martedì 29 maggio 2018

SOLO: A STAR WARS STORY

(di Ron Howard, 2018)

L'origin story dedicata al contrabbandiere Han Solo (Alden Ehrenreich) è un classicissimo film studiato per accontentare i fan più tradizionalisti dell'universo di Star Wars e allo stesso tempo per poter intrattenere un po' tutti i tipi di pubblico. In fondo non poteva essere altrimenti data la scelta di Ron Howard dietro la macchina da presa, un regista dallo stampo classico, capace di portare a termine ottimi film in maniera impeccabile ma non proprio uno sperimentatore. Alla fine anche questa volta il caro Richie Cunningham ha fatto un buon lavoro, è anche vero che la prima scelta era caduta sull'accoppiata ben più anarchica formata da Lord & Miller, provenienti dall'animazione e autori dello splendido The Lego Movie, probabilmente avremmo visto una versione del Solo giovane ben più cazzara e imprevedibile, ma sai com'è?, ormai anche Star Wars è un brand di proprietà Disney e quindi la scelta finale non stupisce più di tanto. Ad ogni modo i motivi d'interesse nel film sono più d'uno, alcuni scontati ma ugualmente attesi dal pubblico, come ad esempio il primo incontro tra il protagonista e l'inseparabile Chewbecca (Joonas Suotamo). E poi volevamo perderci il piacere di assistere finalmente, dopo decenni d'attesa, al primo volo di Han sul Millennium Falcon? A quella famosissima partita a carte durante la quale Han vinse il Millennium dal precedente proprietario Lando Calrissian (Donald Glover) e soprattutto all'ormai storico viaggio in cui Han, alla guida del Falcon, percorse la rotta di Kessel in meno di dodici parsec? Si, lo so, è un po' una cosa da nerd, ma siamo a tutti gli effetti nel mito.

Per il resto il film ha una struttura molto lineare, assistiamo alla vita difficile che Han e la sua ragazza Qi'ra (Emilia Clarke, la Daenerys Targaryen del Trono di spade) conducono sul pianeta di Corellia, schiavi della viscida Lady Proxima. Durante un tentativo di fuga i due verranno separati, solo Han riuscirà a fuggire finendo negli anni seguenti a servire nella fanteria dell'Impero ma col fermo proposito di diventare quel pilota di prim'ordine che tutti conosciamo. Durante una delle battaglie della fanteria imperiale Han si imbatterà nel gruppo di contrabbandieri capitanati da Tobias Beckett (Woody Harrelson), l'incontro sarà l'occasione per affrancarsi dal fango della fanteria e volare finalmente verso lo spazio aperto.


Non aspettatevi quindi particolari sorprese, il giovane Han è già il prototipo del suo io adulto: sbruffone, sempre pronto a ficcarsi in qualche casino, attratto dall'illegalità ma col cuore inequivocabilmente al posto giusto. Un eroe romantico disposto a rischiare tutto per salvare la sua bella (e in futuro la sua principessa, come nelle favole), un amico fedele, una figura al 100% positiva, anche quando tenta di mascherarlo. Il suo amore sarà tutto per Qi'ra, il rispetto e l'amicizia per il delinquente Beckett, il lato da buddy movie sottolineato nel rapporto con Chewbe, il suo destino probabilmente già in odore di ribellione. Gli sceneggiatori e Howard inseriscono nel film tutti gli elementi per renderlo cool, uno su tutti lo stilosissimo Lando, interpretato ottimamente da Donald Glover, vedrei bene un film dedicato interamente a questa coppia di nemici/amici. L'aspetto più ironico è ancora una volta affidato a un droide, la socia e copilota di Lando, L3-37, un robot femminista e parecchio deciso. Anche la parte action più spettacolare è ben sviluppata soprattutto grazie alla sequenza della rapina al treno (sembra un western ma non è) che vista in sala ha il suo perché, anche l'aspetto sentimentale è ben presente, peccato l'Emilia Clarke che come attrice non riesce a far gridare al miracolo, manca forse ancora una volta un vero avversario di peso, l'apparizione sul finale di Darth Maul (Ray Park) crea più che altro aspettative per un possibile sequel più che avere rilevanza, mentre il Dryden Vos di Paul Bettany, ottimo attore, non impressiona più di tanto.

Tirando le somme Solo: a Star Wars story è un buon film d'intrattenimento, piacerà ai fan che troveranno diverse cose con cui sollazzarsi, diverte ma sarà ricordato principalmente per tutte quegli episodi che ci si aspettava di vedere, insomma, se il film racconta la storia di uno dei piloti migliori del cosmo, per la sua realizzazione ci si è affidati al pilota automatico, sicuramente meno talentuoso ma comunque in grado di riportarti a casa.

venerdì 25 maggio 2018

ASSASSINIO SULL'ORIENT EXPRESS

(Murder on the Orient Express di Kenneth Branagh, 2017)

Diciamo pure che se dovessi scegliere in fretta e furia cosa guardare in una serata colma d'indecisione, da far passare magari lontano dall'ultima puntata della serie televisiva in heavy rotation negli ultimi giorni, così, solo per staccare un po' e diversificare, difficilmente la mia scelta ricadrebbe su un film diretto da Kenneth Branagh, ma mica per un'avversione particolare nei suoi confronti, più che altro per una sua concezione di Cinema e di temi un poco divergente da quella a me congeniale. È anche vero che ultimamente il regista di Belfast ha un po' abbandonato le sue origini shakespeariane per finire addirittura in casa Marvel (Branagh ha diretto Thor), mettici anche l'affinità che provo per i libri della Christie, un credito gratuito che avevo sulla piattaforma Chili, e alla fine la scelta, perché no?, è caduta proprio su questo Assassinio sull'Orient Express.

Alla fine mi sono pentito? Beh, un pochino sì, perché questa versione del bestseller della Christie è noiosa e i difetti che si percepiscono nel film sono diversi, alcuni dei quali anche discretamente fastidiosi. Intanto l'interpretazione di Hercule Poirot data dallo stesso Branagh risulta esageratamente sopra le righe, l'investigatore belga è sicuramente un personaggio poco simpatico ma qui le sue fissazioni e il suo protagonismo sfiorano la demenza, sottolineata in un prologo del tutto superfluo dai toni della farsa. Detto che proprio il protagonista principale risulta sbagliato e poco convincente, potremmo anche chiuderla qui. Andiamo invece oltre. Cast di lusso completamente sprecato (o quasi): a parte Branagh abbiamo Johnny Depp (che ormai è da anni che detesto con garbo per le sue scelte dei copioni e delle parti da interpretare), il grande Willem Dafoe enormemente sottoutilizzato (l'avranno pagato molto), Penelope Cruz, la colonna Judi Dench, l'ottima Michelle Pfeiffer (e complimenti perché sembra una che ha deciso di non abusare di chili e chili di plastica sul viso), Daisy Ridley da Star Wars e altri volti ancora. Tanti grandi nomi ma nessuna parte tagliata a misura sull'attore, nulla che faccia emergere le qualità recitative di cui quasi tutti loro sono dotati; per rimanere in un campo che Branagh ama molto mi verrebbe da dire: "molto rumore per nulla".


Patinate e molto posticce diverse inquadratura e sequenze, Branagh è anche abile con la macchina da presa, sa come posizionarla, ma l'effetto che viene fuori dall'insieme di scenografie, regia e fotografia risulta troppo artefatto e finto; si perde inoltre molto del fascino dell'ambientazione originaria, quella del delitto nello spazio chiuso del treno, qui invece l'attenzione si sposta spesso sull'esterno, sui bei paesaggi innevati andando a svilire quell'idea di prigione forzata data dal vagone sul quale viene commesso il delitto, elemento di un Orient Express bloccato nella neve a causa di un incidente.

L'incedere preciso degli eventi, la scoperta degli indizi, i sospetti, sono tutti topoi che hanno fatto grande il genere ma che qui non avvincono, questo sì un vero delitto per un film dal classico impianto giallo, tenendo conto poi che la storia narrata è già nota a gran parte del pubblico il problema si ingigantisce ancora. La chiusa del film lascia presagire un sequel ispirato al romanzo Assassinio sul Nilo, inutile dire che al momento non sto trattenendo il fiato nell'attesa.

domenica 20 maggio 2018

IL GATTOPARDO

(di Luchino Visconti, 1963)

Il film di Luchino Visconti tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è un prezioso documento storico, testimonianza di uno dei periodi di passaggio che hanno segnato la Storia del nostro Paese, nella fattispecie quello che vede il declino dell'aristocrazia a favore di una più aggressiva borghesia arricchita in seguito ai moti Garibaldini e all'annessione della Sicilia al Regno Sabaudo: siamo a un passo dall'unità d'Italia. Il Gattopardo è stato unanimemente riconosciuto dalla critica come uno dei film più importanti del Cinema italiano, opera da conservare e film apprezzato anche nel panorama internazionale, fatto sottolineato dalla vittoria della Palma d'oro al Festival di Cannes edizione 1963. D'altronde le firme dietro all'opera sono prestigiose: Visconti aveva all'attivo già film importanti come Bellissima, Senso e soprattutto il capolavoro sulla questione meridionale Rocco e i suoi fratelli (a mio modesto parere anche superiore a Il gattopardo), alla sceneggiatura hanno lavorato nomi come Suso Cecchi d'Amico e Pasquale Festa Campanile e le musiche sono firmate da Nino Rota. Ma forse a colpire più di ogni altra cosa sono le scenografie curate dal meno noto Mario Garbuglia, di uno sfarzo e di una ricercatezza davvero pregevoli, ma su questo ci torniamo più avanti, quando sarà il momento di partecipare al ballo.


Siamo nel 1860. I mille sbarcano in Sicilia, la situazione politica è in rapido mutamento, crolla il mondo dell'aristocrazia a discapito della nuova borghesia, dei proprietari terrieri, spesso ricchi e incolti, il Principe Fabrizio di Salina (Burt Lancaster) assiste con rassegnazione alla fine di un'epoca, il suo amato nipote Tancredi (Alain Delon) si unirà ai nuovi movimenti rivoluzionari, è per lui necessario "cambiare tutto perché niente cambi", necessario per mantenere i privilegi ai quali la famiglia è abituata da sempre, è necessario unirsi al nuovo che avanza per rimanere sulla cresta dell'onda e avere parte al nuovo assetto che deciderà il futuro del Paese. Ma è evidente fin da subito come la futura classe dirigente, qui rappresentata dal Sindaco Don Calogero (Paolo Stoppa), futuro suocero di Tancredi, sia corrotta e materiale, l'onore, la nobiltà anche dei gesti, la forma, vengono messe da parte, screditate in nome dell'interesse. In tutto questo, nel passaggio da una vita da nobili alla rivoluzione garibaldina, e poi da questa alle fila dell'esercito dei Savoia e al futuro Regno italiano, è inevitabile che il sentimento principe sia per chi si vede ormai sul viale del tramonto, la nostalgia. È con grande malinconia che Fabrizio di Salina vede il dissolversi di un'era, uomo che si vede ormai sorpassato, dalla società ma anche dalla vita, diventa così emblematico lo scambio di battute con la bellissima e giovane futura sposa del nipote Tancredi, interpretata da una sensualissima Claudia Cardinale. Anche dal punto di vista dei sentimenti, delle emozioni, nonostante le attenzioni della giovane, il Principe acquista consapevolezza, sa di dover cedere le armi, il suo tempo è giunto, la fine è vicina, nonostante la maestria di Visconti permetta al regista di non mostrarci la morte del protagonista, tutto è chiaro, la morte che nel libro viene descritta e che nel film ci viene mostrata a livello metaforico, è indubbiamente ineluttabile.


Come spesso usava nel Cinema di una volta, una vicenda tutta siciliana viene messa in scena da un cast di stelle internazionali. Il protagonista è interpretato dall'americano Burt Lancaster doppiato dalla bella voce di Corrado Gaipa, il nipote prediletto è il francese Alain Delon, grandissima stella già con Visconti (vero nobile ma d'origine lombarda) nel capolavoro Rocco e i suoi fratelli, la stessa Cardinale, emblema della Sicilia, è tunisina di seconda generazione e solo d'origine italiana, il Conte Cavriaghi, amico di Tancredi, è interpretato da Mario Girotti (in arte poi Terence Hill), veneziano e unico interprete al quale è stato affibbiato un doppiaggio un poco discutibile, nel cast compaiono anche dei giovani Giuliano Gemma e Ottavia Piccolo. Una ciurma eterogenea che però agli ordini del capitano Visconti risulta affiatata e in grado di dare corpo coeso a una narrazione per molti oltremodo lunga e sfilacciata. Pensiamo che la sola scena del ballo finale occupa circa un terzo della durata dell'intero film che lambisce le tre ore, eppure, ciò nonostante, si rivela essere anche la più riuscita e coinvolgente dell'intera pellicola. È qui che viene fuori la sontuosità delle scenografie, quell'attenzione al dettaglio, alla messa in scena e al decorativismo che era stata imputata al regista in riferimento ad altre sue opere precedenti, è un'attenzione che riempie gli occhi: gli arredi di palazzo, i costumi, i vestiti delle dame, le alte uniformi, i drappeggi, l'illuminazione dei luoghi, gli ambienti, finanche i movimenti dettati dai vari balli restituiscono l'impianto di un altro mondo, un mondo che oggi visitiamo per lo più al Cinema o in qualche vecchio palazzo reale adibito a museo. All'interno della lunga sequenza del ballo si sviluppa la scena che personalmente ho più apprezzato: Fabrizio di Salina contempla un quadro a tema e riflette sulla morte che quasi sente inevitabile, spiazza un poco il nipote Tancredi e la bella Angelica; la giovane adula il Principe, gli chiede di ballare, la situazione ha un pizzico di sensualità in più di quel che ci si potrebbe aspettare dal contesto, il Principe rifiuta la mazurka ma accetta un valzer, il nipote mostra del disagio, la fronte imperlata di sudore. Dopo uno splendido giro di valzer, l'occhio del Principe si attarda qualche secondo di troppo sulla fanciulla che si allontana in compagnia di Tancredi. La gioventù è andata da tempo, un'epoca è finita, anche lo stomaco non è più quello di una volta, cosa resta al Principe per potersi ancora beare della vita?

Se Il gattopardo è riconosciuto unanimemente come capolavoro per la preziosa documentazione storica di un mondo ormai scomparso, ancora una volta è il lato più umano e intimo ad assurgere ai più alti livelli d'interesse, sul finale più che a una classe in via d'estinzione, in fondo, è solo al Principe che si guarda.

mercoledì 16 maggio 2018

AVENGERS: INFINITY WAR

(di Anthony e Joe Russo, 2018)

"Tutto è collegato", recitava qualche anno fa lo slogan di una delle tante iniziative Marvel legate alle sue pubblicazioni a fumetti. Ora sembra che quel "tutto è collegato", che all'epoca aveva un che di misterioso e minaccioso, si possa ben adattare anche all'universo cinematografico della casa editrice, facendo però riferimento non a qualche evento tutto da svelare ma più semplicemente alla tanto amata/odiata continuity1croce e delizia di innumerevoli appassionati di comics americani. Ciò può essere spiazzante, e chiarisco subito. I primi due film dedicati a Thor mi hanno annoiato parecchio, di conseguenza non sono andato a vedere Thor: Ragnarok al cinema. Nella prima sequenza di Infinity War trovo un Thor con un solo occhio, Hulk e Thanos che se le danno di santa ragione e non colgo l'antefatto, probabilmente qualcosa che mi sono perso su Thor: Ragnarok ha dato il via al tutto, ho anche pensato per un millisecondo che il film fosse partito a cazzo per un problema tecnico, insomma, non mi aspettavo un collegamento di questo tipo e trovo che per il mezzo Cinema una scelta del genere sia un poco penalizzante.

Dopo un inizio vagamente spiazzante, si entra pian piano nella vicenda narrata in Infinity War, film che presenta un'idea di base ben scelta tra l'infinito materiale a disposizione negli archivi Marvel e che permette di dare ad alcune sequenze un tono molto epico, sottolineato poi dalla presenza di un villain di grande caratura, cosa che a molti altri film manca (vedi in casa DC ad esempio), parte qui affidata al Thanos di Josh Brolin. Di contro c'è da dire che una sceneggiatura del genere probabilmente anche mia figlia sarebbe riuscita quantomeno a imbastirla in un paio di orette, questo se solo non avesse avuto da studiare Storia dell'arte, materia che non le va giù tanto. Se in Marvel aveste bisogno per la seconda parte, chiamate quando mia figlia ha da fare inglese, di solito fa in fretta e un paio d'ore ve le può dedicare.


Detto ciò, il film è comunque ben realizzato e si rivela divertente, grazie soprattutto all'enorme quantità di personaggi coinvolti, alla regia ci sono i fratelli Russo che hanno già dimostrato di saper rendere al meglio le sequenze più dinamiche e tutte le scene action e di scontri tra supereroi, tutte cose delle quali lo spettatore di Infinity War può farsi una scorpacciata fino ad arrivare quasi all'indigestione. Lo spazio dedicato alle botte però inizia forse ad essere veramente troppo, non ci si aspetta che i cinecomics della Marvel siano Heimat, per carità, ma l'idea di porre un po' di attenzione in più a trama e sviluppo dei personaggi non sarebbe proprio da buttare nel cesso. Se poi le botte piacciono molto, allora tutto è magnifico, tutto è ben girato, effetti speciali all'altezza, non si esce certo dalla sala delusi. Infinity War è l'equivalente di uno degli ormai periodici mega eventi pubblicati dalla Marvel, se piacciono piacerà anche Infinity War, per chi preferisce invece leggere una serie scritta per benino l'equivalente potrebbe essere più il Daredevil di Netflix. Ora con tutti questi appunti potrebbe sembrare che il film non mi sia piaciuto, invece non è vero, il film è divertente e presenta anche alcuni passaggi un po' più seri e tristerelli, e non mi riferisco alla cenere svolazzante ovunque sul finale che tanto quella la rimetteranno a posto nel prossimo film, non l'avete mai letta una serie Marvel?


Gli aspetti più positivi sono legati proprio a Thanos, personaggio realmente impressionante, una sorta di Titano convinto che la prosperità dell'universo si possa garantire soltanto decimandone la popolazione e accrescendo quindi le risorse pro capite, un fottuto economista con un grugno da paura che però ha dei momenti davvero interessanti legati soprattutto al suo rapporto con la figlia adottiva Gamora (Zoe Saldana), membro dei Guardiani della Galassia. L'altro aspetto positivo, oltre al giusto mix tra azione e ironia ormai consolidato in casa Marvel, è il totale sdoganamento di personaggi nati sulle pagine a fumetti poco dopo la metà del secolo scorso nei confronti del grande pubblico; fino a qualche anno fa sembrava impensabile che si potessero portare all'attenzione delle masse un Pantera Nera, un Ant-Man e forse anche solo un Thor. Ora questi eroi in pigiama li conoscono tutti e noi fan di vecchia data possiamo fare un po' meno la figura dei coglioni.



1: La continuity è quell'elemento importantissimo nei fumetti Marvel, o più genericamente in quelli ambientati in un universo condiviso, per cui ogni evento che accade in una serie può essere collegato e influenzare quelli narrati in altre serie della stessa casa editrice. Tipo: se Spider-Man schiatta in un suo albo, sarà morto anche tra le pagine dei fumetti dedicati ai Vendicatori.

venerdì 11 maggio 2018

PERFIDIA

(di James Ellroy, 2014)

Si può parlare di perdita dell'innocenza per un Paese che l'innocenza l'ha persa già molto tempo addietro e che forse non l'ha mai avuta fin dai tempi della sua fondazione? Forse no; si può però sottolineare come quell'innocenza venga ancora e ancora stuprata, calpestata, affogata nel sangue e nella violenza da tutta una serie di interessi, pulsioni, ossessioni capaci di cambiare finanche il corso alla Storia. E a rovistare nel marciume della Storia non c'è nessuno più bravo di James Ellroy che con Perfidia (per la gioia di tutti i fan) inaugura una nuova tetralogia dedicata a Los Angeles spostando il focus sul dicembre del 1941, nei giorni che vedono l'attacco dell'aviazione giapponese alla base navale di Pearl Harbor.

La Storia, quella americana principalmente, è stata già indagata a fondo dall'autore losangelino; nella prima tetralogia di Los Angeles Ellroy ci presenta una visione nerissima della città in una serie di eventi che coprono gli anni dal '46 al '58, lo fa tra le pagine di quattro dei suoi romanzi più celebri: Dalia Nera, Il grande nulla, L. A. Confidential e White Jazz. Negli anni successivi, con la U.S.A. Underworld Trilogy, Ellroy allarga lo sguardo alle vicende dell'America intera grazie a tre romanzi monumentali uno più bello dell'altro (American Tabloid, Sei pezzi da mille e Il sangue è randagio) andando a esplorare gli anni che vanno dal 1958 al 1972.

Con Perfidia si torna tra le strade di L.A. e a quello che ormai si può definire l'Universo condiviso dei libri di Ellroy. È un salto nel passato che riporta moltissimi dei personaggi che i fan dello scrittore hanno imparato ad amare/odiare nelle pagine dei suoi molti romanzi precedenti, a una relativa gioventù, a un'epoca in cui i vari Scotty Bennett, Lee Blanchard, Bucky Bleichert, Mike Breuning, Fred Hiltz, Ward J. Little, Buzz Meeks, William H. Parker e soprattutto Dudley Smith (più tantissimi altri) sgomitavano per diventare quello che saranno (sono stati) negli anni a venire. Per apprezzare al meglio il mosaico infinito che lo scrittore continua a cesellare libro dopo libro, anno dopo anno, bisognerebbe rileggere di continuo i vari capitoli di questa immensa storia, impresa proibitiva vista la mole di pagine spropositata prodotta da Ellroy nel corso dei decenni.

Come già accade in altri scritti dell'autore, anche in Perfidia si muove tutto in un gioco di convergenze, confluenze e commistioni. I progetti, gli affari, spesso sporchissimi, di una moltitudine di personaggi vanno a creare l'impalcatura di una vicenda corale che muove i suoi passi sullo sfondo degli eventi storici e che vede incrociare le strade dei soliti noti inventati di sana pianta da Ellroy con le vicende di personaggi realmente esistiti, dalla star Bette Davis, al futuro capo della polizia William Parker, dal compositore Leonard Bernstein al gangster Mickey Cohen e via di questo passo. Le quasi 900 pagine di Perfidia sono condensate in un arco temporale ridottissimo, la vicenda narrata si dipana tra il 5 di dicembre del 1941 e il 29 di dicembre dello stesso anno, una manciata di giorni durante i quali cambieranno i destini di molti uomini e di molte donne e che vedranno il quasi totale rovescio di una delle comunità più integrate della regione Californiana: quella degli immigrati giapponesi in America.

La guerra cambia i destini, rovescia le percezioni, scardina la morale, estremizza gli idealismi, normalizza la menzogna. La guerra mette in moto una serie di eventi e di turpitudini nei quali verranno coinvolti tutti i numerosi protagonisti del romanzo. Hideo Ashida lavora nella sezione scientifica del Dipartimento di Polizia di Los Angeles (L.A.P.D.), è un dottore brillante, curioso, che si troverà ad avere il colore e i tratti somatici sbagliati in una nazione che è appena stata bombardata dai caccia Zero giapponesi. Kay Lake è una bella rossa che vivrà i giorni più intensi della sua esistenza grazie alla guerra, tenterà di infiltrarsi in una cellula della Quinta Colonna per minarne le attività, più per curiosità e voglia di vita che non per ideologia, le pagine del suo diario ci accompagneranno tra i giorni di quel dicembre e tra i corpi dei suoi tanti uomini. William H. Parker è uno dei potenziali candidati al posto di futuro capo dell' L.A.P.D., ambiguo cattolico, fervente praticante dotato di una morale rigida ma incline allo stesso tempo al compromesso, capitola davanti all'alcool e alle rosse. Dudley Smith è il prototipo dello sbirro opportunista, violento, con un codice morale tutto suo ma ben presente, irlandese dai mezzi spicci e dalla testa fina. In questi quattro personaggi si può individuare il motore di tutte le vicende che attrarranno a loro tutta una serie di altri protagonisti, più o meno noti ai fan di Ellroy e alla Storia.

Ellroy ci mostra con estrema lucidità come per chi sa approfittarne, anche con mezzi poco leciti, la guerra non sia altro che un'opportunità, un'onda da cavalcare solo per venirne fuori rinforzati, arricchiti, magari sentimentalmente e moralmente feriti, con la consapevolezza che a tutto, proprio a tutto, si fa il callo. È un lunghissimo viaggio Perfidia, da percorrere sulle note dell'omonima canzone di Glenn Miller, un viaggio tra le strade oscurate di una Los Angeles dalla quale tutti quanti usciranno cambiati, tutti i protagonisti del romanzo, ognuno a suo modo, concorreranno alla scrittura di una delle pagine più nere della Storia interna agli Stati Uniti d'America.

domenica 6 maggio 2018

MINUTI CONTATI

(Nick of time di John Badham, 1995)

Questo action thriller, se così vogliamo definirlo, di metà anni 90 con protagonista un Johnny Depp poco più che trentenne, sembra catapultarci indietro di almeno dieci anni, il film di Badham sfoggia infatti più un'estetica anni 80, ripulita e precisa, senza però essere muscolare come i più celebri action del decennio precedente. Il protagonista è un innocuo commercialista, fisicamente normodotato e dal faccino pulitino, un padre affettuoso che si trova in viaggio con la figlioletta verso Los Angeles. Gene Watson (Johnny Depp), questo il nome del commercialista, giunto alla Union Station di Los Angeles viene avvicinato da una coppia di quelli che sembrano agenti federali, un lui (Christopher Walken) e una lei (Roma Maffia) che presto si riveleranno essere ben altro. Con l'inganno i due riescono a far salire padre e figlia sulla loro auto, da quel momento per il mite signor Watson inizierà un vero e proprio incubo, i due gli daranno circa un'ora e mezza di tempo per uccidere una donna a lui sconosciuta, minacciandolo di ammazzargli la figlia in caso di fallimento: una pistola, una busta con la foto della donna, un nome. Ad aumentare il senso di irrealtà di tutta la maledetta situazione arriva la scoperta che il bersaglio di Watson è niente meno che il Governatore dello Stato Eleanor Grant (Marsha Mason), ovviamente sorvegliatissima.

Minuti contati è un miscuglio di elementi ben riusciti con altri indovinati decisamente meno. Apprezzabile la sequenza dei titoli di testa che accarezza il profilo e la meccanica di una pistola, oggetto fondamentale nel film, e che si muove fino a sfumare sull'orologio della Union Station dove prende il via la vicenda. Altro aspetto che personalmente mi ha colpito piacevolmente è proprio la regia di Badham, sempre parecchio dinamica, diretta, vivace anche nelle sequenze più ordinarie, il regista comunica l'impressione continua del movimento, dell'azione, scelta che in un film di genere non può che essere positiva; ci sono il movimento dei corpi, quello delle comparse, quello della camera a rendere tutto il contesto molto vivo. Anche i piani ravvicinati sui volti, molto stretti, con passaggi veloci tra i vari protagonisti, contribuiscono a tenere alto il ritmo di una vicenda che viene ricordata più che altro per il suo svolgersi in tempo reale. Minuti contati sviluppa infatti la sua storia nell'arco di un'ora e mezza, il tempo di durata del film, durante la quale seguiamo costantemente il protagonista nei suoi spostamenti, tutti questi elementi donano alla costruzione del film un certo fascino.


Di contro il difetto più grosso della pellicola è la scarsa credibilità dello sviluppo, le azioni che compie/non compie il protagonista hanno tutto il sapore e l'odore dell'implausibilità. Ogni qual volta Watson tenti di cercare aiuto, di svicolare, di contattare qualcuno, si trova un bastardissimo Christopher Walken alle calcagna che non si capisce per quale ragione non abbia trovato il modo di risolversi la questione da solo, il versante complottistico poi è a livelli davvero esagerati, senza parlare del finale in cui la situazione si risolve in maniera comico rocambolesca.

Tutto sommato Minuti contati poi lo si guarda anche con piacere, non dura molto, ti dà l'occasione di ammirare Christopher Walken più che lo spaesato Johnny Depp, ha anche un buon ritmo ma alla fine non ti lascia granché. Sembra proprio il classico prodotto al quale puoi buttare un occhio mentre stai mangiando la pizza a casa, il sabato sera, sintonizzato sulla prima serata di Italia 1. Poi, come dicevo sopra, dentro qualche bella trovata c'è, sinceramente mi aspettavo qualcosa di meglio.

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