sabato 30 aprile 2016

IL GIARDINO DELLE VERGINI SUICIDE

(The virgin suicides di Sofia Coppola, 1999)

E così abbiamo cominciato a capire un po' delle loro vite, scoprivamo memorie ed esperienze a noi sconosciute, sentivamo come sia imprigionante la condizione di ragazza, come rendeva la mente più attiva e sognatrice e come alla fine si faceva a capire quali colori andassero bene insieme. Scoprimmo che in realtà le ragazze erano donne travestite, che capivano l'amore e la morte, e il nostro compito altro non era che fare quel chiasso che sembrava affascinarle tanto, capimmo che sapevano tutto di noi e che noi non potevamo comprenderle affatto.

È incredibile come un film che fin dal suo titolo dichiari di trattare l'argomento morte sia così vitale, vivo, pieno di vita e di voglia di vivere. Certo, la frase risulta eccessivamente ridondante ma rende bene l'idea di un sentimento che non è mai straripante, debordante e neanche esteriorizzato dalle protagoniste, se non dalla Lux di Kristen Dunst, ma che sempre è ben presente fino al tragico epilogo del film. Perché in fondo questo film che parla di morte racconta la vita di cinque sorelle che vogliono solo vivere e quella vita assaporarla almeno un po'.

Siamo nel 1974, sobborghi di Detroit. In una di quelle villette a due piani con il pezzetto di prato sul davanti tipiche della provincia americana, abita la famiglia Lisbon. I genitori sono due tipi all'apparenza insignificanti, un professore un po' noioso (James Woods) e una casalinga bigotta con la fissa della religione (Kathleen Turner). Le loro figlie però sono tutte belle ragazze baciate da quella bellezza garantita dalla giovinezza, in bilico tra pura innocenza e spavalda provocazione. Cecilia (Hanna Rose Hall) ha tredici anni, Lux quattordici, Bonnie (Chelse Swain) quindici, Mary (A. J. Cook) sedici e Therese (Leslie Hayman) diciassette. Il film si apre con il tentativo di suicidio della minore delle cinque sorelle.

- Non hai ancora l'età per capire quanto diventi complicata la vita.
- Evidentemente lei dottore non è mai stato una ragazzina di tredici anni.



Grande esordio nel lungo per Sofia Coppola che dimostra di non essere solo figlia di cotanto padre (impressione poi confermata anche in seguito), la regista di concerto con tutto il cast riesce a trasmettere un'atmosfera di ovattato straniamento attorno a cinque esistenze adolescenti ingabbiate da una routine familiare opprimente, molto attenta alla forma e alla mania religiosa e poco a esigenze e sentimenti di quelle che sono età delicate. Interessante vedere per ogni sorella la reazione differente all'isolamento dettato dai genitori e il loro modo di rapportarsi con gli altri (i maschi in particolare) nelle occasioni scolastiche. Centrale sarà la parte giocata dal fighetto di turno, Trip Fontaine (Josh Hartnett/Michael Paré), invaghitosi della più provocante delle sorelle, Lux Lisbon.

Spesso molto toccante il ruolo giocato dal gruppetto di ragazzi della zona affascinati dalle cinque bionde ai quali tocca il compito di voce narrante della vicenda, mai pesante o fastidiosa, anzi capace di regalare stralci di pensieri profondi e commoventi (vedi intro del post). E se gli adulti sembrano non avere strumenti per capire i disagi di queste ragazze, sono proprio i loro coetanei maschi, seppur indietro in maturità come sempre accade tra maschi e femmine, ad arrivare più vicini al sentire delle sorelle Lisbon. Il giardino delle vergini suicide è uno di quei film nati per diventare piccoli cult, un film graziato anche dalla delicata e azzeccatissima colonna sonora degli Air che sottolinea gli intensi passaggi di una vicenda difficile da dimenticare.

mercoledì 27 aprile 2016

SUMMER WARS

(Sama Wozu di Mamoru Hosoda, 2009)

Dopo aver visto tempo fa Wolf Children siamo tornati sulle opere di Mamoru Hosoda ancora una volta con parecchia soddisfazione. Se in Wolf Children, posteriore a questo Summer Wars, si giocava molto con il contrasto tra mondo reale e quello del fantastico, questa volta lo scarto si presenta tra la vita reale e quella virtuale, argomento quanto più attuale possibile.

Kenji è uno studente molto timido e impacciato con una dote particolare per la matematica e le materie scientifiche, insieme a un suo compagno di scuola ottiene un piccolo lavoretto in Oz, una grande comunità virtuale all'interno della quale le persone sbrigano diversi compiti legati alla vita reale di tutti i giorni. Chi entra in Oz controlla un suo avatar tramite il quale potrà avere una vita virtuale oppure pagare le bollette, gestire vari aspetti della propria quotidianità o lavorare usando tutti i sistemi connessi a questa grande rete. Il lavoro di Kenji è ai margini della rete, un compito insignificante, così quando la compagna di scuola Natsuke gli propone un lavoretto estivo fuori città Kenji accetta di buon grado, attratto anche dalla bellezza della ragazza. Il lavoro consiste nell'organizzare la festa del novantesimo compleanno della nonna di Natsuke in occasione del quale Kenji avrà modo di conoscere l'allargatissima famiglia della ragazza.

Presto però Kenji verrà invischiato in un attacco sistematico alla realtà di Oz architettato dall'intelligenza artificiale conosciuta come Love Machine. L'attacco provocherà grandi danni anche al mondo reale, a contrastare Love Machine, oltre a Kenji, ci sarà l'avatar di un cugino di Natsuke, il celebre King Kazma.


Molto ben realizzata la vicenda sui due piani dell'esistenza reale/virtuale resa al meglio anche dal contrasto grafico tra la campagna giapponese in animazione classica e la realizzazione del mondo di Oz che richiama le forme del digitale facendo sfoggio di pixel e creature fantastiche (gli avatar). Volendo nel film ci si può leggere il bisogno di staccare da questa realtà digitale sempre più invadente e potenzialmente alienante e dannosa per riscoprire i legami familiari e l'affetto per le altre persone, unico punto fermo per trovare solidarietà e risolvere i problemi.

I temi messi in scena da Hosoda sono ancora una volta stimolanti, non resta che continuare ad approfondire il percorso del regista con La ragazza che saltava nel tempo e The boy and the beast.


domenica 24 aprile 2016

LA MALA EDUCACIÓN

(di Pedro Almodovar, 2004)

Tanti i temi e gli spunti potenzialmente interessanti messi in scena da Almodovar ne La mala educación, alcuni ricorrenti e finanche abusati nella cinematografia del regista, altri ancora tutti da esplorare. Temi che sono tutt'oggi elementi di estrema attualità, capaci ancora di dividere opinione pubblica e coscienze, taluni sono brutture che costellano regolarmente le colonne più odiose dei fatti di cronaca di ogni latitudine. Si parla di pedofilia ecclesiastica, infanzie rubate, turbate e, come spesso accade nel cinema del regista spagnolo, di relazioni omosessuali. Tra tutti questi elementi di potenziale interesse, ciò che nel film cattura davvero l'attenzione, a mio avviso non è nulla di tutto ciò bensì banalmente la costruzione dell'intreccio tra le vicende dei vari personaggi, indipendentemente da pedofilia, omosessualità e via discorrendo, quasi come si si stesse assistendo a un comune thriller o a un qualsiasi film dove aspetti solo di vedere cosa stia lì lì per accadere.

Il lato positivo della questione è che tutto ciò rende il film abbastanza avvincente e ben riuscito, piacevole da guardare indipendentemente dalle tematiche proposte. Il rovescio della medaglia può essere il sentore di un'opera vagamente e inutilmente  pretenziosa che tira in ballo realtà scomode e odiose (pedofilia), altre ampiamente dibattute, accettate e che producono scandalo solo nella mente di retrogradi bacchettoni (omosessualità), senza realmente approfondire o creare una storia potente intorno ad esse. Per spiegare meglio cosa più ho trovato riuscito nel film dovrei spoilerare un po' troppa trama, cosa che qui non ho intenzione di fare, diciamo solo che il meglio l'ho trovato nella costruzione del personaggio interpretato da Gael Garcia Bernal.


È come se Almodovar si aggirasse imprigionato in una struttura ormai difficile da abbandonare oltre i muri della quale si intravedono nuove vie luminose da percorrere, vicine ma allo stesso tempo un po' difficili da raggiungere. Questa è l'impressione. Come dicevo La mala educación mi sembra un bel film che magari può non avere la potenza di un Tutto su mia madre (che mi colpì molto tanti e tanti anni fa) ma che rimane sicuramente un film da guardare.

Ignacio (Gael Garcia Bernal), dopo molti anni di lontananza, torna a trovare il suo vecchio amico Enrique (Fele Martinez) con il quale aveva condiviso gli anni dell'infanzia passati al collegio cattolico. Oggi Enrique è un regista in ascesa, Ignacio un giovane attore in cerca della sua prima occasione e autore del racconto La visita nel quale descrive parte della sua vita al collegio, l'attrazione omosessuale provata in tenera età per lo stesso Enrique e le attenzioni ricevute dal sacerdote Padre Manolo (Daniel Giménez Cacho). Il materiale è buono per un film che andrebbe a scoperchiare vicende vecchie e dolorose riesumando le conseguenze di infanzie spezzate, dolori e amori sopiti e indicibili reati.

Nonostante la banalità dell'attacco all'istituzione cattolica la trama riserva diverse sorprese aiutate dall'alchimia tra interpreti indubbiamente bravi. Buona la fotografia e la scelta dei colori che richiamano ottimamente il periodo dei 70, devo ammettere che pur non nutrendo particolare interesse per il cinema di Almodovar alla fine La mala educación non mi è dispiaciuto per niente.


mercoledì 20 aprile 2016

CENERENTOLA

(Cinderella di Kenneth Branagh, 2015)

Kenneth Branagh, regista e attore ormai più che navigato, nel dirigere questo Cenerentola non si concede grosse divagazioni dalla versione della fiaba che tutti ormai conosciamo grazie al celebre film d'animazione targato Disney. Regista che si porta appresso il suo marchio di fabbrica di autore classico o shakespeariano, sotto questo punto di vista non delude e confeziona un film tanto impeccabile quanto poco originale. Questa è la versione live action che probabilmente tutte le bambine e tutti i bambini vorrebbero vedere dopo essersi gustati, magari anche più volte, il dvd del dodicesimo Classico Disney datato 1950.

Per gli adulti il discorso potrebbe essere diverso: certo, questa è proprio Cenerentola, quella classica, con pochissimi scarti. Missione compiuta quindi. Il dilemma per gli adulti potrebbe solo essere se si senta o meno l'esigenza di guardare una trasposizione live action fedele alla fiaba. Una volta trovata la risposta al quesito, se la risposta è si, allora il film non è affatto da buttar via, sapete cosa state andando a guardare.

Nel cast anche un paio di nomi interessanti: l'affascinante Cate Blanchett nei panni dell'odiosa matrigna, che a dirla tutta offre qui un'interpretazione troppo di maniera e affettata, nonostante ci si muova all'interno di un film di stampo classico tratto da una fiaba, ed Helena Bonham Carter, più convincente nei panni della fata madrina, per una volta non coperta da ettolitri di trucco e mascherame vario.


Alla vicenda viene aggiunto un breve prologo che illustra la vita idilliaca di Cenerentola (Lily James) quando ancora viveva felice con mamma (Hayley Atwell) e papà (Ben Chaplin), poi il tram scorre sui binari già posati in precedenza.

Ben costruito visivamente, il lavoro fatto su costumi e inserti digitali è sfarzoso, adatto nei momenti di punta al racconto principesco. Non c'è nulla e nessuno che stoni nella vicenda, tutto fila liscio a parte la troppa arrendevolezza di Cenerentola nei confronti di una matrigna che la tiranneggia in una casa che fino a poco tempo prima era stata sua e dei suoi genitori. Ma il motto della protagonista in fondo è quello di essere sempre gentile con tutti, anche con quella merda della sua matrigna, perché alla fine la gentilezza non costa nulla e sempre, sempre, verrà ripagata. Siate gentili in fondo non è un cattivo insegnamento, tra l'altro nemmeno troppo abusato nel cinema rivolto ai più piccoli. Se l'idea vi garba il film alla fin fine si lascia anche guardare bene.


lunedì 18 aprile 2016

MARVEL VINTAGE 26 - BREEZE BARTON e PHANTOM REPORTER


Sul numero di Aprile di Daring Mystery Comics (siamo nel 1940) fa il suo esordio il soldato proveniente da una realtà alternativa Kurt Breeze Burton. Siamo all'epoca della Seconda Guerra Mondiale in una realtà in cui gli scontri tra esercito americano ed esercito giapponese si estendono fin nei territori dell'Africa nera.

Proprio in uno di questi scontri l'aereo di Breeze Burton precipita nel deserto africano. Sopravvissuto all'impatto il soldato riesce a trascinarsi fino alla città di Miracle City, spesso scambiata dai viaggiatori del deserto per un mero miraggio. Qui a Burton viene spiegato come nel raggiungere la città lui abbia attraversato le dimensioni finendo ignaro in una realtà alternativa e in una città dove il tempo non scorre. A Burton non resta che trovare un modo per invertire l'effetto del portale (finora a senso unico) al fine di tornare alla sua Terra. Ma il popolo demone è in agguato.

Creato da Jack Binder il personaggio colleziona solamente tre apparizioni nel 1940 per essere poi proiettato in epoca moderna, per la precisione nel primo numero di Marvel Zombies Destroy! del 2012. Reclutato da Howard il Papero per arginare la piaga zombi finirà letteralmente per essere aperto in due dalla versione zombizzata del principe Namor. Poca gloria per il nostro Breeze.


Nello stesso numero della testata nasce un eroe classicissimo nella costruzione ma che ebbe vita breve nell'epoca Timely, questa rimane infatti la sua unica apparizione nei comics di quegli anni. Eppure il soggetto doveva avere del fascino dalla sua perché venne poi ripreso sia da Straczynski per il suo The Twelve sia da Brubaker su The Marvels Project.

Dick Jones, questa la vera identità di Phantom Reporter, è un giornalista come il più noto Clark Kent ma sfoggia una terza identità da filantropo milionario alla Bruce Wayne sotto il nome di Van Engen. Sportivo che eccelle in diverse discipline, conosce i retroscena delle attività criminali grazie al suo lavoro di giornalista. Schifato da come la legge non punisca malfattori e corrotti si inventa questa identità segreta per portare un po' di ordine e di giustizia. Più classico di così!

Dopo diverse azioni in tempo di guerra, Phantom Reporter, insieme ad altri eroi mascherati, fu messo in animazione sospesa dai nazisti che avevano l'intenzione di usare gli eroi come cavie per i loro esperimenti scientifici. Con la sconfitta dei nazi gli eroi furono dimenticati e riportati in vita solo nel lontano 2008 proprio nella miniserie The Twelve nella quale, oltre agli avversari di turno, gli eroi dovranno affrontare l'epoca moderna.

The Twelve

giovedì 14 aprile 2016

SI, IO VOTO


Chi conosce questo blog e lo segue da tempo sa che non sono solito occuparmi di politica, non perché non me ne interessi ma semplicemente perché spesso mi sento poco preparato e anche molto incline all'arrabbiatura facile che poi è praticamente sempre fine a se stessa. Quindi evito. Quando però mi sembra che ci siano argomenti che valgano la pena essere toccati mi affido volentieri all'amico Nick di Come un killer sotto il sole con il quale spessissimo condivido i punti di vista.

Domenica si vota. Facciamo una scelta. Vi lascio alle parole di Nick.


Anche se hanno fatto di tutto per tenercelo nascosto, domenica si vota. E nonostante quello che ci hanno lasciato intendere, il referendum sulle trivelle è una tornata elettorale di importanza cruciale. Lo è per svariati motivi, a partire da quel semplice principio di educazione civica, ribadito giorni fa dal Presidente della Consulta, per cui il diritto-dovere di voto è il più rilevante segno distintivo del nostro essere cittadini. Votare domenica, dunque, rappresenta, in primo luogo, una significativa risposta a questa politica che ci vuole distanti dalle decisioni e rassegnati a un paese senza più alternative e speranze. Non solo. Recarci alle urne sarebbe anche il modo migliore per mettere Renzi di fronte alle sue pesanti responsabilità politiche: quella di aver invitato all'astensionismo, commettendo un grave reato, peraltro perseguito per legge, e quella, ancora più grave, di aver impedito l'election day, e cioè l'accorpamento del referendum alle elezioni amministrative, cosa, questa, che avrebbe consentito all'erario un risparmio di circa trecento milioni (il rischio, per Renzi, era quello che il referendum raggiungesse il quorum).
Resta poi la sostanza di un quesito referendario, volutamente occultato dai media per confondere ulteriormente le idee all'elettorato italiano, solitamente poco informato.
Ecco, dunque, la vexata questio, brevemente e in soldoni: il governo Renzi vuole estendere illimitatamente (fino ad esaurimento del giacimento) le concessioni a quelle lobbies petrolifere, che trivellano il nostro fondo marino per l'estrazione di gas (3% del fabbisogno nazionale) e di petrolio (1% del fabbisogno nazionale). Se voti SI, sei contro; diversamente, col NO, asseveri la scelta del governo. Sul piatto della bilancia, dunque, ci sono da un lato, la salvaguardia dell'ambiente marino e delle nostre coste, dall'altro, invece, tanti piccoli e grandi vantaggi per i petrolieri.
Già sappiamo da tempo che in caso di crollo anche di una sola piattaforma (Terremoto? Cedimento strutturale? Incendio?), l'impatto ambientale sarebbe disastroso e metterebbe in ginocchio l'Italia, con ripercussioni sull'ecosistema e sull'economia che si potrebbero riverberare anche per 80 anni (qualora l'evento, ad esempio, si verificasse nel Mar Adriatico). Ora, con l'estensione ad libitum della concessione, si invitano implicitamente le compagnie petrolifere ad attenuare il rispetto di quei vincoli ambientali, che fino ad adesso sono stati il presupposto per il rinnovo della concessione stessa. Il rischio, dunque, diviene altissimo, a fronte, peraltro, di un vantaggio energetico per il paese praticamente impalpabile. L'altro aspetto saliente è quello relativo alla dismissione delle piattaforme, operazione i cui costi spettano tutti al concessionario. Oggi, le piattaforme che hanno esaurito o quasi esaurito il loro ciclo industriale sono circa il 73% delle 88 presenti nel nostro mare. I concessionari, che sono obbligati per legge, dovrebbero rimuoverle tutte, con un costo a carico delle compagnie petrolifere di circa 30 milioni di euro a piattaforma. Se, invece, le concessioni fossero illimitate...beh, continuate voi il ragionamento.
Fatto questo lungo preambolo, volto chiaramente a sostenere le ragioni della partecipazione e del SI, chiudo invitando tutti, domenica, a recarsi alle urne, qualunque sia la vostra intenzione di voto. Come successe coi boicottati referendum dell'acqua del 2011 (allora, era in carica il morente governo Berlusconi), se saremo in tanti, potremmo riprenderci ciò che stanno cercando di portarci via, giorno dopo giorno: la possibilità, cioè, di decidere delle nostre vite e delle sorti del nostro paese. Di essere cittadini a tutto tondo. Questo, in attesa dei referendum di ottobre, quando potremo salvare la nostra Costituzione e mandare a casa Renzi e tutto il cocuzzaro. Andate a votare.

martedì 12 aprile 2016

THE BURNING PLAIN

(di Guillermo Arriaga, 2008)

Il gioco di storie a incastro messo in scena da Guillermo Arriaga, già sfruttato dallo sceneggiatore (qui anche regista) in film come 21 grammi ad esempio, è già noto e deve piacere. La verità è che da queste parti il gioco piace, e anche parecchio. La meccanica del raccontare vite apparentemente estranee le une alle altre e il successivo confluire delle stesse in un'unica trama, mantiene inalterato ai miei occhi tutto il suo fascino, e Arriaga si dimostra capace di gestire al meglio questo strumento.

Ad accomunare le vite in questione, principalmente femminili, sono le cicatrici del corpo e dell'anima. Gina (Kim Basinger) è una donna di una certa età, ancora piacente, che vive ai confini con il Messico con la sua numerosa famiglia. La sua cicatrice la porta sul petto e nella testa, sopravvissuta a un cancro al seno non riesce ad accettarne l'assenza in seguito all'asportazione. Ad aiutarla ci sarà un amore clandestino, l'amore di Nick (Joaquim de Almeida), padre di Santiago (J. D. Pardo). Sylvia (Charlize Theron) è una donna molto bella e altrettanto triste, una donna di successo che gestisce un ristorante di lusso. Si intuisce che le sue cicatrici provengono dal passato, dolorose come quelle che di tanto in tanto si autoinfligge sulle carni. Nella sua vita c'è qualche rimorso, qualche mancanza che tenta di compensare (ma potrebbe essere l'ennesima autopunizione) con un inutile carosello di uomini nel suo letto. Maria (Tessa Ia) ha undici anni, la sua cicatrice ce l'ha in bella vista in mezzo alla fronte, ricordo di una banale caduta, ma di certo nella sua pur breve vita non è quella la ferita che ha fatto più male. Mariana (Jennifer Lawrence) frequenta Santiago e ha una cicatrice da bruciatura al polso, nello stesso punto dove ce l'ha lui. A lui ha fatto molto male, a lei apparentemente no. Gli eventi importanti della vita, i traumi più che le gioie, sono cicatrici che ci accompagneranno per sempre, questo sembra dirci Arriaga, e tutte hanno il loro peso, alcune possono schiacciarti, con altre si può imparare a convivere.


Una storia dolorosa, indubbiamente, ma di quelle che val la pena guardare con trasporto e interesse. Arriaga mette in scena un cast femminile sublime che tocca le punte più alte in alcuni passaggi interpretativi della Lawrence ma tutte le protagoniste, ognuna con un dolore diverso, rendono giustizia alla loro (parte di) storia. Storie calate in una fotografia per lo più desertica e straniante, in un terreno duro e difficile come le esistenze raccontate nel film.


Il modo in cui i nodi si sciolgono e il filo si dipana in un'unica linea retta non presenta sbavature di sorta, il lavoro di Arriaga funziona e lascia anche il segno. Ultima segnalazione per la bella colonna sonora che in più di un passaggio ha catturato la mia attenzione solo per scoprire in seguito che ne è principale artefice Omar Rodriguez-Lopez, fondatore degli apprezzabili At The Drive-In prima e dei The Mars Volta poi, praticamente una sicurezza.


lunedì 11 aprile 2016

LA VENDETTA DI RA

(di Alfredo Castelli e Giancarlo Alessandrini)

Per questo secondo appuntamento con i vecchi albi di Martin Mystère, più che sulla storia in sé, vorrei spendere due parole su alcuni degli elementi chiave che hanno contribuito a decretare poi il successo dell'albo del buon vecchio zio Marty. Ricordiamo intanto che si era al principio degli anni '80 e che ogni singolo albo costava 700 delle vecchie lire. Del look del personaggio e della cifra artistica della serie, a partire dalle copertine, abbiamo già accennato la volta scorsa a proposito del lavoro di Alessandrini. Da dove partire dunque? A rischio di ripetersi un pochettino prendiamola pure larga ribadendo l'approccio cultural misterioso alle storie, capaci di garantire e amalgamare al meglio il piacere della conoscenza (fruibile come mero intrattenimento ma anche come spunto per approfondimenti vari) al thrilling del mistero. I misteri trattati nei vari albi acquistano grande fascino soprattutto in virtù del fatto di essere basati su teorie realmente ipotizzate da studiosi e archeologi e su dilemmi sui quali ancora oggi spesso non è stata fatta piena chiarezza. Se a tutto questo aggiungiamo l'interpretazione fantastica e avvincente data da Castelli ai diversi argomenti trattati il gioco è bello che fatto.

Nell'albo in questione ad esempio Martin e Java sono alle prese con la teoria che vuole gli abitanti dell'antico Egitto capaci di viaggiare oltre oceano procurando di conseguenza contatti e influenze culturali tra la loro civiltà e quelle Maya del Centro America. Un primo elemento si identifica quindi con una matrice divulgativa e portatrice di conoscenza. Infatti, oltre ad approfondire le teorie attorno alle quali ruotano le storie, non è inusuale grazie alla lettura di Martin Mystère ampliare il proprio sapere nelle materie più disparate: storia, geografia, curiosità, antiche civiltà, etc...

La scenata di Diana
Ma non di sola cultura vive l'uomo, ecco quindi la giusta dose di azione e intrighi che si confà al fumetto popolare italiano (e non solo). Secondo elemento interessante, proprio in quest'ottica, sono gli avversari che dopo solo un paio di numeri si propongono come agguerriti e insidiosi. Abbiamo già detto degli uomini in nero, in questo numero appare per la prima volta, prima celato e poi in tutto il suo splendore, l'arcinemico Sergej Orloff, un tipaccio di cui ancora poco si conosce se non la certezza di turbolenti trascorsi col nostro Mystère. Già da questo numero la presenza di Orloff, seppur velata per l'intero albo, risulta già incombente e minacciosa.

Diversi sono invece i tormentoni che andranno a caratterizzare la serie spesso sobbarcandosi il compito di sdrammatizzare, divertire e fungere da interludio. Vediamone qualcuno. Spesso il protagonista, a causa della sua professione di scrittore misterioso (poi di divulgatore televisivo), verrà tacciato di cialtroneria dai più scettici, questo non impedirà al buon Martin di essere ambito tra le esponenti del gentil sesso (tanto le giovani quanto le vecchie). Da qui la ricorrente gelosia della bellissima fidanzata Diana, tanto collerica quanto incline alle pubbliche scenate.

Non sono secondari gli elementi scenici come la bella casa nell'elegante sede di Washington Mews al numero 3 (New York) e la Ferrari guidata dal protagonista. Spostandoci nel campo del fantastico si può accennare alle due pistole, altro elemento in comune tra loro, possedute da Mystère e da Orloff di fattura indubbiamente aliena.

Altro tema fondamentale è il viaggio, l'esplorazione e la conoscenza di luoghi lontani ed esotici. In soli due numeri abbiamo già visitato New York, la Grecia, fatto un salto in Messico e in Guatemala (con tanto di incontro con un attempato Jerry Drake) per poi approdare in Belize.

Insomma, gli elementi per imbastire storie valide e divertenti sono molti, Castelli e Alessandrini hanno saputo sfruttarli al meglio per diverso tempo, ma soprattutto Martin Mystère rappresenta il fascino della conoscenza, un fascino praticamente inesauribile.


sabato 9 aprile 2016

IL VIAGGIO DI ARLO

(The good dinosaur di Peter Sohn, 2015)

Negli ultimi tempi sembra proprio che i Pixar Animation Studios e la Walt Disney Pictures si divertano a scambiarsi i ruoli e a sorprendere lo spettatore. Il viaggio di Arlo, pur essendo targato Pixar, sembra proprio uno di quei classici prodotti Disney pensati per un pubblico di piccoli e giovanissimi, privo di grandi sovrastrutture fruibili solo dai grandi. Con questo non voglio dire che il film per i grandi non sia godibile, anzi tutt'altro, che tornare bambini ogni tanto non ha mai fatto male a nessuno. In fondo pensiamoci bene, ognuno ha il proprio ruolo, ma non è forse più grave che a un bambino si chieda di comportarsi come un adulto che non che un adulto ogni tanto goda della felicità di tornare bambino (felicità che ad ogni bimbo non dovrebbe mai essere negata tra l'altro)? Quindi, grandi o piccini che siate, godetevi pure questo Il viaggio di Arlo che però ai più piccoli non risparmia qualche momento triste e il versamento della classica lacrimuccia.

 Molto carino e intrigante l'assunto da cui muove il film. Siamo all'epoca dei dinosauri (Arlo è un apatosauro), l'enorme meteorite che avrebbe dovuto estinguere i grandi rettili per un caso del destino lambisce solamente la Terra così i dinosauri continuano tranquillamente il loro percorso evolutivo. Quando sulla Terra arriverà l'uomo, i dinosauri avranno già sviluppato una certa intelligenza, avranno scoperto l'agricoltura, il concetto di famiglia e la vita stanziale. L'uomo invece è il solito selvaggio senza arte ne parte.


Il film è un invito ad affrontare e superare le proprie paure, uno dei tanti insegnamenti di cui i più piccoli (e non solo) possono fare tesoro. Arlo è un cucciolo di apatosauro molto pauroso. Suo padre Henry ha fiducia che il piccolo supererà le sue paure, gli affida così il compito di sorvegliare le loro scorte alimentari spesso razziate da un misterioso predatore che in seguito si rivelerà essere Spot, un cucciolo d'uomo veramente selvatico. Nella caccia all'uomo che scaturirà da questa situazione papà dinosauro perderà accidentalmente la vita e Arlo, perso e lontano da casa, incolperà l'incolpevole Spot della tragedia. Ma nel corso dei giorni seguenti Arlo imparerà a conoscere il piccolo Spot che diverrà inizialmente una sorta di protettore del pavido Arlo e in seguito un amico fedele capace di insegnargli involontariamente (con l'aiuto di altri personaggi) a superare le sue paure.

Gioca sulla semplicità e sulla commozione il film di Sohn tra l'altro tecnicamente impeccabile. Nelle scene in cui sullo schermo compare solo la natura sembra di trovarsi di fronte a un dettagliatissimo documentario filmato, qui la CGI raggiunge livelli impressionanti. Molto cartooneschi come si conviene a film di questo tipo i design dei protagonisti, simpatici e accattivanti per il gusto dei bambini.

In un confronto Disney vs. Pixar ammetto che quest'anno, come già successo in passato, ho preferito il lavoro di Disney (Zootropolis) ma anche Il viaggio di Arlo non è affatto male. Promossi entrambi.



martedì 5 aprile 2016

BATMAN V SUPERMAN: DAWN OF JUSTICE

(di Zack Snyder, 2016)

L'idea che continua a tormentarmi dopo aver visto il film di Snyder è che in casa DC Comics sia partita un'inevitabile quanto potenzialmente dannosa rincorsa alla Marvel (e ai Marvel Studios) tanto impellente e affrettata da aver tolto lucidità a un progetto che poteva essere qualcosa di talmente grandioso (e non lo è stato) che se ben realizzato neanche la Marvel avrebbe mai potuto eguagliare, semplicemente perché due grossi calibri come Superman e Batman la Marvel non li ha. Però alla Marvel sembrano esser stati più bravi e lungimiranti nella creazione del loro Cinematic Universe e decisamente in anticipo sui tempi della Distinta Concorrenza che fa qui un po' la figura dell'inseguitrice affannata.

Giochiamo subito a carte scoperte: nel complesso a me Dawn of Justice non è dispiaciuto, ha diversi buoni momenti, due personaggi ben delineati (però con almeno una grossa incoerenza a mio avviso) ed è visivamente accattivante soprattutto per quel che riguarda il look di Bats e i suoi gadget (ah, come vorrei uno di quei batarang). I problemi però ci sono e sono parecchi, non sarebbe giusto ignorarli.

Il plot risulta in alcuni passaggi un po' confuso e poco bilanciato (eccessivamente pacata e lenta la prima parte, troppo affrettata la seconda) con diversi momenti poco credibili o sballati, poi chiamatele incoerenze, buchi di sceneggiatura o come vi pare, qualche mancanza c'è. Vediamone qualcuna (rischio spoilerini). Partiamo da Lex Luthor (Jesse Eisenberg): incomprensibile come abbia tutta questa dimestichezza con una tecnologia aliena, quella kryptoniana, che per lo più dovrebbe risultargli estranea, non entriamo poi troppo nel merito dell'interpretazione del personaggio data da Eisenberg, anche bravo se vogliamo ma eccessivamente schizzato e sopra le righe (e un tantino giovane), che va a creare una versione del cattivo di turno quantomeno originale. Gestione del personaggio e delle sue mosse al limite della forzatura, può piacere e può non piacere.

Altra incoerenza è il comportamento poco probabile dei politici statunitensi durante l'attacco di Doomsday che riescono in circa trenta secondi a evacuare una città (io ci metto di più a evacuare il contenuto del mio intestino, fate un po' voi) e a lanciare una testata nucleare. Mmmm, Bocciati. Altra cosa che mi è poco chiara e che mi sembra pretestuosa è la gestione di alcune sequenze oniriche legate al personaggio di Batman (Ben Affleck); a che pro? Alcune sequenze, tra le quali l'apparizione dei futuri membri della Justice League (ma non solo quelle), sembrano buttate nel film a casaccio solo come spot promozionali per il futuro film dedicato alla squadra e a quelli che svilupperanno in seguito i brand dei singoli personaggi. Non ci siamo, forse sarebbe stato meglio pianificare con più calma i film dei singoli e farli solo in un secondo momento confluire nel progetto Justice League che invece sembra sarà il prossimo cinecomic targato DC ad arrivare sugli schermi (Suicide Squad a parte).


Pecca più grave di tutte la labile motivazione che spinge un Batman da tempo pieno di sospetto e acredine verso l'alieno Superman (Henry Cavill) a cambiare repentinamente opinione sul suo avversario e diventarne alleato. Forzato anche qui e molto.

Tra i punti positivi sicuramente l'ottima interpretazione di un Batman attempato di un Ben Affleck ben calato nella parte (e qui temevo il peggio), quasi mastodontico, tormentato il giusto e davvero in forma. Vedremo come gestiranno questa versione agée dell'eroe nei prossimi film. Bene anche il bisteccone Cavill che mi sembra un buon Superman. In più il cast è farcito di ottimi attori, da Jeremy Irons (Alfred) a Amy Adams (Lois Lane), da Laurence Fishburn (Perry White) a Diane Lane (Martha Kent) e ancora Kevin Costner (Jonathan Kent) e le apparizione di Jeffrey Dean Morgan e Lauren The Walking Dead Cohan.

Visivamente Batman è ottimo con look che richiamano Il ritorno del cavaliere oscuro di Miller ma anche il Bats in armatura di Kingdome Come di Waid e Ross. Ah, poi c'è anche Wonder Woman (Gal Gadot), bella figliola davvero.

L'impressione finale è che per questo progetto si sia corso troppo, si sia partiti tardi e ci sia stata troppa smania di recupero, ma tant'è. Adesso l'Extended Cinematic Univers della DC inizia a prendere corpo, c'è tempo per aggiustare il tiro, gli incassi sembra stiano arrivando e anche copiosi (che poi quello interessa in primis) e comunque, in ogni caso, nel complesso questo secondo colpo risulta piacevole (il primo era stato Man of Steel). Quindi un sincero in bocca al lupo alla DC e ricordatevi tutti che di Nolan ce n'è uno solo.


domenica 3 aprile 2016

SUTTREE

(di Cormac McCarthy, 1979)

Non hai nessun diritto di rappresentare così la gente. Un uomo è tutti gli uomini. Non hai diritto a tanto squallore. Queste le ultime parole di Cornelius Buddy Suttree davanti al corpo esanime dell'amico cenciaiolo, spirato nella più nera solitudine all'interno di una grotta buia, adagiato tra le immondizie. Di fronte a una fine come questa quali certezze restano? Quali dubbi? Come può succedere, chi lo permette? E c'è ancora qualche forza superiore a cui importi di noi?

Il libro, considerato l'opera più alta dell'americano Cormac McCarthy, ci trasporta nel 1951 a Knoxville, Tennessee. Seguendo le vicende dell'esule dalla società Buddy Suttree il lettore avrà modo di camminare fianco a fianco con gli ultimi e i dimenticati, gli abbandonati da un mondo che poco si cura di quelli che considera alla stregua di scarti, materiale di risulta di una rimonda umana spietata e cattiva. E sarà bello in fondo fare la conoscenza di ladri, derelitti, miscredenti, paria, poltroni, furfanti, spilorci, assassini, giocatori ruffiani, troie, sgualdrine, briganti, bevitori, ubriaconi, trincatori e quadrincatori, zotici, donnaioli, vagabondi, libertini e debosciati vari.

L'esistenza di Suttree e quelle di tutto il popolo a cui appartiene, più che dal dolore o da una vera infelicità (smentita anche dal protagonista), sono bollate dalla miseria, da un vivere ai margini che difficilmente lascia scampo. E nel mare di caratteri che si incontrano nei pressi della zona del fiume Tennessee, a spiccare è una nera solitudine, anche quando i coprotagonisti sono in compagnia, figli di un'ingiusta estrazione sfortunata, di un tiro di dadi sbagliato che segna l'esistenza di tutti questi poveri cristi. Nel mondo degli ultimi c'è spazio anche per un po' d'amore, per l'amicizia, per qualche risata, tutto disseminato in pagine (di carta e di vita) velate di immensa tristezza. Non per tutti, purtroppo, è così facile trovare la propria strada.

Suttree vive solo, lungo il fiume, in una baracca galleggiante cercando di campare di pesca. Tutto intorno a lui è melma, sporco, fatiscenza. In un'esistenza dove trovare lo scopo è arduo, anche il dolore, quello più grande, e l'amore, quello comunque effimero, sono solo brevi e rapidi passaggi in un continuum di povertà e miserie.

Per quanto il romanzo sia stato definito dalla critica finanche esilarante (non mancano i momenti divertenti), è sicuramente il lato più triste ad emergere con prepotenza, a maggior ragione se ci si ferma a riflettere sui contenuti proposti da McCarthy. La lettura è sicuramente densa, non troppo agile, la ricchezza di linguaggio dello scrittore è quasi spaventosa, Suttree è uno di quei libri dove ancora è utile se non indispensabile tenere un dizionario a portata di mano, non solo per l'accurata descrizione del territorio con un'attenzione tutta particolare alla vegetazione dei dintorni di Knoxville, ma per l'utilizzo sistematico di termini desueti o poco utilizzati nel nostro quotidiano (e complimenti alla traduttrice Maurizia Balmelli). Suttree mi ha tenuto inchiodato per circa tre mesi, complice anche un periodo per me mentalmente poco felice, lettura appagante ma a tratti difficoltosa, un libro da non affrontare a cuor leggero, indubbiamente un grandissimo lavoro di quello che è considerato uno dei maggiori autori statunitensi contemporanei.

Cormac McCarthy

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