lunedì 22 gennaio 2018

LA GRANDE FUGA

(The great escape di John Sturges, 1963)

Per moltissimi aspetti La grande fuga mi ha ricordato il più celebre filmone bellico Quella sporca dozzina, diversi gli elementi in comune tra i due film per i quali è doveroso sottolineare che è proprio La grande fuga ad essere stato realizzato per primo, se c'è stata quindi ispirazione tra le due opere è quest'ultima che ha figliato in qualche modo il grandissimo film di Robert Aldrich. L'episodio che sta alla base delle vicende narrata ne La grande fuga ha moltissimi elementi di verità storica, il film, trasposizione del libro di Paul Brickhill, racconta quella che è stata una delle più ardite evasioni da un campo di prigionia tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale, nella fattispecie quella degli aviatori inglesi trattenuti dalla Luftwaffe nel campo Stalag Luft III a Sagan (attuale Polonia). La parte iniziale de La grande fuga presenta toni molto scanzonati, quasi da commedia, ci mostra l'arrivo di tutta una serie di personaggi, alcuni sopra le righe, appartenenti all'aviazione inglese e rinchiusi in un campo di prigionia gestito dagli ufficiali dell'aviazione tedesca. È chiaro fin da subito come l'unico interesse di pressoché tutti i militari inglesi (e qualche americano) sia la fuga, fuga tra l'altro già tentata da tutti loro in altri campi di prigionia, ragion per cui l'esercito tedesco decide di raggrupparli in un unico campo altamente sorvegliato. Il rapporto descritto da Sturges tra inglesi e tedeschi è però di massimo rispetto, c'è una gestione dei prigionieri da parte della Luftwaffe molto lasca che dà adito quindi a quella contaminazione tra il bellico e la commedia che così bene ha funzionato anche per Quella sporca dozzina. Appurato che il nodo centrale del film, come sottolineato banalmente anche dal titolo, sarà la realizzazione di una grande fuga, non resta che procedere all'assemblaggio di una squadra che realizzerà il piano per portare fuori dal campo il maggior numero di prigionieri, e si parla di un'evasione di circa duecentocinquanta uomini, almeno nelle intenzioni.


Anche in questo caso il cast è ricco, il volto simbolo del film è sicuramente quello di Steve McQueen nel ruolo del Capitano Virgil Hilts, che più volte fungerà da diversivo e da prezioso informatore, sue alcune delle scene più belle e iconiche del film, quelle della famosa fuga sulla motocicletta tra le verdi campagne tedesche. In film come questo non può mancare il volto imbronciato di Charles Bronson, uno degli addetti alla costruzione dei tunnel per la fuga, ovviamente claustrofobico, tutto il piano è coordinato da Richard Attenborough che si affida tra gli altri anche al falsario interpretato da Donald Pleasence, incaricato di fornire tutti i documenti necessari agli uomini che riusciranno ad evadere dal campo, all'attrezzista interpretato da James Coburn incaricato di costruire tutto il necessario per attuare il piano di fuga e al maneggione tuttofare interpretato da James Garner. Tra i numerosi altri volti spicca ancora quello di David McCallum, insomma sugli attori messi in campo (di prigionia) non ci si può proprio lamentare. La storia segue tappe obbligate, la regia non è mai invadente ma ci regala diverse sequenze spettacolari, il film si lascia guardare con piacere nonostante i 172 minuti di durata siano effettivamente un po' troppi, probabilmente qualcosa si poteva accorciare apportando ancora maggior beneficio alla tenuta globale dell'operazione. Come spesso accade in film di questo stampo, che sembrano prendere anche il volo con toni scanzonati e leggeri, arriva poi il pugno nello stomaco, perché la vicenda è reale, l'argomento maledettamente serio e i comparti tedeschi delle SS e della Gestapo erano sicuramente meno concilianti degli ufficiali della Luftwaffe. Come spesso accade in film di questo stampo alla fine, è inevitabile, si contano i morti, i cadaveri delle vittime venutesi a trovare di fronte alla barbara e insensata crudeltà del nemico. La grande fuga verrà tentata da molti, saranno molti meno quelli che riusciranno a portarla a termine con un esito positivo.

Dopo il successo ottenuto nel 1960 con I magnifici sette, John Sturges, che si porterà dietro anche parte del cast, riesce a fare il bis con La grande fuga, altro bell'esempio di come la Hollywood di quegli anni riusciva a portare in scena film spettacolari e prestigiosi con ottimi risultati.

sabato 20 gennaio 2018

ESSI VIVONO

(They live di John Carpenter, 1988)

Oggi godiamo a pieno dei frutti del Cinema, ora che sono quasi obbedisci infinite le potenzialità tecnologiche che ci permettono di poter frullare insieme numerosi stimoli e stilemi: un film glorioso degli anni del muto, una commedia scemotta o anche sofisticata per una serata più disimpegnata, sposatevi e proliferate, un Cary Grant d'annata, un cinecomics targato non pensate con la vostra testa Marvel (vedi alla voce Disney), una pellicola indie in odore di Sundance e chissà consumate quant'altro. Magari ti capita di guardare una di quelle super produzioni hollywoodiane lavorate otto ore al giorno dal budget stratosferico, con comparto tecnico da mozzare il fiato, con una storia che ha anche riscosso un ottimo successo e via discorrendo, poi il giorno dopo conformatevi ti imbatti in Essi vivono di John Carpenter, un film prodotto con un budget ridotto all'osso, girato in mezzo alla monnezza, con un protagonista restate addormentati che è più un wrestler che un attore e con un messaggio e una visione da veicolare sottomettetevi che tutto sommato si potrebbero anche considerare di grana grossa se solo non fossero guardate la tv così attuali ancora oggi, e ti chiedi come sia possibile che in qualche modo ci si possa sentire più attratti da quest'ultimo film che non da molto del resto.

Carpenter bada al sodo, risparmia su tutto a partire dal cast del quale la punta di diamante è il wrestler canadese di origini scozzesi "Rowdy" Roddy Piper, in quegli anni star della World Wrestling Federation allora nel periodo del suo massimo splendore, e che qui è ben centrato nella parte ma che indubbiamente non si può considerare un grande attore, si risparmia sulle location, si gira nelle periferie povere e malfamate di Los Angeles, si risparmia anche sugli effetti visivi che però, grazie a piccoli accorgimenti e a un trucco efficace, rendono bene quell'atmosfera da fantascienza un po' retrò stile Ai confini della realtà che con tutta probabilità il regista ha voluto omaggiare. Si risparmia anche sulle musiche in quanto composte dallo stesso Carpenter, musiche però di grande qualità, il regista è compositore di conclamata abilità, non per nulla lo score musicale della moderna Stranger Things guarda moltissimo proprio ai lavori del Carpenter musicista.


John Nada (Roddy Piper) arriva nei sobborghi poveri della città degli angeli in cerca di lavoro, purtroppo per molte persone la situazione non è rosea a causa di una crisi economica che sta impoverendo la gente a favore della classe abbiente. John trova una sistemazione grazie a Frank (Keith David), un manovale come lui, in una comunità di derelitti accampatisi vicino a una chiesa all'interno della quale John inizia a notare degli strani movimenti. Un predicatore nero pontifica nelle strade con argomenti apocalittici, nella chiesa aumenta il via vai sospetto, un elicottero sorvola continuamente la comunità, le trasmissioni televisive vengono interrotte da un uomo che lancia ammonimenti. Poi la chiesa viene presa d'assalto dalle forze dell'ordine, in seguito ai tumulti John si recherà all'interno di essa e troverà uno scatolone contenente degli occhiali molto particolari capaci di rivelare sconvolgenti verità. Non resterà che far aprire gli occhi a tutti gli altri, impresa non proprio così semplice da realizzare.


Essi vivono è una chiara e poco sottile denuncia al sistema del capitale, in America imperante da sempre, più che altrove, i ricchi sono visti come una razza di predatori pronti a schiacciare e sfruttare le altre persone divenute mere risorse tenute a bada da una campagna massiva e continua di messaggi subliminali che inneggiano all'obbedienza, al consumismo e al conformismo. Il film esce negli anni 80, un'epoca dedita al culto dell'immagine, dell'apparenza e del soldo (io sono il tuo Dio), qui ben rappresentata da ciò che ottunde la mente delle masse, la televisione, e dalla marginalità a cui è costretta parte della popolazione ormai utile solo ad alimentare il sistema. Sicuramente Essi vivono non è un film perfetto, tutt'altro, Carpenter si prende anche la briga di allestire una sorta di incontro di wrestling tra Piper e David che rasenta la decina di minuti all'interno di un film che ne dura meno di novanta, siamo nella pura serie B per povertà di mezzi, eppure anche questa pellicola col passare del tempo si è guadagnata la sua schiera di fedeli ammiratori, d'altronde altri esiti del regista sono ancor più apprezzati e ben più noti (La cosa, 1997: Fuga da New York, Halloween - La notte delle streghe, Grosso guaio a Chinatown), Carpenter non è quindi in discussione e non lo scopriamo certo oggi. Quello che c'è davvero di terribile in Essi vivono è la consapevolezza di noi spettatori, quelli di oggi, anno del Signore 2018, che i moniti lanciati attraverso arte e intrattenimento da Carpenter e chissà quanti altri, non abbiano aperto a sufficienza gli occhi delle persone, l'America di Reagan ha fatto i suoi danni, molti ce li portiamo dietro ancora oggi, la famosa forbice continua ad allargarsi e sempre più gente rischia di rimanere con in mano nada, proprio come John. È questa purtroppo non è fantascienza è più una deriva horror.

giovedì 18 gennaio 2018

COCO

(di Lee Unkrich e Adrian Molina, 2017)

Nonostante l'iperattività dimostrata dalla Pixar negli ultimi tempi, ben cinque film all'attivo in soli tre anni, la qualità media dei prodotti della casa cinematografica di Emeryville rimane impressionante. In famiglia ancora non siamo riusciti a vedere Cars 3 ma gli altri quattro film di cui accennavo sopra oscillano dal capolavoro (Inside out) al film perfetto per i piccoli (Il viaggio di Arlo), dal divertentissimo (Alla ricerca di Dory) al sorprendente (questo Coco). L'unica critica attribuibile alla visione in sala di Coco è quella di essersi dovuti sorbire anche il corto introduttivo Le avventure di Olaf dedicato al mondo di Frozen e al Natale, corto tra l'altro nemmeno troppo corto (21 min.) e già passato in televisione sulla Rai. Insomma, per chi come me non ama particolarmente Frozen, non proprio il massimo, tra l'altro il corto di per sé non è nulla di eccezionale e manca della carica innovativa o sentimentale sfoggiate da Pixar o Disney in altri loro cortometraggi precedenti. A Coco invece non si può dir nulla a mio modesto parere.

Coco punta a smuovere i sentimenti, a suscitare emozioni, giocando anche sul sicuro, facendolo però in maniera molto efficace, sulla scena finale del film, che non anticiperò, tranquilli, tutta la fila davanti alla mia aveva i fazzoletti in mano, mia moglie versava copiose lacrime e anche io non mi sono astenuto dall'inumidirmi un pochino la faccia. È un bel film Coco, un film che non mi aspettavo, che presenta elementi e letture semplici, almeno una per i bimbi e una per gli adulti, sviluppandole entrambe per bene, così come sono una gioia per gli occhi sia il mondo dei vivi con tutta l'estetica messicana a farla da padrone, sia il coloratissimo e psichedelico mondo dei morti, decisamente vivace anche per il più attivo dei viventi.


Miguel è un bambino cresciuto in una famiglia di calzolai ormai da generazioni, una famiglia che ha ripudiato la musica a causa dell'abbandono della moglie e della figlia Coco, bisnonna di Miguel, da parte di Ernesto de la Cruz, un sognatore divenuto poi il più celebre mariachi della storia del Messico. La musica viene vista come fumo negli occhi dall'intera famiglia, soprattutto dalla nonna di Miguel, l'Abuelita figlia di Coco, per sua (s)fortuna invece Miguel la musica ce l'ha nel sangue e non vorrebbe proprio rassegnarsi a metterla in un cantuccio. Miguel inseguirà il suo sogno (il tema per i più piccoli) a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, collegati grazie a eventi particolari avvenuti nel Dia de Muertos, la festa dei morti messicana, in un viaggio che metterà tutti di fronte all'importanza del ricordo delle persone che abbiamo perso e che ci hanno reso quello che siamo, alla finitezza del nostro essere dal destino inevitabile, o più semplicemente di fronte alla bellezza più universale dei legami importanti, qui condensati più sul versante familiare ma che si possono ricondurre a tutti quelli che in qualche modo, in tutte le fasi della nostra vita, ci hanno lasciato qualcosa di profondo.

È una favola adatta a tutti questo Coco, semplice, sentimentale ma viva, appassionata, divertente e ben riuscita. Ottimo l'impianto tecnico e scenografico, il film è curatissimo e bellissimo da vedere, forse meno eccezionali le musiche tenendo conto che proprio la musica è la passione di Miguel, nel complesso comunque non c'è nulla che stoni. Aspettiamo ora l'uscita in dvd perché anche questo film in casa nostra sicuramente non potrà mancare.

martedì 16 gennaio 2018

CHRISTIANE F. - NOI, I RAGAZZI DELLO ZOO DI BERLINO

(Christiane F. - Wir kinder vom Bahnhof Zoo di Uli Edel, 1981)

Ogni tempo porta con sé le sue gioie e le sue disgrazie, chi come me è nato verso la metà dei 70 ha probabilmente avuto la fortuna di arrivare in ritardo, o comunque in età davvero troppo tenera, per vivere sulla pelle quella grande tragedia che fu la massima diffusione dell'eroina tra la seconda metà dei 70 e gli 80 del secolo scorso. Ciò nonostante non era raro o inusuale, anzi, vedere qualcuno dei ragazzi più grandi spegnersi a poco a poco e d'improvviso, un giorno, scomparire. Le storie si sentivano, le vittime si conoscevano, era tutto reale, le siringhe erano a terra, ovunque, anche a scuola, spesso rimanevano infilate nelle braccia di ragazzi ancora troppo giovani. È nei primi anni di esplosione di questa piaga, a Berlino, una delle città più colpite dal fenomeno, che è ambientata la trasposizione del libro omonimo scritto dai giornalisti Kai Hermann e Horst Rieck sulla base delle testimonianze della protagonista Christiane Vera Felscherinow. Il regista Uli Edel, tornato alla ribalta nel decennio scorso grazie agli ottimi esiti del film La banda Baader Meinhof, asciuga di parecchio il libro eliminando dal film le riflessioni sulla società dell'epoca e mettendo poco sotto i riflettori le ragioni che stanno dietro le scelte di questi ragazzi che, più o meno consapevolmente, decidono di imbarcarsi in un viaggio che facilmente sarà senza ritorno. Si concentra invece sugli episodi, sul rapporto dei protagonisti tra di loro e con le droghe, sono poco presenti anche le famiglie e le figure di riferimento di questi ragazzi che in alcuni casi c'erano ed erano ben presenti. Queste scelte di regia scatenarono all'epoca d'uscita del film alcune critiche anche dure, non tanto per il rapporto del film con la sua fonte d'origine, quanto per la mitizzazione di alcune figure, per la critica dell'epoca fin troppo accattivanti, e per il relativo rischio che queste proiettassero sui giovani spettatori più uno spirito e un desiderio d'emulazione che non un forte senso di repulsione e orrore per le vicende narrate. Senza voler qui fare un paragone troppo approfondito con un'opera letteraria persa ormai nel ricordo d'una lettura avvenuta più d'un decennio fa, questo tipo di critica al film di Edel mi sembra ingiusta, volendo interpretare però anche la parte dell'avvocato del diavolo c'è da dire che anche queste, le critiche, andrebbero valutate all'interno di un contesto storico nel quale potevano sembrare certamente più fondate, proprio a causa della dimensione tragica che stava assumendo un fenomeno che indubbiamente generava molta paura e preoccupazione per le giovani generazioni. Mi sembra però che Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, almeno oggi che siamo meno immersi nel problema, vada a segno in quelli che erano i suoi intenti, per quanto si possa trovare qualche punto d'empatia con i protagonisti, e questo succede, sono chiarissimi tutti i rischi e il degrado, fisico, morale e sociale, alle quali una forte dipendenza può portare, così come è chiara la quasi inevitabile fine alla quale chi intraprende questa strada è destinato. Così come il libro, magari in misura minore, questo film è un bel documento di un'epoca storica ben precisa, di un fenomeno che non è mai stato debellato definitivamente e quindi da non dimenticare. A fissare nel tempo la vicenda, anche se con qualche contraddizione e in maniera non precisissima, c'è la musica di David Bowie che in quegli anni si trasferisce a Berlino, spinto anche dal desiderio di allontanarsi da una sua dipendenza dalla cocaina, dove creerà la celebre trilogia berlinese dalla quale diversi pezzi finiranno poi nel film di Edel. L'artista compare all'interno del film nei panni di sé stesso durante un concerto al quale Christiane (Natja Brunckhorst) e alcuni amici assisteranno, la presenza di Bowie e delle sue musiche contribuiranno in buona parte al successo del film.



La storia è quella di Christiane, quattordicenne che sta affrontando la separazione dei genitori e la conseguente decisione della sorella più piccola di lasciare casa per andare a vivere con il padre. Questa situazione spinge la ragazza verso la sua amica Kessi (Daniela Jaeger) insieme alla quale inizierà a frequentare le serate del Sound, discoteca nella quale gira qualsiasi tipo di droga. Vivendo le notti di una Berlino quanto mai ottundente, Christiane lega con Detlef (Thomas Haustein) e il suo gruppo di amici. L'escalation dall'uso dei primi acidi a quello delle droghe pesanti sarà graduale ma rapido, porterà la protagonista a vivere lo squallore delle notti tossiche berlinesi, l'esperienza dell'astinenza e quella della prostituzione. La messa in scena di Edel, oltre a restituire alcuni sguardi interessanti sulla città, assesta anche diversi colpi bassi, soprattutto se pensiamo al film in un'ottica educativa, con la possibilità magari di farlo vedere in qualche scuola a scopo didattico. Il film, che in quest'ottica sicuramente sarebbe interessante per contenuti, presenta qualche sequenza potenzialmente disturbante per gli animi più sensibili (e per i tanti allergici agli aghi), una su tutte la scena della disintossicazione con rigetto finale. Quello che viene meglio rappresentato è la discesa nello squallore e nella debolezza fisica, ma soprattutto mentale, che impedisce ai tanti ragazzi protagonisti del film di uscire da una tossicodipendenza che ormai li ha segnati in maniera ineluttabile. Al netto di critiche ormai datate, la buona fede del regista sembra evidente lungo il percorso di un film che ha tutte le potenzialità per far aprire gli occhi ai più giovani su una piaga e su un periodo che rischiamo di iniziare a dimenticare.

venerdì 12 gennaio 2018

BLACK MIRROR - STAGIONE 4

Black Mirror sta cambiando. Come prevedibile per un prodotto dalla qualità media altissima, il cambiamento si è portato dietro anche qualche inevitabile critica, alcune di queste tra l'altro non arrivano proprio come il classico fulmine a ciel sereno. Chi ha seguito la serie lungo le tre stagioni precedenti ne conosce a menadito le tematiche: critiche spietate e riflessioni argute sui futuri sviluppi della nostra società in rapporto all'evoluzione e all'uso scriteriato delle nuove tecnologie, dai social media all'intrattenimento fino alle applicazioni più avveniristiche che toccano realtà virtuali, coscienze artificiali e via discorrendo. Pur nelle numerose derive applicabili, il tema è circoscritto e tra le puntate dello show qualcosa inizia a ripetersi, lo sottolineo ancora una volta, tutto ciò era inevitabile e prevedibile. Inoltre, seguendo una strada tracciata in parte anche nella stagione precedente, sembra esserci un'autorialità maggiore, dettata probabilmente dalla partecipazione al progetto di registi già affermati (Jodie Foster, David Slade, Tim Van Patten, John Hillcoat, James Watkins, Joe Wright, tutta gente con già all'attivo diverse uscite cinematografiche), questo ha portato alla nascita di alcuni episodi che sembrano solamente lambire lateralmente quella che era la cifra stilistica, o ancor meglio di contenuti, dettata da Black Mirror. Alcuni di questi episodi semplicemente possono sembrare allo spettatore qualcosa di diverso da Black Mirror. Dallo scarto stilistico, dalla ripetizione di qualche contenuto, dalla qualità comunque altalenante delle singole puntate, è comprensibile come sia venuta fuori quel pizzico di delusione che mi sembra serpeggi in rete in merito alla nuova annata.

Fatta l'inevitabile premessa ammetto che sì, qualche punta di delusione l'ho provata anche io, soprattutto guardando la puntata d'esordio dove il sapore della ripetizione mi ha pizzicato più volte la gola. Giudicando la stagione nel complesso, sicuramente non riuscita come le prime e tenendo presente che non è più proprio quella Black Mirror che conoscevamo e amavamo, la tenuta della stagione mi è sembrata migliore della precedente, nessun episodio infatti mi è sembrato mal riuscito o troppo sbilanciato nel rapporto contenuti/coinvolgimento, anche il peggior episodio di questa stagione mi è sembrato migliore di almeno un paio della precedente, fermo restando che comunque da Black Mirror mi aspettavo di più, il problema è che ci hanno abituati troppo bene.

USS Callister (addirittura in odore di spin-off sembra), episodio nel quale si omaggia a piene mani il mito di Star Trek, ri-propone i temi delle realtà virtuali legate al gioco già visti in altri episodi e quello delle identità digitali (o intelligenze artificiali) più o meno autocoscienti, inseriti in una vicenda ben scritta e ben strutturata, con un bel cambio di visione da parte dello spettatore, vicenda che però emoziona e coinvolge poco e che ha il sapore del già visto. Simpatico però l'omaggio a Star Trek, qui sublimato nell'invenzione della navicella USS Callister e del suo equipaggio che richiama quello di Kirk e soci. Si guarda con piacere, forse un po' lungo, ma poco ci lascia.



Arkangel è uno dei due episodi che ho preferito, i temi dell'innesto tra tecnologia e umano, così come l'interfaccia tra la vita reale e un sistema di controllo digitalizzato, ci era stato già proposto fin dalla prima stagione, quello che qui invece coinvolge molto è l'aspetto psicologico della vicenda (che poi è forse l'aspetto più interessante anche dell'episodio precedente). Si riflette sul ruolo del genitore, sul labile confine che passa tra un giusto e doveroso controllo sulla vita dei propri figli e un comportamento invasivo che facilmente diventa dannoso per bambini e ragazzi soprattutto in ottica della loro maturazione e del raggiungimento di una giusta dose d'indipendenza. Assolutamente coinvolgente, soprattutto per chi genitore lo è davvero, gli spunti di riflessione sono ottimi, questa è davvero Black Mirror.



Crocodile. Questa invece no. Forse l'episodio più deludente del lotto. Si lascia guardare, con le dovute modifiche sarebbe potuto essere un buon thriller, c'è un'aspetto tecnologico legato all'estrazione e successiva visualizzazione su device dei ricordi, potenzialmente anche interessante ma qui usato in maniera pretestuosa. Belle però la fotografia e la scelta delle location. La meno Black Mirror di tutte?



Hang the DJ si gioca la mia preferenza assoluta con Arkangel, non si capisce bene fino in fondo se siamo davanti a un futuro terribile oppure no, c'è un bel messaggio di fondo in questo episodio a pensarci bene, e anche la peggiore coercizione che ci possa essere: quella dei sentimenti. Lei ti ama, tu la ami, in fondo siete tutti e due liberi ma non potete stare insieme, o almeno non potete deciderlo voi, decide il sistema. Per alcuni versi mi ha ricordato San Junipero, non è a quella altezza, ma anche Hang the DJ dimostra che quando i temi di Black Mirror incontrano i sentimenti e, perché no, anche una bella dose di romanticismo, possono venirne fuori degli ottimi risultati.



Metalhead. Non male se vogliamo come episodio, c'è un futuro distopico, fantascientifico, per chi piace un bel girato in bianco e nero, ma Black Mirror che c'entra?



Black Museum è forse l'episodio più sperimentale, interessante perché dimostra che qualcosa sta cambiando, è anche il più pasticciato se vogliamo, forse un punto di svolta? Nell'episodio compaiono degli elementi che omaggiano diversi episodi passati di Black Mirror, semplice divertissement o dimostrazione che tutti gli episodi (o quasi) si svolgono nello stesso mondo, nella stessa società e che in qualche modo sono collegati? In più Black Museum presenta tre storie diverse legate a un personaggio che le lega tutte e che orbita intorno all'ospedale di San Junipero, ancora identità digitali coscienti e ibridazioni uomo/tecnologia con qualche virata nell'horror e in un certo tipo di televisione proveniente dal passato. Strano, difficile da giudicare, un po' spiazza. Peccato che alcune idee, in nuce davvero buone, siano state condensate tutte insieme in un unico episodio.



La spinta innovativa probabilmente è in esaurimento, o ci si abitua alla ripetizione in qualche misura, o si accetta il cambiamento. Non resta che stare a vedere cosa deciderà per noi Charlie Brooker.

sabato 6 gennaio 2018

TWIN PEAKS

Qualche giorno fa, compilando le solite classifiche che si buttano giù ogni fine anno un po' per gioco e un po' per segnalare ciò che ci è sembrato valido tra le cose che abbiamo incontrato sul nostro cammino tra Gennaio e Dicembre, ho piazzato in cima alla lista delle migliori serie tv da me guardate nel 2017, il ritorno del Twin Peaks di David Lynch e Mark Frost. Cose valide quest'anno ne ho viste, ho guardato alcune delle più tese stagioni di The walking dead, quelle con Negan e Lucille tanto per capirci, ho visto lo splendido Stranger Things, Sherlock, Black Mirror e altro ancora, insomma di cose molto buone ne sono passate sugli schermi di casa mia. Twin Peaks è un'altra cosa. Lynch continua a essere avanti cent'anni rispetto a tutti, o forse vive più semplicemente in una dimensione parallela alla nostra che con noi ha solo qualche punto di connessione qua e là, questo spiegherebbe la visionarietà aliena del suo lavoro al quale schiere di attori hanno fatto a gara per partecipare.

Negli anni 90 I segreti di Twin Peaks rivoluzionò il modo di fruire la serialità televisiva in America (e di conseguenza nel mondo), creò quel senso di aspettativa e finanche di astinenza tra un episodio e l'altro che ancora oggi proviamo per le serie tv alle quali siamo più affezionati, lo faceva venticinque anni fa, con un anticipo impressionante rispetto a tutte le serie moderne arrivate agli stessi risultati con decenni di ritardo. Dimostrò inoltre come la serialità poteva uscire dalla schiavitù dell'episodio chiuso, dimostrò vincendo su tutti i fronti come si potesse proporre materiale fuori dagli schemi, personaggi stralunati e implausibili come protagonisti assoluti, vinse su tutti i fronti anche a livello di marketing, sdoganò temi e situazioni delicate in prima serata, appassionò milioni di spettatori unendo intrattenimento e una visione più alta e arty della televisione, mai così onirica, surreale e anche inquietante.


Poi, con calma, arrivò la nuova serialità di qualità, diffusa e abbondante. Tutti, registi, case di produzione, attori, spettatori, capirono che proposte qualitativamente sorprendenti potevano arrivare in misura ancor maggiore dalla televisione rispetto al Cinema. Si apre un mondo, un mondo fatto di serie curatissime, intelligenti, perfetti meccanismi a orologeria della scrittura, anche maniacali nella messa in scena e nella realizzazione. In questo florilegio di prodotti perfetti arrivano ancora una volta Lynch e Frost, che dopo venticinque anni sono ancora cent'anni avanti a tutti, capaci letteralmente di incantarti, di lasciarti a bocca aperta, di cortocircuitare passato, presente e, cazzo sì, anche futuro, con una narrazione immaginifica che sembra non avere ne capo ne coda, e tranquillamente fanno il culo a tutti quanti, e tanti saluti a tutti.


Non si può spiegare Twin Peaks, non avrebbe senso stare a raccontarne la trama che, seppur tra mille divagazioni, alcune surreali, oniriche e visionarie, altre semplicemente grottesche, c'è ed è sempre ben presente. Vive di momenti, sensazioni, emozioni, paure, inquietudini, rimandi e immagini, soprattutto immagini. Scelte di regia, scenografiche, di fotografia e montaggio, di effetti, taluni apparentemente anche ingenui, scelte sonore, visive. Atmosfera, atmosfera e ancora atmosfera. Anche nelle musiche, in ogni singolo episodio un'esibizione, non hanno voluto perdersi l'occasione di partecipare nemmeno Eddie Vedder, Sharon Van Etten, i Nine Inch Nails ne ovviamente Julee Cruise.

Forse non è neanche giusto mettere Twin Peaks al primo posto di un'ideale classifica delle serie tv migliori dell'anno (o anche di sempre), probabilmente dovrebbe stare in una classifica a parte insieme a prodotti a essa affini almeno per mentalità e intenzioni programmatiche. Purtroppo al momento di questi prodotti non ce ne sono, o almeno io non ne ho mai visti.

giovedì 4 gennaio 2018

STAR WARS: GLI ULTIMI JEDI

(Star Wars: The last Jedi di Rian Johnson, 2017)

Siamo a un punto di svolta, proprio per questo non mi riesce così facile esprimere un parere netto sull'ultimo episodio della saga di Star Wars, saga alla quale sono affezionato ma per la quale non ho mai sbavato in maniera incondizionata come accade a più d'un fan in fissa isterica per il brand. Star Wars mi piace, è un universo pieno di potenzialità più facili da esplorare in altri media come il fumetto o i videogiochi ad esempio, perché al Cinema c'è il problema del dover portare avanti la tradizione, la storia principale, e quindi anche quello di accontentare i fan, tutte cose anche comprensibili. Da ciò è probabilmente derivata l'impostazione del primo film della nuova trilogia, Il risveglio della forza, che personalmente trovai molto emozionante e riuscito. Questo perché io apprezzai proprio il ritorno alla tradizione, cosa vista da molti come una ripetizione, e che io vidi invece come il classico ritorno a casa (o un po' come le vecchie pantofole comode, fate un po' voi). Detto questo appare sempre più ovvio come il brand si debba rinnovare, per forza, onde evitare di dover girare i prossimi film tra reparti geriatrici e camposanti (senza voler essere irrispettoso, ci mancherebbe). I nostri eroi hanno una certa, il cambiamento è inevitabile, mi sembra sia lapalissiano come in qualche modo Gli ultimi Jedi segni con forza questo passaggio, rendendo sempre più centrali i personaggi di Ray (Daisy Ridley), Kylo Ren (Adam Driver), Poe Dameron (Oscar Isaac) e Finn (John Boyega), ridonando un'aura più umana alle leggende come quella di Luke Skywalker (Mark Hamill), congedandosi anche solo inconsciamente da protagonisti ormai rimpianti come Leia (Carrie Fisher). C'è una nuova generazione al comando ora, altre ancora più giovani sono pronte ad arrivare, il mito, la leggenda, non sono finiti, stanno semplicemente modificandosi, per godersi al meglio l'epopea futura di Star Wars si dovrà accettare la cosa o abbandonare, visto il potenziale ancora inespresso della saga io mi sento di consigliare la prima delle due opzioni.


Fatta questa per me indispensabile premessa posso dire di aver apprezzato anche questo film di Star Wars, sicuramente meno dell'episodio precedente che mi regalò un carico emotivo sicuramente maggiore (e che mi sembrava comunque in questo senso scritto meglio), ma anche questa volta non sono uscito deluso dalla sala. L'impressione generale è stata proprio quella del classico film di passaggio, da secondo episodio di una trilogia, ottimo per far crescere alcuni personaggi (Kylo Ren su tutti), farne uscire di scena altri (tranquilli no spoiler) e prepararsi a un ultimo capitolo dal quale però mi aspetto qualcosa di più. Comunque qualche perplessità rimane: alcune sequenze risultano un poco statiche e troppo focalizzate su un'unica situazione (la fuga della flotta ribelle), in generale, senza voler fare paragoni scomodi, si sente la mancanza di un avversario di peso, Kylo Ren ha delle potenzialità, alcune cose sono interessanti sulla sua ambiguità, purtroppo trovo Adam Driver davvero poco adatto alla parte, in due film non è mai riuscito a convincermi o a trasmettermi qualcosa. Ho trovato meno problematica la presenza dei Porg tanto criticati dai fan e che invece non influiscono quasi per nulla sull'andamento del film, certo sono stati inseriti per vendere i peluche e le tazze, ma ormai si sa che i soldi del merchandising superano quelli degli introiti cinematografici, quindi perché stupirsi, questi film non sono fatti per creare arte, non sono fatti principalmente per accontentare i fan e nemmeno per creare semplice intrattenimento, sono fatti per fare soldi, è inutile stare a disquisire sul sesso degli angeli o dei Porg. Non ho trovato nemmeno sequenze memorabili a dire il vero, c'è anche qualche cialtroneria, ma nel complesso il film è divertente, aggiunge un tassello alla saga, passa il testimone ad altro e per ora può bastare così. Se è tanto o se è poco sta a ognuno di noi giudicarlo, in una galassia lontana lontana è però giunto il tempo di lasciarsi il passato alle spalle.

mercoledì 3 gennaio 2018

FIRMA AWARDS 2017

Orgogliosi di arrivare ultimi! Anche quest'anno con notevole ritardo e prendendosela più che comoda, arrivano gli attesissimi (non si sa bene da chi) Firma Awards 2017, ovviamente gli awards più ritardatari e scombinati della blogosfera. Chi segue il blog già da qualche tempo sa che i miei awards sono letteralmente i miei awards, nel senso che in classifica ci finisce tutto quello che io ho visto e letto nel corso del 2017, non importa che poi il materiale sia stato edito nell'800 o che sia uscito in sala nel millennio scorso, chi se ne importa, è tutta roba che io ho guardato/letto quest'anno e tanto vi basti, altrimenti la roba vecchia valida quando la recuperate?

La strega qui sopra ci guarda male, pazienza, se ne farà una ragione anche lei. Quest'anno mischiamo un poco le carte. Ci saranno le solite categorie dedicate alle Serie Tv, ai Film d'animazione, quella alla quale tengo sempre un po' più delle altre, cioè quella dedicata ai Libri, e poi quella dedicata ai Film con una piccola novità, vorrei creare due podi, uno per i film del vecchio millennio (fino al 1999), l'altro con i film post duemila, vediamo se l'idea può piacere a qualcuno o anche solo se a qualcuno può fregargliene semplicemente qualcosa di questa bella pensata.

Senza ulteriori indugi che il 2019 già si appropinqua veloce, andiamo a incominciare. Partiamo dal trittico scelto per la categoria FILM D'ANIMAZIONE, categoria mista con roba vecchia e nuova, da segnalare che quest'anno non siamo riusciti ad andare a vedere i film Pixar (Cars 3 e Coco) che entreranno in concorso l'anno prossimo o quando diavolo riusciremo a vederli. La scelta verte su una selezione di una dozzina di titoli visti o poco più.

Terzo classificato:
Lego Batman - Il film di Chris McKay
Puro divertimento, messaggi facili da intuire e un campionario infinito di citazioni, rimandi e prese in giro del gotha della pop-culture del quale la LEGO ha acquisito i diritti di sfruttamento. Cazzaro e fracassone, un film per farsi quattro risate alle spalle di un'icona ormai immortale: Batman.

Secondo classificato:
Oceania di Ron Clements e John Musker
Nonostante non sia personalmente proprio impazzito per l'ultimo film targato Disney è innegabile come i ragazzi a stipendio nella casa del topo ci sappiano davvero fare, alla fine dobbiamo rendere merito ai grandi di aver indovinato ancora un altro colpo. Inaffondabili.

Primo classificato:
Quando c'era Marnie di Hiromasa Yonebayashi
Quando entra in gioco lo Studio Ghibli il gioco per tutti gli altri diventa molto, molto duro. Mi sembra non ci sia paragone tra le proposte del team nipponico e quelle degli ideali avversari, Quando c'era Marnie è un film triste, commovente, d'una bellezza semplicemente diversa. E niente, siamo proprio adagiati su uno scalino più in alto, ovviamente qui rappresentato da quello più alto del podio.

        


Passiamo ora alla categoria SERIE TV delle quali stranamente quest'anno sono riuscito a visionare complessivamente circa una quindicina di stagioni distribuite tra diversi titoli, segnalo tra l'altro anche la visione (finalmente) delle prime due stagione dell'osannata Il trono di spade che a mio avviso non è riuscita a meritarsi un posto sul mio personalissimo podio. Ricordo ancora che si vota il meglio del mio 2017, cose vecchie comprese.

Terzo classificato:
The walking dead (stagioni 6 e 7) di Robert Kirkman e Frank Darabont
Arriva il Negan di Jeffrey Dean Morgan e cambia il volto alla serie, forse meno introspettiva e carica di significati del solito ma emozionante e dura come non mai, terzo gradino del podio grazie soprattutto a queste due stagioni, purtroppo il primo mid season dell'ottava si è rivelato una delusione epocale.

Secondo classificato:
Stranger Things (stagioni 1 e 2) dei Duffer Brothers
Amore a prima vista. Una delle serie più goduriose di sempre, soprattutto per chi come me è cresciuto negli anni 80, vestito male come i protagonisti di Stranger Things (o quasi). Prima stagione folgorante, seconda ottima. In attesa...

Primo classificato:
Twin Peaks (stagione 3?) di David Lynch e Mark Frost
Negli anni 90 Lynch era cent'anni avanti a tutti. Oggi Lynch è ancora cent'anni avanti a tutti. Non c'è niente e nessuno come lui, è innegabile. Può piacere, può non piacere. A me piace e non ce n'è per nessuno.

        



Bene, bene. Archiviate le serie tv, andiamo ora a occuparci della prima delle due categorie dedicate ai FILM, quella relativa alle pellicole PRE NUOVO MILLENNIO, tutti film usciti prima del 2000 e che io ho recuperato solo quest'anno. Categoria stramba dite? Beh, può darsi, perché però non dare visibilità anche a vecchi capolavori che spesso anche molti appassionati di cinema, specialmente tra i più giovani, trascurano? Mettiamoci una pezza. Film scelti per entrambi i podi tra un campione di un'ottantina di film su per giù, equamente distribuiti tra vecchi e più recenti.

Terzo classificato:
Americani di James Foley
Cinico spaccato dell'America del lavoro e del capitalismo spietato, riflessione sull'individualismo esasperato che uccide ogni forma di solidarietà. Cosa si è disposti a fare per andare avanti ancora un po', nuotando nel lerciume? Anno 1992.

Secondo classificato:
Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci
Mai avrei immaginato un Bertolucci su un mio podio ideale, principalmente per ignoranza mia, invece ho scoperto un film, che al netto delle polemiche e dell'apparato erotico, si è rivelato essere un ottimo film tout-court. Chapeaux. Anno 1972.

Primo classificato:
Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti
Capolavoro, niente di meno, difficile da condensare in due righe. Cliccando sul titolo del film il link vi porterà al commento completo. Guardatevelo sto' film che male non vi farà. Anno 1960.

        



Attingendo dallo stesso calderone creiamo ora un podio virtuale per i FILM POST 2000, diciamo quelli più recenti, ricordando che questi non sono gli Awards 2017 bensì i Firma Awards 2017, e tra le due cose c'è una differenza abissale. Decisione comunque che è stata davvero difficile da prendere, filtrata ovviamente dal gusto personale e creata con l'ottica di premiare un podio il più possibile vario.

Terzo classificato:
La pazza gioia di Paolo Virzì
La pazza gioia è forse quella di vedere un film italiano davvero bello, ben recitato, con un paio d'attrici in formissima, diverso, valido. Una bella soddisfazione. Anno 2016.

Secondo classificato:
Una separazione di Asghar Farhadi
Bellissimo film iraniano, povero di mezzi ma carico di contenuti, invidiabile anche per il nostro Cinema a volte decisamente più ricco ma anche più inutile. Un'escalation di situazioni in una cornice assolutamente quotidiana. Da recuperare assolutamente. Anno 2011.

Primo classificato:
The wolf of Wall Street di Martin Scorsese
Quando Scorsese torna grande non ha rivali, è nel suo ambiente con il sodale e bravissimo Di Caprio, ne esce un filmone di quelli che è impossibile non amare. Spettacolo. Anno 2013.

        



Chiudiamo ora con la categoria LIBRI, con la media di circa un libro al mese all'attivo il materiale tra cui scegliere non è forse tantissimo, comunque un podio riusciamo tranquillamente a tirarlo fuori. Intanto una menzione speciale all'ibrido Funghi di Yuggoth e altre colture di Alan Moore, un po' libro, un po' fumetto, attribuiamogli un simbolico premio della critica che se lo merita. Vediamo ora il podio:

Terzo classificato:
Ehi Prof! di Frank McCourt
La prosa dello scrittore irlandese non tradisce mai, anche quello che può sembrare un argomento di scarso interesse ai più diventa nelle sue mani materia divertente e di formazione. Un libro che mette addosso ottimismo e speranza. Cose importanti.

Secondo classificato:
54 di Wu Ming
Sulle orme di Ellroy il collettivo Wu Ming presenta un romanzo corale italiano davvero ben riuscito: divertente, appassionante e istruttivo. Ottima lettura.

Primo classificato:
Underworld di Don DeLillo
Altra categoria, non è lo stesso campo di gioco e non è nemmeno lo stesso sport. Il decadentismo americano in un romanzo fluviale e disorganico da un autore semplicemente illuminato. Capolavoro.

        

E direi che la chiudiamo qui.

lunedì 1 gennaio 2018

FIRMA AWARDS 2017: SEGNALAZIONI FUMETTO

Ancor più dell'anno scorso mi risulta difficile proporre una classifica seria e ragionata sul quel che di meglio ha avuto da offrirci l'annata appena terminata per quel che riguarda il fumetto. Il mio definitivo allontanamento dal mondo delle fumetterie, dovuto a cause di forza maggiore ed economiche, ha ridotto le mie letture alla fruizione di fumetti reperibili nelle edicole e molto spesso di mero intrattenimento, a parte qualche sporadica eccezione, di grandi capolavori non se ne è vista nemmeno l'ombra, mi limiterò quindi a segnalare qualche serie che ho trovato piacevole e divertente e magari qualche volume che sono riuscito a recuperare qua e là, in realtà questi non sono più nemmeno dei veri awards, giusto qualche piccola segnalazione se qualcuno avesse qualche soldino da investire in qualche recupero sfizioso.

Mischiamo tutto insieme quindi, inediti, ristampe, vecchi recuperi, giusto così per far due chiacchiere, nessuna classifica quindi, segnalazioni in ordine casuale.


Il Texone: proposta inossidabile che continua a regalare soddisfazioni, se un poco vi piace il west, se amate l'avventura più classica, con il Texone difficilmente si cade male. Quest'anno poi ho avuto modo di recuperare i lavori sulla serie di gente come Carlos Gomez, Corrado Roi ed Enrique Breccia, c'è poco da discutere.

DC Universe Rebirth: questo albo speciale orchestrato dal guru di casa DC Geoff Johns rimescola per l'ennesima volta lo status quo dell'Universo Dc Comics, questa volta sembra farlo in maniera realmente rivoluzionaria, ancora una volta c'è Flash tra i protagonisti ma le implicazioni scaturite fuori da questo albo, ottimamente scritto, pregno di momenti davvero ben riusciti e con un colpo di scena da far tremare le gambe (rovinato dai numerosi spoiler in rete), sembrano davvero essere di quelle grosse. Un albo che effettivamente riesce a far nascere la voglia nel lettore di avere altro, peccato che poi le pubblicazioni Lion siano praticamente sparite dalle edicole e quindi niente... (o quasi).

Jessica Blandy: non male la riproposta nel Maxi Lanciostory e Skorpio di questo thriller francese con protagonista la sexy giornalista Jessica Blandy, matite non sempre eccezionali di Renaud ma lo scrittore Dufaux presenta delle buone sceneggiature intrise di intrighi e atmosfere malsane, un buon recupero.

        



Doctor Strange: tra le serie di casa Marvel più fresche e disimpegnate, puro divertimento in gran parte sregolato grazie alle matite di un incontenibile (a volte fino alla fatica) Chris Bachalo, il buon Dottore si ritrova protagonista nell'Universo Marvel in un susseguirsi di minacce capaci di minare alle fondamenta la stessa esistenza della magia. Un'occhiata laterale a un universo narrativo che ormai conosciamo fin troppo bene.

Franz: cito qui Franz perché è forse il lavoro di Altan che più mi ha divertito tra quelli riproposti dall'Editoriale Cosmo nella collana I Maestri del Fumetto, ma anche Ada nella giungla e Macao, come ogni singolo pagina pubblicata nei due volumi dedicati ad Altan, meritano la lettura, ho scoperto il genio di un autore che conoscevo solamente grazie alle sue vignette satiriche. Grandissima rivelazione.

Aliens Defiance: primo impatto per me con il mondo a fumetti dedicato al brand di Alien, i tipi della Saldapress portano in edicola del materiale legato al mondo creato da Ridley Scott al Cinema partendo da questa miniserie tutto sommato ben gestita e divertente. Per chi ama il brand ma anche solo la fantascienza questa miniserie potrebbe riservare qualche oretta di piacevole lettura.

        



Super Eroi Classic: iniziativa legata a diversi quotidiani che ha l'ambizione di ripresentare gran parte del materiale Marvel degli anni 60 (per ora) iniziando proprio dalle primissime storie dei più celebri personaggi della casa delle idee: una bella confezione per assaporare nuovamente (o anche per la prima volta) gli esordi dei Fantastici Quattro, dell'Uomo Ragno, di Iron Man, di Hulk, di Thor, di Devil e dei Vendicatori.

Le Storie: collana antologica di casa Bonelli che riserva sempre qualche piacevole sorpresa, tra alti e bassi comunque una serie che si segue sempre con un certo piacere.

Jonathan: difficile descrivere il lavoro di Cosey, un viaggio quasi spirituale che vale la pena di seguire, ristampato per pochi euro all'interno della Collana Avventura di Gazzetta dello sport. un recupero consigliatissimo vista anche la mole abbastanza ridotta del materiale da recuperare.

        



Alack Sinner: mai abbastanza grati all'Editoriale Cosmo per le sue riproposte, l'integrale dedicato alla creatura di Munoz e Sampayo è stata tra le migliori, peccato che abbiano preso una brutta piega nella gestione dei prezzi degli albi, cosa che mi ha spinto ad abbandonare molte loro proposte. Un vero peccato perché il materiale valido ce l'hanno.

Batman Rebirth: unica collana reperibile dalle mie parti del post Rebirth, Batman è sempre Batman, difficilmente delude e un giro tra le strade buie di Gotham o sui suoi tetti lo si fa sempre più che volentieri, tanto c'è il pipistrello a proteggerci. E ora ci sono anche Gotham e Gotham Girl...

Lazarus Ledd: speciale conclusivo della saga leddiana, portato a termine da Leo Ortolani dopo l'improvvisa morte di Ade Capone. Non un albo eccezionale ma un bel viaggio sul viale dei ricordi, ritrovare tutti quei personaggi dopo tanti anni di lontananza è stato un vero piacere.

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