sabato 29 settembre 2018

LA RAGAZZA DEL TRENO

(The girl on the train di Paula Hawkins, 2015)

Non avevo in previsione la lettura di questo libro; per le vacanze mi ero attrezzato con altro, poi un ritardo del nostro volo per rientrare in Italia ha prolungato la nostra attesa in aereo di ben tre ore. Ne ho così approfittato per rubare il libro che si era portata in vacanza mia moglie e devo dire di averlo apprezzato oltre le aspettative, almeno per quel che riguarda tutta la prima parte di questo romanzo scritto dalla Hawkins e divenuto anche un buon successo al cinema con l'adattamento di Tate Taylor che vede Emily Blunt nel ruolo della protagonista (film che tra l'altro non ho avuto ancora modo di guardare).

Durante tutta la prima parte del romanzo viene esplorata la figura di Rachel, il racconto procede sotto forma di diario, Rachel narra in prima persona le sue esperienze mentre come pendolare in un treno locale che attraversa i sobborghi di Londra affronta un viaggio al mattino andando a lavoro e uno la sera tornando a casa. Tutti i giorni tranne i weekend. Viaggio dopo viaggio si delinea la situazione della protagonista, la sua personalità e ciò che è successo nel suo recente passato e che le ha sconvolto la vita fino a renderla un'alcolista. Ogni giorno andando verso Londra Rachel dal finestrino del treno osserva una casa in particolare, ci vive una coppia giovane, una di quelle coppie dove i due elementi sembrano adorarsi e vivere uno per l'altro; poco a poco Rachel si affeziona a quelle due figure fino ad arrivare a dar loro dei nomi immaginari e a fantasticare su quelle che potrebbero essere le loro vite. Perché proprio quella casa? Fino a poco tempo prima Rachel viveva giusto un paio di case più in là, insieme a Tom il suo ex marito, un matrimonio felice... poi la vita... poi Anna. Un giorno Megan, la ragazza che vive nella casa osservata da Rachel, scompare. Il racconto prenderà la piega del giallo, Rachel pensa di poter aiutare in qualche modo a ricostruire la vicenda, ha degli elementi in mano, tutti i personaggi verranno coinvolti in questo mistero/dramma della porta accanto.

Nel momento in cui La ragazza del treno si tinge marcatamente di giallo perde anche di attrattiva e di qualità, in realtà il dipanarsi della matassa è intuibile e, se proprio si è appassionati di trame gialle, sicuramente c'è di meglio da leggere in giro, non sarà certo questo libro a far strappare i capelli agli amanti del thrilling. Sulla descrizione dei personaggi invece, quello di Rachel indubbiamente sopra tutti, la Hawkins realizza un lavoro ottimo e l'impostazione della struttura del racconto ha un sapore fresco, accattivante, appassionante e spinge a divorarne una pagina dopo l'altra; si vuole sapere qualcosa in più su questa donna che sembra così vera, sul suo passato, sulle sue debolezze, qualcosa in più sulla coppia che abita in quella casa, sul loro rapporto, così come su Tom e Anna, insomma ci sono vite interessanti nel descrivere le quali la Hawkins, poco alla volta, sfoggia un dono affabulatorio lieve e allo stesso tempo ficcante. Si aspetta con attesa vivace il prossimo viaggio, il prossimo giro in treno, il prossimo bicchiere, la prossima sbirciata a quella veranda, il dosaggio nel'appagare la curiosità del lettore da parte della Hawkins è perfetto. Il pregio maggiore del libro è proprio la costruzione del personaggio di Rachel e del suo privato, le interazioni con gli altri personaggi sono un buon corollario, arricchiscono la vicenda che purtroppo rivela aspetti più banali proprio sul versante thriller.

Non il giallo del secolo, nemmeno quello del decennio e probabilmente neanche quello del giorno, però La ragazza del treno si rivela davvero un buon libro se inquadrato nel segmento a cui appartiene: quello del puro entertainment.

Paula Hawkins

venerdì 28 settembre 2018

DISTRICT 9

(di Neill Blomkamp, 2009)

Dietro District 9, ampliamento di un cortometraggio dello stesso Blomkamp, c'è stato un piano di marketing multimediale che ha trainato l'uscita del film nelle sale in maniera significativa e, col senno di poi, anche parecchio remunerativa. Il film è stato girato con la tecnica del mockumentary, Blomkamp costruisce una vicenda che pretende di testimoniare l'arrivo sulla Terra, più precisamente a Johannesburg in Sudafrica, di un'enorme nave aliena dalle non ben precisate intenzioni. Ovviamente la campagna stampa precedente al film mantiene lo stesso tono, simulando l'autenticità della visita alla Terra da parte di questi strani alieni dall'aspetto simile a crostacei antropomorfi. La nave rimane in orbita stazionaria nei cieli della città sudafricana, dopo i primi anni di contatto con la razza umana gli alieni presenti sulla nave, verosimilmente in panne, vengono condotti a terra e rinchiusi in una sorta di ghetto chiamato District 9. Come era facile desumere, con il passare degli anni quella che è una vera e propria apartheid ai danni dei visitatori alieni sfugge di mano e inizia a provocare moti di ribellione che creano preoccupazione tra la popolazione di Johannesburg, preoccupazione aumentata dal fatto che gli alieni padroneggiano una tecnologia spaventosa per quel che concerne le armi, costrutti potentissimi attivati tramite DNA e quindi inutilizzabili dagli umani che per mezzo della corporation MNU stanno cercando di capire come sfruttare i manufatti alieni. Viene presa quindi la decisione di spostare gli alieni, chiamati in maniera sprezzante dagli umani "gamberoni", in un'area lontana dalla città. Per dirigere l'operazione viene scelto l'inetto Wikus Van De Merwe (Sharlto Copley), imparentato con il capo dell'MNU. Nel protrarsi delle operazioni Wikus si troverà invischiato in una situazione molto complicata che metterà sotto un'ottica nuova tutta la faccenda della segregazione aliena.


La cifra stilistica del mockumentary è ormai nota, in questi ultimi anni forse anche sorpassata e in parte (vivaddio) accantonata: ne hanno fatto uso grandi autori di Cinema, Brian De Palma con Redacted per i war movie, Romero per l'horror con Diary of the dead, e tanti altri ancora. Quindi riprese da videocamere di sorveglianza, interviste in camera, eventi narrati dai notiziari, etc... All'idea di verosimiglianza che la scelta del tipo di narrazione dovrebbe conferire, si contrappone una realizzazione dell'aspetto degli alieni e del loro comportamento spesso ridicolo e divertente, ben realizzato ma capace di richiamare l'artigianato più onesto e povero. Molto chiara la metafora che Blomkamp vuole mettere in scena: il regista sudafricano conosce bene il fenomeno dell'apartheid a scapito della popolazione nera della nazione, un "District 9" esisteva davvero, semplicemente il suo nome era "District 6" e ospitava i negri vessati dalla cittadinanza bianca del Sudafrica. Oltre al tema della discriminazione Blomkamp sottolinea un altro aspetto che in Africa come altrove è portatore di violenza e danni irreparabili: il commercio d'armi, qui evidenziato dalla fame di conoscenza a scopi bellici da parte dell'MNU e dalle bande di trafficanti nigeriani anch'essi interessati a impadronirsi dell'armamentario alieno.

In mezzo a tutto questo una storia di presa di coscienza da parte di Wikus, una situazione universale che sposa la tesi, a mio avviso condivisibile, che la solidarietà vera inizia solo quando chi dovrebbe essere solidale tocca con mano, sulla propria pelle, le difficoltà con le quali si trovano a combattere gli altri. Non importa quanto "illuminati" si possa essere, se non si ha fame la fame non la si capisce. Se non si ha fame a chi verrebbe in mente di mangiare cibo per gatti? District 9 è un film forse meno riuscito di quel che il battage pubblicitario di lancio lasciava presagire, considerato però che è anche il primo lungometraggio del regista gli esiti sono sicuramente più che dignitosi e affrontano dandogli la giusta importanza e senza calcare troppo la mano tematiche, anche storiche, sicuramente degne di nota. In fin dei conti un giro nell'area riservata ai non umani vale la pena farlo.

lunedì 24 settembre 2018

MANCHESTER BY THE SEA

(di Kenneth Lonergan, 2016)

Nella famiglia Affleck sembra che i ruoli siano ormai ben definiti: entrambi i fratelli hanno la testa che gira bene, lo dimostrano i buoni esiti degli script ai quali hanno contribuito e ovviamente i successi ottenuti; il maggiore, Ben, ha dimostrato negli ultimi anni una buona predisposizione per il ruolo dietro la macchina da presa; il minore, Casey, si dimostra più talentuoso del fratello quando si piazza davanti alla stessa (per carità, forse non è proprio uno sforzo titanico risultare attori migliori di Ben, Casey però sfoggia del talento vero). In Manchester by the sea Casey Affleck, protagonista quasi assoluto del film, offre una prova di alto livello affidandosi a sfumature espressive infinitesimali, quasi impercettibili, trasmettendo tutto il suo dramma (ed è un dramma immenso) avvolgendolo in una sorta di apatia lacerata da squarci di rabbia veicolati dall'uso dell'alcool. È un uomo intontito Lee Chandler (Casey Affleck), un tuttofare che conduce un'esistenza solitaria e per lo più squallida alle dipendenze di un proprietario di immobili di Boston. È un uomo intontito dal dolore e dalla tragedia, elementi centrali in questo film che allo spettatore si riveleranno poco a poco in un dosaggio perfetto che rende merito al Lonergan sceneggiatore più che al regista. Oltre alla recitazione degli attori è proprio la gestione dei tempi il miglior pregio di questo film, i pezzi del passato del protagonista, indispensabili per dare il giusto significato al suo presente, si manifestano un passo alla volta, sempre al momento giusto, senza fretta, arrivando a colpire in maniera durissima al loro completo rivelarsi in una sequenza dai toni laceranti. Ad aggiungere dolore al dolore sepolto nel passato, arriva la morte del fratello Joe (Kyle Chandler) che lascia al mondo un figlio adolescente, Patrick (Lucas Hedges), ormai orfano di padre e con una madre (Gretchen Mol) dispersa per il mondo e che è stata una donna inaffidabile e assente durante gli anni dell'infanzia del ragazzo. Quando i tempi erano più lieti Patrick aveva un bel rapporto con lo zio Lee, poi la vita arriva a scombinare le carte, ora lo zio Lee torna ad essere l'unica opzione percorribile, tutto ciò che resta della famiglia di Patrick. La responsabilità verso il ragazzo, nei confronti di un'altra persona, riporta a galla un pezzo alla volta tutto il dolore sepolto dentro Lee, un dolore difficilissimo da affrontare, impossibile da superare. La sofferenza, il senso di colpa sono ferite che scavano dentro e rimangono per sempre, affrontarle diventa problematico, semplicemente non se ne hanno i mezzi, come dimostra la bellissima scena del confronto tra Lee e la sua ex-moglie Randi (Michelle Williams) dove non ci sono soluzioni, rimane solo la fuga.


Manchester by the sea è un film sulla perdita, sulla sofferenza, sull'incapacità di perdonarsi che diventa una forza paralizzante e imbattibile. Lonergan è abile nella costruzione di un film che fa del dolore il suo nodo centrale senza mai cadere nel pietismo, i toni mai accesi della fotografia e della messa in scena accompagnano in maniera coerente l'incedere della recitazione e in generale l'andamento che si è deciso di tenere per tutto il film. La prova di Casey Affleck, anche se può sembrare manieristica, sottolinea bene lo scollamento dalla realtà che alcuni traumi possono provocare, ed è ben sostenuta dall'apporto del resto del cast, Michelle Williams e Lucas Hedges su tutti. L'apertura alla vita che l'uomo disfatto si troverà ad affrontare per forza di cose a causa delle nuove responsabilità verso il nipote, non sarà così facile da gestire: nuovi rapporti, un ragazzo giovane che nonostante il dolore ha giustamente tutta l'energia dell'adolescenza da sfogare, il nuovo contatto con situazioni ormai accantonate da tempo, tutte cose capaci di mettere in crisi un protagonista ormai leso irrimediabilmente.

Nel complesso ne esce un gran bel film grazie al quale Casey Affleck si porta a casa un premio Oscar, un Golden Globe, un BAFTA e che raccoglie diversi premi anche per la sceneggiatura di Lonergan. Augurandoci che la serie di sfortunati eventi subiti dal protagonista non trovino mai riscontro nella realtà (purtroppo shit happens, lo sappiamo) Manchester by the sea è un film di cui mi sento di consigliare la visione.

venerdì 21 settembre 2018

MICHAEL CLAYTON

(di Tony Gilroy, 2007)

Esordio alla regia per lo sceneggiatore Tony Gilroy, già noto nell'ambiente di Hollywood per aver firmato gli script della saga di Jason Bourne e di altri film celebri come Armageddon e L'avvocato del diavolo; Gilroy sceglie per la sua opera prima dietro la macchina da presa uno stile classicissimo per un film dallo sviluppo altrettanto classico. Siamo dalle parti del Cinema di denuncia, un filone molto preciso e tanto caro ai filmmakers provenienti dagli U.S.A.

Michael Clayton (George Clooney) è un ex procuratore distrettuale affiliato allo studio di avvocati che ha tra i soci di maggioranza alcuni uomini che Michael conosce ormai da anni, tra di loro spiccano il socio Marty Bach (Sydney Pollack) e l'avvocato Arthur Edens (Tom Wilkinson). Clayton non esercita la professione di avvocato né quella di procuratore, è una figura ambigua, una specie di risolutore che interviene per togliere le castagne dal fuoco ai migliori clienti dello studio quando se ne presenta la necessità. Michael è un uomo intelligente, uno che si sa muovere, che pensa in fretta e che ha gli agganci giusti e le soluzioni per risolvere situazioni intricate, col tempo è diventato una figura poco istituzionale ma inequivocabilmente preziosa per il suo studio. Quando Arthur Edens inizia a muoversi per portare alla luce le malefatte della U-North, azienda in procinto di immettere sul mercato prodotti nocivi per gli uomini e importantissimo cliente dello studio, viene chiesto proprio a Michael Clayton di riportare alla ragione il suo amico Arthur che negli ultimi giorni ha iniziato a mostrare anche alcuni segni di squilibrio. Durante le ricerche condotte da Clayton si delinea uno scenario per il quale i comportamenti di Edens non sembrano più così stralunati e le colpe della U-North sempre più chiare, Clayton si troverà a dover prendere decisioni difficili e importanti e a dover affrontare l'avvocato Karen Crowder (Tilda Swinton), una donna arrivista fermamente intenzionata a coprire le malefatte della U-North e a mettere i bastoni tra le ruote a Clayton.


Di film dove grosse aziende mettono il loro profitto davanti alla salute dei cittadini ne abbiamo visti già molti, titoli come Erin Brockovich o Insider - Dietro la verità giusto per citarne un paio, Michael Clayton ne segue la scia sorretto da una sceneggiatura e da una narrazione molto solide, forse non si rivela uno dei migliori esiti del filone ma sottolinea in maniera convincente il dilemma morale, la scelta difficile, davanti alla quale il protagonista si viene a trovare. È un film etico più che realmente appassionante Michael Clayton, soddisfa ma non entusiasma fino in fondo pur essendo costruito in maniera diligente e senza sbavature, assesta i suoi colpi e concede interpretazioni di rilievo da parte di un cast di attori di livello molto alto. Clooney offre una prova impeccabile, a dimostrarlo rimane il pianosequenza finale con il protagonista seduto per minuti sul sedile posteriore di un taxi, non parla mai ma la sua mimica facciale dice molto dei dilemmi, del dramma che il protagonista ha dovuto affrontare nei giorni precedenti. Wilkinson è un caratterista d'eccezione, non si ricordano moltissime parti da protagonista ma nei film in cui è presente il suo apporto è sempre prezioso. La Swinton, opportunista ma non esente da paure e tensioni (come testimoniano le sue ascelle) è un ottimo villain; compare anche il compianto Sydney Pollack, grandissimo regista prima che attore. Gilroy dirige senza eccedere, con la giusta classe, compito, tutto è funzionale alla narrazione, come dicevamo tutto molto, molto classico. Forse un pizzico di pancia in più non avrebbe guastato.

giovedì 20 settembre 2018

GOODBYE, COLUMBUS

(Goodbye, Columbus. And five short stories di Philip Roth, 1959)

Sulla quarta di copertina dell'edizione Einaudi di Goodbye, Columbus sono stampate poche parole dello scrittore statunitense Saul Bellow che sintetizzano in maniera egregia la forza del talento dirompente di Philip Roth. Sono queste: "A differenza di quelli fra noi che vengono al mondo ululando, ciechi e nudi, Philip Roth è comparso con unghie, denti e capelli, sapendo già parlare". Se Goodbye, Columbus è l'esordio, l'opera prima dello scrittore di Newark, e lo è, allora è impossibile trovare parole migliori di quelle usate da Bellow per tracciare un contorno alla vena creativa di Roth, indubbiamente un uomo che è nato per scrivere. Se da un romanzo d'esordio ci si aspetta uno stile ancora in via di definizione, immaturo, tutto da affinare, qui invece c'è già di che rimanere a bocca aperta per la padronanza della prosa da parte di uno scrittore che all'epoca contava ventisei primavere. Goodbye, Columbus in realtà è una raccolta di racconti più che un vero romanzo, come precisa il titolo originale dell'opera: l'episodio che dà il titolo al libro è una novella che supera di poco il centinaio di pagine, la raccolta è poi completata da altri cinque racconti tutti abbastanza brevi: La conversione degli ebrei, Difensore della fede, Epstein, Non si può giudicare un uomo dalla canzone che canta e infine Eli, il fanatico. In tutti gli scritti si avverte la presenza di quello che è uno dei temi portanti dell'opera di Roth: il retaggio ebraico, le tradizioni, le abitudini che da questo derivano e il rapporto che c'è tra tutti questi elementi e la necessità d'integrazione di un ebreo di seconda (o terza) generazione nella società statunitense, in questo caso quella florida degli anni 50/60. Il maggior pregio attribuibile a Roth, lasciando per un attimo da parte lo stile di scrittura e i meriti innegabili del traduttore, è la lucida distanza, l'ironia con la quale lo scrittore dipinge gli ebrei americani mettendone sotto i riflettori sia gli aspetti più inclini all'essere divertenti, sia alcune delle ipocrisie e delle idiosincrasie verso il proprio stesso retaggio. Proprio per questi motivi alcuni degli scritti contenuti in questa raccolta provocarono presso la comunità ebraica scontento e disappunto, non furono poche le critiche che arrivarono all'opera di Roth dagli stessi ebrei che tacciarono lo scrittore addirittura di antisemitismo.

Goodbye, Columbus narra un breve arco di tempo nella vita di Neil Klugman, ebreo americano di Newark che lavora nella biblioteca comunale, appartenente a una classe sociale popolare, vive con la zia Gladys, donna all'antica legata alle tradizioni ebraiche. Il giovane si innamora di Brenda Patimkin, d'origine ebree anche lei ma appartenente a una famiglia più facoltosa, arricchitasi grazie all'azienda di famiglia (la Acquai e lavandini Patimkin) e residente nel sobborgo ricco borghese di Short Hills. Sotto i riflettori il desiderio delle famiglie ebree di trovare una loro collocazione e un loro riconoscimento, passando anche per la via economica, all'interno della società statunitense, con conseguente omologazione e perdita d'identità; il conflitto di classe, se non aperto almeno sotteso, e ovviamente la breve storia d'amore tra i due giovani, gli egoismi, le dispute, la passione. Non poco per una novella breve.

La conversione degli ebrei, meno di una ventina di pagine, parte in maniera molto dissacrante e vede come protagonista Ozzie Freedman, un ragazzo che partecipa alle lezioni del Rabbino Binder alla scuola ebraica ponendosi delle domande, dando voce ai suoi dubbi e facendo questo crea tutta una serie di problemi e grattacapi che si risolveranno con esiti non prevedibili sul tetto della sinagoga. In Difensore della fede Roth mette in luce l'opportunismo di un ebreo sotto servizio di leva, il soldato Grossbart, che proprio sulla fede ebraica fa leva nei confronti del suo superiore, anche lui di origine ebrea, per avere dei favori e scansare le fatiche e i pericoli della vita nell'esercito. Il personaggio viene dipinto come un bieco manipolatore, egoista e profittatore, uno degli aspetti che forse non piacquero alla comunità ebraica all'epoca dell'uscita del libro. Epstein è invece una breve ma centratissima riflessione sul passare del tempo, sulla vecchiaia, su ciò che si è perduto ma che ancora si vorrebbe avere, sulla vitalità, sul desiderio ma anche sui sentimenti, sull'amore, sulla rabbia, sul tradimento, sulle occasioni mancate, sulla futilità di ciò che si è ottenuto. Un piccolo gioiello. Non si può giudicare un uomo dalla canzone che canta è probabilmente l'episodio più trascurabile del libro, il ricordo di una vecchia amicizia del protagonista con un compagno turbolento negli anni della scuola, come al solito ben scritto ma meno interessante nei contenuti. Decisamente critico e pungente è Eli, il fanatico che denuncia la totale assimilazione degli ebrei alla cultura moderna americana a discapito della fede e delle tradizioni dell'ebraismo, altro racconto riuscito che coglie nel segno con spietata efficacia.

Che altro aggiungere? Un'opera prima davanti alla quale non si può far altro che togliersi il cappello, non per nulla Philip Roth è considerato pressoché all'unanimità uno degli scrittori fondamentali a cavallo degli ultimi due secoli. Per quel che vale non posso che avallare questa tesi.

giovedì 13 settembre 2018

STRAIGHT OUTTA COMPTON

(di F. Gary Gray, 2015)

Negri con attitudine. Non male come presentazione per il gruppo di ragazzi di Compton, contea di L.A., che di lì a poco grazie alla militanza nel combo musicale N.W.A. (Niggaz with attitudes) contribuì in maniera decisa alla nascita e alla diffusione del gangsta rap nella seconda metà degli anni 80. Straight outta Compton, oltre a essere il titolo del loro primo album e di uno dei singoli più celebri del gruppo, nel 2015 è divenuto anche il titolo di un riuscito biopic musicale a opera del regista F. Gary Gray, artista già legato all'ambiente della musica rap e hip hop, direttore di diversi video per artisti come Ice Cube e Dr. Dre (entrambi fondatori degli N.W.A.), e poi Outkast, Cypress Hill e Jay-ZStraight outta Compton è stato realizzato a stretto contatto con i veri protagonisti della vicenda, oltre al regista decisamente addentro all'ambiente, tra i produttori compaiono proprio Ice Cube e Dr. Dre, Tomica Wright che è stata la moglie di Eazy-E, altro membro fondatore degli N.W.A., e ad interpretare Ice Cube troviamo proprio suo figlio O'Shea Jackson Jr. Alla luce di questi fortissimi legami della produzione con i componenti degli N.W.A. tutto lascia presupporre che i fatti narrati nel film siano adesi alla realtà, le informazioni sono di primissima mano, viene però anche il sospetto che alcuni di quelli che a tutti gli effetti sono anche i protagonisti della storia possano aver voluto addolcire alcuni degli aspetti negativi legati all'ambiente del gangsta rap. Non sono poche infatti le grane e le accuse che nel corso degli anni i membri degli N.W.A. hanno dovuto affrontare: ad esempio la nascita dell'etichetta discografica Ruthless, fondata da Eazy-E (Jason Mitchell) e portata avanti insieme al manager Jerry Heller (Paul Giamatti) sembra sia stata foraggiata da soldi sporchi derivanti dallo spaccio di droga; nel corso delle vicende legate ai membri della band alcuni di loro, Dr. Dre (Corey Hawkins) in particolare, si legheranno ad esponenti della criminalità come Suge Knight (R. Marcus Taylor), cofondatore della Death Row Records; tutti i membri del gruppo arrivano da Compton, luogo che ha dato i natali alle più celebri gang di strada (Crips e Bloods) e dove gli spunti per comporre liriche al vetriolo non mancavano di certo: violenza, soprusi da parte della polizia, ingiustizia sociale, tutte cose che finirono poi nei testi dei brani del gruppo, alcuni dei quali crearono ulteriori problemi, uno su tutti il pezzo Fuck tha Police che mise il gruppo in cattiva luce agli occhi delle forze dell'ordine. Forse alcuni di questi aspetti, che comunque in Straight outta Compton sono tutti presenti, potrebbero essere stati alleggeriti per fare uscire meglio alcuni dei protagonisti agli occhi del pubblico. Ad ogni modo questo è un aspetto di poca importanza nell'economia di un film che appassiona dalla prima all'ultima sequenza, e ve lo dice uno a cui del gangsta rap non è mai importato nulla e che ha sempre frequentato ascolti decisamente di tutt'altro genere.


La storia un poco l'abbiamo già riassunta: alcuni ragazzi provenienti da Compton, quartiere a prevalenza nera, fondano la Ruthless Records insieme al manager Jerry Heller. Ai due principali fondatori, Eazy-E in primis supportato da Dr. Dre, si uniscono Ice Cube, MC Ren (Aldis Hodge) e DJ Yella (Neil Brown Jr) dando vita a un fenomeno che diverrà di grandissima importanza per la storia della musica moderna. Dal ghetto all'enorme successo di pubblico toccando la pancia e gli istinti della gente, le rime di Ice Cube, di Mc Ren, le basi di Dr Dre e Yella, la voce di Eazy porteranno in giro per l'America la violenza, i soprusi e la rabbia che arrivano dritti da Compton, L.A. Straight outta compton è una classica storia di ascesa e caduta, il regista e gli sceneggiatori mixano al meglio gli aspetti sociali marcando l'importanza della provenienza da Compton dei vari protagonisti a tutto il comparto musicale, il progressivo avvicinarsi al successo, l'arrivo dei soldi, gli eccessi, le liti, i tradimenti, possono sembrare tappe forzate di un percorso risaputo ma non per questo queste risultano meno appassionanti e coinvolgenti. Il cast riesce a far entrare lo spettatore all'interno della storia senza più mollarlo nemmeno per un attimo, personalmente ho concluso la visione del film pienamente appagato e con la voglia feroce di andarmi ad ascoltare l'intero album Straight outta Compton, cosa che poi ho realmente fatto e che non avrei mai pensato di fare prima di guardare questo film. Le vicende umane mescolate alle leggi spietate dello show business, il tutto amalgamato da un discreto numero di teste calde, creano un mix al quale è impossibile rimanere indifferenti; per il suo incedere Straight outta Compton mi ha ricordato molto Lords of Dogtown, film che narra la nascita del fenomeno dello skate, altra pellicola che mi aveva entusiasmato non poco.

Come ciliegina sulla torta, anche se non si può certo definirlo un fatto positivo, il film mostra risvolti sociali purtroppo attualissimi, con la popolazione nera che ancora oggi, a trent'anni di distanza, continua a subire in America angherie da parte delle forze dell'ordine con il pericolo continuo che si debba assistere da un momento all'altro a nuovi episodi come quello che coinvolse Rodney King, tassista brutalmente pestato dalla polizia, episodio che viene riportato anche all'interno del film. Ad ogni modo, Straight outta Compton, che siate o meno appassionati di musica rap, si rivela un biopic di grande fattura che riuscirà a catturare l'attenzione di tutti i tipi di pubblico.

domenica 9 settembre 2018

PIETÀ

(Pieta di Kim Ki-Duk, 2012)

Il Cinema di Kim Ki-Duk con Pietà diventa maggiorenne; come sottolinea in apertura di film lo stesso regista, questo è il diciottesimo lungo dell'artista proveniente dalla Corea del Sud. Vincitore al Festival di Venezia nel 2012, per Pietà si sono spesi molti accostamenti al simbolismo di matrice cristiana: indubbiamente la locandina del film che vede i due protagonisti ritratti in una posa che richiama molto la Pietà di Michelangelo e il fatto che amore e sofferenza siano i due elementi chiave all'interno di una vicenda che vede sotto i riflettori una madre e un figlio, che poco hanno però del Cristo e della Vergine, possono aver dato origine ad argomentazioni ovvie da sostenere. A mio avviso poco c'è di tutto questo nel film di Kim Ki-Duk se non a un livello superficiale o addirittura promozionale (ritornando alla locandina del film). Più centrate invece le discussioni portate avanti sul tema del capitalismo spinto e della disumanizzazione alla quale questo fenomeno porta, così come in maniera molto più ovvia è facile accogliere per Pietà la definizione di revenge movie, cosa che il film di Kim Ki-Duk è a tutti gli effetti. Il regista ci trascina in quello che sembra essere un vero inferno di povertà all'interno dei quartieri popolari di Seul, un'ambientazione che se non arriva agli estremi dell'ibridazione tra uomo (carne) e progresso (macchina) già esplorata in maniera estrema da altri, Shynia Tsukamoto con Tetsuo ad esempio, tratteggia un'umanità quantomeno prigioniera di quella che sembra essere una piccola industrializzazione ormai sorpassata e incapace di produrre sostentamento, perché di fisico non è rimasto nulla, è rimasto invece l'astratto, il concetto, la finanza, i soldi... "ma che cosa sono i soldi?".  Così l'uomo, schiacciato e anche grottesco nella rappresentazione di Ki-Duk, ricorre al prestito, all'usura, andando incontro a condizioni troppo stringenti e a una rovina fatalmente certa.


Kang-Do (Lee Jung-jin) è un trentenne violento che lavora come riscossore di crediti per conto di un usuraio che applica tassi del 1000%, durante le sue giornate nei poverissimi quartieri di Seul Kang-Do fa visita ai vari debitori dell'usuraio storpiando quelli incapaci di pagare quanto dovuto in modo da poter recuperare i soldi direttamente dall'assicurazione che interverrà a coprire i vari "infortuni". Un giorno Kang-Do incontra una donna che inizia a seguirlo, dopo un primo brusco confronto questa confessa al giovane di essere sua madre (Cho-Min Su); la donna si prostra al ragazzo confessando di averlo abbandonato da piccolo e prendendo su di sé tutte le responsabilità per quel che Kang-Do è divenuto in età adulta: un uomo solo e violento, formatosi in malo modo a causa dell'assenza delle figure genitoriali. Dapprima riluttante, Kang-Do si convince pian piano di come quella donna da poco incontrata sia davvero sua madre, questo incontro cambierà la visione della propria vita al ragazzo che inizierà a interrogarsi sulle conseguenze dei propri gesti, colpito anche dall'incontro con un giovane padre (Gwon Se-in), pronto a farsi tagliare entrambe le mani pur di avere più soldi dall'assicurazione in modo da ripagare il suo debito e avere ancora denaro per mantenere il suo primogenito in arrivo. L'amore di questo futuro padre per il figlio sarà un ulteriore colpo che farà vacillare tutte le convinzioni di Kang-Do che metterà in discussione l'intera sua esistenza.


Pietà mescola uno scenario e alcune situazioni durissime al comportamento grottesco di uomini ormai privi di dignità, una delle scene più riuscite ci mostra come la Seul del capitale, fatta di grattacieli ed edifici moderni, stia schiacciando anche fisicamente i vecchi quartieri operai nei quali ormai la vita non ha più nessun valore e spesso neanche significato. Oltre al tema sullo sfruttamento e quello dell'abiezione delle derive del sistema del capitale, esce in maniera forte all'interno di Pietà anche il filo narrativo del revenge movie che qui non voglio approfondire troppo per evitare anticipazioni a chi ancora non avesse visto il film. Se la messa in scena da parte di Kim Ki-Duk non sempre è equilibrata, Pietà si rivela un film dai contenuti molto interessanti su più di un livello, da non sottovalutare l'evoluzione studiata per il personaggio di Kang-Do che subisce una crescita forzata nel giro di pochissimo tempo, il film assesta diversi colpi bassi, alcuni sviluppi si possono intuire, soprattutto se si è prestata la giusta attenzione alle sequenze iniziali del film, ma quando il cerchio si chiude tutto sembra aver funzionato al meglio. Da sottolineare l'interpretazione intensa, sempre ottima, di Cho-Min Su protagonista di alcune sequenze psicologicamente molto forti e disturbanti. I contenuti sono di quelli che colpiscono, il Cinema di Kim Ki-Duk è molto lontano da quello occidentale al quale siamo più abituati ma come spesso accade, andando a pescare in filmografie a noi lontane, abbiamo la possibilità di recuperare ottimo materiale e di fermarci a pensare, o almeno valutare, realtà diverse dalla nostra ma in fondo afflitte da problematiche comuni.

giovedì 6 settembre 2018

AVE, CESARE!

(Hail, Caesar!, di Joel ed Ethan Coen, 2016)

Il Cinema prima di tutto è passione, non solo per chi lo guarda ma anche e soprattutto per chi il Cinema lo fa. Lo è per i fratelli Coen che al Cinema ritornano con questo Ave, Cesare! dopo averlo già esplorato in maniera metalinguistica con Barton Fink - È successo a Hollywood. Lo è per il protagonista di questo film, Eddie Mannix (Josh Brolin) che nella finzione sguazza gioioso; non importa quanto la realizzazione di ciò che l'industria cinematografica impone sia faticosa, non importano gli orari duri, non importa il dover avere a che fare con star ingestibili, professionisti al limite del demente, complotti comunisti, rapimenti, giornalisti invadenti e tutta la pletora di problematiche che un set può produrre giornalmente. Quello che importa è starci dentro, dentro l'industria più bella del mondo, quella che regala sogni alla gente, sogni di cartone portati sullo schermo da perfetti e credibilissimi imbecilli, ma in fondo a chi importa? Il sogno rimane, e Mannix vuole continuare a lavorare per quel sogno, a costo di rifiutare anche offerte più comode e remunerative, perché... vuoi mettere la soddisfazione? Ti capisco Mannix, in fondo hai fatto la scelta giusta.

Eddie Mannix lavora per la Capitol Pictures, il suo lavoro è quello di accertarsi che le cose sui vari set della casa cinematografica filino lisce, fa da badante alle star, risolve problemi, gestisce la stampa, unge i poliziotti quando serve. Nello specifico: la bella star DeeAnna Moran (Scarlett Johansson) è incinta e non sa per certo chi possa essere il padre del futuro pargolo, un discreto scandalo per l'epoca, siamo nei primi anni 50; Baird Whitlock (George Clooney), il protagonista di Ave, Cesare!, un kolossal su cui la Capitol punta molto, viene rapito da un gruppo di intellettuali filocomunisti che farebbe la gioia del Senatore McCarthy; Hobie Doyle (Alden Ehrenreich), divo del Cinema western, viene prestato al Cinema d'autore, nelle mani del regista Laurence Laurentz (Ralph Fiennes) si rivela un perfetto idiota; il divo del musical Burt Gurney (Channing Tatum) potrebbe avere contatti sospetti con la Grande Madre Russia; le sorelle giornaliste Thora Thacker (Tilda Swinton) e Thessaly Thacker (Tilda Swinton) sono alla continua ricerca del pezzo scandalistico che potrebbe affossare questa o quell'altra star. Tutte preoccupazioni per il nostro Eddie Mannix, tutte rogne che gli impediranno di smettere di fumare, facendogli infrangere la promessa fatta alla dolce signora Mannix (Alison Pill).


Ave, Cesare! è l'occasione per i fratelli Coen di rendere omaggio al Cinema, magari ridicolizzando anche un poco diversi aspetti di questa industria, è un giocattolone a tratti idiota che però ricrea con toni moderni generi e stilemi del passato della gloriosa Hollywood. Come non rimanere incantati davanti a un bravissimo Channing Tatum che ricostruisce le atmosfere dei musical di Gene Kelly (Un giorno a New York) con invidiabile leggerezza? E come non apprezzare gli strafalcioni del peplum e l'intensità posticcia ma convincente del divo Clooney? Vogliamo parlare dei film acquatici e delle acrobazie aeree della Johansson? Tutti elementi dei tanti film nel film che servono a dare corpo a questa narrazione che non rivendica grandi pretese, che si pone come un divertissement sul Cinema, un film riuscito nella misura in cui non si pretenda dai Coen un film dagli esiti pari ad altri dei loro precedenti capolavori. Ave, Cesare! non è Il grande Lebowski, non è Fargo, non è L'uomo che non c'era e non è probabilmente all'altezza almeno della metà dei film girati dai Coen, è un film divertente, moderno che si giova di un cast in grado di innalzarne il valore intrinseco.


Bastano pochi minuti a un mostro come Ralph Fiennes, qui supportato da Ehrenreich, per dar vita a una delle scene più esilaranti del Cinema degli ultimi anni (... vorrei fosse così semplice), Brolin è un protagonista molto convincente, Clooney sembra veramente un cretino preso all'amo dall'intellighenzia marxista; tanto talento all'interno di un film che, ripetiamolo, non pretende d'essere il capo d'opera dei due fratelli Coen. Ma questo poco importa, quello che importa è che ci siano ancora sogni in cui perdersi, magari farlocchi, dementi, ma pur sempre sogni.

martedì 4 settembre 2018

ANT-MAN AND THE WASP

(di Peyton Reed, 2018)

Torna sui grandi schermi anche il piccolo Ant-Man (Paul Rudd) questa volta con una più massiccia compresenza della sodale Wasp (Evangeline Lilly) che qui si guadagna anche l'onore di presenziare nel titolo del film. Proprio questo è l'elemento di maggior interesse di un film che, seppur a tratti divertente, procede con il pilota automatico confermando comunque la capacità dei blockbuster Marvel di colpire bersaglio e portafogli; Ant-Man and the Wasp ha infatti già incassato ben più di quello che è costato ai Marvel Studios realizzarlo. Dicevamo... Wasp... Evangeline Lilly, il primo vero ruolo femminile in casa Marvel di una certa importanza, infatti la Vedova Nera di Scarlett Johansson si è dovuta dividere gli onori della ribalta con tutti gli altri Vendicatori, la dolce Wasp invece deve fare solo a metà con Ant-Man e in più il suo ruolo non sembra affatto quello della spalla bensì quello della coprotagonista a pieno titolo. L'alchimia tra i due insetti è decisamente buona, sempre in bilico tra la gag comica e la storia d'amore in divenire, l'aspetto super è forse quello meno interessante e più canonico della pellicola. Il tratto distintivo di Ant-Man è quello di non essere un vero supereroe, Scott Lang, l'uomo dietro la maschera, non è un eroe come Capitan America, non un miliardario alla Tony Stark, non un essere potente come Hulk o Thor, Lang è principalmente un povero cristo con la vita incasinata, è agli arresti domiciliari per aver aiutato Cap, è separato con una figlia ancora piccola alla quale badare in condizioni assai complicate e alla quale vuole un mondo di bene, un papà moderno, un super eroe agli occhi della piccola Cassie certo, ma in realtà un padre molto molto umano e incline all'errore, magari anche un po' immanicato con la sfiga... insomma, un uomo imperfetto con il quale è molto più facile identificarsi che non con un Thor o un Iron Man, chi diavolo potrebbe identificarsi con un Thor o con un Iron Man? E allora lunga vita ai perdenti, onore a Scott Lang e compagnia bella. Con queste premesse si ha un protagonista che naturalmente ispira simpatia, affiancato dalla bella, forte e allo stesso tempo dolce Hope Van Dyne, la donna dietro la maschera di Wasp, una coppia davvero accattivante, e tra i due la più tosta sembra essere proprio la piccola vespa.


Il film di per sé funziona, diverte ma poco ci lascia, diverse cose interessanti ci sono e tra poco ne parleremo, però l'impressione generale che ho avuto è che i cinecomics, per quanto mi piacciano e per quanto li guardi volentieri, stiano iniziando a essere davvero troppi e che la maggior parte di questi fatichi ad elevarsi sopra la media, creando un effetto di appiattimento che va a ridimensionare anche quelli che potrebbero essere gli aspetti positivi di ogni singola uscita. È indicativo di come la scena che più mi ha colpito dell'intero film sia la prima dopo i titoli di coda, una scena che ricollega Ant-Man and the Wasp agli eventi di Infinity War e lo colloca subito prima a livello temporale inserendolo nella famigerata continuity Marvel, una scena drammatica che altera il registro leggero mantenuto da Peyton Reed nel corso dell'intera vicenda. L'altro aspetto da sottolineare è il continuo avanzare degli effetti speciali che più che per le meraviglie dei cambi di dimensione dei due protagonisti, lasciano a bocca aperta per quell'impressionante lavoro di ringiovanimento effettuato su due icone del Cinema come Michael Douglas (qui Hank Pym) e Michelle Pfeiffer (Janet Van Dyne), rispettivamente padre e madre di Hope (Evangeline Lilly). I due appaiono in una sequenza in età giovanile, il lavoro fatto in computer graphic sul corpo di due altri attori (nemmeno su di loro) è incredibile, così come sono ben realizzate le scene ambientate nel microscopico regno quantico.


Altre curiosità da segnalare sono il solito cameo di Stan Lee, la presenza di Bill Foster (Laurence Fishburne) che ai Marvel fan di vecchia data riporterà alla mente il supereroe Golia Nero e che qui più che altro ci tedia con spiegozzi approfonditi sulle origini del villain di turno Ghost (Hannah John Kamen), villain peraltro molto poco interessante, di altro c'è davvero poco. Lasciando da parte la trama che non necessita di particolari spiegazioni, con Ant-Man and the Wasp ci si può godere una action comedy supereroica ben realizzata che difficilmente rimarrà impressa in modo particolare nella memoria degli spettatori, concentrati probabilmente nell'attesa della seconda parte del mega evento con protagonisti Thanos e gli Avengers. C'è da dire che questo tipo di film continua a incassare molto, è un tipo di film che richiede la visione in sala e quindi attira pubblico, è abbastanza trasversale anche per quel che riguarda il tipo di pubblico, prima o poi anche questa moda si ridimensionerà, probabilmente non troppo presto. Però, nonostante in questo film non ci sia nulla che non vada, i primi segni di ingolfamento si iniziano a percepire.

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