lunedì 29 febbraio 2016

OSCAR 1977 - I VINCITORI

Anche quest'anno sono stati assegnati i prestigiosi premi del cinema, gli Academy Awards che tanto fanno gola ad attori e registi. Come tutti gli anni anche questa volta alcune scelte della giuria paiono quantomeno discutibili, nonostante siano diversi i film in gara che si possono considerare opere di tutto rispetto e che probabilmente verranno ricordate con ammirazione finanche, diciamo, così per assurdo, nel lontano 2016.

Ma senza indugio alcuno passiamo a vedere quali sono i film e i volti che l'Academy ha deciso di premiare quest'anno, prendendo in esame solamente le categorie di spicco. Partiamo come di consueto dalla categoria più importante di tutte, quella che incorona il miglior film dell'anno, riconoscimento atteso da attori, registi e maestranze tutte.

And the winner is... rullo di tamburi... Rocky di John G. Avildsen. Ottimo film che indubbiamente si ritaglierà il suo posto d'onore nella storia del cinema, a concorrere contro il film interpretato dall'energico Sylvester Stallone c'erano però titoli importanti e impegnati come Tutti gli uomini del presidente, Quinto potere e Taxi driver. Quella dell'Academy sarà stata davvero la scelta più azzeccata?




Rocky raccoglie anche la sua seconda statuetta con il premio per la miglior regia andata a John G. Avildsen che mette nel sacco le prove dei colleghi Ingmar Bergman (niente meno), Alan J. Pakula, Sidney Lumet e Lina Wertmuller.




Arriva purtroppo postumo l'Oscar in qualità di miglior attore protagonista per Peter Finch in Quinto potere, l'attore è purtroppo scomparso nel gennaio ultimo scorso, a lui con affetto dedichiamo la stesura di questo post.




Quinto potere vince a mani basse nella categoria attori e attrici, garantendo anche alle sue donne, Faye Dunaway e Beatrice Straight, i prestigiosi premi dell'Academy, rispettivamente nelle categorie miglior attrice protagonista e non protagonista.







Sprazzi di gloria anche per Jason Robards e per il film Tutti gli uomini del presidente che portano a casa la statuetta nella categoria miglior attore non protagonista.




Segnaliamo ancora la vittoria nella categoria migliori costumi del nostro Danilo Donati per Il Casanova di Federico Fellini, quella per le musiche de Il presagio composte da Jerry Goldsmith e quello per la miglior canzone a Barbara Streisand con Evergreen.


venerdì 26 febbraio 2016

MARVEL VINTAGE 25 - FLEXO E BLUE BLAZE

Nel Marzo del 1940 la Timely Publications manda alle stampe il primo numero della quinta pubblicazione nel giro di sei mesi, l'albo dal titolo Mystic Comics. Nel primo numero di questa nuova collana non compaiono pezzi grossi della casa editrice bensì un'antologia di sette/otto racconti come era uso all'epoca. Da poco, sulle pagine di Marvel Mystery Comics, aveva esordito l'automa Electro ed ecco apparire subito dopo il robot Flexo, tra i protagonisti dei primi quattro numeri di Mystic Comics e anch'esso nello splendore del rosso e oro. Creato dalla coppia di medici (e fratelli) Williams, l'automa avrà come primo avversario il Dr. Murdo, il classico scienziato pazzo che non poteva stonare in un fumetto degli anni '40. Più che nello sventare piani criminosi a destra e a manca, Flexo veniva utilizzato da balia per i due dottori che ficcandosi spesso nei guai necessitavano di qualcuno (o qualcosa) che togliesse per loro le castagne dal fuoco. Oltre alle prime quattro apparizioni, dopo le quali il personaggio cadde nel dimenticatoio, Flexo venne brevemente ripreso per un'effimera apparizione nel serial degli Agents of Atlas dell'era moderna della Marvel Comics. Flexo è stato creato da William Harr e Jack Binder.









Oltre a Flexo, con il quale condivide gli stessi primi quattro numeri di Mystic Comics, appare qui per la prima volta anche Blue Blaze. Creato da Harry Douglas la storia del personaggio affonda nel lontano 1852, anno in cui il Dr. Keen, in seguito ai suoi esperimenti scientifici tenuti presso il Midwest College, scopre la misteriosa fiamma blu. Questa peculiare forma di energia, testata dapprima sugli insetti, era in grado di provocarne la morte con la sola particolarità che questi, passato del tempo, si rianimavano più forti e resistenti di prima. Causa un incidente in laboratorio la stessa cosa accadde al figlio del Dottor Keen, Spencer, che insieme al padre perì durante un tornado che devastò il laboratorio e in seguito venne regolarmente sepolto solo per risvegliarsi negli anni '40 del secolo successivo più in salute che mai. Nasceva così Blue Blaze.













martedì 23 febbraio 2016

IL SEGRETO DI TRISTAN BANTAM

(di Hugo Pratt, 1970)

Ciò di cui volevo parlare oggi non è solo la storia che dà il titolo a questo post, bensì il primo trittico di storie brevi che segue cronologicamente la prima superba avventura del maltese, Una ballata del mare salato. Quindi al primo racconto edito nel 1970, Il segreto di Tristan Bantam, si uniscono i successivi Appuntamento a Bahia e Samba con Tiro fisso. Nonostante tutti e tre gli episodi, come alcuni dei successivi, terminino con i protagonisti a bordo del battello di Corto Maltese, l'Oceano è un protagonista meno ingombrante rispetto a quanto lo era nella Ballata. Siamo a Paramaribo nel Suriname, Americhe del Sud, a poca distanza dalla Guyana Francese e dalla famosa Caienna. Corto riposa nella pensione di Madame Java dove farà la conoscenza di due personaggi centrali della trilogia, il Professor Steiner, un ex studioso erudito che ha barattato la sete di conoscenza con quella per il rhum e il giovanissimo Tristan Bantam, alla ricerca della sorellastra Morgana e sulle tracce del lavoro paterno, esploratore alla ricerca della civiltà perduta di Mu.

Il fascino misterioso che nella Ballata era dato dalla figura del Monaco è qui riscontrabile nella leggenda e nel mito della civiltà di Mu (e di Atlantide di riflesso) e dalla magia nera dei paesi dell'America del Sud, sia essa la macumba brasiliana o il vudù dei Caraibi. Tra strane premonizioni e lingue ormai dimenticate non mancano nelle storie di Pratt le macchinazioni dei classici gaglioffi votati al profitto personale, perfetti contraltari del Corto Maltese. Non che il marinaio non guardi i suoi interessi, per carità, ma Corto è il prototipo perfetto dell'avventuriero romantico, un personaggio perfettamente riuscito e irrinunciabile, dotato di un profondo senso del giusto e di umana pietà. In fondo il suo volto incorniciato dalla zazzera disordinata ci metterà davvero poco a conquistare la meritata fiducia del giovane Bantam e del Professor Steiner.

Mondi e culture che si incontrano, la vecchia europa e la superstiziosa Bahia, il giovane inglese ben educato e la sorellastra, veggente nera. Ma tra i due sarà proprio Tristan a vivere le prime esperienze extracorporee.

Il tratto di Pratt è ancora quello dettagliato, zeppo di linee, puntini e campiture di nero, un'esperienza visiva appagante mitigata solo nelle sequenze d'azione a dire il vero un poco legnose e che spesso trasmettono un senso di rigidità dei personaggi. Nel complesso, nonostante il fascino della Ballata resti ineguagliato, si ha sempre la consapevolezza di essere dentro il lavoro di un grande maestro e ai margini di una grande avventura destinata a proseguire nei successivi racconti brevi imbastiti da Pratt.


giovedì 18 febbraio 2016

A-Z: ANT TRIP CEREMONY - 24 HOURS

Gli Ant Trip Ceremony furono una rock band dedita alla creazione di musica psichedelica nata in uno dei periodi più promettenti per il genere. Siamo nel 1967 e il gruppo nasce e muore nell'arco di un paio d'anni legando indissolubilmente la sua breve vita all'esperienza al college di uno dei suoi fondatori, tal Steve Detray. La band come già detto durerà ben poco e non lascerà segni significativi nella storia della musica e nemmeno in quella più ristretta legata alla sola psichedelia. Unica testimonianza rimasta del loro passaggio è proprio questo primo e ultimo album dal titolo 24 hours, un titolo quasi profetico che in maniera beffarda sembra preannunciare la vita così effimera della band. E sì che la leggenda vorrebbe l'album prodotto addirittura dal noto David Crosby, cosa che non è, la voce nasce da un semplice caso di omonimia. Eppure la poca fortuna della band, che si scioglie senza tragedie in maniera del tutto naturale con l'esaurirsi dell'esperienza di studio di Detray, non trova riscontro nelle loro esibizioni live a cavallo del '67 e del '68, periodo in cui i loro show sembra fossero molto apprezzati per la capacità del gruppo di proporre celebri cover dilatandole a dismisura durante le loro esibizioni e dando un sapore fortemente psichedelico a brani nati più classicamente rock o blues. Purtroppo ben poco di questa loro attitudine traspare dalle tracce dell'album, dove il brano più esteso supera di poco i sette minuti (lo strumentale Elaborations) e dove anche le cover presentate non sfociano in improvvisazioni e rielaborazioni che avrebbero potuto rivelarsi degne di nota.

Non per questo l'album non può dirsi comunque piacevole sebbene nel complesso risulti forse un po' troppo uniforme. Però 24 hours ha il sapore giusto, quello necessario a trasportarti indietro nel tempo, sensazione aiutata probabilmente dai suoni dei vari strumenti usciti da una produzione già all'epoca non delle più moderne. I suoni suadenti e strascicati si uniscono alla voce debosciata di Roger Goodman, un insieme capace di cullare l'ascoltatore che intravede viaggi mentali, portali aperti su tunnel di luci e oscurità, ponti mentali verso luoghi piacevoli e avvolgenti, sensazioni di calore fomentate all'epoca sicuramente da roba buona. A dare quel tocco in più entra l'armonica, il mood è quello risaputo della psichedelia meglio esplorato da giganti che a farne qui i nomi si proporrebbero paragoni troppo scomodi e ingiustificati. Anche le cover riconducono allo stile Ant Trip Ceremony, a volte per la voce vibrata del cantante a volte grazie ai suoni di tutto il gruppo, tra pezzi lenti e qualche accelerata l'album scorre lungo il suo percorso nonostante non manchino gli imbastardimenti del rock di Hendrix, del blues di Willie Dixon o del funky soul di Allen Toussaint.

Non è stato il pezzo che ha cambiato la psichedelia e nemmeno mai lo sarà, un buon ascolto per chi apprezza il genere e un pezzo da collezione per i cultori, in origine 24 hours fu stampato in sole 300 copie, poi la band svanì e buonanotte ai suonatori.



24 hours, 1968 - Collectables

Steve Detray: chitarra solista
George Galt: strumenti vari
Roger Goodman: voce
Gary Rosen: basso
Jeff Williams: batteria
Mark Stein: percussioni

Tracklist:
01  Locomotive lamp
02  What's the matter now
03  Violets of dawn
04  Riverdawn
05  Hey Joe
06  Outskirts
07  Little baby
08  Get out of my life
09  Four in the morning
10  Sometimes I wonder
11  Pale shades of grey
12  Elaborations

mercoledì 17 febbraio 2016

EFFETTO NOTTE

(La nuit américaine di Francois Truffaut, 1973)

Uno sguardo d'amore sul Cinema, al cinema, col Cinema. Altro non può essere se non una pura e semplice dichiarazione d'amore per la settima arte quella che Truffaut, qui anche attore nella parte di un regista, mette in scena con questo Effetto notte. E con dichiarazione d'amore non s'intende che il Cinema, il fare Cinema, porti con se solo aspetti esaltanti e positivi, come in ogni storia d'amore, come in ogni matrimonio, dell'altro si sposano con trasporto tutti i pregi e i lati accattivanti e seducenti ma nel pacchetto ne si accettano anche limiti e difetti, così come allo stesso modo si apportano le proprie mancanze (spesso molte) e virtù in quantità variabile.

Ed è innegabile che Truffaut ami il Cinema. Qui lo dimostra raccontandoci una storia dove il film parla di un film, di un regista e della sua troupe, in un concatenarsi di situazioni chiaramente metacinematografiche. Si mette in gioco totalmente Truffaut, ritagliandosi il ruolo dello stesso regista che dirige il film nel film, ovvero il melodramma Vi presento Pamela che viene girato a Nizza negli studi della Victorine, luogo dove effettivamente è stato realizzato Effetto notte.

Per lo spettatore c'era (il film è del '73), e a mio avviso c'è ancora, la meraviglia della scoperta del dietro le quinte qui esposta nei suoi vari aspetti, dai problemi economico produttivi alla stanchezza e alla ripetizione delle scene, dal cameratismo della troupe al fascino di attori e attrici, dai loro capricci alla soddisfazione per un lavoro portato a termine, tutto trasuda amore. Emblematica una delle frasi che Truffaut mette in bocca a uno dei suoi personaggi: "Io per un film potrei piantare un uomo, ma per un uomo non pianterei mai un film".


Il regista Ferrand (Truffaut) sta portando avanti tra mille difficoltà le riprese del film Vi presento Pamela prodotto con capitali esteri e un cast internazionale. La storia narra di un giovane francese interpretato da Alphonse (Jean-Pierre Léaud) che si innamora in Inghilterra della bellissima ragazza interpretata dall'attrice inglese Julie Baker (Jaqueline Bisset). Portatala in Francia a conoscere i suoi genitori, la ragazza instaura da subito un buon rapporto con la suocera (Valentina Cortese) ma non potrà evitare di innamorarsi del padre del ragazzo, interpretato dal divo Alexandre (Jean-Pierre Aumont). I due fuggiranno insieme.

Le vite dei personaggi del film si incrociano con quelle non meno interessanti degli attori che li interpretano, a questi movimenti seguiti dalle camere, sia quelle che lo spettatore vede in scena che quelle che non può vedere, si aggiungono tutte le vicende proprie dei membri della troupe, tutte insieme a creare un affresco vivace e affascinante.

Un film sul Cinema che ogni appassionato dovrebbe vedere, difficile non trarne almeno un po' di piacere.


domenica 14 febbraio 2016

UNA NOTTE AL MUSEO

(Night at the museum di Shawn Levy, 2006)

Ogni tanto mi capita di essere in difficoltà a parlare di un film del quale si ha l'impressione che in fondo non ci sia poi molto da dire. E il film in questione magari non mi è nemmeno dispiaciuto. Perché farlo allora, perché parlarne? Mah... non so, forse perché qualcuno di voi, incuriosito dal titolo proposto, potrebbe portare in un commento la sua visione, la sua idea del film o di un particolare di esso, magari andando ad arricchirlo con qualche spunto o curiosità a me passata inosservata o chissà cos'altro. Prendiamo per esempio proprio il primo episodio del brand Una notte al museo. Cosa possiamo dire di un film che a me personalmente ha dato da subito l'idea di un film pensato per i sabati sera in famiglia, con un protagonista solitamente capace di accattivarsi la simpatia degli adulti e un immaginario fantastico per far sognare i bambini, con tanto di piccolo attore con cui immedesimarsi alla bisogna? Probabilmente poco, se non il fatto che il film mantiene quello che promette, un intrattenimento onesto e senza pretese, perfetto da accompagnare con patatine e bibita.

L'impianto visivo, scenografie ed effetti speciali compresi, svolge bene il suo compito, il protagonista Ben Stiller strappa la giusta dose di risate ed è ben supportato da un buon cast di contorno, la trama non riserva sorprese e la morale del film è edificante come ben si conviene a un film per famiglie. Ci si diverte? Beh, i bambini sicuramente si e agli adulti alla fine passa bene, certo che se siete appassionati di calcio (e io fortunatamente non lo sono più) e vostro figlio/a vuole guardare il film quando c'è Juventus-Napoli allora... Comunque, nell'ottica di assolvere alla funzione per cui nasce, direi che Una notte al museo è promosso.

La riflessione: c'è un Ben Stiller ben calato nella parte del papà forse immaturo (ma sempre innamorato follemente del proprio figlio), insicuro anche, o che semplicemente non si ritrova nella società che viene proposta, fatta di uomini di successo e lavori noiosi e seri (ma non importanti quanto si possa credere se il fine ultimo della vita non sono solo e solamente i soldi) e che viene chiamato alla grande impresa per riscattarsi agli occhi del proprio pargolo, impresa che immancabilmente sfocia nell'incredibile e nel fantastico. Chissà perché attore e personaggio non mi sono affatto dispiaciuti. Poi c'è un Robin Williams che funge un po' da coscienza e motivatore del protagonista, c'è la Carla Gugino protagonista femminile abbastanza accessoria e un trio di cariatidi davanti al quale togliersi il cappello per rapporto età/energia e parliamo di nientepopodimenoche Mickey Rooney (proprio quello), Bill Cobbs e Dick Van Dyke, il celebre spazzacamini di Mary Poppins.


La trama: Larry (Ben Stiller) non riesce a trovarsi un'occupazione stabile, cosa che diventa un problema agli occhi della ex moglie Erica (Kim Raver) e di riflesso di loro figlio Nick (Jake Cherry). Messo alle strette Larry accetta il posto di guardiano notturno al museo di storia e scienze naturali di New York. Viene introdotto all'incarico da un trio di vecchi guardiani in procinto di essere silurati per raggiunti limiti d'età i quali omettono di avvisare il novellino che il museo ha una piccola particolarità: di notte le statue in cera, le miniature e le riproduzioni presenti nel museo, prendono vita e animano le nottate del luogo di giorno votato alla cultura e snobbato dai Newyorkesi. Larry dovrà destreggiarsi tra scimmie dispettose, t-rex vivaci, personaggi del calibro di Teodore Roosevelt (Robin Williams), Jedediah Smith (l'immancabile Owen Wilson), Attila (Patrick Gallagher), Ottavio (Steve Coogan), Sacagawea (Mizuo Peck) e comuni furfanti. Sarà questa l'occasione per mettere a frutto la sua possibilità di riscatto.


venerdì 12 febbraio 2016

IL RITORNO DEGLI EWOKS

(Ewoks: The battle for Endor di Jim e Ken Wheat, 1985)

Ci si sono messi addirittura in due a dirigere questo film, un numero ben maggiore degli occhi che sono riuscito a tenere aperti durante la visione. Così, a naso, direi che se il primo episodio dedicato agli orsetti del pianeta Endor (o della sua luna) non si può proprio dire memorabile, questo secondo è ancor meno riuscito e coinvolgente, tanto da far storcere un poco il naso anche a mia figlia.

La trama in parole povere: mentre la famiglia Towani attende che la loro nave stellare sia pronta per ripartire, scoppia la guerra tra i pacifici Ewok e i belligeranti invasori del popolo dei Marauder (con motivazioni che sono proprio scappate dal mio cervello il quale non è riuscito a trattenerle). Fatto sta che spara che ti rispara dei Towani sopravvive solo la piccola Cindel (Aubrei Miller) che legherà così sempre più con il giovane Ewok Wicket (Warwick Davis) che dal film precedente a questo ha imparato i rudimenti del linguaggio terrestre. I Marauder al comando di Re Terak (Carel Struycken) sono convinti che uno dei pezzi dell'astronave terrestre sia un oggetto di potere e pretendono di carpirne i segreti dalla piccola Cindel che... zzzzzzzzzz... zzzzzzzzz... così Cindel fugge e entra in scena la strega Charal (Sian Phillips) capace, grazie a un anello magico, di tramutarsi in corvo e che... zzzzzzzzzz... zzzzzzzzzz... allora Teek, essere strano in grado di muoversi a velocità elevatissime, conduce il gruppo da Noa (Wilford Brimley), un altro umano bloccato sul pianeta. Dopo un primo momento di diffidenza... rooonf... roonf... "papo, ma stai russando, smettila"... si trovano nel rifugio dei Marauder per liberare Cindel e sfuggire a Re Terak.


Come nel primo capitolo diversi effetti speciali sembrano fermi ai tempi del mitico Harryhausen, il plot mi è sembrato soporifero e ancor meno intrigante (che poi intrigante è veramente una parola poco adatta all'occasione) di quello del suo predecessore. Meglio forse, un pelo almeno, il comparto trucco e parrucco. Comunque se qualche Sith di buona volontà e con un po' di palle decidesse di sterminarli tutti sti cazzo di Ewoks non sarebbe poi sto gran male, nella speranza che mia figlia non decida di voler vedere anche i cartoni animati.

In conclusione potremmo dire che... zzzzzzzzzzz... zzzz... scusate ma anche questo commento mi sta facendo cascare dal sonno. Buona notte.


mercoledì 10 febbraio 2016

THE HATEFUL EIGHT

(di Quentin Tarantino, 2015)

The hateful eight mi sembra rappresenti l'ennesimo passo avanti nel percorso, illuminato e grandissimo, di uno dei registi più originali dei nostri tempi. Attenzione però, perché con un passo avanti non intendo un passo verso il futuro, verso l'innovazione, verso la sorpresa ai fan inaspettata, no, niente di tutto questo. Più un passo avanti verso la maturità, verso il classicismo, verso la capacità di narrare alla sua maniera ma ripulita, almeno in parte, da esagerati orpelli. Missione compiuta? Non ancora, non ancora... solo un grande passo avanti.

Questo quindi cosa vuol dire? Che The hateful eight è finora il miglior film di Tarantino? No, a mio avviso nemmeno questo, Django ad esempio mi era piaciuto di più, anche se quest'ultimo l'ho apprezzato comunque molto. Ma qui si è sfiorata la creazione di un grandissimo western moderno di stampo classico, classicissimo. Musica, fotografia, ritmo, intreccio, prove attoriali e protagonisti di un western coi fiocchi in sentore di capolavoro mancato. E neanche di tanto. Il pregio maggiore del film sta nella cifra stilistica del regista, i difetti stanno invece nell'incontenibile cifra stilistica del regista, tutta la differenza in un unico fondamentale aggettivo (incontenibile conta come aggettivo, vero?).

Come si può non amare un western che propone scene come quelle della diligenza in viaggio tra le nevi del Wyoming accompagnata dalla musica di Ennio Morricone, sapendo che su quella diligenza poggia il fondoschiena gente del calibro di Samuel L. Jackson, di Kurt Russell, di Jennifer Jason Leigh e anche dell'ottimo Walton Goggins (mi toccherà davvero recuperare Justified)? Non si può. Come si può non amare un film che unisce al western un bel pizzico di mistero preso di prepotenza dal giallo classico e shakerato dal barman che tutti ormai conosciamo così bene? Non si può. E questo film, che rimane un gran bel film, sarebbe potuto diventare il capolavoro di cui sopra se Quentin avesse fatto anche un mezzo passo indietro, se avesse trattato i temi importanti del razzismo, della violenza, dell'individualismo che ancor oggi affliggono la società americana, risparmiandoci metafore fatte di pompini e grossi pali neri, economizzando su quelle spruzzate sanguinolente d'effetto che per carità, vanno bene e mi piacciono anche molto, ma che evitandole un pochettino secondo me sarebbe venuta fuori una roba da incorniciare e tramandare.


E quindi? E quindi niente capolavoro, solo un gran bel film. Da ricordare rimangono grandi interpretazioni valorizzate dai bellissimi primi piani ritagliati da Tarantino, un Samuel L. Jackson che sembra salire in cattedra quando è a contatto con il regista e una versatile Jason Leigh da applausi su tutti, molto apprezzato da me anche il veterano Russell, un vero bastardo a modo. Ricalca un po' troppo la parte già portata in scena da Christoph Waltz nel film precedente quella di Tim Roth, molto bene invece Walton Goggins, strambo al punto giusto. Completato da altri nomi noti tra i quali Bruce Dern, Channing Tatum e Michael Madsen, sul cast, con qualche piccola riserva, c'è poco da obiettare.

Un'altra cosa che a me è piaciuta parecchio è stata la scelta di Quentin di prendersi i suoi tempi, di non affrettare nulla, di ricamare sui personaggi, di creare il mistero fino a farlo sembrare l'enigma della stanza chiusa, di trasformare i suoi personaggi più in Poirot e i suoi sospettati che non nel gruppo di pistoleri de I magnifici sette. Certo, un gruppo di veri bastardi pieni d'odio, pronti a premere il grilletto e a levare di mezzo tutti gli altri, mica parliamo di stinchi di santo. Se solo Quentin facesse ancora un passo, uno solo, in questa direzione...


domenica 7 febbraio 2016

IL MONELLO

(The kid di Charlie Chaplin, 1921)

Il primo lungometraggio di Charlie Chaplin qui regista, attore, scrittore, sceneggiatore, produttore, montatore e compositore (un pigro), è più un film tenero e sentimentale che non la commedia piena di gag che ci si potrebbe aspettare da Charlot. Certo, in un bellissimo bianco e nero d'epoca, le gag e le scenette slapstick non mancano, ma non è certo la sola risata a crepapelle che un regista intelligente come Chaplin cerca per la sua opera. Durante i cinquanta minuti, tutti muti, di durata del film si pone l'attenzione sulla vita di stenti che le classi sociali più sfortunate sono costrette ad affrontare, sui luoghi della miseria, sui pochi oggetti della fame e sugli espedienti per contrastarla. Si racconta come una madre (Edna Purviance) sia costretta ad abbandonare suo figlio (Jackie Coogan) nella speranza di poter sognare per lui una vita migliore.

Con pochi intermezzi di dialogo Chaplin costruisce un film che non ha bisogno di parole poggiando su sentimenti universali e contando su una messa in scena ineccepibile, che mostra storture e slanci d'animo sempre con un occhio di riguardo per gli ultimi. Interessanti anche le sequenze acrobatiche che, viste nel 1921, sicuramente non avranno mancato di suscitare un certo stupore. Bellissima inoltre la sintonia venutasi a creare tra l'attore adulto e il bambino, quel Jackie Coogan che da grande diverrà lo Zio Fester della celebre famiglia Addams.

Come dicevamo una donna abbandona suo figlio appena nato, lo lascia in un'auto di lusso nella speranza che i proprietari si prendano cura del piccolo trovatello. Ma l'auto viene rubata e il fanciullo scaricato in un quartiere miserrimo su di un marciapiede sporco. Lo troverà Charlot (Charlie Chaplin), un pover'uomo che lo crescerà con l'amore di un vero padre. Nel frattempo la madre del bimbo diventa una donna ricca e famosa e vorrebbe ritrovare suo figlio.


Il monello è stata una bella variazione sul tema serata in famiglia, apprezzato anche da Laura nonostante l'assenza del sonoro e i cartelli dei dialoghi in inglese (che noi ovviamente le traducevamo). I temi sono alla portata anche dei più piccoli, il film potrebbe sembrare tanto semplice ma non dimentichiamo che si tratta di un'opera datata 1921 e in fondo amore, sofferenza e miseria non dovrebbero essere concetti così difficili da afferrare. Stupisce quanto ancor oggi il film sia bello da vedere, nelle immagini e nei sentimenti, accompagnato dall'inizio alla fine da un sottofondo musicale mai troppo invadente. Attratta inizialmente dal protagonista che già conosceva grazie al cartone animato Chaplin, per la nostra bimba potrebbe essersi aperta un'altra strada cinematografica da battere, in alternativa a animazione e film per ragazzi.


BEN COTTO E TAGLIATO A STRISCE

Il titolo del post è di quelli stupidi, ne sono consapevole. Il tema nascosto (ma neanche troppo) è l'hard boiled a fumetti, genere al quale appartengono, o al quale si possono ricondurre, due delle più recenti letture affrontate da queste parti. Prodotti diversi tra loro, per epoca di provenienza, per nazionalità degli autori coinvolti e per spirito. Sto parlando della recentissima e finora ultima in ordine di pubblicazione delle Miniserie Bonelli, Hellnoir, e della raccolta di racconti dedicata al detective privato Alack Sinner proposta anni or sono nella collana antologica della Mondadori dal titolo I maestri del fumetto (numero 12).

l'Alack Sinner di Carlos Sampayo e José Munoz è un personaggio che non sfigurerebbe di certo al cospetto delle ben più note creature di maestri del genere quali Hammett, Spillane o Chandler. Il personaggio, ma anche tutto il suo contorno, è talmente ben riuscito che la lettura del volume in esame non può non far nascere il desiderio di andare a recuperare anche le altre storie prodotte del detective privato (e a volte tassista). Queste non sono poi neanche molte, dovrebbero essere diciassette avventure delle quali purtroppo solo sei presentate nel volume, storie comunque per lo più slegate una dall'altra e indipendenti.

Nonostante le matite di Munoz siano spesso votate a ritrarre la figura umana accentuandone il lato più grottesco e deforme, nelle splendide tavole di Alack Sinner si respira un forte odore di realtà, di quella parte di realtà meno profumata, un odore acre che raramente concede un pizzico di retrogusto dolce e amabile. Come fa notare anche Barbieri nell'introduzione al volume la realtà qui sta nelle piccole cose, come nella bellissima apertura de Il caso Fillmore. La sveglia, puntata alle 09.00, suona. Sul comodino di Alack un posacenere colmo di mozziconi di sigaretta, un pacchetto aperto, un boccettino di Valium, una tazza di caffè vecchio, delle chiavi e una copia de The long sleep. Tagli di luce sul muro, Alack si mette a sedere, si accende la prima sigaretta della giornata. Infila le pantofole, in terra un quotidiano e una copia del Time. Si alza, apre la porta del bagno, allo specchio controlla la barba, piscia nella tazza continuando a fumare, tira l'acqua. Entra in cucina grattandosi la testa, il tavolo è ancora imbandito, il lavello tracima di piatti sozzi, prepara il caffè, mentre questo sale controlla la posta. Bevendo il caffè legge il giornale. Dopo essersi rasato si sciacqua la faccia e via in strada. Le tavole di Munoz sono in un bellissimo bianco e nero, carico, rude ed espressivo, i volti raramente sono belli, compreso quello di Alack, non troppo lontano dall'assomigliare spesso a una patata maltrattata. Eppure non si può fare a meno di ammirarle vignetta dopo vignetta.


Sampayo può permettersi tranquillamente di imbastire una storia intorno a una chiacchierata con Joe il barista, creare quelle trame all'apparenza ingarbugliate care al genere, rendersi protagonista in prima persona insieme a Munoz delle avventure vissute dalla loro creatura e tutto sembra funzionare con la giusta naturalezza. Un recupero integrale sarebbe cosa buona e giusta.


Più fantasioso invece l'hard boiled presentato da Pasquale Ruju e Giovanni Freghieri nella miniserie in quattro numeri Hellnoir. Ruju mi piace. Mi è capitato diverse volte in rete di leggere critiche a questo autore per i più disparati motivi. Però, con il passare del tempo, mi sono convinto che in fin dei conti a Ruju piacciano più o meno le stesse cose che piacciono a me e che quindi, anche quando l'autore non scrive racconti memorabili, io non possa fare a meno di divertirmi con le sue opere. Così è stato anche per la mini Hellnoir che presenta anch'essa un detective della scuola dei duri, in questo caso molto più stereotipato che vero, ma che in ogni caso funziona bene nonostante sia morto. E già, proprio morto. La città di Hellnoir è un'inferno dei tanti possibili, una città in cui molti degli abitanti (tutti morti di morte violenta) sono dei gran figli di buona donna, va da sé che il lavoro del detective sia qui particolarmente duro. I morti continuano all'inferno a fare il mestiere che facevano in vita (metafora?) con l'eccezione della figura del tutore dell'ordine qui appannaggio dei demoni Daem. Come in ogni noir che si rispetti non mancano donne fatali e bellissime e casi da risolvere.

Freghieri, nonostante il facile accostamento allo stile del Frank Miller di Sin City, realizza a mio avviso un lavoro ottimo, alternando vari stili e trovando nel corso dei quattro numeri diverse soluzioni grafiche originali e ben riuscite. Intriganti anche le copertine di Davide Furnò. Probabilmente in casa Bonelli quella delle miniserie è una delle iniziative editoriali più interessanti, sale già l'attesa per l'Ut di Paola Barbato e Corrado Roi.

Errata corrige: come fa notare Luca nei commenti, le storie di Alack Sinner sono più di diciassette, al momento non saprei quantificarne l'esatto numero.


sabato 6 febbraio 2016

VISIONI 61

Pierre Adrien Sollier, artista francese attivo in quel di Parigi, ama reinterpretare alcune famose tele in chiave molto pop andando a sostituire i personaggi ritratti negli originali con i divertenti ominzoli della Playmobil. Tra capacità, fantasia e un pizzico di nostalgia... sul suo sito si possono ammirare i lavori della sezione Museum e quelli inseriti nella rassegna Portraits. Qui sotto una selezione dei suoi lavori, tutti acrilico su tela. Clicca sulle immagini per ingrandirle.


La joconde



La latière



La liberté guidant le peuple



La redeau de la meduse



La tentation de Saint Antoine



La grande jatte



Le bal du moulin de la galette



Un bar aux folies bergères



Nighthawks



La persistance de la mémoire

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