martedì 28 giugno 2016

JUMANJI

(di Joe Johnston, 1995)

Se Jumanji fosse uscito al cinema una decina d'anni prima sarebbe potuto diventare uno di quei cult giovanili che accomunano tanti ex ragazzi della mia generazione e infilarsi nella scia di film come I Goonies, Ritorno al futuro e via discorrendo. All'epoca della sua uscita però, per una mera questione anagrafica, quel sense of wonder che scaturiva da alcuni film era per me un po' scemato e quindi oltre a una prima visione a questo film non diedi altre occasioni. Riguardandolo ora con mia figlia è stato un piacere ritrovare quello spirito di avventura giovanile e del fantastico che caratterizzò diverse pellicole degli anni '80 pur essendo questo in particolare uscito un decennio più tardi, le atmosfere sono quelle giuste e il divertimento è assicurato ancora oggi.

La seconda sorpresa è stata quella di trovare alla regia Joe Johnston, direttore ancora capace in epoca moderna di piazzare dei buoni successi di pubblico come il primo film dedicato a Capitan America (Il primo vendicatore) nonché artefice di altri successi del passato come il divertente Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi.

Un po' meno artigianale rispetto ad altri film del filone, Jumanji mantiene però quel piglio genuino che, anche quando intervengono gli effetti visivi, riesce a mantenere quella sensazione di calore e familiarità del film d'altri tempi. Ovviamente il pezzo forte sono i protagonisti giovani trascinati in avventure fantastiche più grandi di loro, tema sempre in grado di emozionare i pre-adolescenti, qui ampliato dalla presenza degli adulti Robin Williams e Bonnie Hunt. Quasi straniante rivedere ora una giovanissima Kirsten Dunst (tredici anni all'epoca) in uno dei ruoli principali.


Sul finire degli anni '60 il giovane Alan Parrish (Adam Hann-Bird), figlio di un ricco magnate delle calzature, ritrova in un cantiere un vecchio baule risalente al secolo precedente con all'interno un gioco da tavolo fatto a mano: Jumanji. Alan scoprirà giocando al gioco con la sua amichetta Sarah (Laura Bell Bundy) come gli imprevisti escogitati dal gioco stesso siano ben più pericolosi e reali di quel che dovrebbero essere.

Stacco al 1995. Alan è scomparso da quel lontano 1969, nella sua vecchia abitazione arrivano due ragazzini: Peter (Bradley Pierce) e Judy Sheperd (Kirsten Dunst) che ci metteranno poco a ritrovare in soffitta il pericoloso gioco. Per evitare ulteriori guai dovranno trovare il modo di concludere una partita con l'aiuto dei due vecchi giocatori, gli Alan (Robin Williams) e Sarah (Bonnie Hunt) ormai adulti.

Bel mix di azione, tra cacciatori di belve, mandrie scatenate, piante carnivore e altre diavolerie, e commedia grazie soprattutto al caratterista David Alan Grier e alla sua auto della polizia, Jumanji rimane una bella visione ancora oggi, un film ben riuscito che ormai non ricordavo quasi più.


giovedì 23 giugno 2016

SEMINOLES

(di Gino D'Antonio e Lucio Filippucci, 2008)

Procede il mio percorso alla scoperta di tutti i Texoni pubblicati finora dalla Bonelli (è uscito proprio in questi giorni il trentunesimo albo disegnato da Enrique Breccia) con l'appuntamento datato 2008 che una volta tanto non porta la firma alla sceneggiatura del mitico Claudio Nizzi. Questo di per sé è già un piccolo evento vista la prolificità di uno dei classici scrittori texiani.

Purtroppo questo Texone uscì postumo. Nel 2006 ci lascia Gino D'Antonio, sceneggiatore a suo agio tra le lande del west già frequentate sulle pagine di Storia del west, tra quelle di Bella e Bronco o sull'albo Bandidos!, postumo anche questo. La collaborazione di D'Antonio con Bonelli risale ai tempi delle edizioni Audace ed è proprio a partire da alcuni appunti scritti da Sergio Bonelli che D'Antonio costruisce la sceneggiatura dell'atipico Seminoles, atipico se non altro per quel che riguarda l'ambientazione, per una volta lontana da Arizona, Texas, Colorado o Nuovo Messico ma trasferita nell'assolata Florida, tra le paludi delle Everglades elette a nuova patria dagli indiani Seminoles.

Alle matite Lucio Filippucci che nonostante in Bonelli abbia lasciato il segno più che altro sul personaggio del buon vecchio zio Marty, si destreggia più che bene tra le paludi della Florida e con i topoi del genere tanto caro all'impareggiabile Tex Willer.

Rimanendo ancora una volta tra le mura domestiche Bonelli riesce a scegliere una coppia d'assi capace di sfornare un Texone godibilissimo con una sceneggiatura dai tratti classici ma con qualche novità e con personaggi di contorno molto ben tratteggiati.

È quasi un'avventura in solitaria quella di Tex, solo in parte affiancato da Carson ma aiutato dal nero Jesus, personaggio che non stonerebbe tra la combriccola del ranger. I ranger devono scortare un indiano seminole che deve essere processato, ma Longknife, così come il suo compagno Ochala, non sembrano poi dei cattivi diavoli. Per loro però nutre una forte avversione lo scout dell'esercito Lafarge che tenta il tutto per tutto per non fare arrivare i due vivi al processo. Lo scontro tra Tex e Lafarge tra le paludi della Florida, patria dei Seminoles, è ormai inevitabile.

La matita di Filippucci è pulita e decisa, capace di dipingere con grande maestria una vasta gamma di espressioni credibili sui vari volti. Un'attenzione particolare è rivolta alla rigogliosa natura delle Everglades, ai canneti, alle radici aeree degli alberi, agli acquitrini e all'inusuale abbigliamento dei Seminoles, parecchio distante da quello d'ordinanza delle altre tribù indiane.

L'intesa tra i due artisti sembra perfetta e la collana porta a casa un risultato di tutto rispetto. Chapeaux! Ancora una volta.


mercoledì 22 giugno 2016

X-MEN: APOCALISSE

(X-Men: Apocalypse di Brian Singer, 2016)

Come ormai sanno anche i muri, i Marvel Studios non posseggono i diritti per lo sfruttamento cinematografico dei personaggi legati al brand degli X-Men e più in generale dei mutanti. Questi appartengono alla 20th Century Fox che con i pupilli di Xavier ha trovato un piccola (ma neanche poi tanto) gallina dalle uova d'oro, motivo per cui nulla lascia pensare che la chiusura di questa nuova trilogia sia effettivamente una chiusura, tanto che trapelano già rumors su una possibile saga ispirata al ciclo della Fenice Nera ambientata negli anni '90. Insomma, pare proprio che si continui.

Tutto sommato la cosa non può che farmi piacere, da fan storico e lettore ultra decennale di questi personaggi, vederli su grande schermo è sempre un piacere. C'è da ammettere che ormai, con nove film sul groppone tra gruppo principale e quelli dedicati a Wolverine (senza contare Deadpool), si inizia a fare un po' di fatica a star dietro alle imprese degli uomini X tra salti temporali, rilanci e incongruenze tra un film e l'altro. Inoltre cosa assolutamente da non fare è quella di tentare di raccapezzarsi facendo improbabili paralleli tra la versione cartacea di tutti i personaggi legati agli X-Men e le rispettive controparti cinematografiche. Lasciate perdere, potreste giocarvici la sanità mentale, non ne vale la pena.

Gli universi cinematografici vanno presi un po' così, in modo da poterne godere appieno, soprattutto per quel che riguarda gli X-Men. Le carte sono completamente scombinate, tempi che non corrispondono, età che non corrispondono, eventi che non corrispondono, lasciamo pure perdere. Se per voi queste differenze costituiscono un ostacolo insormontabile, il mio consiglio è quello di lasciar perdere gli X-Men al cinema.

In questo X-Men: Apocalisse si trovano pregi e difetti già riscontrati in altre pellicole dedicate al gruppo. La nota stonata è il poco spazio e di conseguenza lo scarso approfondimento psicologico riservato ad alcuni personaggi anche storici della saga. È inevitabile quando i characters in campo sono così numerosi, però vedere un personaggio come Psylocke (Olivia Munn) messo in scena giusto per far comparire un bel paio di gambe in spandex in più nel film non sembra la scelta più azzeccata (o forse sì se vediamo la cosa da un'altra angolazione). Ancora una volta Tempesta (Alexandra Shipp) sembra non avere il giusto spazio, Jubilee (Lana Condor) è solo tappezzeria, Angelo (Ben Hardy) è semplicemente sbagliato e Wolverine (Hugh Jackman) pare inserito a fini pubblicitari (in realtà probabilmente è proprio così).


Il villain di turno, Apocalisse (un irriconoscibile Oscar Isaac), pur monodimensionale e neanche lontanamente vicino al carisma di un Magneto (Michael Fassbender), garantisce però un tono epico alla vicenda molto marcato, la sensazione di minaccia incombente è palpabile e riesce a riempire bene le due ore e venti di film che passano senza annoiare e regalando diverse sequenze accattivanti dove la migliore è probabilmente (di nuovo) quella al ralenty dedicata all'entrata in azione di Quicksilver (Evan Peters), tra i personaggi migliori e più simpatici del fim, un mezzo miracolo se pensiamo che solitamente Pietro ha la simpatia innata di un brufolo sul culo, un po' come Namor tanto per dirne uno.

Purtroppo con l'eccezione di Xavier (James McAvoy), Magneto e Mystica (Jennifer Lawrence che continua a non piacermi molto nella parte), anche gli altri X-Men che prendono parte attivamente alla vicenda sono ancora solo abbozzati e parliamo di grossi calibri come Jean Grey (Sophie Turner), Ciclope (Tye Sheridan) o Bestia (Nicholas Hoult).

Molto ben inscenato invece il contesto d'epoca e questa volta siamo negli anni '80 di Reagan, di Pac Man, degli Eurythmics, di Guerre Stellari e di Nightcrawler vestito come Michael Jackson in Thriller. Ottima la colonna sonora a supporto che sfoggia anche una The four horsemen dei Metallica mai più azzeccata al contesto.


Nel complesso il film, difettucci e caratterizzazioni deboli a parte, risulta comunque divertente e si guarda con piacere, alla fine la trama volge comunque verso una chiusura del cerchio, un cerchio che probabilmente non avrà una circonferenza perfetta ma che non lascia troppi rimpianti. Tutto sommato il pregio del lavoro di Singer è quello di aver saputo cogliere lo spirito degli X-Men, in fondo questo è tutto ciò che conta, differenze e scostamenti e le critiche che questi smuovono lasciano il tempo che trovano.

domenica 19 giugno 2016

BACK TO THE ROOTS: EXOTICA

A cavallo dei '40 e i primi anni '50 prese piede quel sottogenere che venne poi definito Exotica, un filone di artisti e composizioni che pur non avendo origine dalle zone del pacifico (come Hawaii, Polinesia, etc..) aveva la pretesa di imitarne suoni e costumi con risultati a volte bizzarri, a volte meglio riusciti. Tra gli esponenti più in vista e pioniere del genere c'è sicuramente Korla Pandit, nato John Roland Redd nell'americanissimo Missouri. È solo nella seconda metà degli anni '40 che il pianista assume l'identità di Korla Pandit inventandosi di sana pianta un'origine indiana, un padre bramino e una madre francese cantante d'opera. Andiamo ad ascoltarci la sua versione di Miserlou.



Altro esponente dell'Exotica, di qualche anno successivo ma più celebre del sopra citato Korla Pandit fu Les Baxter, ricordato anche come pioniere della lounge music. Il suo album Music out of the moon è un buon esempio dello stile di Baxter, theremin in primo piano in diversi brani e copertina per l'epoca scandalosa o quasi.




mercoledì 15 giugno 2016

BRADI PIT 136

Non tutto è oro ciò che luccica...


Clicca sull'immagine per ingrandire.

Aiutaci a diffondere il verbo del Bradipo linkandolo. Fallo tu perché il Bradipo fa n'caz.

domenica 12 giugno 2016

LA MUSICA DI LAURA - 009



Grazie alla gentile richiesta di Glò ci è ripresa la voglia di giocare con la musica e quindi eccoci qui con un nuovo appuntamento de La musica di Laura, piccola rubrica dove Lauretta (che nel frattempo ha compiuto dieci anni) si cimenta nell'ascolto di tre brani scelti a caso da lei stessa tra i miei cd, sulle enciclopedie del rock e via discorrendo, andando poi a scegliere il suo preferito.

E a voi quale dei tre brani convince di più? Mi raccomando, esprimete il vostro parere, Laura è contenta quando i commenti giungono copiosi :)

Ed ecco i brani di questa tornata:


1)  Pink Floyd - Astronomy domine



2)  Bevis Frond - London stone



3)  Gong - Perfect mystery



Lieto di vedere come l'apprezzamento della mia bimba andasse a tutti e tre i pezzi la sua scelta si è poi orientata verso il sound più giocoso e fuori di testa dei Gong.

E voi, chi preferite?

IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON

(The curious case of Banjamin Button di David Fincher, 2008)

- Mi amerai ancora quando la mia pelle sarà vecchia e cadente?
- E tu mi amerai ancora quando avrò l'acne? Quando la farò a letto? Quando avrò paura dei sottoscala?

Con l'avanzare dell'età, giusto per rimanere sul tema, inizio a temere l'approccio ai film che durino più di due ore (qui siamo vicini alle tre). Per fortuna ancora ci sono storie, registi e attori capaci di mettermi in un piacevole stato d'animo anche sulle lunghe distanze. Mi sono avvicinato un poco scettico alla visione de Il curioso caso di Benjamin Button, un po' a causa del minutaggio, un po' per il ricordo di critiche al film molto tiepide.

Forse invecchiando sto diventando anche più romantico, perché oltre ad aver scoperto un bel film vi ho trovato anche una bellissima storia d'amore che, complice una Kate Blanchett stupenda, riempie la vicenda molto più del curioso caso che affligge il protagonista Benjamin Button, interpretato dal sempre ottimo Brad Pitt.

Il piccolo Benjamin nasce vecchio, ha le dimensioni di un neonato ma caratteristiche fisiche e acciacchi di un ottuagenario. La sua mamma muore di parto, il babbo lo abbandona sulle scale di un ricovero per anziani dove Queenie (Taraji P. Henson) e suo marito Tizzy (Mahershalalhashbaz Ali, e sì, si chiama così), una coppia di colore, si faranno carico di adottare lo strano nuovo venuto.

L'infanzia del bambino è ovviamente particolare, coperto d'amore dai genitori adottivi e da molti ospiti del ricovero, vecchio egli stesso nella più tenera età, impara ad avere una confidenza forse eccessiva con la perdita e con la morte e ad accettarla. La sua esistenza è per forza di cose quella di un recluso, di uno ai margini, ma le cose cambieranno con il passare del tempo e grazie ad alcuni incontri che segneranno la vita di Benjamin. Uno su tutti, quello con la giovane Daisy (Kate Blanchett), più o meno sua coetanea ma solo all'anagrafe, mentre lei ha l'aspetto di una pre-adolescente, lui sembra un signore ben avviato sulla strada della vecchiaia, un anziano con l'animo di un bambino.


Mentre lei invecchia, lui ringiovanisce. Avranno una finestra al centro delle loro vite dove essere davvero coetanei e maturi abbastanza per vivere un amore di quelli senza tempo.

Sono diversi gli aspetti interessanti del film partendo proprio dalla resa del personaggio di Brad Pitt, mostrato nel corso di una vita in una serie di istantanee prese ad ogni età, un lavoro eccezionale fatto su trucco ed effetti speciali. Notevoli anche le riflessioni sull'invecchiamento, sulle età della vita, sulla perdita e sulla morte, spunti di riflessione molto potenti. Ottime anche le prove d'attore, Kate Blanchett su tutte ma indistintamente di tutto il cast. Struggente la storia d'amore attraverso gli anni che vede coinvolti i due protagonisti, bello anche il punto di vista della narrazione dell'intera vicenda attraverso il di lui diario, letto da una donna (Julia Ormond) nell'atto di accudire la madre morente in un letto d'ospedale mentre l'uragano Katrina si abbatte su New Orleans.

Quando il film hollywoodiano, anche quello all'apparenza patinato e pensato per le vaste platee, ha ancora diverse cose da dire, il Cinema si rivela indubbiamente un grande piacere. In fin dei conti non sta affatto invecchiando male.

mercoledì 8 giugno 2016

LA FINE DEI GIORNI

(di Alessandro De Roma, 2008)

Scenario pre-apocalittico tra le strade di Torino (che è anche la mia città). Futuro prossimo prossimo, forse addirittura presente. Giovanni Ceresa, insegnante di scuola superiore, abita in centro, dalle parti della Cavallerizza Reale. A Torino, come probabilmente in tutta Italia, sta succedendo qualcosa di strano. Alcuni anziani, come il signor Baratti per esempio, scompaiono. La cosa grave è che subito dopo nessuno sembra più ricordarsi di loro, come se queste persone non fossero mai esistite, non avessero mai avuto una vita, dei figli da crescere, un cane da portare a spasso, un lavoro. Cancellati dalla memoria.

Ed è proprio questo il punto. La memoria. A Giovanni sembra che questa malattia della perdita della memoria stia diventando sempre più grave e diffusa, tanto che egli stesso inizia a tenere un diario per non perdere i ricordi degli avvenimenti che scandiscono le sue giornate. La piaga è grave, sebbene meno affetto di altri, anche lui non ne è immune.

Quello che al lettore può sembrare un problema da principio circoscritto al condominio del protagonista ci restituisce progressivamente una Torino minacciosa, affetta da sempre più casi di demenza, infestata di notte dai pericolosi barbi, una città dove diventa sempre più difficile trovare cibo o oggetti di quotidiana utilità. Gli studenti disertano la scuola, i colleghi vanno fuori di testa. A Giovanni non resta che assistere il padre malato e chiacchierare con l'amico Winnie o con la signora Costanza, figure stranamente più lucide della media. E la domenica andare a trovare la sorella al cimitero monumentale di via Catania. Una sorella che però è viva e vegeta.

Mi è piaciuto davvero molto il libro di Alessandro De Roma, sardo di nascita ma immagino torinese d'adozione, almeno considerando la buona confidenza con la toponomastica della città. L'autore riesce a creare una tensione sempre crescente nel lettore descrivendo una realtà che leggendo tra le righe ha molto di quella attuale e dei suoi possibili sviluppi futuri. Questa attinenza è ben palesata (in maniera terrificante se ci pensiamo, ma che probabilmente non ci stupirebbe più di tanto se dovesse realizzarsi sul serio) negli ultimi capitoli del libro dove il punto di vista si sposta dal diario del protagonista a una prospettiva diversa e più istituzionale.

Sono tanti gli spunti su cui riflettere, uno su tutti quello della memoria (o Memoria se vogliamo) ma anche sul valore della vita e delle vite, soprattutto se messe una vicina all'altra. La mia vale in assoluto più della tua? Ma c'è parecchio altro ancora in un libro che ha il pregio di servirsi di capitoli molto brevi e diretti, quasi a cadenzare un avanzamento inarrestabile verso lo sfacelo.

La fine dei giorni è una lettura consigliata a tutti i torinesi, in ogni caso un bel libro per tutti, con qualche scarto consigliata anche agli amanti delle distopie.


martedì 7 giugno 2016

LA GEMMA DI KAIBURR

(Splinter of the mind's eye di Alan Dean Foster, 1978)

La lettura de La gemma di Kaiburr è stata per me un esperimento nato diciamo da una doppia esigenza (o meglio curiosità) palesatasi nei primi giorni di questo 2016. Sono qui a parlarvene ora, a Giugno inoltrato, a dimostrazione che l'esperimento è stato un fallimento totale su entrambi i fronti.

L'esigenza/curiosità numero uno era quella di provare un programma per la lettura digitale (io ho usato Calibre) per vedere un poco l'effetto che mi avrebbe fatto l'uso dello stesso e la lettura su PC (terribile, la sconsiglio vivamente). È andata molto male, posizione scomoda, lettura a video fastidiosa, nessun reale vantaggio nell'utilizzo della tecnologia. Non mi veniva nessuna voglia, giorno dopo giorno, di riprendere in mano (non potevo) il libro digitale.

La scarsa voglia di proseguire con La gemma di Kaiburr, che ripeto iniziai a leggere già a Gennaio, è stata alimentata anche dalla qualità assai scarsa della proposta. Ma perché scegliere proprio La gemma di Kaiburr per testare la lettura attraverso Calibre?

Sarà stupido o quel che vi pare ma anche io come molti altri cedetti alla scimmia di Star Wars in seguito al battage pubblicitario imbastito da Disney per l'uscita de Il risveglio della Forza. Dopo aver rivisto le prime due trilogie ed essermi divertito come un pazzo con l'ultimo film ne volevo ancora e ancora e ancora. Eh si, mi han preso per il naso ma che volete farci? La carne è debole!

Così, un po' con la scusa di mia figlia (i film sugli Ewoks), un po' con quella dell'esperimento digitale, mi sono buttato sull'universo espanso partendo dal primo libro dedicato ai personaggi della saga, questo La gemma di Kaiburr.

Il libro è una porcheria, non c'è da girarci intorno. L'autore Alan Dean Foster ha all'attivo parecchi libri di genere fantascientifico, non so dirvi se sia uno scrittore veramente mediocre o abbia preso al volo questa occasione per piazzare un'opera puramente alimentare per rimpinguare il suo conto in banca. In più il lavoro della traduttrice Ursula Olmini Soergel (che avrebbe meritato di passare un paio d'ore in compagnia di Darth Vader) sarebbe eufemistico definirlo pessimo. Strafalcioni grammaticali, costruzione pessima delle frasi, sporadici errori di battitura e in generale una resa linguistica terribile e dilettantesca. Inspiegabili poi le scelte di rendere i nomi dei due droidi come Artoo e See Threepio, ma dico, scherziamo?

Guardate, sono sincero, io ho tantissimi difetti, tra questi sicuramente c'è quello di non credere abbastanza nelle mie capacità, ma mi butto giù veramente tanto, da solo, tra i miei difetti giuro e giuro che non c'è l'arroganza. Questo per dirvi che il libro l'avrei scritto sicuramente meglio di quanto ha fatto l'autore e probabilmente, pur non conoscendo benissimo l'inglese, l'avrei pure tradotto meglio. Cose che tra l'altro avrebbero fatto meglio anche mia figlia di dieci anni e il mio falegname con trenta euro.

Il succo: dopo gli avvenimenti narrati in Una nuova speranza la principessa Leia e Luke Skywalker, accompagnati dai due droidi, partono per una missione diplomatica alla volta di Circarpous IV. Causa problemi atmosferici (più o meno) i nostri precipitano sul pianeta Mimban occupato dall'impero e abitato da strane creature e bizzarre popolazioni. Nel corso dell'avventura il gruppo incontrerà la vecchia Halla che farà vedere a Luke un frammento di una mitologica gemma in grado di accrescere la Forza.

La storia in sé non ha nulla di memorabile, se non fosse scritta in maniera pessima sarebbe un episodio apocrifo buono per intrattenere i fan della saga di Star Wars senza concedere grandi emozioni. Il lato positivo poteva essere il fatto di avere tra le mani personaggi e situazioni talmente forti di loro da garantire al lettore una visione molto nitida nella propria mente di quello che accade sulla pagina scritta. Questo aspetto funziona, si riesce a immaginare il mondo di Mimban, sembra di sentir parlare 3PO con la sua voce inconfondibile e via discorrendo, e questo sarebbe già un gran valore aggiunto a una narrazione di per sé abbastanza piatta. Peccato che ogni due pagine ti cadano le braccia per la scarsa qualità della scrittura.

Dopo aver provato questo libro, i film sugli Ewoks e diversi minuti dei cartoni animati dedicati a 3PO e R2-D2, considerato che la scimmia si è sgonfiata non poco, forse è il caso di accantonare questo universo espanso, almeno per il momento.

lunedì 6 giugno 2016

HOWARD E IL DESTINO DEL MONDO

(Howard the duck di Willard Huyck, 1986)

Ben prima della nascita dei Marvel Studios cinematografici e dell'arrivo nelle sale dell'ormai famoso Marvel Cinematic Universe, i personaggi della casa delle idee già impazzavano tra grande e piccolo schermo. Se però tralasciamo vecchie e quasi irreperibili serie televisive e film creati apposta per la visione domestica, il ruolo di apripista di tutti gli eroi in costume sgargiante di casa Marvel al cinema è attribuibile a... rullo di tamburi... un'anatra.

Howard il papero, da noi noto anche come Orestolo il papero grazie alla traduzione del mitico editore Corno, nasce nel 1973 in una storia dell'Uomo Cosa dalla fantasia dei suoi creatori: Steve Gerber e Val Mayerik.

È solo tredici anni più tardi, nel 1986, che George Lucas intravede nell'indole scontrosa e sarcastica dello strano papero la possibilità di ricavarne un film di potenziale successo. In mano alla Lucasfilm la buona riuscita del progetto sembra quasi scontata, ma (perché c'è sempre un ma) non dimentichiamo che solo nei due anni precedenti la casa di produzione del grande George aveva sfornato due film trascurabili (se non vogliamo proprio chiamarli in altro modo) come L'avventura degli Ewoks e Il ritorno degli Ewoks.

Sia come sia il progetto parte, vengono reclutati un paio di attori con recenti successi alle spalle come Jeffrey Jones (Amadeus) e Lea Thompson (Ritorno al futuro) e un collaboratore di Lucas alla regia. Bene, il film fece incetta di Razzies, i premi per i peggior film dell'anno, una sorta di anti-Oscar e al botteghino riuscì a malapena a coprire i costi di produzione sommando gli incassi fatti in tutto il mondo. Altri tempi, non male come esordio al cinema per la Marvel.

Il grande problema del film è che non risulta abbastanza interessante per gli adulti ma presenta qualche riferimento alla sfera sessuale di troppo per essere considerato un film per bambini. In fondo Howard tiene i profilattici nel portafoglio, non disdegna di fare qualche apprezzamento al sedere di Beverly (Lea Thompson, che sedere a parte non è nemmeno questo granché) e dà l'idea che sul suo mondo d'origine non disdegnasse affatto le grazie delle paperelle.


Howard (interpretato da più attori) infatti vive a Duckworld, causa un esperimento spaziale fallito il papero viene erroneamente catapultato a Cleveland, Stati Uniti, pianeta Terra. Qui incontra la cantante rock male in arnese Beverly che lo aiuterà ad ambientarsi e a trovare un posto dove stare in città. Ovviamente l'obiettivo di Howard è quello di tornare sul suo pianeta natale, per questo arriverà l'aiuto dello scienziato (?) Phil (un giovane Tim Robbins), amico di Beverly e quello del più esperto Dottor Jenning (Jeffrey Jones), ma tutto andrà in vacca e questa volta ad arrivare sulla Terra sarà qualcosa di molto meno piacevole di un papero dalla lingua lunga.


Spesso citato tra i peggior film mai realizzati, Howard e il destino del mondo non è peggio di molti prodotti simili (i film sugli Ewoks per esempio). Per chi è cresciuto negli anni '80 è forse anche un piccolo e inutile cult d'infanzia al quale si guarda con un certo affetto e si vuol bene come si può volerne al cuginetto sfigatissimo o a qualcosa del genere. Gli effetti speciali, il trucco e il parrucco, considerato lo zampino di Lucas nel progetto, sono abbastanza imbarazzanti. Un papero realistico quanto il Rockfeller di Josè Luis Moreno ed effetti visivi che anche un bravo smanettone amatoriale avrebbe potuto duplicare (non male forse la progressiva trasformazione del Dottor Jenning).

Detto questo, che cosa ci rimane? Un pizzico di nostalgia, un po' di trash, una bella sequenza action e l'esordio della Marvel al cinema. Non vi basta per mettervi a correre e andare a guardarvelo?

venerdì 3 giugno 2016

OPERAZIONE ARCA

(di Alfredo Castelli, Giancarlo Alessandrini e Angelo Maria Ricci)

Nel terzo albo di Martin Mystère si conclude l'avventura iniziata nel numero precedente, La vendetta di Ra. Il finale della storia e l'incontro con la nemesi Sergej Orloff è l'occasione buona per l'accoppiata Castelli e Alessandrini per narrare al lettore alcuni dei retroscena del rapporto tra i due studiosi che, con il passare del tempo, hanno intrapreso strade così diverse l'una dall'altra.

Veniamo a sapere così dei trascorsi italiani del buon vecchio zio Marty, filone che verrà in seguito ripreso in maniera più approfondita sulla serie che dedicherà diversi numeri proprio ai misteri italiani, di quelli indiani e dell'apprendistato in Tibet presso il maestro Kut Humi. Finalmente qualcosa in più viene rivelato anche sulle due pistole avveniristiche consegnate ai due, una capace di stordire (in possesso di Mystère) l'altra di uccidere (Orloff). Nell'assegnazione delle armi la natura dei due colleghi (presto ex) è palesata, il loro destino da avversari ormai scolpito nella roccia.

Se la conoscenza, lo stupore, il senso della curiosità e il piacere della divulgazione sono i motori che muovono il nostro protagonista, Orloff è di contro mosso da avidità e smania di potere.

Sul finale della storia la presentazione di Orloff e lo scontro con Mystère finiscono per mangiarsi anche l'affascinante teoria per la quale Egizi e Maya incrociarono le loro strade e le loro culture.

È solo a pagina 35 che inizia la storia che dà il titolo all'albo, Operazione Arca viene portata a termine in poco più di una sessantina di pagine da Castelli e Ricci senza che la vicenda narrata soffra di passaggi frettolosi e senza dare l'impressione di essere stata poco approfondita.

L'argomento in questo caso è la ricerca dell'arca perduta, nella fattispecie l'arca di Noè. Come spiega il professor Berger a Martin Mystère e Java, in tutte le tradizioni e religioni più conosciute si parla del diluvio (o di una catastrofe legata all'acqua e all'inondazione), dal cristianesimo alla tradizione degli indios dell'Amazzonia, dai miti australiani fino a quelli islandesi. Bene, il professore sostiene di aver trovato l'arca sepolta all'interno del monte Ararat, chiede così a Mystère di partecipare a una spedizione per ottenere conferma. Ma dietro a questa iniziativa si celano le macchinazioni della CIA, dell'FBI (rappresentata da Bud Spencer?) e trame da guerra fredda tra sovietici e U.S.A.

In mezzo a questo parapiglia ci sarà l'occasione per i protagonisti di capire qualcosa in più sulla famosa arca e per Mystère di far luce e trovare qualche conferma su alcune delle sue teorie più rivoluzionarie, ma il momento di divulgarle non è ancora arrivato.

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