn, da Josh Brolin (consigliere Dan White) al trasformista Emile Hirsch (ormai ho difficoltà a riconoscerlo nei vari ruoli che interpreta), fino ad arrivare al qui fragile Diego Luna. Ma ancora più importante la fotografia superba e una ricostruzione di San Francisco nei '70 da brividi, la grana dell'immagine, stralci di video d'epoca (finti o veri che siano), musica, costumi, tutto concorre a regalare allo spettatore un bellissimo viaggio nel tempo.

Un film dai temi importanti, una storia che è giusto conoscere dove manca però un po' di emozione, quella che ti cattura e ti porta direttamente dentro un film qui relegata alla fiaccolata dei 30.000 e a pochi altri momenti. Van Sant dirige un bel film che, con i giusti accorgimenti, sarebbe potuto risultare anche migliore.


LA BUONANOTTE - QUEEN - LOVE OF MY LIFE

Nell'augurarvi una buona notte...



Queen - Love of my life

dall'album A night at the opera del 1975

martedì 27 gennaio 2015

DOUG WILDEY RIO

Ancora western per la collana Cosmo Color che questa volta guarda proprio alla (scarsa) produzione d'oltreoceano sul tema. Paradossalmente in campo fumettistico siamo sempre stati noi europei a occuparci in misura maggiore del mito della frontiera mentre i detentori di questo retaggio storico sembrano più interessati a occuparsi d'altro, che sia questo la figura del supereroe o qualsiasi deriva del fumetto indipendente o underground.

Rio è la creatura al quale Doug Wildey diede vita solo dopo aver attraversato tutta la storia dei comics americani lavorando in quelle che sono state molte tra le case editrici più importanti del settore nello scorso secolo.

Wildey iniziò proprio come disegnatore di storie western per case editrici minori come Youthful, Master Comics e Cross Publications agli inizi degli anni '50. Dal 1954 al '57 entra a far parte dell'organico dell'Atlas Comics (poi divenuta Marvel Comics) per la quale creò il personaggio di Outlaw Kid e disegnò numerose storie western e fantasy/horror apponendo la sua firma anche su collane celebri come Strange Tales. Collabora in seguito con la Dell Comics, con la Harvey e con la DC Comics per la quale lavora su serie come House of Mystery e House of Secrets.

Prende parte inoltre alla creazione e alla realizzazione della serie animata Johnny Quest di Hanna & Barbera passando poi a lavorare su altre serie per la tv tra le quali Herculoids nota anche in Italia.

Dalla metà degli anni '60 torna al fumetto di nuovo per la Dc Comics, per la Harvey e aggiunge al suo curriculum anche collaborazioni con la Archie Comics. A metà degli anni '80 finalmente si dedica a una sua creatura sia nelle vesti di scrittore che di disegnatore, per far questo torna al western e crea il pistolero Rio, fuorilegge redento che si imbatte lungo le sue avventure in diversi protagonisti che hanno contribuito a creare il mito del west. La serie esce per la Eclipse e avrà un seguito nei primi anni novanta grazie all'interessamento della Dark Horse Comics.


Grazie ai quattro numeri editi dall'Editoriale Cosmo ora è possibile leggere Rio anche dalle nostre parti. Doug Wildey's Rio è un'opera strutturata in più archi narrativi, usciti in anni diversi e realizzati con tecniche varie. La saga di Rio comincia con un tentativo di redenzione, il vecchio pistolero vuole rigare dritto e si incarica di venire a capo di una faccenda potenzialmente pericolosa che contrappone la cultura indiana e l'arroganza bianca. Lo fa direttamente per conto del Presidente degli Stati Uniti d'America Ulysses Grant. Questa prima storia, divisa in tre capitoli, contiene molti classici topoi del western ed è disseminata di diverse e molto ben riuscite scene madri. Già da questa prima avventura non mancano gli incontri con personaggi storici come quello fugace con il capo indiano Geronimo.

Personalmente a livello artistico è questa la storia che mi ha intrigato di più con le matite di Wildey presentate in uno splendido bianco e nero alternato a tavole in bicromia o con solo alcuni sprazzi di colore. Solo qua e là sono presenti alcune tavole nella classica quadricromia in voga nei comics americani. Ho trovato il lavoro di Wildey veramente magistrale, tavole splendide e inquadrature perfette, purtroppo Wildey ci ha lasciati nell'ormai lontano 1994, come mi sarebbe piaciuto che qualcuno gli avesse offerto di lavorare a un bel Texone.

Nel secondo volume Rio, uomo tutto d'un pezzo, convinto di proseguire per la sua strada di redenzione riesce addirittura a farsi appuntare una stella sul petto. Limestone è una cittadina tranquilla ma come primo incarico ci sarà da indagare sul rapimento di un bambino. A incrociare la sua strada niente meno che Jesse James e il codardo Robert Ford. Qui si passa al colore e purtroppo le matite di Wildey perdono un po' del loro fascino pur restando intatta l'atmosfera del west che l'autore si trova così a suo agio a riproporre sulla carta.

Stesso stile anche per il terzo volume che porta Rio verso San Francisco e a incrociare la sua strada con quella del giovanissimo giocatore di carte Jonny Hardluck e con quella del mitico Doc Holliday.

Il quarto tomo ci conferma che dove c'è Doc Holliday non possono mancare Wyatt e Virgil Earp. A chiudere questa bella proposta il recupero di un episodio incompleto che presenta tavole solo abbozzate alternate a tavole complete e ad alcune terminate solo parzialmente. E' l'ultimo lascito di un importante artista che grazie a Rio ho finalmente potuto conoscere.


sabato 24 gennaio 2015

A-Z: AMORPHIS - ELEGY

Elias Lonnrot è stato diverse cose, a noi interessa sapere che è stato un celebre filologo che per anni si è dedicato, tra le altre cose, alla compilazione di una vasta raccolta di miti e leggende finniche nonché a una di canti popolari eseguiti con l'accompagnamento del kantele (Kanteletar), strumento della tradizione musicale finlandese. E' proprio a questi canti popolari che si ispirano i finlandesi Amorphis per comporre le undici tracce di Elegy, terzo album in studio della band.

Come da intento originale dell'etichetta A-Z, soffermarsi anche su album che ho ascoltato tutto sommato poco o parecchio distanti dalle guide portanti del mio percorso musicale fa parte del gioco. Ciò mi permette di riprendere in mano cose dimenticate e magari scoprire pezzi validi ormai perduti nei meandri della memoria o, più semplicemente, di diversificare gli ascolti e tornare un poco sui miei passi. Diamo un'occhiata quindi anche a questo Elegy degli Amorphis.

Se l'ispirazione e l'impianto alla base di Elegy sono di indubbia matrice folk, la componente strumentale guarda al metal progressivo di stampo death più melodico, l'alternanza di cantato growl (che io non amo per nulla) e pulito, riesce a garantire un buon equilibrio e offre composizioni fruibili anche ad orecchie poco sensibili a questo tipo di sound.

Detto questo il combo, nonostante i nuovi innesti di Pekka Kasari (batteria), Kim Rantala (tastiere) e Pasi Koskinen (voci clean), sembra affiatato e capace di produrre buone cose. Il tipo di proposta può piacere o non piacere ma è indubbio che un pezzo come Better unborn, pur con tutto il suo pessimismo, goda di un ottimo tiro in bilico tra metal e lievi sapori orientaleggianti e induca anche a cantarne il motivo (quello in clean vocals) con molto piacere. Certo, magari ci si può sentire un po' idioti a cantare cose del tipo sarebbe stato meglio per me se non fossi nato, se non fossi cresciuto, se non fossi stato messo al mondo, se non fossi venuto su questa Terra e via dicendo, a parte questo il pezzo prende.

Non mancano elementi presi di peso dal metal ottantiano, quello tanto caro agli Iron Maiden e compagnia bella, la famosa NewWaveofBritishHeavyMetal, ne la doppia cassa, le epiche cavalcate a crescere e così via. Alcuni dei temi proposti sono anche interessanti o quantomeno curiosi, vedi ad esempio il trattamento riservato alla figura della vedova qui dipinta come una sorta di strega nel brano dal titolo programmatico Against widows.

I suoni sono ben amalgamati, le tastiere mai invadenti e le chitarre girano in armonia tra loro, anche sui passaggi più pacati gli Amorphis non sembrano cedere il passo. Sono percepibili, almeno da chi come me non è solito idolatrare il genere, alcuni momenti di stanca che emergono qua e là dopo l'ascolto della prima metà del disco, l'impressione che sia presente qualche calo di tensione si affaccia alla mente. E' innegabile che la scelta di attingere al folclore dei miti del proprio paese, miti che affondano nella vecchia tradizione orale, aggiunga una dose di fascino, seppur criptico, al lavoro dei finlandesi.

In Elegy i pezzi buoni ci sono, un ascoltatore magari più vicino di me a questo tipo di suoni avrebbe potuto certamente parlare dell'album in toni più entusiastici, per me semplicemente non è più tempo, questo nulla vuol togliere all'impegno messo dagli Amorphis nel confezionare questo album che sembra abbia riscosso anche un ottimo consenso di critica e pubblico.




Elegy, 1996 - Relapse Records

Tomi Koivusaari; voce, chitarre, tamburello
Esa Holopainen: chitarra
Olli-Pekka Laine: basso
Pekka Kasari: batteria
Kim Rantala: tastiere
Pasi Koskinen: voce

Tracklist:
01  Better unborn
02  Against widows
03  The orphan
04  On rich and poor
05  My kantele
06  Cares
07  Song of the troubled one
08  Weeper on the shore
09  Elegy
10  Relief
11  My kantele (acoustic reprise)

venerdì 23 gennaio 2015

BRADI PIT 119

Slow Mood


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giovedì 22 gennaio 2015

L'UOMO DI ATLANTA

(di Claudio Nizzi e Jordi Bernet, 1996)

Portare in edicola un nuovo Texone solo sei mesi dopo la monumentale opera di Magnus non deve essere stato facile. L'uomo di Atlanta, lavoro difficile da paragonare alla precedente uscita, ha il grande merito di soddisfare le caratteristiche che un Texone con tutti i crismi deve avere. A cimentarsi con il ranger dalla camicia gialla troviamo infatti un disegnatore di stampo internazionale che oltre a non essersi mai cimentato con Tex porta alla causa il suo stile personale e parecchio distante dai canoni classici della testata mensile.

Parliamo dello spagnolo Jordi Bernet, classe 1944, conosciuto principalmente per aver lavorato alle serie Torpedo e Chiara di notte. Bernet mantiene per questo Texone un tratto stilizzato che definisce volti, espressioni ed emozioni senza ricorrere all'uso di troppi segni, una matita essenziale con una grande capacità narrativa. A queste caratteristiche si unisce l'amore del disegnatore per il lato più comico e grottesco del fumetto, ecco così apparire qualche viso più tondo, qualche espressione da stereotipo, qualche tipo scalcagnato, in particolare nella sequenza al Maison Rouge nel quale assisteremo a una di quelle risse con i fiocchi e all'esibizione della bellissima Lola Dixieland.

Altra passione di Bernet è la figura femminile, irresistibile, ammiccante, rotonda e sensuale, con fegato e cervello che non hanno nulla da invidiare alle curve. Chi conosce Tex sa di come la figura femminile sia solitamente marginale nelle avventure del ranger, cosa che deriva dall'impostazione che lo stesso creatore Gianluigi Bonelli diede alla serie, ricordo che in un'intervista lo stesso affermò di non riuscire a trovare molti ruoli interessanti per le donne all'interno dell'avventura texiana e così non ce le metteva.

Questa volta il solito (in senso assolutamente positivo) Claudio Nizzi ritaglia a una donna, la bella Lola, un ruolo affatto marginale andando a cucire su misura una sceneggiatura modellata sulle esigenze e i gusti di Bernet. Il risultato è uno dei Texoni più atipici e personali visti finora, il primo tra l'altro a uscire a soli sei mesi dal precedente e non dopo quello che fin ad allora era stato il canonico anno d'attesa.

L'uomo di Atlanta nasce da alcune nefaste conseguenze della guerra civile americana durante la quale lo squadrone del Colonnello Shelby si macchiò delle peggiori atrocità. A pagarne le conseguenze anche i genitori barbaramente trucidati del Tenente confederato Johnny Butler che ad anni di distanza ancora cerca la sua vendetta nei confronti di Shelby. In un momento di grande difficoltà Butler chiede l'aiuto di Tex andando ad esigere un vecchio debito contratto quando anni prima il Tenente salvò la vita del ranger. A fare da tramite tra i due la bella Lola, ballerina di grande fascino nonché donna astuta e pronta a tutto per il suo uomo, ovviamente Butler.

Ancora una volta sembra che il Texone non possa deludere, cosa che mette sempre in ottima disposizione per la lettura successiva.


martedì 20 gennaio 2015

LA FIRMA SU RADIO NOWHERE

E' con grande piacere che accolgo l'invito dell'amico Viktor di Radio Nowhere il quale mi ha proposto di imbastire una serata musicale a tema da goderci tutti insieme (proprio nel senso di tutti insieme, voi compresi quindi :)

Da un po' di tempo il blog di Viktor si è evoluto e trasformato da finestra sul mondo della musica (e non solo) in vera e propria radio con appuntamenti aperiodici ma sempre preventivamente segnalati sul blog. Il consiglio è quello di tenere d'occhio il blog di Vik che tra serate tematiche e free ride (serate dove potete scegliere voi i pezzi da ascoltare) c'è di che divertirsi, senza contare che l'intervento dei vari ascoltatori è sempre occasione per scoprire cose nuove o riscoprire pezzi ormai persi nella memoria.

Proprio nella memoria affonda le radici la serata che ho pensato di tirare su con l'aiuto di Vik per domani (mercoledì 21 Gennaio ore 21.00), una serata dedicata ai tormentoni, vecchi e nuovi, dove la parola tormentoni non è assolutamente da considerare in senso negativo. Nella tracklist della serata, al termine della quale ci sarà spazio anche per le richieste a tema, saranno inseriti alcuni pezzi che hanno caratterizzato in maniera decisa un certo periodo di tempo, magari anche breve, oppure i pezzi i cui video martellavano su MTv o ancora l'hit dell'estate o del momento. Ho cercato di privilegiare pezzi che possano suscitare ricordi, emozioni o, per i pezzi più recenti, semplice apprezzamento e divertimento.

Non sarà una serata seriosa ma non troverete nemmeno le Las Ketchup o Ricky Martin, giusto per fare un paio di esempi, i loro fan non me ne vogliano :)

Si salterà tra i generi con una predominanza pop e danzereccia con tutte le deviazioni del caso.

Ma veniamo a noi e a voi. Se non fosse chiaro questo è un invito a passare una serata di musica insieme a noi. Come fare? Semplicissimo. Alle 21.00 di domani Vik ed io inizieremo a trasmettere dal profilo Grooveshark di Viktor al quale potete accedere semplicemente cliccando qui su Live on the road, oppure passando dal blog di Vik (qui) e cliccando in alto a destra sempre sulla scritta Live on the road. In caso di problemi eventuali l'indirizzo completo è questo: http://grooveshark.com/#!/vik-rn/broadcast

Una volta lì, dalle 21.00 minuto più minuto meno, potete godervi la trasmissione. La cosa figa è che con un account Google+ o Twitter potete accedere in chat e in quel caso potremmo scambiarci in diretta saluti e opinioni sulla serata, sarebbe davvero bello trovarci in parecchi in modo da avere l'occasione anche di far due chiacchiere insieme.

Ora sapete tutto, se non avete impegni pressanti noi vi aspettiamo con grande piacere, appuntamento quindi per mercoledì 21 Gennaio alle 21.00. Live on the road.

PS: sentitevi liberi di invitare chi volete o condividere ;)

lunedì 19 gennaio 2015

THE VILLAGE

(di M. Night Shyamalan, 2004)

All'epoca dell'uscita nelle sale di The village le opinioni sul film furono molto contrastanti, c'era chi rimproverava all'ultima fatica di Shyamalan di non aver mantenuto le promesse fatte in sede di trailer disilludendo chi dal film si aspettava un horror spaventoso e coordinate diverse da quelle che in effetti The village propone.

A me la prima cosa che vien da dire è: "meno male!". Effettivamente ci si muove più nel territorio della suspence e di quello che viene definito thriller psicologico che non in quello orrorifico, anche se qui la parola thriller non mi sembra totalmente centrata. A conti fatti questa scelta si è dimostrata vincente. Dopo il trionfo di pubblico che era stato Il sesto senso, M. Night Shyamalan aveva diretto due pellicole che non avevano convinto proprio tutti (Unbreakable, 2000 e Signs, 2002), con The village torna a girare un film di ottimo livello aiutato da un cast di tutto rispetto e in grande forma.

The village è un film pensato e ben costruito che offre parecchio allo spettatore, tra le altre cose non mancano tensione e qualche spavento nonostante come si diceva sopra non siamo proprio dalle parti dell'horror. Oltre a questo il sottotesto del film propone un annoso dubbio sul quale riflettere, volendo spinge a pensare su che tipo di persone si può essere, in modo naturale, senza ricatti. Chiusura e apertura, al prossimo, al domani, alla vita. Paura o speranza, dolore e curiosità.

Siamo alla fine del 1800, in un villaggio della Pennsylvania isolato entro i confini di un bosco la vita scorre naturale, ci sono la gioia e il dolore, la vita e la morte. La comunità si stringe intorno a quella che è una sorta di guida, Edward Walker (William Hurt), e a un consiglio di anziani che si occupa della serenità e della sicurezza dell'insediamento (tra i quali Sigourney Weaver e Brendan Gleeson). A stonare nell'idilliaco contesto una torretta di guardia apparentemente fuori posto e alcuni strani segnali di colore giallo lungo tutto il perimetro del bosco.


Questi segnali tracciano il confine tra i territori della comunità e il bosco appartenente alle creature senza nome. Sembra infatti che il villaggio prosperi nella tranquillità solo in virtù di un antico patto che gli anziani fecero con queste inumane creature molto tempo addietro, un patto reciproco che impone alle due comunità aderenti di non invadere il territorio dell'altra, isolando di fatto il villaggio dal territorio esterno al bosco.

Ma i tempi cambiano e le nuove generazioni, pur rispettose, hanno idee e convinzioni diverse, come Lucius Hunt (Joaquin Phoenix) ad esempio, convinto che le creature innominabili lascerebbero passare un puro di cuore motivato da buone intenzioni, o come l'imprevedibile Noah Percy (Adrien Brody), il matto del villaggio. Ma a dare uno scossone allo status quo del villaggio sarà la giovane non vedente Ivy Walker (Bryce Dallas Howard) armata solo d'amore e forza di volontà.

Menzione particolare per l'interpretazione splendida della piccola Howard, figlia del famoso Ron, una protagonista perfetta e solo all'apparenza fragile, ben supportata da un cast di prima grandezza. Chi conosce il cinema di Shyamalan può intuire alcuni sviluppi prima che questi si palesino in video, ciò non toglie il merito di una buona costruzione e di una vicenda dalle emozioni ben dosate, tesa quanto e dove serve. Nonostante le numerose critiche ricevute dal film a mio avviso The village rimane una delle pellicole migliori del regista indiano.

venerdì 16 gennaio 2015

BLACK MIRROR - WHITE CHRISTMAS

Sapevo che questo speciale di Black Mirror sarebbe riuscito a rovinarmi il Natale, così ho aspettato che le feste passassero e ho guardato l'episodio listato a festa soltanto ora. Che poi ero più che sicuro che Charlie Brooker sarebbe stato totalmente incapace di dare un'aria festosa a qualsiasi cosa gli fosse venuto in mente di scrivere, quindi a conti fatti ho fatto bene a godermi le feste e guardarmi questo White Christmas con il giusto ritardo.

Ogni nuova sortita di Black Mirror si può usare come spunto di riflessione ma ancor più sarebbe da accogliere come un monito da non sottovalutare. Gli assunti dai quali muove questa puntata natalizia (che di natalizio ha giusto qualche accenno: la neve, la pallina di Natale, etc...) sono già stati esplorati in passato dal creatore della serie e qui portate a conseguenze ancor più estreme.

Black Mirror non è fantascienza, è una proiezione maledettamente possibile di quello che potrebbe essere il futuro dell'umanità da qui a qualche anno (presumibilmente neanche tanti). La tecnologia, i vizi e le abitudini che questo speciale prende in considerazione ci sono già e fanno parte della nostra vita quotidiana e ancora una volta è impossibile non fermarsi un attimo a chiedersi: Che cosa stiamo diventando?

Cosa succederebbe se una società come la nostra, caratterizzata da un progresso tecnologico sempre più veloce e una maturità morale e comportamentale per sfruttare al meglio queste risorse sempre più labile, facesse ancora qualche passo avanti? A illustrarci una delle infinite ipotesi possibili ci pensano John Hamm (il Donald Draper di Mad Men) e l'inglese Rafe Spall già comparso in ruoli minori in tutta la trilogia del cornetto di Edgar Wright.

Una stanza chiusa in mezzo alla neve, sembra di essere in una di quelle stazioni artiche dimenticate da Dio. Matt (John Hamm) e Joe (Rafe Spall) condividono questo spazio angusto ormai da cinque anni, anni durante i quali sembra si siano scambiati una manciata di parole in tutto. Ma oggi è Natale e Matt ha un bisogno disperato di parlare, distrarsi dalla routine. Nonostante Joe non sembri interessato Matt inizia a raccontare qualcosa della sua vita precedente l'isolamento, quando aiutava giovani ragazzi imbranati a fare conquiste femminili. Lo faceva tramite lo Z-eye, un sistema visivo collegato alla rete impiantato ormai negli occhi di chiunque. Da remoto Matt riesce a vedere tutto quel che vedono gli occhi del suo cliente e ad attuare strategie di conquista grazie a una rete di consulenti che in presa diretta curiosano nella vita del cliente, in questo caso il giovane Harry (Rasmus Hardiker).


Questo è solo l'input capace di fornire allo spettatore un primo livello di lettura dell'episodio, una prima riflessione sull'invadenza delle nuove forme di comunicazione, dei social network e della cattiva abitudine di gettare la propria vita sulla pubblica piazza. Ormai sembra che il vecchio detto che affermava che i panni sporchi dovessero essere lavati in casa abbia perso ogni valore.

Da qui si svilupperanno altre due vicende altrettanto interessanti una con protagonista ancora Matt e il ricordo di Greta (Oona Chaplin), l'altra con protagonista Joe. Quale deriva attende una società dove è possibile cancellare un'amicizia (e una persona) con un clic, dove ogni nostro più semplice bisogno, finanche quello corporale, è esibito sulla pubblica piazza virtuale, dove persone fragili subiscono traumi che le spingono a togliersi la vita in seguito alla messa al bando o alla berlina all'interno di comunità digitali.

Pessimismo? Visione lucida? Futurismo? Solo il tempo darà una risposta. Quello che io posso consigliarvi è di non guardare Black Mirror nei dì di festa. Intelligente come sempre, un passo avanti a tutti gli altri.


giovedì 15 gennaio 2015

BRADI PIT 118

L'importante è conoscere i propri limiti.



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mercoledì 14 gennaio 2015

martedì 13 gennaio 2015

B.P.R.D. - LO SPIRITO DI VENEZIA E ALTRE STORIE

(B.P.R.D. The soul of Venice & other stories di AA.VV, 2003)

Continua con questo secondo volume dedicato ai membri del Bureau for Paranormal Research and Defense l'esplorazione tramite storie brevi del potenziale dei personaggi creati da Mike Mignola al netto di Hellboy, in vista di un progetto a loro dedicato più articolato e coerente. Prima di ingranare la quarta con una miniserie a lungo raggio (presente nel terzo volume di B.P.R.D.) Mignola affida ancora una volta le sue creature ad altri autori nella speranza di scoprire i personaggi capaci di camminare sulle loro gambe. E ovviamente lo sono.

Dopo gli avvenimenti di Terra cava il Bureau è tornato compatto e conta tra i suoi agenti di spicco l'anfibio Abe Sapien, la pirocineta Liz Sherman, l'incorporeo Johann Kraus, Roger l'omuncolo e la Dott.sa in storie popolari e occulto Kate Corrigan.

Venezia ha un grosso e apparentemente inspiegabile problema di reflussi fognari, e questo non è un lavoro per Superman bensì per gli uomini (?) del B.P.R.D.. Riluttanti questi si recano nella città oltremodo fetida per venire a capo del mistero che sembra avere dei legami con la dea pagana Cloacina (protettrice delle cloache?) alla quale bellezza, almeno a quella della sua effige, non sembra insensibile il tenerissimo Roger. Tra demoni e vampiri la storia prenderà le consuete direzioni di competenza al B.P.R.D.. Scrive Miles Gunther sotto la supervisione del capo Mignola e disegna un Michael Avon Oeming a mio avviso non eccezionale, trovo che il suo tratto poco si adatti a questo tipo di narrazione.

Il salto di qualità si presenta già nella seconda storia del volume, Acque nere, scritta da Brian Augustyn, una storia di caccia alle streghe, fanatismo e ignoranza che ha il sapore della provincia americana. Le matite di Guy Davis sono un netto stacco dalle atmosfere care a Mignola, il New England di Davis, pur invischiato in oscure faccende, appare anche solare e genuino pur accogliendo figure religiose molto poco candide. Sarà proprio questo disegnatore a diventare una delle colonne portanti legate ai futuri progetti dedicati al B.P.R.D..

Treno notturno prende le mosse da una vecchia avventura di Lobster Johnson, sulle conseguenze della quale sono chiamati a investigare Liz Sherman e Roger l'omuncolo. Questa è l'occasione giusta per Geoff Johns di soffermarsi sul rapporto tra i due e sui loro problematici trascorsi così difficili da dimenticare per il candido Roger. Anche in queste storie tutto sommato brevi si riconosce lo scrittore di razza, le matite sono purtroppo affidate a Scott Kolins disegnatore che io non riesco proprio a digerire.

Molto molto carina invece è la storia realizzata da Joe Harris e Adam Pollina che vede Abe Sapiens confrontarsi con il suo essere mostruoso. Il titolo C'è qualcosa sotto il mio letto è rivelatore, al centro della storia ci sono la paura dei bambini verso l'ignoto, il babau che sta sotto il letto, e un gruppo di mostri sui generis. Il tratto di Pollina è perfetto per illustrare questa storia vicina ai temi dell'infanzia.

Si chiude con una storia molto breve di zombi scritta da Mignola e illustrata da Cameron Stewart che riporta l'albo su atmosfere più note e collaudate. A conti fatti questo secondo volume è un antipasto preparatorio per quel che Mignola metterà sul piatto dal prossimo albo di B.P.R.D., serve a conoscere meglio i personaggi e a dirci qualcosa in più su di loro. A presto per nuovi aggiornamenti.

lunedì 12 gennaio 2015

ATTO DI FORZA

(Total Recall di Paul Verhoeven, 1990)

Paul Verhoeven prende il racconto di Philip Dick Ricordiamo per voi, che a onor del vero lessi già qualche anno addietro (memoria infame), e lo traspone per il cinema creando un fanta-action molto in linea con i tempi della sua uscita nelle sale, a dimostrarlo la presenza del grande bisteccone ex mister universo e ora ex governatore Arnoldone Schwarzenegger. Insieme a lui altri volti noti come quello dell'eterno caratterista Michael Ironside e quello di un'ancor giovane Sharon Stone baciata da alcune inquadrature che lasciano intuire il proposito di Verhoeven di lanciarla di li a poco nell'olimpo dei sex symbol planetari (e neanche a torto mi vien da dire).

Dalla miscela dei vari elementi, il più importante dei quali rimane comunque la penna del signor Dick, ne viene fuori un film più che godibile, distante per diversi fattori dal racconto originale (per i ricordi che la mia mente ne conserva) e più votato all'azione e al divertimento pur mantenendo al suo interno gli affascinanti temi così cari all'autore di tanta fantascienza assolutamente da recuperare.

Io sono io? E quel che ho fatto ieri l'ho fatto davvero? Tu sei tu? E quel che hai fatto ieri l'hai fatto davvero? La nostra realtà è reale?

Il signor Douglas Quaid (Schwarzy) di lavoro spacca pietre in una cava, è sposato con la bellissimissima Lori (Sharon Stone) ed è convinto che nella sua vita debba esserci qualcosa di più, non gli garba d'esser nato per spaccar pietre. Di notte sogna una vita diversa su Marte. Sono anni che la Terra ha colonizzato il pianeta rosso, Douglas vorrebbe andarci ma la moglie Lori non vuole saperne. Decide così di rivolgersi alla Recall, un'agenzia turistica capace di impiantare falsi ricordi direttamente nel cervello per regalarti memorie d'una vacanza ideale perché no, anche su Marte, magari in una veste del tutto inedita, che so io... magari nei panni di un agente segreto. Ma sulla Recall non circolano solo voci propriamente rassicuranti.


Mentre i tecnici della Recall procedono con l'impianto si verificano alcuni problemi e il paziente dà di matto. Dopo un veloce repulisti degli ultimi avvenimenti dal cervello di Quaid, il personale della Recall rimanda il paziente a casa imbottito di sedativi nella speranza che non ricordi nulla dell'accaduto. Da qui in poi per Quaid inizierà un inferno fatto di falsi ricordi, persecuzioni e complotti che vedono il pianeta Marte al centro di tutto.

Se il film lascia molti dubbi nello spettatore, in perfetta coerenza alle tematiche trattate, di contro riesce ad adempiere perfettamente al suo compito di entertainer, a differenza dell'approccio più serio alla materia tenuto da Dick sulla pagina, Verhoeven mescola il tutto con una sana dose di divertimento riuscendo a trovare il giusto mix di sapori. Solitamente per racconti di questo tipo io sono tra quelli che preferiscono un'inclinazione più seriosa delle vicende narrate ma in fondo anche così va bene, questa pellicola ripresa in mano dopo almeno vent'anni dalla mia ultima visione fa ancora la sua figura e suscita anche quel pochino di nostalgia che non guasta.


domenica 11 gennaio 2015

PANICO AL VILLAGGIO

(Panique au village di Stéphane Aubier e Vincent Patar, 2009)

Ammetto di essere stato molto incuriosito da questa produzione proveniente dall'area francofona, ne avevo letto cose buone e la critica ne parlava come qualcosa di diverso dal solito. Bene, been there, done that, got the t-shirt. E non pensiamoci più.

L'unico grande pregio di questo lungometraggio è la scelta sul tipo di animazione da usare nel progetto, il film è infatti interamente recitato da veri giocattoli, i protagonisti sono un cowboy e un indiano molto somiglianti a quelli che si compravano al mare nelle buste trasparenti, quelli in plastica, colorati, con il piedistallo verde alla base per tenerli in piedi. Insieme a loro, a condivedere l'appartamento c'è Cavallo, che ovviamente è il giocattolo di un cavallo. Ah, l'indiano si chiama Indiano e il cowboy Cowboy.

La vicenda è ambientata in un piccolo villaggio (due abitazioni, un laghetto, un posto di polizia) sito in un mondo molto fantasioso dove i cavalli convivono con gli umani, guidano l'auto, dove ci sono mondi sotterranei sotto i laghetti ed esistono scuole di musica per animali, dove non è impossibile ritrovarsi al polo all'interno di un pinguino robotico.


Altamente anarchico e infarcito d'insensatezza il film procede con un ritmo serrato e vorticoso da una situazione strampalata all'altra per le quali lo spunto iniziale è il seguente: è il compleanno di Cavallo e i suoi coinquilini Indiano e Cowboy vogliono fargli un regalo. Per non affidarsi al solito copricapo, Indiano decide di costruire a Cavallo un barbecue (?). Non chiedetevi perché a un cavallo dovrebbe far piacere ricevere in regalo un barbecue, non è proprio il caso. Nell'ordinare i mattoni per la costruzione del regalo i due combinano un casino a causa del quale riceveranno migliaia e migliaia di mattoni. Da qui ci sarà un'escalation di disastri e disavventure disordinate tra le quali troveranno posto l'amore di Cavallo per l'insegnante di musica (una cavalla), distruzioni assortite, gite in scenari quantomeno esotici, strane creature, furti e altre distruzioni. Tutto nel caos più assoluto. Vale la pena ricordare che il doppiaggio italiano non aiuta, almeno un paio di vocine suscitano una irritazione tale da provocare sogni d'asportazioni chirurgiche di corde vocali. Lieve moralina edificante.

Alcune situazioni divertenti ci sono, due risate questo Panico al villaggio te le fa anche fare. L'animazione è... beh, originale davvero, il lavoro fatto è quantomeno interessante e ben riuscito. In misura complessiva la mia curiosità era un poco mal riposta, insomma, come già detto, been there, done that, got the t-shirt. T-shirt che tra l'altro penso non indosserò mai.


sabato 10 gennaio 2015

COVER GALLERY - WOLVERINE

Origin 1 (Joe Quesada)
Torna dopo le feste natalizie l'appuntamento del fine settimana con Cover Gallery. Dopo aver dato un'occhiata agli scenari fantasiosi di Adventure Time oggi ci concentriamo su due proposte legate al canadese artigliato, un dei personaggi più amati di casa Marvel. Stiamo parlando ovviamente di Wolverine, come se non l'aveste già capito.

Prendiamo quindi in esame oggi l'intera vita del personaggio partendo dalle sue origini che, dopo decenni e decenni di mistero, vengono svelate nella miniserie Origin grazie al lavoro portato a termine da Paul Jenkins e Andy Kubert. La mini ebbe un prevedibile successo e divenne argomento di discussione principale nell'ambito fumettistico nel suo periodo d'uscita. Insomma, l'evento era abbastanza epocale.

Meno clamore scaturì invece la miniserie The End che narra gli ultimi giorni del mutante canadese, probabilmente perché tutti sanno che ogni storia in chiave futura legata ai supereroi può essere rivista, riscritta e modificata e di per se riveste minore importanza nell'economia della continuity legata ad un personaggio.

Quello che però interessa oggi a noi è che le copertine di entrambi i progetti furono curate da due grossi nomi, di quelli capaci di richiamare il grande pubblico, nientemeno che l'allora editor in chief di casa Marvel Joe Quesada e l'italianissimo Claudio Castellini.

Come per gli scorsi appuntamenti e come accadrà nei prossimi, vi chiedo di segnalare le vostre cover preferite (per un massimo di tre) in modo da organizzare un'eventuale mostra virtuale con le migliori illustrazioni proposte nei vari Cover Gallery. Ovviamente il voto è completamente libero, si può giudicare il tratto del disegnatore, la costruzione della copertina, il soggetto, lo stile, l'eventuale citazione, etc..., insomma, quello che più vi piace, non ci sono regole. E magari questo pistolotto ve lo beccherete copincollato tutte le prossime volte, come memento :)

PS: la cover in apertura di post è votabile come le altre.


Origin 2 (Joe Quesada)



Origin 3 (Joe Quesada)



Origin 4 (Joe Quesada)



Origin 5 (Joe Quesada)



Origin 6 (Joe Quesada)



Wolverine: The End 1 (Claudio Castellini)



Wolverine: The End 2 (Claudio Castellini)



Wolverine: The End 3 (Claudio Castellini)



Wolverine: The End 4 (Claudio Castellini)



Wolverine: The End 5 (Claudio Castellini)



Wolverine: The End 6 (Claudio Castellini)

venerdì 9 gennaio 2015

LA CASA NERA

(The people under the stairs di Wes Craven, 1991)

La casa nera è un film di Wes Craven datato 1991 che è riuscito a riportarmi alla mente quel gruppo di fantastiche pellicole risalenti più o meno alla metà del decennio precedente che regalarono tantissimi momenti di gioia, divertimento ed emozione ai pre adolescenti di quegli anni. Parlo di film noti anche ai muri, alcuni famosi e continuamente proposti anche oggi, altri meno, titoli come I Goonies, Piramide di Paura, Navigator, Wargames, I Gremlins, Ritorno al futuro, Giochi stellari, E.T. e via discorrendo.

Ad accomunare queste pellicole c'erano la giovinezza dei protagonisti i quali oscillavano tra infanzia e adolescenza, e il forte senso di meraviglia, avventura, mistero e fantastico che permeava questo tipo di narrazione, sempre imbevuta in buone dosi di sentimento. Erano film perfetti per quell'età, anni in cui i miei coetanei e io eravamo intorno alla decina, anno più anno meno.

Il film di Craven rientra perfettamente in quello spirito, riporta a quelle atmosfere e a quelle emozioni, il tutto però virato verso il versante orrorifico e malevolo, cosa che rende La casa nera un prodotto potenzialmente adatto a ragazzi che hanno qualche annetto in più sulle spalle. Intendiamoci, il comparto horror è davvero blando, ciò nonostante non farei vedere questo film alla mia bambina di otto anni. Probabilmente agli adolescenti di oggi questa pellicola potrà non fare questa grande impressione anche se i due protagonisti in negativo della storia, pur incappando in sequenze grottesche e ridicole, hanno un'indole malevola che supera di gran lunga quella della banda Fratelli, di mamma e del tenero Slot (da I Goonies).

In fin dei conti il pubblico sul quale questo film può fare più presa potrebbe essere proprio quello dei nostalgici di quei film citati sopra ai quali La casa nera potrebbe ricordare anche le serate estive passate in compagnia di Zio Tibia e degli horror di Italia 1 (dove questa pellicola potrebbe aver fatto anche qualche passaggio). Per la scelta del titolo italiano si è invece puntato al richiamo forte delle varie case, prima tra tutte quella di Raimi, che hanno allietato i nostrani palinsesti in tempi passati e che sinceramente come stile e contenuti mi sembrano un poco più distanti.


Anche qui il protagonista è un bambino che vive in una cornice poco battuta dalle pellicole più note del filone, un ghetto nero di New York in uno squallido appartamento di un immobile devastato e abitato da tossici e disperati. La madre è malata e i padroni di casa, invisi a tutto il quartiere, hanno dato loro lo sfratto per demolire lo stabile. Il ragazzino (Brandon Quintin Adams), ribattezzato Matto dalla sorella, si lascia convincere dal delinquente Leroy (un giovane Ving Rhames) a tentare l'impresa: andare a rubare un fantomatico tesoro in monete d'oro proprio nell'abitazione dei padroni di casa.

Questi sono una coppia di fuori di testa composta dal duo Everett McGill e Wendy Robie già rodato nel favoloso Twin Peaks di David Lynch nel quale già interpretavano una coppia fuori dal comune (erano la matta Nadine Hurley e il sano Big Ed). I due sono sadici squilibrati che tengono segregati nelle cantine della casa alcuni ragazzi (le persone sotto le scale del titolo originale e più calzante) tra i quali ne hanno scelta una da adottare come figlia. La casa è una sorta di fortezza nella quale a Leroy e Matto accadrà di tutto. La vicenda procede tra crudeltà (visivamente mai forti) e siparietti virati al comico, qualche situazione poco credibile ma tutto avvolto da quel senso d'avventura adolescente tanto caro alle pellicole di cui abbiamo già parlato.

E' proprio in quest'ottica che va visto il film di Craven, se non si sta a spaccare il pelo nell'uovo e ce lo si gode per quello che è il film potrebbe dare delle belle soddisfazioni a diversi miei coetanei. Se avete quell'età lì, quella giusta, fossi in voi lo proverei.


DUE O TRE COSE CHE SO DI LEI

(2 ou 3 choses que je sais d'elle di Jean-Luc Godard, 1967)

Dando un'occhiata alla locandina del film e conoscendone il titolo, viene quasi naturale pensare che quelle due o tre cose che un non ben definito qualcuno sa di lei siano riferite alla protagonista del film Juliette Janson (interpretata da Marina Vlady). Questa potrebbe essere senza ombra di dubbio una delle ipotesi che nel film fortemente destrutturato di Jean-Luc Godard si affastellano portatrici di dubbi fin dall'enigmatico titolo.

A visione ultimata mi sento di dire che questa è l'ipotesi meno probabile o quantomeno meno significativa. Più facile che la lei del titolo sia la moderna Parigi in piena mutazione sociale e urbanistica se non addirittura, abbracciando una visione di più ampia portata, la società contemporanea, quella dei tardi anni '60 nei quali il film è stato girato, quella che iniziava ad abbracciare con calore e affetto la spinta consumistica e una nuova morale.

Godard lavora su diversi elementi il più evidente dei quali è la ricerca di una costruzione narrativa diversa dai canoni, una narrazione che si potrebbe definire quasi una non-narrazione, una semplice osservazione forse, pur deviando sensibilmente anche da quello che è il comune sguardo documentaristico. In fondo il montaggio atipico è un pallino del regista fin dal suo esordio Fino all'ultimo respiro, qui la sua sperimentazione ha fatto ulteriori passi in avanti.

C'è un abbozzo di storia, ci sono diversi frammenti e molte riflessioni. Partito da un'inchiesta giornalistica sulla prostituzione di ragazze estranee alla professione, Godard ci mostra alcuni sprazzi della giornata di Juliette, donna benestante che si prostituisce con l'avallo del marito per concedersi qualche comodità in più, qualche oggetto, dei vestiti. Tutto è molto lontano dallo squallore, non se ne ha percezione se non distogliendo lo sguardo dalla donna e guardando una Parigi sempre più cementificata e modernizzata dai nuovi quartieri periferici dei casermoni abitativi.


Non c'è unità narrativa, ogni tanto la protagonista parla in macchina come se rispondesse a una sorta di intervista, ogni tanto esterna stati d'animo o malessere, nelle discussioni pacate con il marito per esempio, poi l'attenzione si sposta sugli oggetti, sui consumi, su piccoli accenni della vita moderna per bocca di altri personaggi.

I temi sono diversi, da quelli palesati più sopra agli accenni alla guerra del Viet-Nam, i costumi sociali, crucci esistenziali. Ne viene fuori una riflessione sperimentale che per quanto interessante è anche difficile da seguire per lo spettatore, oggi forse più di allora se non si affronta la visione con una sguardo storico. Per quanto Godard sia considerato un punto fermo della cinematografia mondiale con questo film riesce davvero poco a coinvolgere e a tenere desta l'attenzione di chi assiste alla realizzazione pratica del suo pensiero teorico.

Forse visto nel '67, film figlio del suo tempo, avrebbe dato l'impressione di uno sguardo sul futuro, cosa che probabilmente ancora gli si può riconoscere, non senza però piazzare qualche sbadiglio tra un frammento e l'altro film.


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