lunedì 28 novembre 2016

QUARTO POTERE

(Citizen Kane di Orson Welles, 1941)

A intervalli più o meno regolari, sulle riviste specializzate o nei notiziari in televisione, compare una di quelle classifiche create da esperti di settore, da istituzioni riconosciute o semplicemente da degnissimi appassionati, che mettono a conoscenza noi lettori su quali siano i cento (o dieci o mille, poco importa) migliori film di tutti i tempi. In cima a queste liste è comparso più di una volta Quarto potere di Orson Welles, alternandosi sul gradino più alto, soprattutto in questi ultimi anni, con La donna che visse due volte del maestro Sir Alfred Hitchcock.

È fuor di dubbio come il film sia stato insignito più volte di questo onore con pieno merito, ci si trova di fronte a un capolavoro del cinema moderno, ancor di più, parliamo di uno di quei film che hanno contribuito proprio al passaggio dal cinema classico a quello moderno, diretto da un regista avanti sui tempi che realizza al suo esordio una pellicola che più di settant'anni dopo è ancora sulla bocca di tutti. A produrre enorme stupore è il genio visionario di Welles che a soli venticinque anni realizza uno dei film più importanti per la storia del cinema, solo tre anni più tardi dall'aver scatenato il panico durante l'ormai celebre trasmissione radiofonica in cui, leggendo l'adattamento de La guerra dei mondi del suo quasi omonimo H. G. Wells, terrorizzò gli americani con la sua convincente interpretazione, talmente appassionata da far credere agli ascoltatori che un vero attacco alieno alla Terra fosse in atto in quel preciso istante.


In Quarto potere Welles narra la vita e le gesta di Charles Foster Kane (interpretato dallo stesso Welles), uomo di spicco nella New York degli anni a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento, magnate dell'editoria, collezionista d'arte e uomo tra i più ricchi e influenti del paese. La sua vita ci viene presentata grazie a un montaggio che offre allo spettatore ben sei punti di vista diversi sul protagonista, alternando narratori e tempi della vicenda, donando un dinamismo e un ritmo d'eccezione al film come mai fino ad allora si era visto a Hollywood, un vero e proprio punto di rottura con il passato e un modello a cui si guarda ancora oggi per la realizzazione di pellicole che ora definiamo post moderne. In più il colpo di genio di inserire fin dalle prime battute del film l'enigma di Rosabella, uno dei più celebri e riusciti McGuffin della storia del cinema. A conferma delle capacità apparentemente sconfinate di Welles, una prova attoriale impeccabile che sfoggia capacità di trasformismo invidiabili nel passare da un Kane giovane a uno decisamente più attempato. Stilisticamente la regia offre spunti a ogni inquadratura, dalle atmosfere gotiche dell'apertura, alle riprese deformate attraverso la nota palla di neve alla quale si accompagna nella prima scena, che si apre sulla morte di Kane, la parola "Rosabella", motore dell'intera vicenda, e ancora i tagli di luce, le ombre espressioniste e le prospettive ardite con inusuali posizionamenti della camera.


Il protagonista è ispirato a William Randolph Hearst con il quale il Citizen Kane del titolo originale ha in comune ben più di una caratteristica, tra le altre cose considerato l'inventore del giornalismo scandalistico, editore per il quale lavorò anche il celebre giornalista Walter Winchell. Come già accennato il film si apre con la morte di Kane, se ne ripercorre poi la vita tramite le testimonianze di un cinegiornale e di diversi altri personaggi a lui vicini, da quella del banchiere (George Coulouris) che ne curò le ricchezze di famiglia derivanti da una miniera d'oro, fino a quella della sua seconda moglie, la ballerina e cantante Suzan (Dorothy Comingore), quelle del maggiordomo (Paul Stewart) dello stesso Kane e del suo collaboratore Mr. Bernstein (Everett Sloane) fino ad arrivare al primo reporter dei giornali di Kane, l'amico Jedediah Leland (Joseph Cotten), e al giornalista incaricato di scoprire l'enigma dietro alla parola Rosabella (William Alland). Ogni racconto è un tassello per tentare di capire la complessa personalità di un protagonista di cui nessuno di loro, se non il banchiere, conosce il passato, un passato che lo porterà ad avere una vita piena di successi senza però mai raggiungere quella pace con sé stesso della quale ogni essere umano avrebbe bisogno, senza conoscere il vero amore e l'arte del donarsi agli altri, pur avendo sostenuto le cause dei più deboli, imprese di successo come la direzione del New York Inquirer o aver lanciato la carriera artistica della moglie e aver costruito Candalù, una residenza da favola che avrebbe fatto invidia anche alla più moderna Disneyland.

Un film complesso per l'epoca in cui è stato girato, denso, innovativo (basti pensare all'uso dei piani sequenza e della profondità di campo, segni di stile fino ad allora mai sfruttati al meglio), visivamente accattivante e capace di destare ancor oggi una certa meraviglia. Non so a quanti film contemporanei possa riuscire di suscitare tali reazioni. Ognuno è libero di decidere se Citizen Kane meriti il gradino più alto di quel famoso podio, di sicuro lassù, osservato dal basso, proprio dal punto in cui Welles avrebbe piazzato la telecamera, la sua presenza non stona affatto.

domenica 27 novembre 2016

KUNG-FU PANDA 3

(di Jennifer Yuh e Alessandro Carloni, 2016)

La saga del Maestro Dragone Po si muove sui binari della coerenza e della tradizione, il terzo capitolo apporta qualche nuovo elemento alla storia, mette in campo una nuova fase di ricerca e crescita per il protagonista e lo pone di fronte a un nuovo e temibile (?) avversario. Felice riconferma per gli amanti del brand Kung Fu Panda, questo nuovo episodio non innova ma continua a far crescere, anche a livello economico, un progetto che già funziona e che ha trovato fin dal primo capitolo la sua strada verso il successo. Realizzato in collaborazione con gli studios cinesi della Oriental Dreamworks, il film è stato prodotto con accorgimenti mirati (come quello di ritoccare il labiale per il mercato cinese) atti a produrre incassi da capogiro in tutto il mondo, anche se poi questo si rivelerà il film meno remunerativo della trilogia. Da segnalare l'arrivo alla co-regia dell'italiano Alessandro Carloni, già al lavoro in altri ruoli nei primi due episodi della serie.

Si riprende il discorso interrotto in Kung-Fu Panda 2 sulla famiglia di Po, il Guerriero Dragone scoprì infatti nel precedente episodio come da un'oca non possa nascere un panda e di conseguenza quindi come il suo papà Ping non potesse essere il suo vero padre biologico. La famiglia si allarga in questo nuovo capitolo con l'arrivo di Li Shang, il vero padre di Po alla ricerca del figlio perduto. Proprio questo risulta essere il tema più interessante del film, visto anche nell'ottica di proporre in maniera naturale e assolutamente non traumatica ai bambini un modello differente di famiglia, compito portato a segno alla perfezione in un film dove traspare come le uniche cose importanti siano l'aiuto reciproco e l'amore, un messaggio ricevuto ad esempio da mia figlia senza nessun problema, i bambini che infatti non hanno ancora preconcetti forti non fanno probabilmente grosse difficoltà ad accettare un nucleo affettivo con due papà se a muovere questa unione sono solo sentimenti positivi. Ovviamente il concetto rimane a livello di superficie, i temi non vengono approfonditi in maniera particolare, si tratta pur sempre di un prodotto rivolto prevalentemente ai bambini.


Sul versante avventuroso invece assistiamo all'arrivo di Kai direttamente dal regno degli spiriti, essere dalle capacità sovrannaturali in grado di rubare la forza vitale (il chi) dei più abili maestri, Shifu compreso, e crearne dei costrutti di giada ai suoi servigi. Per sconfiggerlo il Guerriero Dragone dovrà diventare insegnante e maestro lui stesso, fino ad arrivare a padroneggiare la forza del suo Chi interiore. Ma la situazione potrà sbloccarsi solo con l'aiuto degli amici di sempre e della sua nuova famiglia.

Splendide come sempre le sequenze in flashback realizzate in animazione tradizionale, tra le cose più belle del film, a livello visivo si prosegue sulla strada già battuta con ottimi risultati coltivando pellicola dopo pellicola un brand che almeno al momento non stanca.

venerdì 25 novembre 2016

LA MUSICA DI LAURA 011



Dopo diversi mesi tornano le selezioni casuali di brani operate dalla mia bambina, al seguito delle quali lei stessa con prontezza elegge tra i tre brani estratti a sorte il vincitore, quello che per qualche motivo l'ha più colpita. Questa volta devo dire che è riuscita a selezionare il brano a suo avviso migliore senza indecisione alcuna (anche perché almeno uno era per lei davvero troppo ostico). Ovviamente invito voi tutti a votare il vostro brano preferito, che alla fine il gioco sarebbe quello... :)

Andiamo allora a vedere la scelta dei brani: and the nominees are...



1)  Stone Temple Pilots - A song for sleeping




2)  Teenage Funclub - The king




3)  Rush - Lessons



Ora è facilmente intuibile come il brano The king dei Teenage Funclub fosse fuori portata per Laura (poi sinceramente mi sembra abbastanza una cagata), la scelta si è decisa quindi tra i Rush e gli Stone Temple Pilots e ha visto prevalere questi ultimi con il loro brano A song for sleeping. E voi, cosa avreste scelto?

giovedì 24 novembre 2016

ADDIO ALLE ARMI

(A farewell to arms di Ernest Hemingway, 1929)

Indicato sovente come uno dei più importanti romanzi del Novecento, Addio alle armi è un libro in parte autobiografico, in parte solamente ispirato a fatti accaduti a Hemingway e ai suoi commilitoni sul fronte di guerra e in parte romanzato. Un'unione di fonti che riesce a dar vita a un racconto realmente potente, lungo il quale a venir fuori è la condizione dell'uomo in totale balia della vita, incontrollabile, imprevedibile e spesso crudele, ai giochi della quale è molto difficile se non impossibile opporsi. Questa condizione è qui veicolata per mezzo di due grandissimi motori che influenzeranno la vita del protagonista Frederic Henry, una dicotomia indissolubile (o quasi) di amore e guerra.

A voler minimizzare i termini del racconto si potrebbe dire che Addio alle armi è nient'altro che un'appassionata storia d'amore in tempo di guerra, ma come già detto non è proprio così. Addio alle armi è un'amara e disillusa riflessione sulla vita, è un romanzo innovativo per quel che riguarda l'uso della prosa da parte di Hemingway, è lo specchio di un disagio generazionale che ha prodotto uomini nuovi, meno ingessati e più propensi a mettere in discussione le più alte brutture che tanti giovani sono sempre stati chiamati a compiere in nome della Patria, una Patria solitamente ipocrita e colpevole, è una sacrosanta croce rossa tirata sulla parola guerra, è la messa in scena di un uomo molto lontano dall'essere perfetto, e sì, infine è anche una bella storia d'amore in tempo di guerra.

Prima Guerra Mondiale. Frederic Henry, arruolatosi volontario nell'esercito americano, viene mandato insieme ai reparti medici di supporto sul fronte italiano. Siamo dalle parti di Gorizia, dove le giornate per la gran parte scorrono tranquille e il pericolo vero è sempre a qualche chilometro di distanza. Il tenente Henry si occupa dei mezzi di trasporto medici e del trasporto dei feriti ai punti di soccorso. Passa il tempo con i suoi commilitoni italiani, con le donne del bordello del paese e a far quattro chiacchiere con il cappellano abruzzese, uno degli uomini con il quale si intrattiene più volentieri. Nell'ospedale di zona conosce la giovane infermiera inglese Catherine Barklay e poco a poco, ricambiato, se ne innamora. Ma la guerra non lascia troppo spazio per l'amore, in uno dei pochi incontri ravvicinati col nemico, il tenente viene ferito seriamente a una gamba e perde alcuni compagni. Ricoverato presso l'ospedale di Milano si ricongiunge all'amata con la quale potrà riprendere la sua storia d'amore. Ma la guerra ancora non è finita.

"Si va dritti a casa senza più pensare, che la guerra è bella anche se fa male" cantava De Gregori, affermazione con la quale Hemingway non sembra concordare presentandoci un personaggio che, dopo essersi arruolato volontario, è pronto alla diserzione pur di ritrovare la vita e l'amore dai quali la guerra rischia di strapparlo per sempre. Purtroppo per alcuni la vita stessa sembra una guerra, sempre pronta a regalarti ferite insanabili. Nel raccontare le sfide e i duri colpi che la vita riserva al protagonista, lo scrittore fa uso di una prosa diretta, moderna e ispirata, che non si concede troppi inutili fronzoli nemmeno nelle sequenze descrittive e trova i suoi migliori sfoghi nei dialoghi tra i personaggi, sempre sinceri, schietti e avvolgenti ma a loro modi intrisi costantemente di un piacevole sapore letterario. Non stupisce che il romanzo, uscito nel 1929, abbia fatto epoca e che abbia contribuito alla popolarità di uno scrittore non sempre ben accetto, soprattutto qui da noi. Sotto il regime fascista, di Addio alle armi fu infatti vietata la pubblicazione, e per la sua traduzione clandestina la giornalista Fernanda Pivano fu tratta in arresto. Il fatto che il romanzo fosse ritenuto scomodo ne sottolinea ancora una volta la grandezza e l'importanza.

Ernest Hemingway

lunedì 21 novembre 2016

IL DISCORSO DEL RE

(The King's speech di Tom Hooper, 2010)

Pioggia di nomination da concorsi sparsi in tutto il globo, dagli Oscar ai Golden Globe, dai BAFTA fino ad arrivare a una serie di riconoscimenti festivalieri internazionali come Toronto o i British Awards e conseguente razzia di statuette e vittorie ovunque che sembrano far pensare che nell'anno di grazia duemiladieci non sia davvero uscito un film migliore di questo. Tutto ciò mi sembra implausibile.

Certo, se guardiamo alla forma, Il discorso del re è un film molto riuscito, la regia è diligente (ma migliore di quella di Nolan per Inception tanto per dirne una?), i due attori protagonisti sono davvero molto bravi, infatti Geoffrey Rush fu uno dei pochi a tornare a casa senza l'Oscar in mano, lui che forse l'avrebbe meritato più di tutti, la sceneggiatura è solida e ci narra un episodio della vita della famiglia reale inglese poco noto al pubblico. Detto questo non credo mi verrà mai la voglia di rivedere questo film una seconda volta.

Ora non vorrei sembrare troppo severo, il film non mi è dispiaciuto, Colin Firth porta in scena un ottimo Enrico VI che oltre alle preoccupazioni del dover diventare il nuovo re e quella di dover affrontare le follie della Germania nazista, subisce un forte complesso a causa della sua balbuzie e della conseguente incapacità di esprimersi in pubblico, problemino non da poco per uno destinato a divenire il futuro re del Regno Unito. L'interpretazione di Firth, anch'essa premiata con l'Oscar, avrebbe meritato una visione in lingua originale, se potete concedetevela, non fate il mio stesso errore. Di fronte a lui, l'ancor più bravo Geoffrey Rush nei panni del logopedista Lionel Logue, esperto sui generis scovato dalla moglie del re, quell'Elizabeth Bowes-Lyon (Helena Bonham Carter) madre della futura regina Elisabetta II e della sorella Margareth, al fine di aiutare il marito a superare il suo blocco.


La storia è quella di un re, di un uomo se vogliamo, pressato dalle sue responsabilità e chiamato a superare i suoi limiti per il bene di un intero paese, è quella di un'amicizia con l'uomo che ha reso la cosa possibile, un'amicizia costruita poco a poco che si scontra con la differenza di classe e con il rango ma che mette in campo quello che poi, a prescindere da tutto, ogni uomo è capace di dare a un altro. Poi c'è chi dentro ci ha visto anche la sudditanza dei paesi del Commonwealth all'Impero Britannico (Lionel Logue era australiano), interpretazione che personalmente mi sembra un poco forzata.

Pur volendo riconoscere al film tutti i suoi meriti, che ci sono, la visione non regala particolari sussulti, ha un buon valore storico, pregio da non sottovalutare, ma non coinvolge mai fino in fondo. È una buona storia in una bella confezione. Certo, questo può bastare, ma con ben trentatré nominations, contando solo le tre manifestazioni più importanti alle quali il film ha partecipato (altrimenti il conto salirebbe a circa duecento), e ben dodici premi vinti, sinceramente ci si aspettava qualcosa di più.

mercoledì 16 novembre 2016

BENVENUTO A MARLY-GOMONT

(Bienvenue à Marly-Gomont di Julien Rambaldi, 2016)

Negli ultimi anni la commedia francese ha avuto modo di ritagliarsi ampi spazi di visibilità e grandi incassi, grazie soprattutto ad alcuni titoli indovinati che sono stati capaci di sbancare i botteghini d'oltralpe, farsi conoscere all'estero e magari dar vita a diversi remake che battono bandiere diverse dal tricolore francese, basti pensare a film come Giù al nord o Quasi amici ormai ben conosciuti anche dalle nostre parti. Benvenuto a Marly-Gomont è una commedia franco-belga che nemmeno si avvicina ai risultati dei titoli sopra citati, in Italia non è nemmeno arrivata nelle sale cinematografiche, mantiene però il garbo e la comicità delicata spesso riscontrabili in titoli minori come questo, pur affrontando problematiche note che spesso sfociano in conflitti tutt'altro che garbati e delicati.

Negli anni '70 il giovane Seyolo Zantoko (Marc Zinga), proveniente dallo Zaire,  si laurea in medicina in Francia con l'intenzione di esercitare la professione e portare nel suo paese d'adozione tutta la sua famiglia: la moglie Anne (Aïssa Maïga) e i figli Sivi (Médina Diarra) e Kamini (Bayron Lebli). Non avendo ancora la nazionalità francese, Seyolo coglie al balzo la prima e unica offerta di lavoro a lui sottoposta e proveniente dal sindaco di Marly-Gomont, paesino sperduto nelle campagne a nord di Parigi, centro di poche anime nel quale nessun medico francese vuole andare ad esercitare. Moglie e figli raggiungono così il neo dottore, convinti di andare ad abitare a Parigi, si troveranno invece in un paesotto con più mucche che abitanti, in una realtà contadina funestata dal maltempo, piena di fango ma che soprattutto non ha mai visto prima neanche l'ombra di un uomo nero. Non sarà facile per la famiglia Zantoko farsi accettare in paese, figurarsi addirittura per un dottore nero guadagnarsi la fiducia dei suoi pazienti, abituati al posto vacante e tentati di continuare a farsi curare altrove.


Il film è la classica pellicola a tema integrazione e accettazione del diverso che si gioca le sue carte sul mix di umorismo lieve e mai greve e sul coinvolgimento emotivo volto a creare empatia tra spettatore e protagonisti. In questi intenti il regista Rambaldi coglie nel segno, rendendoci partecipi delle difficoltà del dottore a farsi accettare dai nuovi compaesani e preso nel mezzo tra il bisogno di lavorare e il desiderio della moglie di scappare per andare a vivere in una grande città, se non Parigi almeno Bruxelles dove risiedono diversi parenti dei Zantoko. È proprio la presenza della famiglia in visita a Marly-Gomont a innescare più facilmente il lato umoristico della vicenda, una cricca che sembra appena uscita dalla Harlem dei '70 o da un film del filone blaxploitation, a contatto con i rozzi paesani dal naso rosso di Marly-Gomont. Il dottore ce la metterà tutta per superare gli ostacoli, dovrà lottare contro diffidenza, razzismo e opportunismo politico, ma nel risolvere la situazione la mano più grande arriverà dai suoi bambini, in particolare dalla giovane Sivi che riuscirà a mettere a frutto il suo amore per il calcio e per lo sport.

La cosa più interessante del film è che la storia è vera, narrata qui in un flashback da un ormai adulto Kamini, il figlio più piccolo del dottore, che nella realtà è divenuto musicista e che lo spettatore può ascoltare nel brano che accompagna i titoli di coda di questo film, tanto semplice e delicato da essere adatto anche a un pubblico di giovanissimi.

domenica 13 novembre 2016

I RIBELLI DI CUBA

(di Guido Nolitta, Mauro Boselli e Orestes Suarez, 2010)

Sembra che sia la trasferta l'elemento che accomuna gli ultimi Texoni degli anni '00, dopo le paludi della Florida e le pampas argentine il nostro ranger prenderà il mare alla volta di Cuba, patria dell'illustratore di questo Texone: Orestes Suarez. Come lo definisce scherzosamente anche Sergio Bonelli dopo un primo incontro, Orestes Suarez divenne presto il nostro agente all'Havana per la casa editrice; proprio su un soggetto di Bonelli (firmatosi al solito Guido Nolitta) Mauro Boselli prepara una sceneggiatura ambientata in parte nelle paludi della Louisiana e in parte nell'isola di Cuba, magistralmente resa dalle matite dell'autoctono disegnatore. Ambientato durante la guerra dei dieci anni, I ribelli di cuba più che nella suddetta guerra va a scavare nelle temibili credenze legate alla religione del vudù, mettendo pericolosamente Tex Willer di fronte a seguaci e santoni di tale fede. Mastro André è il sacerdote vudù tramite il quale un ben più potente maestro della Santeria cubana cerca di perseguire i suoi voleri nella lontana Louisiana. Lo stesso André, con la minaccia di un wanga, la nota bambolina vudù, costringerà il servo nero Etienne a rapire il figlio del suo padrone, il giovane Matt Picard. Sarà una vecchia conoscenza dei fan di Tex, il messicano Montales, a consigliare al padre del fanciullo, Henri Picard, importante uomo politico, di rivolgersi al Texas Ranger per risolvere la situazione. Faccenda spinosa nella quale si intrecciano la lotta per l'indipendenza del popolo cubano dai dominatori spagnoli, interessi personali, traffico di armi, l'intervento degli Stati Uniti e l'annosa questione sulla schiavitù, da poco abolita negli States e ancora in vigore su buona parte dell'isola. L'impianto storico-politico è sicuramente uno dei fattori più interessanti della storia narrata da Boselli che non difetta neanche in azione e mistero venato dall'aspetto sovrannaturale. Ma chi conosce la filosofia del ranger ormai saprà che non c'è mistero che una buona pallottola non possa dipanare o avversario che non possa ammansire.


Dopo le prove degli italianissimi Frisenda, Filippucci, Mastantuono, Alessandrini, Ambrosini e De Angelis, il Texone ritorna nelle mani di un artista internazionale in Italia già conosciuto per aver lavorato sulle pagine di Mister No. È una grande prova quella di Suarez che coglie nel segno con la superba interpretazione dei rituali del vudù e in quella delle fattezze dei suoi adepti di origine nera. I volti folli, il terrore, gli sguardi spiritati e poi le inquadrature cinematografiche, la vita nei campi e quelli che sembrano essere gli omaggi alla Mamie di Via col vento e alla relativa proprietà: Tara. Nei volti larghi di Suarez, in quelli più deformati dalle espressioni forti, mi sembra di vedere addirittura qualcosa dei tratti di Richard Corben, il suo è un Tex massiccio, all'apparenza uno dei più inamovibili portati sul Texone. La miseria, la lordura e la violenza traspaiono chiaramente dalle tavole dell'artista cubano, così come viltà e coraggio. Ottimo lavoro è fatto sui luoghi di Cuba, sui suoi locali, sulle vedute, sugli interni così come sulla foresta, in un'esemplare rappresentazione nello stile di un sud padronale.

Un lavoro di alta caratura che fa sperare che le trasferte di Tex continuino ancora nei prossimi volumi.


giovedì 10 novembre 2016

DOCTOR STRANGE

(di Scott Derrickson, 2016)

I cinecomics di Marvel e Dc Comics, quando gestiti bene, possono rivelarsi il giusto traino per far conoscere più o meno a tutti personaggi secondari, affascinanti e magari poco sfruttati, ma che nella loro particolarità potrebbero invece giocarsi bene le loro carte e avere ancora molto da dire. Doctor Strange è il chiaro esempio di come un progetto cinematografico possa ridare luce a un character relegato fino a poco tempo fa a ruolo di comprimario o al limite a quello di pedina, magari anche importante, di vicende però allargate e corali. Invece in questo periodo il buon dottore gode di un'esposizione mediatica prima impensabile, tra servizi in tv, il film al cinema, una serie regolare a lui dedicata (e non accadeva da un po'), ristampe in volume di vecchie storie e addirittura una collana settimanale allegata ai quotidiani con una selezione di varie sequenze dedicate al personaggio provenienti dai periodi più disparati della storia della Marvel Comics. Non male per la creatura di Steve Ditko (papà anche di Spider-Man) nata nel lontano 1963 sulle pagine di Strange Tales.

Il film di Derrickson, inserito nel Marvel Cinematic Universe, aggiorna le origini del personaggio all'epoca moderna, mantenendone intatti i punti salienti e i risvolti caratteriali. Neurochirurgo dotato, tanto brillante quanto vanesio e arrogante, Stephen Strange (Benedict Cumberbatch) si preoccupa più che altro della sua fama e della sua carriera cercando continuamente casi in grado di donargli maggiore prestigio. In seguito a un incidente d'auto, causato dalla sua stessa arroganza, le sue mani vengono irrimediabilmente compromesse, il miglior neurochirurgo del mondo non può più operare ne guarire nessuno. Inizia la personale discesa agli inferi di uno Stephen Strange che ha perso tutto ciò che per lui aveva importanza, incapace di apprezzare le cose che realmente possono riempire una vita, a partire dalla devozione della bella collega Christine Palmer (Rachel McAdams). Ma dove non può arrivare la medicina può arrivare lo spirito, Strange viene a conoscenza di uno strano culto sito a Kamar-Taj in grado di compiere miracoli, qui il buon (?) dottore si trasformerà da neurochirurgo a guardiano mistico, un combattente sulla strada per divenire il nuovo stregone supremo.

Con Benedict Cumberbatch, già a suo agio nei panni di personaggi altezzosi grazie al suo Sherlock, il Marvel Cinematic Universe guadagna non solo un ottimo Doctor Strange ma probabilmente anche il miglior attore messo finora sotto contratto, tenendo conto della latitanza di Samuel L. Jackson negli ultimi film e della tendenza di Robert Downey Jr. a gigioneggiare un po' troppo nei panni di Tony Stark. La sceneggiatura del film presenta una struttura classica nell'ambito del film di supereroi nel quale è necessario narrare una storia d'origine e far quindi conoscere il personaggio alle masse. Il maggior pregio dei Marvel Studios in occasioni come queste è la linearità e la chiarezza che porta in video a uso e consumo dei suoi spettatori che, senza problema alcuno, a fine visione possono affermare di conoscere il Dottor Strange, certo non in tutti i suoi risvolti, ma questa è già una gran cosa.


A stupire e a lasciare a bocca aperta è l'impianto visivo, un uso degli effetti speciali a dir poco spettacolare, probabilmente mutuato dalle sequenze parigine di Inception di Nolan, quelle dova la città si accartocciava su se stessa, ottimamente realizzato sia nelle sequenze urbane sia nella resa dei diversi piani di realtà visitati da Strange, prima tra tutte la dimensione oscura dominata dall'entità malevola Dormammu. Le realtà alternative si rifanno all'idea di Ditko di creare un universo fantastico, colmo di colori sgargianti, creature incredibili, prospettive distorte e realtà nascoste che all'epoca legarono il fumetto al movimento della psichedelia in voga in quegli anni, nel film omaggiato anche dalla presenza in colonna sonora di Interstellar overdrive dei Pink Floyd. Rimanendo su Nolan la prima parte del film può ricordare l'addestramento di Bruce Wayne in Batman begins, ma in effetti l'origine di Strange prevedeva qualcosa di molto simile. Presenti anche qui i soliti siparietti ironici, più che altro affidati alla cappa della levitazione di Strange, il cameo di Stan Lee, le usuali scene al termine dei titoli di coda (qui ce ne sono due) e la consueta dose di azione. Da sottolineare l'ottima resa del costume di Strange, ben inserito nel contesto, e l'apporto di un bel cast che con Benedict Wong, Tilda Swinton, Mads Mikkelsen e Chiwetel Ejiofor trova degli ottimi interpreti.

Ora si guarda a Logan (anche se non rientra nel MCU) che dovrebbe essere, speriamo, l'ultima pellicola per ora dedicata a Wolverine.


venerdì 4 novembre 2016

SCUSATE LA LATITANZA

Ronf...


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Aiutaci a diffondere il verbo del Bradipo linkandolo. Fallo tu perché il Bradipo fa n'caz.
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