domenica 28 maggio 2017

I BANCHETTI DEI VEDOVI NERI

(Banquets of the Black Widowers di Isaac Asimov, 1984)

È un Isaac Asimov in libera uscita quello dedito a raccontare le "gesta" dei Vedovi Neri, lontano dalla fantascienza e sinceramente divertito, uno scrittore che riversa tutta la sua passione per il racconto giallo in una serie di piccoli e curiosi enigmi tutti da discutere e risolvere comodamente seduti a tavola, durante gli incontri dei Vedovi Neri che altri non sono se non i sei membri (o meglio i sette membri se vogliamo essere più precisi) di un esclusivo club di New York che ha sede al ristorante Milano.

Sei individui modellati sui caratteri di altrettanti scrittori con ogni probabilità ammirati dallo stesso Asimov: troviamo quindi l'avvocato Geoffrey Avalon (basato su L. Sprague De Camp), il disegnatore Mario Gonzalo (Lin Carter), il chimico James Drake (Dr. John D. Clark), lo scrittore di novelle gialle Emmanuel Rubin (Lester del Rey), il funzionario del Governo degli Stati Uniti Thomas Trumbull (Gilbert Cant) e l'insegnante di matematica Roger Halsted (Don Bensen). A completare il quadro lo sveglissimo cameriere Henry Jackson, membro effettivo del club e unico personaggio a non essere ispirato a uno scrittore bensì a un'altra creatura di pura fantasia: il maggiordomo Jeeves uscito dalla penna di P. G. Wodehouse.

Il club è un ritrovo formale, ha le sue regole e le sue tradizioni (che non mancano di tanto in tanto d'esser sovvertite): nessuna donna è ammessa ai banchetti dei Vedovi, uno dei sei membri a turno prende il ruolo di anfitrione portando un ospite nel club. Il suddetto ospite, solitamente depositario di un enigma da risolvere, è tenuto a sottoporsi a un interrogatorio moderato da uno dei Vedovi stessi e a rispondere sinceramente a qualsiasi tipo di domanda. Con la prima domanda l'ospite viene sistematicamente invitato a giustificare la sua stessa esistenza, poi, dopo il racconto del problema da risolvere, i Vedovi si adopereranno per aiutare l'ospite della serata con deduzioni, ipotesi e con le loro peculiari competenze. Immancabilmente l'enigma verrà risolto dal cameriere Henry, la mente più intuitiva e brillante del gruppo.

Quella dei Vedovi Neri è una serie di racconti pubblicati quasi tutti in prima battuta sull'Ellery Queen Mystery Magazine e poi raccolti da Asimov, arricchiti di qualche inedito, in una serie di libri dei quali questo è il quarto di sei. Non ci sono delitti ma solo piccoli e grandi enigmi dei generi più disparati: equazioni matematiche rubate, indirizzi smarriti, casi di spionaggio, piccoli problemi di cuore, sospetti di stregoneria e avanti di questo passo. Ogni singolo episodio è slegato dagli altri, non c'è un ordine di lettura consigliato, il tutto rientra nel campo del piacevole divertissement, da parte dell'autore certamente, ma anche per il lettore appassionato di narrativa gialla.

Con tutta probabilità non è questa la miglior produzione di Asimov, indubbiamente gli enigmi dei Vedovi Neri rimangono però un'ottima lettura da affrontare in treno, durante brevi viaggi, sotto l'ombrellone e nei piacevoli momenti di relax. In fondo non è poco, non di soli capolavori vive l'uomo.

mercoledì 24 maggio 2017

DISNEYLAND PARIS: UN AGGIORNAMENTO

Di questi tempi sono sempre più lontano dal blog, un po' per le nove ore di lavoro quotidiano (minimo) più spostamenti, un po' per la stanchezza ormai cronica, un poco perché mi sto dedicando anche ad altro. Quest'ultima settimana però sono stato assente per un motivo molto più piacevole: in occasione dei 15 anni di matrimonio con mia moglie Paola, e come promesso cinque anni fa a mia figlia Laura, siamo tornati tutti a Disneyland Paris, aggiungendo anche una visita di tre giorni a Parigi.

Cinque anni fa, in occasione del nostro primo viaggio nella città ideale immaginata da Walt Disney, scrissi una breve guida per chi avesse avuto alcune curiosità o bisogno di consigli in previsione di una scappata in quel di Francia. La guida è tuttora valida, qui troverete qualche aggiornamento, qualche impressione cinque anni dopo e magari qualche utile osservazione. La guida originaria la trovate cliccando qui, il consiglio è quello di leggere prima i post di cinque anni fa e poi tornare qui se siete interessati.

Iniziamo col dire che la magia del luogo è rimasta intatta, la meraviglia della prima volta però non ha eguali, conoscendo già il posto si continua ad amarlo, ci si diverte, ci si sente anche a casa volendo, però l'esperienza del primo viaggio, quello della scoperta, rimane irraggiungibile.

Il TGV rimane secondo me l'opzione migliore, almeno da Torino: viaggio inferiore alle sei ore, niente spostamenti verso e dagli aeroporti, viaggio comodo, piacevole e, cosa molto importante almeno per me, rimane viva l'esperienza del viaggio che non diventa un semplice spostamento. In più tenete il culo per terra, cosa da non sottovalutare, volete mettere? Prenotando in anticipo si trovano anche offerte molto convenienti. Dalla Gare de Lyon dove arriva il TGV si prende poi la RER (una metro suburbana) semplicemente spostandosi al piano di sotto della stazione. Una mezz'ora e siete davanti al parco. Biglietti per due adulti e un bambino (sotto i 10 anni) circa 19 euro totali.

TGV, comodo anche per dormire

Consiglio: sfruttate gli anni delle celebrazioni se potete, quest'anno Disneyland Paris compie 25 anni, cinque anni fa ne compiva 20. In queste occasioni ci sono diversi sconti sui soggiorni delle strutture alberghiere del complesso del parco, sono molto convenienti, l'unico problema è che vanno esaurite in fretta. Sbrigatevi! Noi quest'anno alloggiavamo al Sequoia Lodge, una categoria superiore rispetto al Cheyenne nel quale alloggiammo cinque anni fa. Indubbiamente molto bello, più scenografico nella hall, nel verde che circondava l'hotel, ma se dovete risparmiare tenete conto che non c'è una grossa differenza con l'hotel della categoria inferiore, le strutture del complesso Disney sono comunque tutte molto carine, anzi forse il Cheyenne era anche più caratteristico, almeno per me che amo il western, al Sequoia invece il tema era quello dei grandi parchi americani in stile Yoghi e Bubu, personale abbigliato come il Ranger Smith e via discorrendo. Certo, al Sequoia c'è la piscina, ma mica andate a Disneyland per andare in piscina, quindi...

Ingresso al Sequoia

Confermo che Maggio è un ottimo periodo, bel tempo, anche se piove (ed è piovuto) difficilmente la pioggia dura molto, il parco non è sovraffollato, poche code e se soggiornate in uno degli hotel del complesso avete due ore in più per visitare il parco (dalle 08.00 alle 10.00) senza il pubblico che viene da fuori.

Confermo anche le difficoltà nel trovare buon cibo a prezzi ragionevoli, rassegnatevi a spendere molto o a ripiegare su fast food, panini, etc...

Per il resto valgono le osservazioni fatte cinque anni fa. Vediamo ora qualche novità.

Main Street è rimasta più o meno la stessa, questa volta ho potuto constatare che esiste realmente un barbiere che staziona al Dappen Dan's Hair Cut e che la parata è stata anticipata alle 17.30. Purtroppo ha molto meno fascino di quella che andava in scena cinque anni or sono, la musica è meno coinvolgente, ci sono meno carri, è un po' più contenuta.

Indiana Jones
La sezione di Fantasyland è rimasta più o meno invariata, potrà capitare magari di incontrare le nuove principesse venute fuori nei cartoni animati degli ultimi anni ma le attrazioni sono rimaste sostanzialmente le stesse. Lo spettacolo che si tiene alle 22.30 sulle pareti del castello della Bella Addormentata è invece ancor più mozzafiato di quello di cinque anni fa, un tripudio di suoni, colori ed emozioni, imperdibile e inimitabile. Non oso immaginare quanto spendano ogni giorno per realizzarlo (ma nemmeno quanto incassino ogni giorno dalle visite).

Anche Frontierland è rimasta la stessa, qualche novità, almeno per noi, in Adventureland. Purtroppo quest'anno è in manutenzione Pirati dei Caraibi, una delle attrazioni migliori di quest'area, di contro siamo riusciti a fare Indiana Jones e il Tempio del Pericolo, montagne russe che non eravamo riusciti a provare cinque anni fa. Nulla di particolarmente esagerato ma molto, molto divertente, ben calibrato, veloce, mai eccessivo, ottimo da fare con i bimbi (se non sono troppo fifoni).


In Discoveryland è sparita la giostra di Capitan EO ispirata a Michael Jackson, scelta probabilmente dovuta alla scomparsa dell'artista, si è puntato invece molto sul cinema 3D dedicato a Star Wars, lo Star Tours, esperienza divertentissima che ora offre addirittura diciassette esperienze di viaggio diverse implementate con i nuovi personaggi della saga cinematografica. Noi ne abbiamo provate tre.

Passiamo ai Walt Disney Studio, l'altro parco di Disneyland Paris. Qui per la seconda volta abbiamo trovato chiusa l'attrazione Armageddon e in più quest'anno era chiusa anche la sezione CinéMagique, sempre un po' fiacco l'Art of Disney Animation che andrebbe un po' svecchiato, bello invece il nuovo spettacolo che si tiene nel teatro dell'Animagique con Topolino alle prese con la magia.

Abbiamo inoltre provato i paracaduti ispirati ai soldatini di Toy Story, una versione (molto) in piccolo della Tower of Terror che invece abbiamo saltato anche questa volta.


La vera novità è stata però l'attrazione dedicata a Ratatouille: entrate in un vagoncino a forma di topo in un mondo che ricrea ad arte le ambientazioni e le dimensioni del film, tutto è gigante e voi siete il topo, un misto tra grandi ricostruzioni ed emozioni in 3D, non ci si muove moltissimo ma l'impressione è esattamente l'opposto, davvero di grande impatto visivo e molto molto divertente, cosa che ci ha spinti a fare due volte la giostra nonostante un po' di coda dovuta alla novità.

E questo è quanto, il prossimo aggiornamento magari tra altri cinque anni.

Ricostruzione del mondo Ratatouille

lunedì 15 maggio 2017

L'ENFANT - UNA STORIA D'AMORE

(L'enfant di Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2005)

Non è un Cinema facile quello dei fratelli Dardenne: lontano dalla spettacolarizzazione delle vite, privo di immagini lussuose e ricercate, moderato nei ritmi, forte nei contenuti capaci di scatenare riflessioni e di abbracciare sempre i campi dell'etica e della morale, stilisticamente semplice e adeso alla realtà. Pochi dialoghi, camera a mano (qui usata meno che in altre occasioni), protagonisti ai margini di una vita mai semplice, uomini e donne costretti a raffrontarsi con quel che deriva da esistenze lontane dalla tranquillità di un benessere acquisito, cresciuti nella povertà delle periferie e nelle prigioni di una cultura ridotta all'osso e della pratica del mero espediente.

In questo L'enfant, Palma d'oro a Cannes nel 2005, si denota un calore che in altri episodi della carriera dei Dardenne risultava attenuato da uno sguardo lucido e freddo, a tratti glaciale. Nonostante l'uso limitato della parola, quella tra Sonia (Debora François) e Bruno (Jérémie Renier) sembra essere davvero una storia d'amore sostenuta dalla sincerità dell'immaturità. Due giovani vagabondi, senza arte né parte, che vivono nella pochezza di una periferia (belga probabilmente) senza sbocchi, principalmente di espedienti e dei furti organizzati da Bruno, a capo di una piccolissima rete di delinquentelli minorenni tra i quali spicca il tredicenne Steve (Jérémie Segard). Nella prima sequenza del film è Sonia a vagare per queste periferie alla ricerca di Bruno, appena dimessa dall'ospedale, tra le braccia il loro primogenito neonato, il piccolo Jimmy. Ritrovatisi, nella loro peculiarità, i due hanno l'aria di essere una bella coppia nonostante tutto, di contro invece il neo padre mostra da subito poco interesse e anaffettività per il nuovo venuto. Ad ogni modo Bruno accetta di buon grado di riconoscere il bambino, in qualche modo i due riusciranno a trovare il modo di prendersene cura. All'insaputa di Sonia però, appena ne avrà l'occasione, con disarmante sufficienza, Bruno deciderà di vendere il bambino afferrando l'opportunità di guadagnare in un'unica soluzione un mucchio di denaro contante.


Quello che interessa ai Dardenne con tutta probabilità è mostrare le scelte che le persone sono disposte a prendere in situazioni difficili, anche quando queste sono per i protagonisti la loro normalità. Lo abbiamo visto ne Il figlio, lo si vedrà in seguito ne Il matrimonio di Lorna, scelte morali legate alla semplice sopravvivenza, alla speranza di una vita migliore, ponderate o prese con sufficienza. È difficile immedesimarsi fino in fondo, capire, anche solo immaginare situazioni per noi estreme se non le si è toccate con mano. Come si può vendere un figlio, o anche solo pensare di vendere un bambino? Come si può decidere di un'altra vita per soldi? Dilemma quasi inconcepibile eppure quotidiano, se non in questi termini sarà in altri, ma è cosa di tutti i giorni. C'è chi decide della vita di altri per soldi, è la quotidianità. Partendo da un episodio limite, i Dardenne ci mostrano proprio questo, scelte inconcepibili, filmate, narrate e riportate nella maniera più semplice e sincera possibile: è così che può accadere, se il contesto è quello giusto è tutto molto semplice.

Con la stessa semplicità la bellissima coppia d'attori Jérémie Renier e Debora François (qui all'esordio) mette in scena Bruno e Sonia, personaggi belli nelle loro imperfezioni, all'apparenza vittime, inghiottiti dal nulla, lui soprattutto, cresciuto con l'idea che il lavoro sia una cosa per poveri sfigati, estraneo al concetto di responsabilità, per altri versi giusto e generoso. C'è tanto dramma nelle opere dei Dardenne, inevitabilmente legato al contesto, al tessuto sociale, un tunnel, a volte più cupo a volte lambito da qualche raggio di luce, al fondo del quale non manca un'apertura, una possibilità di redenzione e di cambiamento.

Un Cinema povero di mezzi, ricco di contenuti, spesso giustamente premiato e tenuto in grande considerazione.

lunedì 8 maggio 2017

I PIONIERI

(di Mauro Boselli e Andrea Venturi, 2013)

Periodo parco di grosse novità questo di inizio anni 10 del nuovo millennio per il Texone, dopo Seijas e Civitelli, nomi già noti ai lettori Bonelli, è il turno di Andrea Venturi di apporre la firma in calce alle duecentoquaranta pagine dell'albo speciale dedicato al ranger del Texas. Questa volta rientra davvero tutto in un'onorevole medietà, una buona storia, classica, senza particolari sorprese e un lavoro da parte del disegnatore di turno diligente, inappuntabile nella sua professionalità, capace di avvalersi del valore aggiunto della tavola grande che raramente delude. Che poi al Texone si possa chiedere qualcosa di più è desiderio sacrosanto, l'albo ci ha abituati bene, il lettore si aspetta sempre qualcosa di straordinario che purtroppo non sempre si può avere. Trovare l'artista internazionale di grido o di comprovata maestria disposto a legarsi a un lavoro che per mole è un impegno oneroso in termini di tempo e fatica non deve essere poi così semplice.

Boselli ormai sceneggia con il pilota automatico, degno erede di Claudio Nizzi, difficilmente imbastisce storie che annoino, se si ama il western si apprezzeranno le trame dello scrittore che col genere ormai ha una confidenza naturale. Alla ricerca di trafficanti di armi e di acqua di fuoco, Tex, Carson, Kit e Tiger Jack incroceranno la strada di una carovana di pionieri intenti ad attraversare le terre degli indiani Piutes, tra loro anche una coppia alla ricerca del figlio ormai scomparso da anni.

Non c'è tantissimo altro da dire su I pionieri, una storia che avrebbe potuto finire a puntate tranquillamente sul mensile di Tex, l'albo risulta essere uno dei più anonimi e meno interessanti dell'intera storia del Texone (a mio gusto personale almeno), come accennavo sopra le tavole di Venturi non si possono criticare, anzi, lavoro professionale lungo il quale però si fatica a trovare il guizzo, la tavola che colpisce l'occhio o la vignetta che ispira meraviglia. Tutto fila via liscio come l'acqua, la narrazione, il ritmo della storia, i disegni, in una combinazione capace di garantire il giusto intrattenimento. Però, appunto, dal Texone è lecito aspettarsi qualcosa di più. Non male ma non sarà certo questo uno degli albi della serie che tra qualche anno i fan ricorderanno. Lo compri, lo leggi, te lo godi anche, ma poi si guarda avanti aspettando qualcosa di meglio.

martedì 2 maggio 2017

WARGAMES - GIOCHI DI GUERRA

(WarGames di John Badham, 1983)

Con l'eccezione de La febbre del sabato sera, film divenuto un vero e proprio cult, la carriera di John Badham si è sviluppata per lo più nelle seconde linee, rimangono nel suo curriculum diversi titoli conosciuti ma nessuno veramente di primo piano. Eppure alcuni di questi film, pur non essendo pellicole memorabili nell'economia della storia del Cinema, hanno contribuito a far appassionare al grande schermo più di un adolescente negli anni 80, inserendosi in quel filone di film per ragazzi ancora oggi ricordati con una forte vena nostalgica e con grande affetto. Penso a Tuono blu, Corto circuito ma soprattutto a questo Wargames - Giochi di guerra.

Gli elementi del genere, pur se non tutti presenti, sono risaputi. In un sobborgo di Seattle il giovane David (Matthew Broderick) nutre la sua passione per la nascente scienza dell'informatica ormai alla portata di tutti, si destreggia con abilità tra terminali, linee telefoniche e connessioni remote da attivarsi tramite la cara vecchia cornetta; accede tranquillamente al registro digitale della scuola (che da mia figlia non è completamente attivo nemmeno oggi) seduto comodamente sulla sedia della sua cameretta, falsifica i suoi voti e quelli della sua amica Jennifer (Ally Sheedy) e tenta di accedere alla nuova lista dei giochi della Protovision, software house sviluppatrice di prodotti in campo ludico.

Purtroppo per David, e non solo, quello che sta involontariamente hackerando non è un elenco di videogiochi bensì il WOPR, un super cervellone elettronico del NORAD, e la guerra termonucleare globale da lui selezionata non è solo uno dei giochi della lista bensì una simulazione di uno scontro nucleare tra Unione Sovietica e Stati Uniti pronta a trasformarsi in realtà da un momento all'altro.


I temi trattati nel film allo scopo di intrattenere lo spettatore più giovane sono interessanti ancor oggi contestualizzati a un'epoca storica in cui ancora risuonavano gli ultimi strascichi di guerra fredda e nella quale la tensione della minaccia nucleare creava sempre qualche grattacapo. Decisamente curioso rivedere i primi passi di tecnologie per noi ampiamente acquisite, forse proprio grazie a questi contenuti Wargames - Giochi di guerra rimane un film più che godibile ancora oggi, a differenza di altri film dello stesso segmento invecchiati decisamente peggio di questo.

Ovviamente c'è poi il principio di storia d'amore, ci sono i genitori poco attenti, c'è una buona dose d'avventura e quella capacità nel creare empatia con i giovani protagonisti che ha caratterizzato tanti film di quegli anni. C'è anche la comparsa di un Michael Madsen pre-Iene praticamente all'esordio. Il film diverte, si parteggia con piacere per i nostri eroi che in fin dei conti non devono far altro che scongiurare la Terza Guerra (termonucleare) Mondiale.

E, nella nostra infinità stupidità, anche uno scenario alla Wargames oggi sembra divenire nuovamente di grande attualità.

lunedì 1 maggio 2017

QUANDO C'ERA MARNIE

(Omoide no Mani di Hiromasa Yonebayashi, 2014)

Anche quelli che sembrano film minori all'interno della produzione del celebre Studio Ghibli, opere come questa dagli incassi meno sfavillanti di altre, si rivelano a tutti gli effetti dei piccoli gioiellini, lungometraggi d'animazione unici e imperdibili in anni in cui purtroppo l'animazione tradizionale, anche quando ben fatta, cede completamente il passo all'avanzata del digitale. Quando c'era Marnie è al momento l'ultimo prodotto dello studio, non è firmato dal maestro Miyazaki (che sta meditando di tornare al lavoro dopo diverse dichiarazioni d'abbandono), bensì dal ben più giovane Hiromasa Yonebayashi, classe 1973, già autore del riuscito Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento. Come il precedente, anche questo film è tratto da un libro rivolto ai ragazzi e presenta una storia di grande malinconia, triste ma anche piena di speranza come ogni percorso dovrebbe essere, solare nelle prospettive future e incisiva nei risultati di un itinerario di crescita che inevitabilmente tutti gli adolescenti sono portati a percorrere.

Quello di Anna non è semplice. Anna è una ragazzina schiva, solitaria e con parecchie difficoltà nel relazionarsi con i suoi coetanei. Figlia adottiva, cresciuta senza conoscere i suoi veri genitori e senza amiche, Anna si rifugia spesso nel disegno. Ai suoi problemi caratteriali si uniscono gli attacchi d'asma per combattere i quali la madre adottiva di Anna, Yoriko, manda la bambina a trascorrere un breve periodo al mare da una coppia di parenti. Nonostante i due siano tutt'altro che persone fredde, Anna continua a isolarsi iniziando a vagare nei dintorni della casa; si imbatterà in una bella villa all'apparenza abbandonata che inizierà a riprodurre su carta. Al calar del sole però la villa sembra animarsi, è nei pressi di questo luogo che Anna incontrerà la giovane Marnie, una ragazza che presto diverrà la sua prima vera amica. Ma, come spesso accade, quello che ci viene presentato dall'animazione giapponese, è un mondo magico, profondo e spirituale che riserva sempre delle sorprese.


In assenza del maestro Miyazaki e qui anche del contributo del cofondatore dello studio Isao Takahata, ancora una volta viene palesato quanto indispensabile sia per l'animazione di oggi l'esistenza dello Studio Ghibli. Difficilmente si troveranno altrove lunghi d'animazione d'una tecnica inappuntabile, con tematiche profonde, anche difficili sotto alcuni punti di vista, una vena malinconica così marcata in prodotti rivolti anche ai più giovani e quella sensazione di magia diffusa che aleggia all'interno di un'idea d'animazione affrancatasi dalla ricerca della risata a tutti i costi. Quando c'era Marnie è un film bello e triste (mia figlia ha terminato la visione in un'oceano di lacrime pur avendo apprezzato molto la storia), nelle vita non c'è solo la grassa risata e non sempre tutto fila liscio, è bello che anche l'animazione ogni tanto ne tenga conto. Le immagini di molti dei film dello Studio Ghibli si trasformano spesso in momenti di pace, in un incontro con i giusti ritmi che rifuggono la fretta e in una tavolozza di colori portatrice di serenità, anche quando la storia non si rivela sempre così serena.

In questo caso c'è molto del gotico inglese nel film, come inglese è il romanzo da cui la storia è tratta, ci sono i tempi e la magia dell'animazione nipponica in un connubio perfettamente riuscito. Resta solo da sperare che Miyazaki e Takahata tornino sui loro passi, che si rimettano al lavoro o che quantomeno lascino in mano a nuovi talenti come Yonebayashi il futuro dello Studio Ghibli che per nessuna ragione deve porre fine alla sua tradizione.

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