giovedì 29 giugno 2017

PIRATI DEI CARAIBI - OLTRE I CONFINI DEL MARE

(Pirates of the Caribbean: on stranger tides di Rob Marshall, 2011)

Proprio non ci siamo, con tutta la buona volontà a questo giro ci è scappata anche la pennichella, probabilmente nel complesso una delle saghe più noiose mai realizzate per il cinema. Il passaggio di regia da Gore Verbinski a Rob Marshall non solo non è bastato a portare al film nuova energia ma se possibile è riuscito ad alzare ancora il tasso di tedio medio per ogni singola sequenza. A parte questo, nel novero di pregi e difetti non ci si discosta di molto dall'episodio precedente.

Gli spunti buoni questa volta sono puramente estetici, l'inizio del film ambientato in una Londra d'epoca regala la falsa speranza di poter vedere finalmente un episodio più scoppiettante e divertente, Jack Sparrow (Johnny Depp) sembra in piena forma, la sequenza molto movimentata tiene desta l'attenzione, probabilmente proprio in virtù del fatto d'essere orchestrata per una volta lontano da mari e vascelli, ma tutto ciò si rivela ben presto un fuoco di paglia. Infatti nell'economia complessiva del film anche il protagonista si affloscia regalando meno siparietti dementi del solito, comunque utili per spezzare una narrazione faticosa, lunga e sempre uguale a sé stessa.

Le novità maggiori sono l'abbandono di gran parte del cast, a partire da Orlando Bloom e Keira Knightley (e per questo ringraziamo) per finire purtroppo con quello di diversi volti interessanti delle ciurme dei vari capitani. Sulla carta l'ingresso della bella Penelope Cruz nei panni di Angelica avrebbe dovuto aumentare il tasso di sensualità ma anche quello di capacità recitativa del film, purtroppo anche l'attrice spagnola non offre un'interpretazione memorabile e non lascia il segno. Non male il volto del pirata Barbanera (Ian McShane), villain dell'episodio alla ricerca della fonte della giovinezza, se vogliamo spenderci un nome, il personale Oscar del film potrebbe andare al bravo caratterista Kevin McNally, fedele sodale del capitano Sparrow.


Ai limiti del ridicolo la storia d'amore platonico tra la sirena Serena (Astrid Bergès-Frisbey) e il predicatore Philip Swift (Sam Claflin) introdotta alla bell'e meglio per sostituire l'insopportabile amorazzo tra Elizabeth e Will (Dio li abbia in gloria e li mantenga lontani dalle scene).

Cosa aggiungere? Verbinski ha abbandonato la saga per andare a girare Rango (Dio abbia in gloria anche lui), uno dei film d'animazione più interessanti dell'epoca moderna. Ora siamo pronti per andare a vedere (a gratis, ci tengo a sottolinearlo) il nuovo film della saga. Spero di non addormentarmi in platea. Se per qualche giorno non avrete mie notizie sapete dove trovarmi. Venitemi a svegliare.

mercoledì 28 giugno 2017

PIRATI DEI CARAIBI - AI CONFINI DEL MONDO

(Pirates of the Caribbean: At world's end di Gore Verbinski, 2007)

E anche il terzo è andato. Ai confini del mondo è praticamente il secondo tempo de La maledizione del forziere fantasma, ne riprende temi, trama e impatto visivo, sia per quel che riguarda fotografia e suggestioni sia per il lavoro fatto sugli effetti speciali, andando a creare col precedente film un unicum narrativo atrocemente interminabile.

Sul finale del secondo capitolo della saga lo spettatore aveva lasciato uno Jack Sparrow (Johnny Depp) in evidente difficoltà, tanto che si renderà necessario un viaggio nella dimensione dei morti, chiamiamola così, per andare a recuperarlo (io lo avrei lasciato volentieri lì), aleggiava odore di tradimento e a scombussolare ancor più le carte il ritorno in grande stile del Capitano Barbossa (Geoffrey Rush). Viene introdotta la leggenda dei Nove Pirati Nobili, nove Capitani che insieme dovranno adoperarsi per sconfiggere la Compagnia delle Indie, l'Olandese Volante e il suo Capitano Davy Jones (Bill Nighty), ormai al servizio della Compagnia.

Ma prima di tutto c'è da recuperare Jack, per farlo Barbossa, Elizabeth (Keira Knightley) e Will Turner (Orlando Bloom) dovranno chiedere aiuto proprio a uno dei Nove Pirati Nobili, Sao Feng (Chow Yun-Fat) di Singapore. L'introduzione dei Nove Pirati dona un po' di brio alla trama e riesce ovviamente a creare curiosità nell'attesa di scoprire chi siano gli altri pirati nobili (due sono gli stessi Barbossa e Sparrow). La presentazione di Sao Feng è molto ben orchestrata ma resta anche l'unica, purtroppo il resto del mistero si risolverà in un'accozzaglia di personaggi buttati in pasto al pubblico frettolosamente e senza nessuno spessore (e fare le cose di fretta in un film che dura 169 minuti è molto, molto male), bruciandosi la possibilità di allestire un bel super gruppo di pirati e magari anche un cast stellare. Non sarebbe stato male, infatti bastano due attori di caratura come Rush e Yun-Fat a risollevare le sorti di un film che, faccette a parte di Johnny Depp che nel fare il deficiente è comunque in gamba, si regge più che altro su ottimi caratteristi (la sporca ciurma) perché se fosse per gli altri due protagonisti... la Knightley e Bloom? Ma per favore...


Smontata l'attesa per la scoperta dei Nove Pirati Nobili il film si accartoccia nelle solite sequenze action, sulle mossette idiote di Sparrow, in scenari belli ma ormai triti e su un minutaggio sinceramente ancora una volta insopportabile. Alla fine la sensazione è quella di avere le palle triturate dalla macina in pietra di un mulino. Peccato perché diversi spunti buoni c'erano. Poi c'è la storia d'amore, il finale sofferto, etc, etc, etc.

Alla fine mi sono convinto (perché ne ho avuto diretta esperienza) che alla saga dei Pirati dei Caraibi è mille volte preferibile guardare tutto Heimat di Edgar Reitz in tedesco con i sottotitoli italiani, e sono novecentoventiquattro minuti. Capolavoro.

lunedì 26 giugno 2017

PIRATI DEI CARAIBI - LA MALEDIZIONE DEL FORZIERE FANTASMA

(Pirates of the Caribbean: dead man's chest di Gore Verbinski, 2006)

Sono riuscito a resistere per ben due anni prima di riprendere con mia figlia la visione delle gesta del Capitano Jack Sparrow (Johnny Depp) e probabilmente avrei potuto resistere anche di più. Poi un amico che ha diversi biglietti gratis da usare al cinema entro fine mese ci ha proposto di andare a vedere l'ultimo capitolo dei Pirati dei Caraibi, ahimè il quinto. Avendo un certo rispetto per l'arte cinematografica e tenuto conto dei vari riferimenti tra un film e l'altro della saga, probabilmente ci si prospetta una maratona a tema dedicata a una delle saghe per me meno interessanti sfornate al cinema negli ultimi anni (in fondo l'idea nasce da una giostra, in più i pirati non mi hanno mai attratto).

Mi sono approcciato alla visione de La maledizione del forziere fantasma (ancora una volta traduzione opinabile) con molta diffidenza date le voci insistenti che sostenevano la superiore qualità del primo capitolo (che già mi aveva tediato a morte) rispetto ai successivi. In verità devo ammettere che per quel che riguarda la struttura narrativa questo secondo episodio è riuscito a interessarmi un pelo più del precedente, non ho trovato sequenze esageratamente lunghe come quella sul finale del primo film ad esempio, c'è più equilibrio in questo secondo capitolo che a ogni modo rimane decisamente troppo, troppo, troppo lungo (151 minuti, pietà!) e, soprattutto a causa di ciò, comunque pesante e incline a provocare noia, tedio e istinti suicidi (ma anche omicidi nei confronti di Depp).

Sul versante visivo nulla da dire: ottimi costumi, bellissime location, begli anche gli effetti speciali soprattutto quelli usati per ricreare la ciurma maledetta dell'Olandese Volante e del suo mostruoso capitano Davy Jones (Bill Nighy), l'approccio se possibile mi è sembrato ancora più cialtrone di quello adottato nel primo capitolo, in fondo con un personaggio come Jack Sparrow per le mani non potrebbe essere altrimenti.


Su Elizabeth (Keira Knightley) e Will Turner (Orlando Bloom) pende una condanna a morte che solo lo stesso Will potrà scongiurare consegnando a Lord Beckett (Tom Hollander) della Compagnia delle Indie, il Capitano Jack Sparrow e la sua bussola magica. Nel frattempo Jack, a bordo della Perla Nera, è alla ricerca della chiave capace di aprire il forziere fantasma, oggetto indispensabile per affrancarsi da un vecchio debito con Davy Jones, trapassato Capitano dell'Olandese Volante. Come se ciò non bastasse l'incontro con il padre di Will, Bill Turner (Stellan Skarsgard) lascerà su Jack il marchio della macchia nera, una maledizione che renderà il nostro Capitano la vittima designata del mostro marino mitologico di nome Kraken.

Nel film c'è quello che ci si può aspettare da un episodio della saga: avventura, duelli all'arma bianca, battaglie navali, mostri, qualche bel personaggio ben riuscito e ovviamente una dose di ironia però meno azzeccata rispetto al capitolo precedente. Per quel che mi riguarda anche una buona dose di sano e buon vecchio tedio, forse un po' meno di quanto mi aspettassi però. In più il film finisce con il più classico dei to be continued... Si andrà avanti con la visione? È tutto nelle mani di mia figlia!

sabato 24 giugno 2017

UCCIDERÒ ALLE OTTO

(Lady killer di Ed McBain, 1958)

È una sensazione quasi rassicurante quella che procura il tornare tra le strade della Città; l'addentrarsi tra le vie del quartiere di Isola è sempre un piacere, nonostante il caldo afoso dell'Estate del '58. L'inizio di un nuovo romanzo con protagonisti i poliziotti dell'87° distretto è sempre un ritorno, è un ritorno all'interno di una struttura risputa (ma non per questo meno piacevole), è il ritorno nei confini noti di un genere codificato tra l'altro dallo stesso McBain, inventore del police procedural e, cosa ancora più importante, è un ritorno nelle giornate e nelle vite di un manipolo di personaggi ricorrenti che, romanzo dopo romanzo, crescono con il lettore. Se ogni singolo romanzo è un affresco corale delle azioni dei protagonisti inventati e scritti da McBain, l'insieme dei romanzi dedicati all'87° distretto è un'affresco su una città che cresce, che si muove, è il film delle vite di diversi uomini (almeno di quelle che non vengono spezzate dal crimine) delle loro scelte e soprattutto del loro lavoro. Nessuno di questi romanzi cambierà la vostra vita, nessuno è un vero capolavoro, tutti sono letture piacevoli che si fregiano del valore aggiunto di andare a creare tutti insieme una serie il cui valore è indubbiamente più alto di quello delle sue parti.

In Ucciderò alle otto sono principalmente gli investigatori Steve Carell, Meyer Meyer e Cotton Hawes a stare sotto i riflettori, insieme ai loro superiori, al sergente David Murchison e a Sam Grossman della scientifica. Questa volta tutto inizia con un bambino, dieci anni circa, biondo, di altezza media per la sua età, con indosso un paio di braghe di tela e una maglietta a righe bianche e rosse. Il bambino consegna una lettera al sergente di servizio e si dilegua. All'interno della busta aperta in seguito viene trovato il seguente messaggio scritto con ritagli di giornale: ucciderò LA LADY Questa Sera alle 8 Voi cosa potreTE Farci?

Vana minaccia di un burlone? Alzata di genio di un cittadino impazzito per il caldo? Avvertimento da prendere sul serio? Richiesta d'aiuto di uno psicopatico che inconsciamente vuol essere fermato? Queste le prime domande da sbrogliare per i detective dell'87° che si ritrovano tra capo e collo una situazione potenzialmente spinosa da risolvere nell'arco di una sola giornata di lavoro.

C'è una bella atmosfera nei romanzi di McBain, si torna alla vecchia New York dei 50, perché anche se non viene mai nominata è chiaro come la Città sia la Grande Mela e il quartiere di Isola rappresenti semplicemente Manhattan. C'è l'investigazione ancora dura e pura, lontana dai mille ammennicoli tecnologici dei racconti moderni, è tutto un lavoro di gambe, chiacchierate, inseguimenti e deduzioni, il giallo di un'altra epoca. Lo stile di McBain è molto semplice, scorrevole e leggibile in qualsiasi situazione: perfetto per il bagno, per la metro, per la spiaggia come per il letto. Per gli appassionati del genere probabilmente il recupero cronologico dell'intera serie dell'87° distretto potrebbe rivelarsi un'impresa non poco goduriosa.

Un giovane Ed McBain

giovedì 22 giugno 2017

WONDER WOMAN

(di Patty Jenkins, 2017)

Con Wonder Woman si aspettavano al varco sia la Warner Bros che il suo Dc Extended Universe dopo gli scarsissimi risultati (qualitativi almeno) di Dawn of Justice, quel pasticciaccio brutto di Batman Vs Superman. Il film dedicato all'amazzone proveniente dall'isola di Temyscira, pur non essendo perfetto, si rivela fortunatamente un bel passo avanti rispetto alla pochezza e alla confusione messe in scena nel film precedente. Il film soffre di alcune lungaggini dovute anche all'esigenza di presentare al meglio allo spettatore il mondo e il personaggio di Diana (Gal Gadot), obiettivo in ogni caso raggiunto, e si muove nella preparazione a un confronto finale sinceramente deludente, in parte a causa di un miscasting nella scelta dell'attore che interpreta Ares (qui non scriverò chi esso sia in quanto la notizia sfocerebbe nello spoiler), in parte per un impianto visivo che sfrutta la CGI in maniera davvero poco soddisfacente. Riassumendo: un prologo un poco lungo, un finale un po' così così, qualche pistolotto retorico di troppo ma anche un ottimo sviluppo di tutta la parte centrale del film durante la quale ho visto un approccio alla storia, alla guerra, che avrebbe fatto molto bene a un film di Capitan America ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale.

Si è parlato di film femminista, diretto da una delle poche registe attive a Hollywood (Patty Jenkins), con una protagonista forte ma anche molto ingenua, sicuramente giusta. Nonostante l'inadeguatezza di Diana nell'affrontare il mondo degli uomini (intesi come razza), causa scatenante di alcuni dei momenti più divertenti del film, effettivamente alcune situazioni e alcuni scambi di battute volte a svilire il ruolo dell'uomo (inteso come genere) hanno un chiaro stampo femminista, risultando sempre garbate e divertenti. Finalmente è giunto il momento di vedere sullo schermo una figura eroica tutta al femminile, capace di salvare la giornata (come dicono gli americani), cosa che effettivamente molte donne fanno tutti i giorni, ed è bello che questo personaggio, la mitica Wonder Woman, venga dipinto come totalmente positivo, in possesso di uno sguardo verso il mondo del tutto innocente, con la convinzione, certo fallace e semplicistica, che ciò che è giusto è giusto e ciò che è sbagliato è sbagliato e che si debba sempre agire di conseguenza. Concetto poco applicabile al nostro mondo, certo, ma in fondo è così solo perché noi l'abbiamo voluto o permesso. Wonder Woman è un personaggio di giustizia, di pace ma soprattutto di pietà umana, un'amazzone che si trova di fronte a un mondo che non conosce, sbagliato, brutale e ciò nonostante è capace di coglierne gli aspetti migliori e meritori di protezione.


Gal Gadot è stata una scelta vincente e convincente, sia nella sua versione guerriera, sia nel suo aspetto più innocente e spaesato di fronte a un mondo tutto da scoprire. Ottima presenza scenica, fisico impeccabile e un volto semplicemente da meraviglia (appunto wonder in inglese) che non fa rimpiangere la Linda Carter dei telefilm anni 70 ben impressa nell'immaginario popolare. Probabilmente tutti questi aspetti si perderanno un poco, è inevitabile, nel prossimo Justice League, dove a dividersi il palcoscenico ci saranno almeno sei grossi calibri (a dispetto dei soliti sette che costituiscono l'ossatura del gruppo nei fumetti): Batman, Superman, Wonder Woman, Flash, Cyborg e Aquaman. Nonostante il buon lavoro fatto con Wonder Woman, il prossimo film del DC Extended Universe rimane un'incognita a causa della mancanza di un'adeguata presentazione di diversi dei personaggi coinvolti, vedremo se in casa DC riusciranno a raggiungere i risultati ottenuti dal Marvel Cinematic Universe. Qualche passo nella direzione giusta lo si è fatto ma siamo ancora lontani dalla magia creata sullo schermo dai personaggi della Casa delle Idee.

martedì 20 giugno 2017

L'ORDA DEL TRAMONTO

(di Pasquale Ruju e Corrado Roi, 2014)

Chiudevo il pezzo sul precedente Texone, un poco deludente a mio avviso, con la frase "Lo compri, lo leggi, te lo godi anche, ma poi si guarda avanti aspettando qualcosa di meglio". Con il ventinovesimo Tex Speciale, nonostante si continui a pescare dal noto serbatoio Bonelli, quel qualcosa di meglio è effettivamente arrivato. Si mischiano le carte, alla sceneggiatura arriva Pasquale Ruju e i disegni sono affidati a quello che a tutti gli effetti è ormai un giovane maestro della nona arte: Corrado Roi. Nonostante Roi abbia lavorato su diversi personaggi (per ultimo il suo Ut) non solo di casa Bonelli, è principalmente a Dylan Dog che il lettore associa le matite del disegnatore lombardo andando subito con la memoria a episodi ormai divenuti dei piccoli cult come Il fantasma di Anna Never o Dal profondo. Ruju si dimostra qui intelligente e scafato nell'imbastire una trama capace di cogliere e valorizzare al meglio la natura inquieta del tratto di Roi, applicandola in maniera credibile a uno scenario classicamente western contaminato da qualche punta di mistero all'apparenza in odore di sovrannaturale. Il villain di turno è di quelli di peso, spaventoso e crudele, degno epigono di figure capaci di suscitare i giusti tormenti come potrebbero essere quelle del cavaliere di Sleepy Hollow o il famoso Conte Dracula. Forse non si arriva a tanto ma posso garantirvi che, passeggiando la sera, non vorreste incontrare nemmeno questo Vladar, sorta di apparizione fantasmatica capace di rivelarsi invece violentemente concreta e spietata, condottiero di un manipolo di cavalieri neri altrettanto brutali votati al massacro insensato e ingiustificato. Talvolta un atto di pietà verso un sopravvissuto, unico modo per diffondere la leggenda e il terrore legati a questo spaventoso colosso omicida.


Ma ogni azione ha i suoi motivi, non sarà facile per Tex e Carson scoprire quelli che stanno dietro ai comportamenti di Vladar, soprattutto nella strana cornice di un castello in stile europeo costruito nel bel mezzo degli Stati Uniti di tardo Ottocento. Le atmosfere di Roi sono semplicemente perfette per descrivere la tensione che nasce da una vicenda tetra, come sono ottime  le sue matite nel tratteggiare con segni asciugati, sporcati dai neri, a volte abbozzati in una sintesi magnifica, il personaggio carismatico di Vladar. Si intuisce già qualcosa di quello che si vedrà in seguito nelle stupende tavole di Ut, nonostante manchino sequenze visionarie e prettamente orrorifiche il lato buio di Roi non fatica a manifestarsi anche ne L'orda del tramonto, nelle espressioni trasfigurate dei volti, nei crepuscoli, negli schizzi di sangue, nelle figure inquietanti. Fuori dalle sue caratteristiche, nei territori del west, delle colt e degli spazi aperti, Roi si dimostra ancora una volta artista di razza in uno dei Texoni graficamente più interessanti.

Ottimo albo dove la sintesi tra sceneggiatura e matite trova perfetto compimento, rimane nella storia dell'albo speciale un confronto memorabile che anche i due pards non dimenticheranno facilmente.

sabato 17 giugno 2017

MISTERI IN VALLE

Qualche giorno fa, curiosando tra le proposte dell'area fumetti di un'edicola del centro, ho notato questo titolo, Misteri in valle, proposta che mai mi era capitato di vedere in precedenza. Albetto smilzo, copertina molto psichedelica nei colori e tratto molto, molto artigianale, un logo terribile piuttosto che no. Comunque l'albo è riuscito a incuriosirmi. Preso in mano, sfogliato, carta rigida e lucida, un banner pubblicitario ad ogni fondo pagina; la struttura, non so perché, mi ha ricordato il News che gira(va) nelle birrerie con l'elenco dei concerti locali e degli eventi live proposti dalle birrerie stesse. Quello che sembra essere il protagonista porta il volto di Bruce Willis, o così sembra. Guardo il prezzo, dieci centesimi, numero 1R. Lo ripongo diffidente, guardo altro e poi mi dico: "ma sì, per dieci centesimi".

L'iniziativa, che non ha suscitato in me nessun interesse a fine lettura, diciamolo subito per fugare ogni aspettativa ingiustificata, mi è sembrata comunque abbastanza particolare da spingermi a spenderci due parole. Di contro ammetto che questa possa risultare invece molto interessante per chi abita nella zona di Ciriè, luogo dove le storie sono ambientate, storie che hanno la classica impostazione del raccont(in)o giallo. Come afferma anche la presentazione in seconda di copertina, Alex Blanc è un investigatore privato californiano trapiantato in provincia di Torino che di volta in volta si trova coinvolto in un intrigo che si dipana lungo le ventotto tavole del racconto.

L'iniziativa si tiene in piedi grazie alla pubblicità, immagino che gli inserzionisti paghino a Il Risveglio, testata giornalistica della zona di Ciriè, del Canavese e delle valli di Lanzo, il costo dei banner a fondo pagina, magari un po' di più per lo spazio in seconda di copertina e ancor più per l'intera quarta di copertina. Ma la cosa che mi è parsa originale, e che rende la storia ancor meno interessante di quel che già è di suo, è la presenza all'interno del fumetto dei negozianti e delle attività della zona. Così uno dei protagonisti soggiorna all'agriturismo Cottino e scambia due parole con i proprietari (ricordati Roberta che quando torno in Francia voglio portarmi via un po' del vostro stupendo formaggio di capra!"), durante il palio di Ciriè la bella Martina compra da Marco della ditta Edra il carrello per la sua moto (erano anni che Martina conosceva Marco della Edra e Antonio della Ellebi. Aveva già acquistato da loro un carrello per trasportare la legna...). Immagino che quelli che compaiono nel fumetto siano gli inserzionisti che pagano di più. Tra uno spottone e l'altro procede l'avventura di Alex Blanc alle prese con un tesoro e un manoscritto rubato proveniente addirittura dalla Ciriè del 1536.

Ripeto, il fumetto è ai limiti del risibile, le matite di Veronica Alfieri hanno invece una loro dignità professionale per una pubblicazione di questo genere, sicuramente ci sono impegno e capacità dietro, probabilmente se fossi della zona acquisterei Misteri in valle con regolarità, così, per divertimento. Tra l'altro curiosando sulla pagina fb dell'iniziativa si può constatare come le uscite de Misteri in valle siano numerose, come alcune tavole non siano così male, indizi di un probabile buon successo commerciale almeno in valle.

Curioso notare come nei credits dell'albo, oltre a disegnatore e sceneggiatore (Claudio Broglio) compaiano i commerciali dell'azienda. Dai, onesti e originali.

venerdì 16 giugno 2017

ADAM WEST: IL BATMAN CAMP DEI 60

Con la scomparsa di Adam West per me è semplicemente morto Batman. Eppure il curriculum dell’attore vanta all'attivo quasi una cinquantina di film e una serie incalcolabile di apparizioni televisive all'interno dei più disparati telefilm, in un arco temporale che va dal 1954 fino al recente 2016. Ciò nonostante per tutti (sicuramente per me) Adam West è sempre rimasto il Batman camp della famosa serie tv degli anni 60. Dirò di più, per chi scrive Adam West è IL Batman. Non ci sono Christian Bale e Michael Keaton che tengano (seppur ottimi), è una questione di cuore: il ruolo del pipistrello va riconosciuto a questo attore autoironico, divertito, sovrappeso per la parte già all'epoca, macchiettistico in maniera talmente spudorata da risultare adorabile. Adam West è il Batman dell’immaginario popolare, a dimostrarlo restano l’affetto di squadroni di fans e le numerose apparizioni di West nel campo dell’animazione, all'interno dei più famosi show televisivi degli ultimi anni… dai Simpson ai Griffin; tributi che sottolineano la trasformazione dell’attore in vera e propria icona pop. Batman è amato da sempre per la sua essenza umana, privo di poteri, condizione che è sempre stata punto di forza dell’eroe ma che non gli ha permesso di vincere la sua battaglia con la leucemia, un nemico decisamente più mortale di un Joker o di un Pinguino qualsiasi. Ci piace omaggiare Adam con il ricordo di una delle sue cose più assurde, recupero di un pezzo qui proposto qualche tempo fa.

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Batman: the movie di Leslie H. Martinson, 1966. 

Ben prima della marea dilagante di cinecomics che ha ormai appestano le sale cinematografiche (spesso anche in senso buono), molto prima del Batman di Tim Burton e finanche prima del Superman interpretato da Christopher Reeve, c’è stato Batman: il film con la mitica e inarrivabile coppia d’attori Adam West (Bats) e Burt Ward (Robin, il ragazzo meraviglia, qui stranamente citato come il ragazzo prodigio in diverse occasioni). I due sono, come tutti ben sapranno, la coppia d’assi che ha interpretato il dinamico duo nella famosa serie dal sapore camp degli anni 60; il Batman saturo e colorato dalla spiccata vena faceta che aveva la riconoscibile caratteristica di presentare onomatopeiche nuvolette durante le sequenze di scazzottate con celebri villain e scagnozzi assortiti.


Sul finire della prima stagione, probabilmente per saziare la fame dei fan in crisi d’astinenza, si decise di realizzare un lungometraggio con protagonisti proprio quel Batman e quel Robin lì, sfruttando l’occasione per metter loro contro il meglio dei villains prodotti dalla serie in un’unica, ma assolutamente poco seria, associazione criminale. Abbiamo quindi la sensuale Catwoman (una bellissima Lee Meriwheter), il Joker (tradotto anche Jolly (sic) Cesar Romero), il Pinguino (Burgess Meredith) e l’immancabile Enigmista (Frank Gorshin). A dirigere il tutto il regista di stampo chiaramente televisivo Leslie H. Martinson, cresciuto a pane e telefilm. L’impressione è che per questo film si sia passati dal registro leggero e faceto proprio della serie tv a quello marcatamente cialtrone e demenziale espresso in Batman: Il film. Alcune sequenze sono indizio inconfondibile di questa scelta stilistica: rimangono tra le più famose quella iniziale con l’attacco a Batman da parte di uno squalo palesemente in gomma (allontanato con il Bat-repellente per squali) e quella in cui Batman fatica a disfarsi di una bomba in procinto di esplodere, incapace di trovare un posto privo di persone così da non mettere in pericolo nessuno. La bomba ovviamente è di quelle tonde con la miccia sopra, tipica dei più infantili cartoni animati. Tutto è macchiettistico, assurdo e delirante, la trama un pretesto per inanellare sequenze ai limiti del ridicolo che, ovviamente, sono talmente sceme che non possono non farti sorridere. Il film è dichiaratamente cialtrone, non si nasconde certo dietro a un dito: basti pensare al dinamico duo alle prese con gli indovinelli proposti dall'Enigmista… soluzioni imbecilli ricavate dalla prima cazzata passata per la mente di Robin (e sono cazzate enormi) presa poi per buona e che, nella stessa assurda maniera, porterà alla soluzione dell’enigma stesso. Mi sembra che nel telefilm non si arrivasse mai a tanto.


Il cast è più o meno lo stesso della serie tv (con l’eccezione dell’attrice che interpreta Catwoman); a completarlo ci sono Alfred (Alan Napier), il Commissario Gordon (Neil Hamilton) e il Sergente O’Hara (Stafford Repp). Largo sfoggio anche dei bat-veicoli: dalla stupenda Bat-mobile, al Bat-cottero fino ad arrivare al Bat-scafo e al Bat-sidecar con sganciamento ai limiti del ridicolo. Film per fans della serie, per i fans di Batman o, più semplicemente, per quelli delle puttanate a briglia sciolta. Visto in quest’ottica il film ha un suo perché, io e la mia bambina ci siamo divertiti parecchio. 

Come direbbe qualcuno, ciao Adam e grazie di tutto il pesce.

lunedì 12 giugno 2017

A-Z: AEROSMITH - TOYS IN THE ATTIC

L'ultima sortita degli Aerosmith in studio di registrazione ha prodotto esiti poco entusiasmanti, partorendo quel Music from another dimension (2012) che ha un po' l'aria della fiera del riciclo, album che con oggettiva onestà pensiamo non abbia elementi tali da poter essere ricordati nel prossimo futuro. Lasciamo quindi perdere le altre dimensioni e accontentiamoci di fare un salto nel passato, torniamo indietro nel tempo per tirare fuori i vecchi giocattoli dalla soffitta, e poi... just push play (o, ancor meglio, giù la puntina del giradischi).

Il balzo è di quelli lunghi, dal 1975 a oggi sono ormai passati quarantadue anni ed è impressionante (ri)scoprire come Toys in the attic, terzo album della band di Boston, abbia ancora oggi il sapore di una bella boccata d'aria fresca. Il mondo era diverso all'epoca, il rock era diverso, più giovane se vogliamo, meno eroso dal passar del tempo anche se già ben delineato per quel che riguarda il suo versante più classico. Steven Tayler (voce), Joe Perry (chitarra), Brad Withford (chitarra), Joey Kramer (batteria) e Tom Hamilton (basso) non erano degli innovatori (non lo sono mai stati), onesti e appassionati artigiani del rock, solo in seguito vere rockstar, aspettavano ancora il grande salto che era lì lì per manifestarsi, erano a un passo dal successo planetario che arrise alla band per ben due volte, degni esempi del modello americanissimo di ascesa, caduta e risalita.

Per delineare la caratura dell'album basti pensare all'uscita del primo singolo, quella Sweet Emotion che veniva pubblicata lo stesso giorno in cui chi scrive veniva alla luce, non solo per questo brano da me personalmente molto apprezzato. L'uso del talk box di Perry unito alla linea di basso di Hamilton (autore del brano insieme a Tyler) rendono l'intro del brano indimenticabile e immediatamente riconoscibile andando a siglare un piccolo pezzo di storia dell'hard rock più apprezzato dalle masse. Non anticipano, non inventano nulla gli Aerosmith, arrivano dopo nomi grandissimi, Zeppelin, Stones in primis ma chissà quanti altri, eppure incantano con un rock energico, sanguigno, immediato e melodico, dirompente come la title track dell'album, un pezzo di puro hard rock, impossibile classificarlo diversamente. Come ripete più volte lo stesso Joe Perry "in fondo le cose semplici sono spesso le più riuscite", così, senza fronzoli e orpelli, gli Aerosmith mettono sul piatto di milioni di americani un attacco fulminante e i cinque ragazzi di Boston si ritagliano la loro nicchia nella storia del rock (Toys in the attic rimarrà il loro maggior successo di sempre). Con l'eccezione di Joey Kramer, gli altri componenti del gruppo, Perry e Tyler in testa, contribuiscono tutti alla stesura dei pezzi connotando l'album di una forte carica sensuale con liriche che non sono nemmeno tra le più banali del vasto carrozzone del rock, i brani che si susseguono hanno tutti la loro giusta funzione all'interno di un album che si rivela buono come il classico maiale di cui non si butta via niente, nemmeno un pezzo, un maiale con una mela rossa infilata in bocca, la mela del peccato originale.

Impossibile non accennare a Walk this way, altro brano apprezzatissimo dal pubblico quanto importante per la band, ottimo successo nei 70 e motore della loro rinascita negli 80 dopo i vari disastri combinati dai Toxic Twins Tyler & Perry, grazie alla nuova incisione del brano insieme alle icone del rap di quegli anni: i Run DMC. Il pezzo presenta quello che è uno dei riff più famosi di tutti i tempi e un attacco di batteria riconoscibile fin dalla prima battuta, altro pezzo di storia. La band ha carattere, il loro sound si riversa in maniera armonica anche nella cover di Big Ten Inch Record, pezzo di matrice blues registrato nel '52 da Bull Moose Jackson, reso splendidamente in maniera sexy e accattivante dai cinque bostoniani. Toni più tesi e duri in chiusura di album con una poco conosciuta Round and round stemperati poi nella comunque energica ballad finale (You see me crying). Ancora oggi, a quasi quarantacinque anni dal loro debutto, sono ancora questi gli Aerosmith che ci piace ricordare e soprattutto riascoltare.


Toys in the attic, 1975 - Columbia

Steven Tyler: voce, armonica, percussioni, piano
Joe Perry: chitarra solista, talkbox
Tom Hamilton: basso
Joey Kramer: batteria, percussioni
Brad Whitford: chitarra ritmica e solista

Tracklist:
01 Toys in the attic
02 Uncle Salty
03 Adam's apple
04 Walk this way
05 Big Ten Inch record
06 Sweet emotion
07 No more no more
08 Round and round
09 You see me crying

mercoledì 7 giugno 2017

LA CONVERSAZIONE

(The conversation di Francis Ford Coppola, 1974)

C'è una bellissima sequenza iniziale sui titoli di testa di questo film di Coppola, una panoramica dall'alto di una piazza di San Francisco circondata dal verde (Union Square), la folla, un mimo che cerca di guadagnarsi da vivere, la musica inframezzata da suoni indecifrabili, incatalogabili, quasi alieni. Disturbi. L'occhio dello spettatore, quello della camera, scende progressivamente verso l'asfalto, la gente passeggia, il mimo cazzeggia. Rumori, cani. Si stringe sul mimo che inconsapevole si avvicina a Harry Caul (Gene Hackman) protagonista del film, il mimo lo lascia, la camera lo segue, è lui l'artefice indiretto di tutti quegli strani suoni che si odono, il massimo esperto d'intercettazioni in un'America post Watergate paranoica fino al parossismo. Tra la folla una coppia, giovani amanti osservati a vista, spiati, occhi, microfoni direzionali, sistemi d'amplificazione, un furgone per la registrazione, auricolari. Quattro uomini al lavoro, stralci di conversazione, l'impiego di forze e tecnologia allora all'avanguardia lascia pensare a un grande complotto politico, ma forse è soltanto la paranoia o sono i primi assaggi di un voyerismo di futura diffusione? Per Harry è solo lavoro, né più, né meno.

Con in mente i numi tutelari Hitchcock e Antonioni, rispettivamente per quel che riguarda l'impianto giallo anticonvenzionale e per il rapporto dello stesso con la tecnologia, Coppola ci presenta un paese impaurito, paranoico, che attraversa un momento non facile, impressione confermata anche dalla fotografia che restituisce una San Francisco lontana dall'essere una metropoli scintillante, e lo fa concentrando tutto il possibile nella figura di Harry Caul, un uomo che si porta un trauma grosso sulle spalle, una perdita dell'innocenza, forse l'ennesima se rapportata a quella di un paese messo in ginocchio dalle malefatte del suo Presidente, una perdita di fiducia e un enorme senso di colpa.

Questi drammi si traducono nella vita privata di Caul in una sola parola: solitudine. A nulla servono le fugaci compagnie femminili, i convegni, le festicciole improvvisate con quelli che sono colleghi e non amici. Ciò che resta al calar del sole è solo solitudine. E paranoia, strisciante, impalpabile, un pericolo che si annida ovunque: alle spalle, sotto la tappezzeria, nelle intercapedini dei muri, sotto le assi di un pavimento di legno, nel passato, nel senso di colpa incancellabile. Solitudine e un sax.


L'intreccio giallo passa in secondo piano davanti alla messa in scena di un personaggio magnifico interpretato da un Gene Hackman inappuntabile, perfetto, qui supportato dal bel volto di John Cazale e da un giovanissimo e infido Harrison Ford. Coppola è bravissimo a rendere al meglio un'atmosfera pesante dove sembra aleggiare quasi una presenza incorporea sulle sorti della coppia d'amanti e sulla sanità mentale dello stesso Harry, a poco valgono le brevi sequenze oniriche nel rafforzare un sentimento di per sé espresso già benissimo nelle scene "canoniche".

Ma il giallo ha una sua funzione, ci spiazza, ci riporta ancora e ancora sugli stessi elementi, su quegli stralci di conversazione, a quel pomeriggio di sole a San Francisco nella piazza di Union Square. Si ascolta, si riascolta, si ricostruisce. Percezione. Inganno. Tutto si traduce in una discesa agli inferi veicolata da una paranoia senza misure, accompagnata dalla musica, fino al suo stadio terminale.

La conversazione è Cinema maiuscolo, d'altri tempi come oggi si fatica a fare. Palma d'oro a Cannes, candidato all'Oscar come miglior film, si arrese solo davanti a Il padrino parte II, neanche a dirlo dello stesso Francis Ford Coppola quell'anno in totale stato di grazia.

lunedì 5 giugno 2017

VISIONI 63 - ELISABETTA STOINICH

Per il suo undicesimo compleanno, tra le altre cose, Laura ha ricevuto un bel libro dal titolo Storie della buonanotte per bambine ribelli - 100 vite di donne straordinarie nel quale, come è facile intuire dal titolo del libro stesso, vengono riassunte in'unica pagina le imprese di donne celebri e meno celebri ma tutte degne d'essere ricordate. Il grande valore aggiunto del libro è quello di presentare a corredo delle storie tantissime belle illustrazioni di artiste diverse, potrebbero essere queste lo spunto per presentare il lavoro di ottime illustratrici e di ravvivare la rubrica Visioni che latitava da queste parti da troppo tempo.

Iniziamo dalla prima di queste illustratrici, Elisabetta Stoinich, disegnatrice che ha spaziato in diversi campi a partire dalle illustrazioni per libri per ragazzi (ma non solo), occupandosi sia di copertine che di interni, di pubblicità, testi scolastici e videogames. Anche nelle tecniche di realizzazione dei suoi lavori la Stoinich non si pone troppi limiti, vediamo qualcosa:


Ada Lovelace Portrait



Ada Lovelace Portrait






Heathcliff - Wuthering Heights



Edgar Allan Poe

giovedì 1 giugno 2017

GUARDIANI DELLA GALASSIA VOL. 2

(Guardians of the galaxy Vol. 2 di James Gunn, 2017)

Apoteosi della pop-culture, dei valori familiari declinati in tutte le forme possibili, dettati dal cuore più che dalla carne o dal sangue, strapotere ai cazzari, ai reietti, ai respinti, vittoria della costruzione a tavolino del successo planetario (per rimanere in tema), tripudio visivo dell'era digitale ormai integrata perfettamente all'umano e festa dello storytelling, per una volta davvero per tutti (o quasi). Difficile credere che si possa uscire delusi dalla visione del secondo volume dedicato alle gesta dei Guardiani, cinema d'intrattenimento che non veicola contenuti altissimi ma che spinge tanti tasti, e sono tutti quelli giusti. Diverte, commuove, funziona soprattutto grazie a una carica fortemente demenziale, i Guardiani non sono un gruppo di supereroi, sono un gruppo di amici che si divertono a fare i cazzari, di tanto in tanto salvano il mondo, ma più che altro sono una famiglia, un po' scombinata ma vera. Sotto una coltre di bisticci, scherzi, insulti nei Guardiani tutti amano tutti, questo è l'unico collante che tiene insieme un mezzo terrestre autonominatosi lo Star-Lord, una combattente molto pericolosa (Gamora), un procione (ma non diteglielo) geneticamente modificato (Rocket), un baby albero formato bonsai (Groot) e un energumeno violento e demente (Drax). Il cast si allarga con nuovi potenziali membri, Mantis, disarmante nella sua innocenza, Nebula, sorella incazzata di Gamora, e Yondu qui figura cardine e protagonista di una delle sequenze più tamarre del film.


Spunta fuori dal nulla il padre di Peter Quill (Chris Pratt), figura che ha sempre mantenuto aperto una sorta di buco nero nell'anima dello Star Lord, ex bambino che guardava le stelle con la consapevolezza che il proprio padre era là, da qualche parte in giro nello spazio, un'assenza così forte e dolorosa da spingere Peter ad adottare nelle sue fantasie David Hasselhoff come figura paterna (e abbiamo detto tutto). Il padre in questione è nientemeno che Ego (Kurt Russell), il pianeta vivente, alla ricerca del figlio perduto, un figlio che ha la stessa potenzialità del padre di plasmare energia e realtà, un'unione che nella mente di Ego ha poco di paterno e molto di folle piano per asservire mondi. Nella roulette dei sentimenti torna prepotente la valenza altissima di una figura materna persa in tenera età e quella finora sottovalutata di un padre putativo, Yondu (Michael Rooker), ripudiato dalla sua gente a causa di quel bambino, tradito, solo, e che scopriamo essere stato mosso sempre dall'amore. I legami sono tutto in questo Guardiani Vol. 2, quello di amore/odio tra due sorelle, una delle quali più dell'altra porta i segni di una figura paterna sbagliata e indicibile, anche l'assenza di legami può pesare per chi nel suo albero genealogico annovera solamente provette da laboratorio, allora un manipolo di disadattati diventa facilmente tutto e tutti facilmente diventano figure genitoriali per un alberello in crescita che ancora non ha imparato a parlare (e mai lo farà, dice solo Io sono Groot), un essere che ha comportamenti, movenze e tenerezza tipiche di un bambino. C'è chi ha perso tutto e nel profondo, senza darlo mai a vedere, soffre terribilmente. Non parliamo poi del "non detto". È un film di sentimenti, spesso commovente, sempre divertente e ormai sembra davvero che in casa Marvel sia diventato difficile sbagliare un film.


Cast affiatatissimo, i vari elementi sono interconnessi alla perfezione e tutto l'ingranaggio è oliato da una colonna sonora, l'Awesome Mix Vol. 2, che è a tutti gli effetti una grande coprotagonista del film, capace di far diventare Cat Stevens uno degli artefici, tra i tanti, della buona riuscita del film stesso. Sui titoli di chiusura, inframmezzati da diverse scene finali, spiace quasi uscire dalla sala, ma tranquilli, veniamo subito rincuorati, i Guardiani torneranno prossimamente.

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