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mercoledì 28 agosto 2024

A OVEST DELL'INFERNO

(di Jonathan Lethem, 2001)

Lo ammetto, ho un difetto. Beh, questo non è proprio vero; in realtà possiedo una borsa piena di difetti; in maniera del tutto plausibile, con il passare del tempo (leggi anche "invecchiando"), è possibile che ne stia raccattando altri in giro da mettere e conservare nel borsone (borsa mi sembra riduttivo ora che ci penso). D'altronde sono da sempre un discreto accumulatore, almeno con le cose che mi garbano, cosa volete che sia qualche difettuccio in più. Ogni tanto mi libero anche di qualcosa ma i difetti... non so, mi pare siano più o meno sempre tutti lì. Uno dei miei difetti è, per esempio, che non mi ricordo le cose. E infatti ora non ricordo bene perché io abbia iniziato a scrivere questo pezzo che dovrebbe vertere sulla raccolta di racconti A ovest dell'inferno di Jonathan Lethem parlandovi dei miei difetti. Come dicevo è un mio difetto. Un altro mio difetto è che scrivendo uso troppe parentesi, ne sono consapevole ma me ne frego (e questo potrebbe essere un altro difetto, il fatto che io me ne freghi intendo). E riecco le parentesi. Poi inizio le frasi con le congiunzioni, con i "ma" e con quello che mi pare e me ne frego anche di questo. Nel frattempo sto cercando di ricordare che cosa avrei dovuto scrivere su Lethem, forse sto solo divagando perché sull'antologia in questione non è che abbia proprio un granché da dire, questo però non lo reputo proprio un difetto, più che altro lo vedo come un tentativo malriuscito di supercazzola nella speranza di prender tempo e accumulare righe, cosa che (visto che siamo già a riga 17, almeno sul mio programma di videoscrittura, quando leggerete voi chissà) sta anche parzialmente riuscendo, se riuscissi a resistere e infilare qualche altra fesseria avremmo già bella e pronta una discreta (come mole) introduzione. Un'introduzione ovviamente piena di difetti. E di parentesi. Ora vado a guardarmi un film, al resto ci penserò dopo, se ne avrò voglia. Magari mangio anche un gelato. A dopo.

Ciao, riprendo a scrivere dopo una pausa di circa ventiquattro ore che voi magicamente non avvertirete. Tra l'altro il film non era niente di che (Quello che tu non vedi) ma il gelato non era male. Devo anche finire di guardare Fringe di J. J. Abrams, mi mancano quattro episodi, ma cercherò di resistere e portare a termine questo pezzo, anche se ancora non ho bene idea di come. A ovest dell'inferno è un'antologia di racconti di Jonathan Lethem, sei per la precisione, che in realtà in lingua originale non trova nessun corrispettivo, è una compilazione che è stata assemblata direttamente da Minimum Fax con l'aiuto e la supervisione delle stesso Lethem e che quindi potremmo dire nasca appositamente per il pubblico italiano. L'antologia è divisa in due parti, una prima che presenta tre racconti brevi dai toni fantastici o fantascientifici e una seconda con tre pezzi autobiografici decisamente più sfiziosi e interessanti dei tre precedenti. Dopo aver letto i primi tre racconti di fantasia il pensiero che a più riprese si è fatto largo nella mia mente è stato: "vabbè dai, due euro al Libraccio, chi se ne frega"; per fortuna poi sono arrivati gli scritti di real life (che tra l'altro si portano dietro tanto cinema) e il giudizio complessivo è decisamente migliorato (sempre in relazione ai due euro spesi).

Sinceramente dei primi tre racconti non saprei che pensare, mi sono sembrati tre esercizi di non stile di un'inutilità disarmante e sinceramente insignificanti sotto ogni punto di vista, giudizio probabilmente reso più pesante dal fatto che il mio unico precedente con la scrittura di Lethem sia stato il romanzo La fortezza della solitudine, successivo a questi racconti, una lettura che adorai e che quindi mi portò ad approcciare A ovest dell'inferno con aspettative troppo alte per una modesta compilazione come questa. Il primo racconto (La forma in cui siamo) verte su un padre che parte per un viaggio alla ricerca del figlio Dennis in compagnia del di lui miglior amico Balkan. La particolarità è che tutti abitano all'interno di un organismo vivente non ben identificato, i nostri viaggiatori partiranno da qualche punto in basso diretti verso l'occhio, l'organo più illuminante del lotto. In Come entrammo in città e come ne uscimmo un gruppo di uomini e donne partecipano a un gioco a eliminazione ambientato in una realtà virtuale che è anche l'unico modo di trovare cibo e riparo in una società ormai al collasso. Il gioco ovviamente comporta qualche rischio. Chiude la prima parte Videoappartamento: in un mondo in lenta migrazione continua su un'autostrada a uno dei protagonisti capita di vedere inciso su nastro un omicidio avvenuto nel mondo degli appartamenti, oltre la barriera. I tre racconti sembrano privi di direzione, costruiti su idee deboli e senza un reale perché. Perché Lethem avrebbe dovuto scrivere questi racconti che non dicono nulla, non emozionano né coinvolgono, non innovano e non inventano e che persino a più tratti annoiano? Ma soprattutto perché io (o voi) dovremmo volerli leggere? 

Va molto meglio con In difesa di Sentieri Selvaggi, con Elliott ancora non mi crede e con 13, 1977, 21. Intendiamoci, anche qui nulla di trascendentale ma almeno ci sono sprazzi di verità e passione, l'ossessione di Lethem per Sentieri selvaggi di John Ford e per Star Wars di Lucas, racconti di uno strano viaggio, riflessioni sincere su quanto a volte ci si faccia prendere la mano, anche incondizionatamente, da nostre fissazioni immotivate o basate su fondamenta barcollanti, e ancora risvolti familiari e tocchi personali che in qualche modo ricordano ciò che poi si svilupperà proprio nel posteriore La fortezza della solitudine. Nel complesso non si può dire che ne valga proprio la pena, però se lo trovate a due euro al Libraccio, alla fine chi se ne frega!

lunedì 26 agosto 2024

LA GABBIA DELLE SCIMMIE

(Gun monkeys di Victor Gischler, 2001)

"Imboccai la Florida Turnpike con il cadavere decapitato di Rollo Kramer nel bagagliaio della Chrysler, continuando a ripetermi mentalmente che avrei dovuto stenderci sotto un telo di plastica".

Inizia così La gabbia delle scimmie, opera d'esordio di Victor Gischler pubblicata in Italia nel 2008 da Meridiano Zero nella collana Meridianonero. A oggi l'autore statunitense ha portato a compimento una quindicina di romanzi e si è fatto un nome nell'ambito della letteratura noir e hard boiled grazie al suo stile cinetico, pulp, violento e scorrevole che gli ha aperto le porte anche nell'ambito del fumetto permettendogli di lavorare su alcune delle principali icone della Marvel Comics come Il Punitore, gli X-Men, la versione marvelliana di Dracula e l'ormai idolo del pubblico cinematografico Deadpool, nonché su progetti per Dark Horse Comics, Dynamite Comics e Titan Comics. Pur avendo solamente assaggiato la sua produzione a fumetti l'impressione è che in ogni caso l'ambito d'elezione di Gischler sia proprio il noir, quello letterario, di cui l'autore in questo La gabbia delle scimmie fornisce una versione molto dinamica e divertente, non troppo incline a particolari riflessioni ma adatta a una lettura immersiva e veloce, una narrazione che con facilità si presterebbe a una trasposizione cinematografica dallo stile (post) moderno.

E così il nostro Charlie Swift di Orlando, Florida, si trova a guidare in compagnia di Blade Sanchez (così chiamato per la sua noiosa e prevedibile ostinazione nell'uccidere con il coltello, sempre il classico sorriso da orecchio a orecchio) con il cadavere senza testa di Rollo nel bagagliaio. E sì che lui con Sanchez non ci voleva proprio lavorare, quel coglione, si era messo in testa, visto che tutti lo prendevano per il culo per la sua fissa per il coltello, di uscirsene con un omicidio originale, giusto per far vedere che anche lui sapeva essere estroso all'occorrenza. Ovviamente Sanchez aveva fatto un casino, cosa che poi a Charlie non è che proprio arrivò inaspettata. Questo poi per Charlie non sarebbe stato nemmeno il più grande dei problemi, quelli sarebbero arrivati in seguito, l'episodio gli diede anche modo di conoscere la bella e sveglissima Marcie, gran donna quella. A ogni modo Charlie lavora per Stan, un pezzo grosso della mala locale, gli sistema delle faccende, è l'uomo di fiducia diciamo. Ecco, per tornare ai guai di cui si parlava prima, da Miami arriva Beggar Johnson, uno che sta ancora più in alto di Stan e che a quest'ultimo vuole ora rubare il territorio, una cosa del tipo Stan ha fatto il suo tempo è meglio toglierlo di mezzo. Charlie però è un bastardo col senso dell'onore al posto giusto, la sua fedeltà va a Stan e a quei cazzoni dei suoi compagni della gabbia delle scimmie, quel ritrovo sul retro del locale di Stan dove insieme si beve qualcosa, si gioca a Monopoli e si parla di donne. Quando scoppia il casino Charlie si trova tra i pochi superstiti di un mucchio di cadaveri, pero in mano ha dei libri contabili che potrebbero far prudere il culo persino a Beggar Johnson...

Bene, mi son fatto prendere la mano, a ogni modo il sunto è questo. Victor Gischler scrive un protagonista ambivalente, un malavitoso duro e spietato all'occorrenza, mai inutilmente violento, con un senso della lealtà e dell'amicizia radicato, un uomo capace di innamorarsi sul serio, preoccupato e affettuoso nei confronti della vecchia madre, protettivo con il fratello più piccolo che vorrebbe instradare sulla via dello studio e di una vita rispettabile, insomma, un uomo capace di gesti efferati ma anche di slanci altruistici. Attorno a questo Charlie Swift l'autore costruisce un noir violento ma al contempo leggiadro, che si lascia leggere senza nessuna fatica e che invoglia a tenere un ritmo indiavolato anche nella lettura: nessuna frizione, nessuna caduta di tono, tutto oliato in maniera perfetta tra dramma, humor, azione e intreccio, una costruzione che, ripetiamolo, sarebbe perfetta per un noir d'azione cinematografico. Manca forse nella scrittura di Gischler quella profondità meditativa propria di molti noir, quel malessere esistenziale, quel tono crepuscolare che spesso innalza il genere a una forma di letteratura più alta; a ogni modo poco male, La gabbia delle scimmie è un romanzo d'intrattenimento divertente e ben costruito, linguaggio diretto ed efficace che cesella le parole per ciò che è necessario narrare e per creare il giusto contesto d'ambiente. Semplice, onesto, senza fronzoli. Può bastare.

domenica 25 agosto 2024

CRIME AND PUNISHMENT - DELITTO E CASTIGO

(Rikos ja rangaistus di Aki Kaurismaki, 1983)

È con un certo coraggio che un giovane Aki Kaurismaki debutta alla regia nel lungometraggio di finzione; il regista all'epoca ventiseienne sceglie di realizzare come sua opera prima niente meno che l'adattamento di uno dei più importanti romanzi dell'autore russo Fëdor Dostoevskij: Delitto e castigo. Il regista finlandese decide di abbandonare l'ambientazione storica e le terre di Russia per trasportare il racconto all'era contemporanea (si era nel 1983 al momento delle riprese) in una Helsinki moderna nella quale si muove il nostro protagonista che perde il nome di Rodion Romanovič Raskol'nikov per un più consono alla nuova nazionalità Antti Rahikainen. Kaurismaki si lancia in un'impresa affatto semplice da realizzare, ovvero portare sullo schermo i moti interiori, i rovelli di coscienza, il dolore e le febbri, i sensi di colpa e i mutamenti d'umore di un protagonista in agitazione continua, compito non banale, soprattutto per un autore ancora novello che nell'anno del Signore 1983 aveva alle spalle solo la codirezione (con il fratello Mika) del documentario La sindrome del lago Saimaa, un focus su tre gruppi rock finlandesi (Eppu Normaali, Hassisen Kone e Juice Leskinen Slam) in tour nella zona del lago che dà il titolo al documentario, tema musicale che sta molto a cuore al regista e che sarà poi presente molto spesso nelle sue opere successive.

Antti Rahikainen (Markku Toikka) è un giovane che lavora al macello di Helsinki; nel suo passato c'è un episodio doloroso che ha fatto crescere in Antti un senso di ingiustizia mai pacificato (un po' come il comportamento della vecchia usuraia per il Raskol'nikov dostoevskiano). Qualche tempo prima il signor Honkanen, un ricco imprenditore, guidando ubriaco uccise la ragazza di Antti uscendo dall'episodio impunito e pulito, senza dover fare i conti con legge e giustizia; sarà proprio Antti a prendere sulle sue spalle il compito di giudice, giuria e boia condannando Honkanen a morte e freddandolo senza dargli troppe spiegazioni. Nel momento del delitto Antti viene però sorpreso da una collaboratrice domestica, la giovane Eeva (Aino Seppo) che per qualche motivo decide di non denunciarlo subito consentendogli di scappare. Da qui inizia un gioco a rimpiattino tra Antti e l'ispettore Pennanen (Esko Nikkari) con l'omicida diviso tra gli impulsi a farsi catturare mossi dalla sua coscienza colpevole e l'istinto a sfuggire alla cattura e continuare a essere libero, un gioco in cui verranno coinvolti a più riprese diversi personaggi: Eeva, un senzatetto sconosciuto, un pretendente di Eeva (Hannu Lauri), il detective Snellman e lo strambo collega di Antti, il baffuto Nikander (Matti Pellonpää).

Quello di Crime and punishment - Delitto e castigo è un Aki Kaurismaki non ancora del tutto maturo nella ricerca del suo stile e dei suoi temi poi divenuti segni distintivi del suo cinema, non di meno in questo esordio Kaurismaki riesce a calibrare e costruire una trasposizione azzardata ottenendo un buon risultato, un film che ancora non si può annoverare tra le opere imperdibili del maestro finnico ma che già si ammanta di una sua dignità e di una compiutezza non trascurabile data l'ambiziosa idea di partenza che coinvolge un testo non così immediato da trasporre in immagini. Ciò che ancora manca in questo esordio è quella comicità stralunata e quasi impassibile che caratterizzerà molti dei personaggi di Kaurismaki nelle opere a venire, una comicità della quale si intravedono pallidi lacerti nella figura del collega Niklander, ad ogni modo intuizioni ancora tutte da sviluppare. Pur rimanendo nel suo usuale minimalismo, quello sì già presente, e senza quindi calcare troppo la mano sul tormento emotivo di Antti che nel corrispettivo letterario non trovava confini e misura, Kaurismaki visualizza in maniera efficace il contrasto interiore tra desiderio di fuga (altro elemento kaurismakiano) e necessità di punizione, elementi che danno vita al balletto messo in atto da Antti e forze dell'ordine. Quello di Kaurismaki è un Delitto e castigo asciugato dagli eccessi emotivi, una questione che diviene finanche cerebrale nel finale amarissimo con le parole ficcanti di un Antti disilluso e nichilista (quelle sul pidocchio, ma non anticipiamo troppo), un uomo che si prepara a un lungo periodo di (ulteriore) solitudine e poi... chissà.

domenica 18 agosto 2024

LA BATTAGLIA DI HACKSAW RIDGE

(Hacksaw Ridge di Mel Gibson, 2016)

Da sempre molto legato alla religione e a personaggi che con la fede intavolano un certo rapporto, per la sua a oggi ultima regia Mel Gibson trova un feeling naturale con la vera storia del soldato Desmond Doss, obiettore di coscienza dell'Esercito degli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, un ragazzo che si arruolò volontario e che durante il suo percorso da militare non imbracciò mai un'arma, servendo il suo Paese in qualità di medico, salvando vite invece di spezzarne, perché come fatto notare dallo stesso Doss, "in un mondo impegnato a farsi a pezzi da solo, non è una cattiva idea tentare di rimetterlo insieme pezzo dopo pezzo". Così Gibson trova il suo eroe perfetto, motivato da una fede sincera e incrollabile (Doss è un avventista del settimo giorno); il suo protagonista unisce coraggio e statura da eroe alle più giuste delle motivazioni, tutto inserito nella roboante epica della guerra e della battaglia, una visione che in molti rimproverano a Gibson, accusato di giustificare la propensione alla guerra dell'uomo e di darne una visione distorta e a senso unico, una visione che vede l'americano, anche il più ottuso e guerrafondaio, come colui che è nel giusto, riducendo gli avversari a figurine, cattivi da pulp magazines d'accatto, privi di motivazioni e mossi da insensata violenza e crudeltà. Tutti sappiamo che le cose non stanno proprio così, tutto è sfumato, quelli che a volte sembrano "i buoni" sono spesso i peggiori tra gli elementi. Gibson narra la storia di un pacifista convinto (figura comunque non semplice né banale) che aborre la violenza, un protagonista inserito all'interno di una struttura narrativa spettacolare che rende merito al più classico del cinema hollywoodiano di guerra, in questo Gibson gira a tutti gli effetti un gran bel film.

Il giovane Desmond Doss (Andrew Garfield) cresce in una famiglia con qualche problema: la madre (Rachel Griffiths) è una fedele della Chiesa avventista del settimo giorno e trasmette i valori cristiani a Desmond e al fratello Harold, il padre è un reduce traumatizzato della Prima Guerra Mondiale, un uomo a tratti violento che non riesce a superare le perdite e le brutture viste negli anni della guerra e che nella maniera più assoluta, avendo già vissuto l'esperienza, aborre l'idea che i suoi figli possano arruolarsi e andare a distruggere le proprie vite sul fronte del secondo conflitto mondiale. Convinto dei suoi insegnamenti cristiani, rafforzati da un incidente di gioventù durante il quale Desmond rischiò di togliere la vita al fratello, in seguito all'attacco di Pearl Harbor il giovane decide di arruolarsi nell'esercito in qualità di medico rifiutando però in maniera categorica il contatto con le armi e avvalendosi della possibilità garantita dalla Costituzione agli obiettori di coscienza di respingere ogni forma di violenza. A dispetto della volontà del padre (Hugo Weaving) e della sua ragazza Dorothy (Teresa Palmer) Desmond inizia il suo percorso di addestramento che si rivelerà essere un vero inferno proprio a causa del suo rifiuto di toccare la armi e all'ostilità dei suoi superiori, tra i quali il sergente Howell (Vince Vaughn) e il capitano Glover (Sam Worthington), e quella dei suoi compagni. La determinazione di Desmond riuscirà a fargli superare umiliazioni e difficoltà fino a che l'esercito si troverà costretto a mandarlo in battaglia al fianco dei suoi compagni nella campagna di Okinawa dove la sua divisione dovrà prendere l'altura di Hacksaw Ridge. Qui Desmond si guadagnerà l'affetto, il rispetto e la gratitudine di tutti, commilitoni e superiori.

Film di stampo classico girato magistralmente da Gibson che in alcuni passaggi per qualità ci riporta ai primi venti minuti del Salvate il soldato Ryan di Spielberg; a conferma della qualità tecnica de La battaglia di Hacksaw Ridge ci sono l'Oscar al miglior montaggio e quello al miglior sonoro, premi entrambi più che meritati che si uniscono ad altri riconoscimenti ottenuti in giro per il globo (Bafta, National Board of Review, etc...). Al di là dell'eccezionale riuscita dell'aspetto tecnico, Gibson gestisce bene anche la costruzione dei personaggi, quello di Desmond e quello di suo padre nella prima parte ma anche, e non sempre è cosa semplice, il lavoro sulla pletora di commilitoni e superiori dell'esercito, ognuno capace di ritagliarsi una propria identità e un proprio ruolo che farà pesare ancor più la perdita di alcuni di loro durante la terza parte del film, quella della battaglia vera e propria. È vero che la narrazione della vicenda di questo pacifista che ripudia la violenza, e che quindi si propone come esempio indiscutibile di modello positivo anti-bellico, è immersa nell'epica della guerra, spesso manichea nel definirne le parti, un'epica che probabilmente si confà al sentire del regista, non si può negare che sotto il punto di vista strettamente cinematografico La battaglia di Hacksaw Ridge sia un gran film, un'immersione totale nel caos e nella violenza di un guerra che, al netto di qualsiasi pensiero diffuso negli U.S.A., non può non muovere a repulsione lo spettatore, soprattutto in un contesto attuale in cui il dramma della guerra lo abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Film di valore sia come war movie sia come biopic, non sarà facile dimenticare la figura dello smilzo Desmond Doss dopo averla conosciuta, in chiusura interviste con i reali protagonisti (alcuni) della storia narrata a impreziosire il tutto.

giovedì 15 agosto 2024

TRAP

(di M. Night Shyamalan, 2024)

Il regista maestro del "plot twist", che proprio per la sua propensione a giocare con questo meccanismo narrativo è stato criticato a più riprese, esce nelle sale con il suo nuovo film che altro non è se non l'apogeo del "plot twist", ovvero lo svelamento di ciò che dovrebbe essere celato fin dal trailer di questo Trap, un vero e proprio "plot twist" nelle abitudini radicate e nella visione cinematografica di (se non si fosse ancora capito) M. Night Shyamalan, bizzarria che come partenza non è poi affatto male, non credete? E così non abbiamo nulla di terremotante da aspettarci nel finale o nel pre-finale di questo Trap, thriller anomalo tutto da seguire e che non lascia troppo da svelare, un viaggio da godere in compagnia del protagonista principale, un assassino seriale dalla personalità consapevolmente (o forse no?) duale e ben scissa tra adorabile padre di famiglia e marito (ma più padre nella fattispecie) e macellaio truce e sanguinario senza coscienza, motore di una crudeltà che in Trap non prende mai corpo in maniera fisica, non si rilevano infatti presenza né di sangue né di atti violenti per l'intera durata del film. Nonostante si giochi a carte perlopiù scoperte il film, almeno nella parte iniziale, non manca di intrigare e di tener desta l'attenzione e la tensione, sensazione che sarebbe ancor più accentuata se lo spettatore riuscisse ad andare a vedere questo Trap senza essersi mai imbattuto nel trailer del film o in qualche recensione preventiva.

A Filadelfia è giunto finalmente il momento del concerto di Lady Raven (Saleka, figlia di Shyamalan), pop star idolo di folle oceaniche di adolescenti tra le quali c'è anche la giovane Riley (Ariel Donoghue) che impazzisce letteralmente per la cantante. Cooper (Josh Hartnett), l'adorabile (?) papà di Riley, un vigile del fuoco di Filadelfia, è riuscito a procurarsi due biglietti per il concerto; l'eccitazione dei due è alle stelle, per la ragazza ovviamente a causa dell'agognato concerto, per Cooper l'evento è l'occasione di vedere sua figlia realmente felice e per condividere con lei qualcosa a cui la ragazza tiene moltissimo. Una volta preso posto nel palazzetto per assistere al concerto Cooper inizia a notare poco a poco strani movimenti e una mole di presenza delle forze dell'ordine spropositata per un concerto pop (ditelo a Vienna e a Taylor Swift); con un'espediente l'uomo riesce a farsi rivelare da un ragazzo dell'organizzazione il motivo di tutto questo fermento: la polizia è venuta a conoscenza che all'esibizione sarà presente "il macellaio", un serial killer brutale che ha già mietuto dodici vittime; il problema per Cooper sta nel fatto che il macellaio è proprio lui. Cooper inizia così a ragionare su come uscire da una situazione difficilissima e allo stesso tempo come non deludere sua figlia e come proteggerla dall'eventuale precipitarsi degli eventi. Nel frattempo il concerto comincia, la trappola è tesa.

Se in Trap andrete a cercare un thriller calibrato, ben orchestrato e dove tutto si incastra al meglio, beh, allora non lo troverete. In maniera marcata, probabilmente volontaria (impossibile pensare altrimenti), Shyamalan inanella diversi passaggi, almeno due macroscopici, nei quali le cose non tornano, non funzionano. È possibile, quasi certo oserei dire vista l'esperienza del regista (che è un gran regista), che il suo interesse non stia nel creare il meccanismo perfetto (non lo fa) quanto nell'offrire un buon intrattenimento condendo il tutto con temi ed elementi sui quali distribuire l'attenzione dello spettatore durante l'intera visione del film (e magari poi dopo). I punti di interesse sono diversi: intanto il dualismo del protagonista il quale punto di vista siamo chiamati ad abbracciare nel nostro ruolo di spettatori: padre affettuoso che fa di tutto per rendere felice la figlia e pazzo assassino, una separazione completa di due personalità che nelle stesse intenzioni del protagonista non devono mai incontrarsi e le cui due vite, suo malgrado, sono destinate a collidere. Shyamalan concede inoltre molto spazio alla promozione della figlia Saleka che qui recita, canta, scrive i brani presenti nel film e rappresenta un perfetto epigono di quelle che sono oggi le pop star amate dai giovanissimi. Grande lavoro nell'integrare l'evento concerto alla struttura del film con una regia attenta e dinamica che nella prima parte gestisce benissimo tensione e spettacolo facendo accettare di buon grado i molti momenti di esibizione anche a chi solitamente batte lidi musicali molto distanti da quelli qui proposti. Ben gestito il lato dedicato ai metodi di comunicazione odierni dove il mondo social è messo sotto i riflettori sia in negativo (le difficoltà relazionali di Riley) sia in positivo (gli appelli ai fan di Raven), come a dire che il tutto sta sempre nel modo di utilizzo del mezzo (che poi sia sempre così rimane tutto da vedere, mi sembra che non si giochi proprio ad armi pari). A discredito rimane l'ingenuità e la faciloneria di alcuni passaggi dettati da personaggi che assumono comportamenti idioti o fin troppo positivi/boccaloni fidandosi a prescindere di quest'uomo che, oh, è un vigile del fuoco e quindi quasi un eroe per definizione. Sul finale si scivola sul solito trauma infantile, Josh Hartnett, che non ho mai amato particolarmente, alla fine sembra divertirsi e nel contesto in cui è inserito non se la cava nemmeno male. Se non si sta a far troppo le pulci su ogni sviluppo ne può uscire anche una visione piacevole, comunque, al netto dei contenuti, a che pro infilare quelle cadute di senso individuabili anche da un bambino?

martedì 13 agosto 2024

CATTIVE ACQUE

(Dark waters di Todd Haynes, 2015)

È possibile che a qualcuno il cinema d'inchiesta (o di denuncia) riporti alla mente opere verbose, temi noiosi, film didascalici; questo genere cinematografico invece, quando ben gestito, è capace di produrre opere avvincenti, spesso giuste e auspicabili, che poco hanno da invidiare per costruzione e coinvolgimento a film provenienti da lidi diversi. In fondo sono molti i registi di talento a essersi confrontati con questo filone e ad aver prodotto pellicole che oggi tutti ricordano, approfondimenti e narrazioni su vicende che toccano sia l'ambito politico che quello che usualmente mette in contrasto l'interesse economico privato e il benessere o la salute (o entrambi) del cittadino comune. Per fare qualche esempio pensiamo solo a Michael Mann e al suo Insider - Dietro la verità (industria del tabacco) o all'Erin Brockovich - Forte come la verità di Steven Soderbergh (contaminazione delle falde acquifere), a Gus Van Sant e al suo Promised land (forse un filo meno riuscito di altri, sulla fratturazione del terreno), a Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula (sullo scandalo Watergate), in maniera un poco più laterale anche all'ottimo Zodiac di David Fincher (sul killer dello zodiaco). Gli esempi non mancano e si potrebbe andare a ritroso fino a pescare nel cinema della Hollywood classica e allungare l'elenco a dismisura; nel 2015 anche Todd Haynes si aggiunge all'elenco con questo Cattive acque, un film che magari non ci si aspettava dal regista di Velvet Goldmine e Io non sono qui ma che si rivela ben riuscito sotto ogni punto di vista e che a fine visione non mancherà di farvi fare un bel controllino nelle vostre cucine.

Robert Bilott (Mark Ruffalo) è un avvocato di un prestigioso studio di Cincinnati in Ohio di cui è da poco divenuto socio; lo studio si occupa in prevalenza di offrire consulenze e difese per le grandi industrie chimiche della zona. Un giorno in ufficio si presenta Wilbur Tennant (Bill Camp), un allevatore amico della nonna di Bilott che è originario del West Virginia, l'uomo chiede a Bilott una mano per uno strano caso di moria di vacche che sta decimando il suo bestiame, una moria a suo dire causata dalle attività della DuPont, un'azienda chimica della zona. In forte imbarazzo, visto che di solito le aziende chimiche le difende, l'avvocato, dopo aver parlato con la nonna, si convince a visitare la terra dei Tennant dove in effetti riscontra negli animali grosse anomali che vanno da organi enormemente ingrossati, dentature marce e tumori diffusi. Per avere informazioni su ciò che la DuPont sta scaricando nelle acque della zona Bilott chiede prima informazioni a uno dei legali della DuPont, Phil Donnelly (Victor Garber) per poi intentare una piccola causa volta ad ottenere dei chiarimenti. Con il passare del tempo l'affare si ingrossa e i rischi per Bilott aumentano dovendo fronteggiare alcune lamentele da parte dei vertici dello studio (Tim Robbins) e la paura della moglie Sarah (Anne Hathaway) che teme prima per la situazione economica familiare e poi per la salute del marito. La battaglia sarà dura e ci vorranno anni di sofferenza e sacrifici per vedere uscire dalla vicenda qualcosa di buono.

Cattive acque è, come sempre è il cinema d'inchiesta, basato su una storia vera, quella della causa che portò alla luce le malefatte della DuPont e alla consapevolezza della nocività di PFOA e PFOS, sostanze potenzialmente cancerogene contenute anche nei processi di produzione del Teflon, materiale usato per realizzare le coperture antiaderenti di pentolame vario. Haynes si adatta a ciò che il genere richiede e confeziona un film preciso ed esplicativo della vicenda; ciò nonostante il regista losangelino è bravo a connotare Cattive acque con una personalità estetica ben definita grazie al lavoro sulle cromie plumbee e alla fotografia di Lachman. Sul piano drammaturgico Haynes centra non solo il punto focale ben noto dell'avidità capitalista di aziende che non si fanno scrupoli a speculare sulla morte dei loro concittadini, ma anche il contrasto tra rischi per la salute e paura di perdere il lavoro (pensiamo alle nostrane vicende legate all'Ilva di Taranto) che qui  provocano astio nei confronti dell'avvocato e di chi promuove la causa nei confronti della maggior fonte di reddito della zona. Dilemmi che a cascata influiscono sul nucleo familiare, anche quello dello stesso protagonista, messo in scena da un Ruffalo di timida perfezione, una famiglia che si deve fare fondamento per movimenti più grandi, condivisi ed eticamente alti ma, si sa, il sacrificio è sempre difficile e spesso è pura sofferenza. Ruffalo è sostenuto da un ottimo cast di contorno: si ammira con piacere il personaggio duale di Tim Robbins, attore sempre di livello così come dona un maggior tono drammatico anche la presenza di Anne Hathaway nei panni della moglie Sarah; Haynes si sforza di non uscire dai binari e confeziona una prova lontana da esiti suoi più mossi (Io non sono qui ad esempio) e a parer di chi scrive anche meglio riuscita, un film che forse non in molti si sarebbero aspettati da questo regista. Ottima prova, l'ennesima di un tipo di cinema da sostenere e se possibile diffondere.

sabato 10 agosto 2024

YAKUZA APOCALYPSE

(di Takashi Miike, 2015)

È davvero difficile inquadrare un regista come Takashi Miike o anche solo ipotizzare cosa possa passargli per la testa quando decide di girare un film. Il regista giapponese, classe 1960, può contare su una filmografia quasi sterminata che, prendendo in considerazione i soli lungometraggi prodotti per cinema e televisione, inanella qualcosa come una novantina di opere alle quali vanno aggiunti cortometraggi, serie e miniserie tv e anche un paio di spettacoli teatrali, una mente iper prolifica per valutare l'ingegno della quale si dovrebbe analizzare un monte ore di girato proibitivo, cosa che io non ho fatto nemmeno in minima parte avendo all'attivo giusto qualche titolo e la sua incursione nei Masters of Horror di qualche tempo fa (2005). In qualche modo però i film visionati, il Dead or alive del 1999 ad esempio, non mancano di attitudini comuni che possono divertire lo spettatore così come lasciarlo perplesso e spaesato se non addirittura infastidito. Yakuza Apocalypse è un miscuglio di elementi che vede Miike unire il gangster movie con uno scenario dove la Yakuza la fa da padrona all'horror (blando) a tema vampirico, il grottesco e il fantastico con personaggi surreali e spiazzanti a un piglio citazionista che arriva a riecheggiare da lontano temi e personaggi del western revisionista che fu, con un occhio di riguardo al nostrano Django di Sergio Corbucci. Ad ogni modo...

Genyo Kamiura (Lily Frank) è un boss della Yakuza che gestisce con mano ferma ma giusta il suo territorio; l'uomo rispetta e fa rispettare ai suoi sottoposti un codice d'onore per il quale i civili del suo territorio non vanno toccati, anzi, il boss tenta quando possibile di dare una mano agli abitanti della zona che è caduta in una seria fase di recessione economica. Quando il giovane Akira Kageyama (Hayato Hichihara) incontra per la prima volta il boss e vede in un bagno pubblico il suo tatuaggio di appartenenza all'organizzazione, decide di voler diventare anche lui uno yakuza e si mette a servizio di Kamiura. Un giorno, dopo un periodo lungo il quale Kageyama ha preso confidenza con il suo ruolo, un'organizzazione che arriva da fuori territorio manda due strani individui a intimare Kamiura di rientrare nel giro e lasciar perdere il suo buonismo. Questi sono Bateren (Tei Ryushin), una sorta di prete ottocentesco che gira con una piccola bara (omaggio a Django?) contenente un fucile ad impulsi elettrici (?), e Kyoken (Yayan Ruhian), un letale combattente dal look improbabile. Nello scontro viene fuori che Kamiura è una sorta di vampiro che ha abiurato la sua sete di sangue, nel momento del bisogno contagia il suo discepolo Kageyama per dargli una possibilità di sopravvivenza e vendetta. Inizierà uno scontro senza quartiere dagli sviluppi imprevedibili e molto lontani dall'avere il più blando sentore di senso compiuto.

C'è poco da dire, il film in sé non avrebbe nessun motivo di essere, eppure alcune sequenze sono demenzialmente magnifiche. La prima comparsa dell'uomo rana (un tizio in un costume da rana tipo quello del Gabibbo) che si rivela essere un combattente con i fiocchi è impagabile, così come quella dello scontro tra il ranocchio e Kageyama, semplicemente da applausi seppur senza senso alcuno. Miike, come già fatto in passato, sembra non darsi nessun confine né limiti, mischia arti marziali, folklore giapponese con tocco demente, sequenze grottesche e completamente libere da freni, personaggi surreali e situazioni assurde. Come poter dimenticare il folletto kappa con l'alitosi o quella sorta di prete becchino che si porta la cassa da morto sulle spalle come fosse uno zainetto, il capo yakuza interpretato da Reiko Takashima alla quale si scioglie il cervello che di tanto in tanto spruzza fuori dalle orecchie o il ragazzino imbestialito munito di ascia. È un cinema di pura anarchia, una commistione di generi che non va, e probabilmente non a interesse ad andare, da nessuna parte; Miike gira bene, è consapevole di quel che realizza e ha tutte le carte in regola per costruire dell'ottimo cinema che è però troppo fuori dagli schemi, almeno in questo come in altri casi, per essere preso sul serio, alla sensibilità di ogni spettatore quanto il cinema di Miike, che è sicuramente fuori dai fogli, possa calzargli a pennello. Probabilmente Miike (e per fortuna) non lo si può addomesticare, Yakuza Apocalypse è probabile non rientri nella lista dei top film di nessuno, eppure è possibile che, con il taglio di qualche minuto, il film avrebbe potuto anche rivelarsi una piacevole visione per una fetta di pubblico abitualmente uso ad altre suggestioni. Per chi ama le cose fuori da ogni schema.

martedì 6 agosto 2024

TOP GUN: MAVERICK

(di Joseph Kosinski, 2022)

Top Gun: Maverick è un film che punta tutto sulla nostalgia di una (o più) generazione/i e costruisce la narrazione sul richiamo, sul ritorno di un brand riconoscibile prima ancora che su quello del personaggio, dell'attore nel ruolo specifico, degli abiti caratterizzanti, dell'accessorio e di tutto il contorno indimenticabile che in qualche modo, per qualcuno più, per qualcuno meno, ha comunque segnato un'epoca (o almeno un decennio) e non solo al cinema. Bastano tre minuti allo spettatore per essere catapultato indietro nel tempo fino a quel 1986 in cui Tom Cruise entrò per la prima volta nei panni di Pete "Maverick" Mitchell. Poche note, circa cinque secondi mentre iniziano a passare sullo schermo le stelle della Paramount, e il primo sorriso si stampa sulla faccia di tutti quegli spettatori che hanno ancora in testa (e magari nel cuore) il Top Gun della loro gioventù, poi il logo del film, due righe di introduzione e finalmente le prime immagini: i caccia ripresi ad altezza carrello, il miraggio provocato dal calore sulla superficie delle portaerei, le indicazioni del personale di terra, lo stacco sulla torre di controllo, il via libera e il primo aereo in decollo con il passaggio dai "Main titles" all'immortale "Danger Zone" di Kenny Loggins, e ancora gli atterraggi, i ganci sui cavi di frenata, tutte cose che ci sembra di conoscere molto bene. L'incipit di questo Maverick è un grosso abbraccio allo spettatore, come quello a un amico che non si vede da tanto (troppo) tempo. Qui sta il succo di un'operazione che ricalca ciò che fece Tony Scott nel primo episodio ma che non manca di divertire per l'intera sua durata grazie anche a una realizzazione alla quale davvero poco si può eccepire.

Sono passati molti anni da quando Pete "Maverick" Mitchell prese il brevetto di Top Gun rivaleggiando con il nemico/amico Iceman (Val Kilmer) e piangendo la morte del compagno di volo Goose. Oggi Maverick è un pilota collaudatore il cui programma è messo a rischio dalla volontà del contrammiraglio Chester Cane (Ed Harris), deciso a convogliare i fondi della Marina verso progetti basati sull'utilizzo dei droni. Nonostante le indubbie capacità di Maverick, ora capitano, il pilota non è mai riuscito a fare carriera nelle gerarchie della Marina causa il suo carattere poco incline al seguire gli ordini; a dirla tutta Pete non è mai stato buttato fuori dal corpo solo grazie all'amico Iceman, ora ammiraglio e comandante della Flotta del Pacifico, che gli ha sempre coperto le spalle. Dopo l'ennesimo colpo di testa Maverick viene "messo a terra" e mandato nuovamente al Top Gun in qualità di istruttore piloti, tra i suoi alunni si dovrà scegliere un team capace di portare a termine quella che a tutti gli effetti sembra una "mission impossible" in territorio straniero. La situazione è complicata dalla presenza nel gruppo piloti di Bradley "Rooster" Bradshaw (Miles Teller), il figlio di Goose verso il quale Maverick coltiva più di un senso di colpa e grandi difficoltà nel dover decidere se mettere a repentaglio la sua vita. Il destino saprà come muovere le sue pedine e come giocare con i legami tra i componenti di questa nuova squadriglia di piloti.

Per chi ha vissuto gli anni del primo Top Gun questo Top Gun: Maverick è capace di toccare le corde giuste e riportare in superficie ricordi ed emozioni come se non fossero passati quasi trentacinque anni da quel primo episodio. "It's time to let go"; è con queste parole, scritte su un computer da un Iceman ormai malato e non più in grado di fare grandi discorsi, che il peso degli anni sembra calare sulle spalle di Maverick, su quelle di Tom Cruise e sì, anche un po' su quelle dello spettatore. È un momento molto commovente, un punto fermo messo sul tempo che passa, una presa di coscienza (che Maverick ancora una volta non ascolterà) sul fatto che è ora di smettere, passare ad altro, l'età non consentirà più di continuare per molto (a volare, a farsi gli stunt da solo, ad ammirare gli eroi di un tempo su uno schermo), è un segnale di maturità che è anche il punto di forza di un film che se negli schemi ricalca il mito, nei personaggi affronta processi di crescita, di colpa, di redenzione che fanno apprezzare in misura ancor maggiore la narrazione, al netto di un impianto spettacolare comunque pienamente riuscito. Per quel che riguarda i richiami al passato ci sono le corse in moto in sfida all'aereo, i caratteri pieni di sé dei giovani piloti, lo spirito di squadra anche al costo del sacrificio, le smargiassate, "Great balls of fire", gli occhiali a specchio e il giubbotto di pelle, la love story, ben inserita, con la new entry Jennifer Connelly mai meno che splendida, il sole che cala e poi c'è quell'uomo cresciuto che non sa come smettere, come mettersi da parte e che risponde all'amico di sempre al suo "it's time to let go", con gli occhi lucidi, con un sofferente "don't know how". In fondo, in coerenza agli intenti, il film di Kosinski è fatto di una programmatica perfezione, ottimo il cast nel quale spicca un Miles Teller che sembra sul serio il figlio di Anthony Edwards, sequenze dinamiche riuscite grazie a effetti speciali dove il digitale, se c'è, non si vede e ritmo calibrato al millimetro. Un blockbuster, permettetemi il gioco di parole, dove si vola alto. Tom Cruise sembra non invecchiare mai.

sabato 3 agosto 2024

BABYLON

(di Damien Chazelle, 2022)

Ai comportamenti di un uomo innamorato si possono perdonare di buon grado l'eccesso, la scarsa misura, i momenti di poca lucidità, il trasporto, la foga, l'accumulo anche scriteriato e quella voglia di voler fare, mostrare, che può facilmente portare l'uomo di cui sopra a uscire dai bordi, a fare il passo più lungo della gamba, a pisciare un pochino fuori dal vaso. Ora, fermo restando come ognuno di noi possa decidere quanta sincerità ci sia in questo Babylon (io credo parecchia), l'opera di Damien Chazelle sembra proprio questo, un atto d'amore totale nei confronti del cinema, della sua storia, della sua magia, un atto d'amore strabordante, a tratti eccessivo, riempito a forza di un sacco di cose, suggestioni, volti, citazioni, episodi, un'opera che non manca in diversi passaggi di andare un poco fuori fuoco, o ancor meglio "su di giri", come un motore che consuma un sacco di benzina ma dentro il quale alla fine è presente il carburante per alimentare una giusta causa, una passione sconfinata, un sogno lungo ormai ben più di un secolo, un amore individuale (nella fattispecie) e soprattutto collettivo, nonostante (e forse proprio per questo) la mutata e crescente difformità di fruizione alla quale il cinema è sottoposto ormai da diversi anni. E allora, se così è, accettiamo di buon grado anche l'imperfezione narrativa di questo Babylon, un'omaggio a un'arte, a una delle sue epoche (la fine del muto), realizzata in un connubio esagitato tra antico e moderno, un piccolo viaggio per innamorarsi una volta ancora della macchina cinema.

Los Angeles, seconda metà degli anni 20. Ad una festa dai toni orgiastici e licenziosi, condita di donne, droghe, alcol, nani e ballerine, gravitano i tre protagonisti (non i soli e non solo loro) di quella che sembra essere una vera e propria Babilonia: Manuel Torres (Diego Calva) è un umile immigrato messicano che ha il compito di introdurre alla festa della Kinoscope, casa cinematografica in ascesa, un vero elefante; Jack Conrad (Brad Pitt) è un divo del cinema muto sulla cresta dell'onda alla ricerca di qualcosa di nuovo che possa apportare qualcosa di più profondo e innovativo all'arte di cui lui è uno dei protagonisti; Nellie LaRoy (Margot Robbie) è un'imbucata, una rozza sognatrice che arriva dal New Jersey più povero e depresso, una ragazza piena di vita, disinibita, dotata di un certo talento e che come l'altrettanto povero Manuel sogna di poter lavorare nel cinema, magari diventando proprio una grande star. Manuel si invaghisce subito della bellissima Nellie e ha l'occasione di iniziare a lavorare proprio per Conrad, si concretizza il sogno di un'apertura verso il mondo del cinema così ambito per l'uomo. Nellie invece viene notata alla festa da un aiutante (Flea dei Red Hot) del proprietario della Kinoscope che ha necessità di sostituire al volo una starlette indisposta causa eccesso di droghe e sesso estremo; per Nellie la festa sarà l'occasione per mettere piede davanti a una telecamera. Le vicissitudini di questi personaggi e di altri ancora (il trombettista nero Sidney Palmer, la cantante Lady Fay Zhu, etc...) si svilupperanno nel corso degli anni mentre il cinema vede tramontare l'epoca del muto in favore dell'avvento del sonoro...

Damien Chazelle mette in scena il suo omaggio al cinema in maniera tonitruante ma anche nostalgica, tornando alla storia del cinema, all'epoca della Grande Depressione e del muto, agli anni delle grandi feste e delle star viziose fino a uno dei grandi momenti di cambiamento della settima arte: l'avvento del sonoro. Nel far questo Chazelle non manca di citare episodi reali e personaggi esistiti qui in qualche modo mascherati e inseriti in quel baillamme esagerato e fracassone che è a più riprese questo Babylon. Questo passaggio fondamentale è legato in maniera chiara ed evidente alla memoria di opere classiche come, in particolare, il Singing in the rain di Stanley Donen e Gene Kelly dove il personaggio di Jean Hagen presenta alcuni punti in comune con Nellie LaRoy, almeno per quel che riguarda le difficoltà riscontrate dalle due attrici nel passaggio dalle didascalie all'uso della voce. Al netto di un totale non sempre perfetto e riuscito, quello che si apprezza di Babylon è la sincera passione per quest'arte, una passione che vediamo (e non è la prima volta, Tarantino docet) negli occhi di una splendida (lo è sempre ma qui più che altrove) Margot Robbie nel buio di una sala cinematografica e in un montaggio finale che ripercorre momenti di storia del cinema che ben sottolineano l'ecletticità di questa meravigliosa macchina della narrazione (per storie, per immagini), e ancora nella passione dei protagonisti per quella che, almeno in parte, diverrà l'arte della loro vita. Gran dispiego di mezzi, attoriali, scenografici, di costumi, di girato (siamo sulle tre ore, anche fin troppo espanse) per raccontare una storia d'amore che non manca di inanellare risvolti di grande cupezza in uno sfoggio di tecnica e accumulo che sembra più volte scappare dal controllo di un regista a tratti smodato ma sinceramente (almeno così sembra) appassionato.