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martedì 14 maggio 2024

MADELINE'S MADELINE

(di Josephine Decker, 2018)

Josephine Decker è una regista molto interessante, almeno a giudicare da questo Madeline's Madeline, autrice da noi praticamente sconosciuta e mai distribuita; si è forse parlato un poco del suo lavoro in occasione del lungometraggio Shirley, già il suo quinto in realtà, in quanto narra la vita della scrittrice Shirley Jackson, conosciuta anche qui in Italia e interpretata dal volto noto di Elisabeth Moss. Anche in questo caso ci vengono in aiuto le piattaforme, questo Madeline's Madeline è visibile infatti su Mubi mentre l'ultimo lungometraggio della Decker, Il cielo è ovunque è stato reso disponibile da Apple Tv+. Purtroppo siamo ancora portati, facendo un discorso generalizzato sul grande pubblico che ovviamente non può valere per tutti, a diffidare di forme narrative che non rientrino perfettamente nei canoni ai quali decenni di cinema classico e lineare ci hanno abituati, tra l'altro il lavoro della Decker non è nemmeno lontanamente tra i più ostici sulla piazza, il film in questione si può seguire senza fatica con un minimo d'attenzione, certo è che Madeline's Madeline un poco fuori dagli schemi (per fortuna) lo è. Oltre a ibridare in maniera molto convincente cinema e teatro, approccio non nuovo per la Decker, la regista londinese cresciuta in Texas ha anche il merito di scovare e dirigere con mano ferma quello che sembra essere un vero giovane talento, la protagonista Helena Howard nei panni di una splendida e intensa Madeline.

Madeline (Helena Howard) è un'adolescente che soffre di un disturbo comportamentale non ben precisato; il suo rapporto con la madre, anche lei all'apparenza non perfettamente in equilibrio con sé stessa, passa da momenti di dolce affetto a scontri verbali o anche fisici; non di rado un'affermazione da parte di mamma Regina (Miranda July), a volte innocente altre più cattiva, conduce Madeline a uno stato depressivo o finanche astioso, tra le due donne non sono infatti mancati in passato episodi violenti. Madeline non si trova molto bene nell'ambiente scolastico, dimensione che nel film non vediamo praticamente mai, ama molto però il corso di teatro sperimentale che sta seguendo con un gruppo di ragazzi e ragazze più grandi di lei e con l'insegnante Evangeline (Molly Parker) la quale ricerca un teatro personale, fatto di grande immedesimazione tra attori e soggetti portati in scena (Madeline è fenomenale nel diventare un gatto) e improntato al più totale abbandono nell'atto della performance. Man mano che Evangeline conosce meglio Madeline si sente sempre più attratta dalla sua recitazione ma soprattutto dalla sua storia, tanto da iniziare a pensare a un cambio di programma per il suo nuovo progetto teatrale per farlo diventare il racconto delle esperienze della sua giovane attrice, un racconto che rievocato in presenza della madre Regina scatenerà la fuoriuscita di ondate di dolore trattenuto e la ribellione dell'intera compagnia teatrale.

Sono diversi i punti di forza di un film senza dubbio da scoprire e diffondere, su tutti il talento della giovane protagonista, una Helena Howard (ventenne al momento delle riprese) molto intensa che porta con profondità sullo schermo gli sbalzi d'umore dettati da una condizione mentale instabile e dal rapporto con una madre troppo opprimente anche quando agisce a fin di bene. L'alter(n)arsi degli stati emotivi di Madeleine è il leit motiv di un film girato in maniera non convenzionale e dinamica con una camera sempre mobile a seguire il lavoro degli attori sul palco e a chiudere su volti, espressioni e performance artistiche, almeno una delle quali di rara intensità, capace di evocare allo stesso tempo dolore, compassione e disagio. Attraverso la voglia di teatro della protagonista viene ben esplorato il rapporto con due donne entrambe figure di riferimento per Madeleine: una madre spesso troppo protettiva, dura, una donna che vede nella figlia prima di tutto una malata da accudire e che alterna slanci d'amore a momenti di cattiveria (forse) involontaria, e un'insegnante motivante, accogliente che potrebbe essere un surrogato di figura materna più serena ma che si rivelerà ben presto come donna opportunista ed egoriferita. Il sapore è quello del cinema sperimentale in connessione al teatro che i ragazzi mettono in scena nel film, di pari passo la regia prova, riuscendoci, a vivacizzare le immagini, le sfumature, i colori, i passaggi, creando un senso di movimento a tratti vertiginoso. Ci sono aspetti plurimi della protagonista da leggere attraverso i suoi comportamenti, le sue esternazioni nei panni di gatto nei confronti della madre, dei compagni di corso ma anche verso gente appena conosciuta. Lo sviluppo del personaggio in fase di scrittura è stratificato e scena dopo scena porta a un finale che potrebbe confermare (o ribaltare) ogni interpretazione dello spettatore. Film a crescere, da giudicare dopo un paio di giorni dalla visione.

sabato 11 maggio 2024

LE PALUDI DELLA MORTE

(Texas killing fields di Ami Canaan Mann, 2011)

Ami Canaan Mann è una regista figlia d'arte che porta nel nome un'eredità parecchio ingombrante, quella del padre Michael autore di film rimasti nella memoria dei cinefili quali Heat - La sfida, Manhunter - Frammenti di un'omicidio, L'ultimo dei Mohicani, Collateral e diverse altre cose di altissimo livello. Non dev'essere semplice cimentarsi in un'arte, tra l'altro anche in un genere già frequentato dal genitore, con l'inevitabile pensiero di ciò che ha saputo realizzare l'illustre predecessore considerato uno dei nomi che contano nel cinema degli ultimi decenni; Ami Canaan Mann, almeno a giudicare da questo Le paludi della morte, senza timore riverenziale, magari carpendo qualcosa dal mestiere del padre ma senza raggiungerne le vette dei migliori esiti, confeziona un bel film solido e cupo, personale in quanto privo di quell'epica "manniana" che caratterizza quasi tutta la produzione di Michael Mann, un film diretto, centrato sul male e sull'umanità imperfetta dei protagonisti, un poliziesco sporco di terra e fango, sangue, povertà, ignoranza e violenza. Non un'opera prima, la Mann aveva infatti esordito con Morning già dieci anni addietro, ma di certo l'esito da noi più noto di una regista impegnata anche sul versante televisivo, anche questa una tendenza di famiglia, Mann padre fu infatti il vero artefice del successo della storica serie tv Miami Vice.

I Killing Fields sono una zona paludosa del Texas, un postaccio nel corso degli anni scenario di diversi omicidi di giovani donne. Quando in zona viene ritrovato il cadavere dell'ennesima ragazza vengono assegnati al caso due detective di Texas City nella contea di Galveston, l'autoctono Mike Souder (Sam Worthington) e il newyorkese Brian Heigh (Jeffrey Dean Morgan). Nel corso delle indagini i due detective interrogano tra gli altri alcuni clienti della prostituta Lucie (Sheryl Lee); la donna è madre di una ragazzina di nome Anne (Chloë Grace Moretz) costretta a una vita allo sbando a causa della famiglia disastrata da cui proviene, Brian si affezionerà alla giovane diventando per lei una figura protettiva. La fede cristiana di Brian e la sua indole altruista lo portano ad accettare di collaborare ad altri casi di omicidio avvenuti sempre nella stessa zona ma al di fuori della sua giurisdizione. Sono questi dei casi in carico alla detective Pam Stall (Jessica Chastain), ex moglie tosta e indipendente del collega Souder, un uomo decisamente meno delicato e paziente rispetto al solitamente mite e ben disposto Brian. Nonostante le differenze caratteriali i due uomini cercheranno di collaborare al meglio per rendere giustizia a tutte le vittime e per proteggere quelle potenziali costrette a vivere in quella sorta di inferno in Terra che sono i Killing Fields.

Se nel guardare questo film e nel collocarne la vicenda nella contea di Galveston dovesse suonarvi qualche campanello d'allarme è bene ricordare come Le paludi della morte sia uscito ben tre anni prima della stagione d'esordio di True Detective. Il film della Mann infatti richiama alla mente in maniera naturale alcune dinamiche proprie della coppia di protagonisti della serie ideata da Nic Pizzolatto (autore anche del romanzo intitolato proprio Galveston) e soprattutto anticipa l'importanza rivestita da questi luoghi/scenari nella stagione d'esordio della serie. Se l'impianto di base, al netto del sapore esoterico qui assente, può sembrare simile a quello di True Detective, Le paludi della morte non ha modo di approfondire allo stesso modo i protagonisti, non per mancanza della Mann che compie in questo senso forse il lavoro migliore dell'intero film, ma semplicemente per questioni di formato e minutaggio. Come anticipato è però proprio sullo studio dei caratteri che il film si regge, lo sviluppo della trama di per sé è meno curato e la scoperta del male non porta con sé rivelazioni: quello messo in scena dalla Mann è un male evidente e prevedibile, lo sono meno alcune evoluzioni dei protagonisti che regalano un pizzico di spessore in più a un film per il resto girato con mano ferma e ben calato nel genere. La Lee rappresenta al meglio quel white trash delle zone meno urbanizzate degli States, Jeffrey Dean Morgan porta in giro il volto migliore del mazzo insieme a quello di tutti i fetenti presenti nel film. Cupo, duro, anche se aperto a un raggio di speranza sul finale, Le paludi della morte dipinge proprio quell'America brutta con la quale nessuno vorrebbe avere a che fare e che nella successiva True Detective sarà capace di farvela fare addosso dalla paura con la sua inquietante e insensata crudeltà. Magari non proprio come papà ma le doti per camminare da sola a testa alta ci sono tutte.

giovedì 9 maggio 2024

ABBIAMO SEMPRE VISSUTO NEL CASTELLO

(We have always lived in the castle di Shirley Jackson, 1962)

Nata a San Francisco nel 1916 Shirley Jackson non ha avuto una vita felice né tantomeno facile né lunga, la scrittrice infatti ci lascia quando ancora doveva compiere quarantanove anni a causa di un'insufficienza cardiaca manifestatasi nel sonno. Il nome della Jackson viene spesso legato alla tradizione del romanzo gotico, non a torto, soprattutto in virtù della scrittura del romanzo L'incubo di Hill House a detta di molti uno dei romanzi più importanti in assoluto sul tema dei fantasmi. Anche in questo Abbiamo sempre vissuto nel castello, pur non essendoci riferimenti diretti a eventi sovrannaturali o a presenze spettrali, l'angoscia che sottotraccia si impadronisce pian piano del lettore e l'inquietudine dovuta a fatti parzialmente taciuti portano ad accostare anche questa ultima opera della Jackson all'affascinante filone del gotico di matrice anglosassone. Ciò che più colpisce di questo breve romanzo è la sensazione di atemporalità di cui le pagine della Jackson sono pervase: se alcuni elementi della narrazione ci lasciano capire che il dipanarsi degli eventi non può svolgersi in un'epoca troppo distante da quella contemporanea la data di pubblicazione (il libro fu edito in prima battuta nel 1962), lo stile di vita delle protagoniste del racconto e soprattutto lo stile di scrittura della Jackson (adattato dalla traduttrice Monica Pareschi) riportano facilmente la mente del lettore alla letteratura di fine Ottocento o comunque a un periodo decisamente precedente gli anni di pubblicazione del libro o di quelli in cui si svolgono i fatti. Fatti non tutti limpidi fin da subito...

"Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott'anni e vivo con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l'anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l'Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti". È questo l'incipit di Abbiamo sempre vissuto nel castello, una dichiarazione con la quale la protagonista principale del romanzo, Katherine Blackwood detta Merrycat, si presenta ai lettori. Come la ragazza afferma gli altri membri della famiglia sono tutti morti a causa di un evento legato al passato delle due sorelle. In realtà questa affermazione non è del tutto vera, nella magione di famiglia infatti con Merrycat e Constance vivono anche lo zio Julian, un anziano costretto in sedia a rotelle e non sempre presente a sé stesso, e il gatto Jonas. Gli altri sono davvero tutti morti. Constance, più grande di Merrycat, vive reclusa in casa, non ha contatti con l'esterno, è appassionata di cucina e bada alla sorella e allo zio con zelo e affetto sincero; è Merrycat a dover andare in paese una volta alla settimana per far provviste e comprare il necessario. Anche Merrycat non ama scendere in paese e soprattutto non ama incontrare altra gente, gente sempre pronta a giudicare (male) lei e tutta la stirpe dei Blackwood come se un odio atavico aleggiasse sul nome della famiglia, un odio probabilmente legato ai fatti di qualche tempo prima. Sono poche le persone e le famiglie che ancora hanno qualche contatto con le due sorelle e con lo zio Julian, qualche vecchio amico dei signori Blackwood, qualche signorina curiosa di dare un'occhiata a casa Blackwood di tanto in tanto. Poi un giorno si presenta alla porta il cugino Charles, desideroso di aiutare le maltrattate cugine e capace, poco alla volta, di modificare la visione di Constance sul mondo esterno e sul suo stesso modo di vivere, all'apparenza in maniera non del tutto disinteressata.

Nell'intero corso di questo breve romanzo striscia un sentimento di inquietudine che la Jackson è bravissima ad alimentare nella quotidianità della gestione di questa vita isolata da parte dei membri sopravvissuti della famiglia Blackwood. Non ci sono eventi fulminanti, orrori inspiegabili a minacciare la vita delle due sorelle, c'è però la cattiveria della gente del paese, il sospetto di ciò che è accaduto in passato che l'autrice cela nello svolgersi per gran parte del romanzo, c'è l'avvento di un elemento estraneo e destabilizzante (il cugino Charles) che scombina gli equilibri e in qualche modo incrina, almeno per qualche tempo, l'idillio tra le due sorelle. Che qualcosa non giri proprio nel verso giusto è palese per il lettore, il personaggio di Merrycat ad esempio è descritto nei suoi comportamenti dalla Jackson non come una ragazza diciottenne bensì come una bambina ancora immatura, Constance d'altro canto è incapace di affrontare il mondo esterno, tristi caratteristiche, soprattutto quest'ultima, che richiamano le difficoltà che la Jackson ha patito realmente nella sua vita, mortificata da una madre incapace di dimostrarle amore e dai problemi di relazione con gli abitanti del paesino del Vermont in cui si trasferì a seguito di un matrimonio poi rivelatosi fallimentare, un'esperienza dalla quale potrebbe forse nascere la figura negativa del cugino Charles. La Jackson trasferisce parte del suo vissuto tra le pagine di questo Abbiamo sempre vissuto nel castello rendendo il romanzo sempre vibrante e attraente, qualità che, insieme a una lunghezza non troppo estesa, rendono il libro una lettura piacevolissima e veloce.

sabato 4 maggio 2024

QUANDO HAI 17 ANNI

(Quand on a 17 ans di André Téchiné, 2016)

Inverno, un paese nei Pirenei francesi coperto dalla neve. Tom Chardoul (Corentin Fila) è un ragazzo di colore che abita in una fattoria isolata sulle montagne, un luogo un po' scomodo da raggiungere in inverno proprio a causa della neve che si accumula sulle strade; Tom vive con i genitori francesi che lo adottarono in tenera età a causa delle difficoltà della signora Chardoul (Mama Prassinos) nel portare a termine una gravidanza naturale. Tom frequenta la scuola del paese, a valle, nella stessa classe di Damien Delille (Kacey Mottet Klein). La madre di Damien, la signora Marianne (Sandrine Kiberlain) è un medico, lo stesso che ha in cura la signora Chardoul a causa di recenti malesseri; Marianne soffre un poco la mancanza del marito Nathan (Alexis Loret), pilota militare inviato in missione in Medio Oriente con cui parla quotidianamente tramite videochiamata e che riesce a vedere ogni tanto quando l'uomo gode di qualche periodo di congedo per tornare dalla famiglia. Per Damien come figura di riferimento c'è Paulo (Stefano Thermes), un ex collega del padre che sta insegnando al ragazzo tecniche di combattimento e autodifesa. Tom sembra avere per Damien un'immotivata antipatia, a scuola capita qualche episodio di scontro: occhiatacce, uno spintone dato senza ragione apparente e via via episodi più significativi. Quando la situazione della madre di Tom richiederà maggiore tranquillità la dottoressa Marianne proporrà a Tom di andare a stare per qualche tempo da loro in paese, col vantaggio che così Damien, più bravo a scuola, potrebbe aiutare Tom con gli studi; ovviamente Marianne non sa che i due, che saranno costretti a convivere sotto lo stesso tetto, si detestano, un'antipatia che in realtà nasce dalla paura e dall'attrazione che Damien prova per Tom.

Téchiné ambienta il suo Quando hai 17 anni in quel lembo della Francia dove anch'egli è cresciuto e ha trascorso gli anni dell'adolescenza, lo stesso periodo preso in esame per i protagonisti di questo film. Questa scelta rafforza ancor più quella che è la propensione naturale del regista francese nel delineare al meglio le figure umane, nel tradurre su schermo i loro moti interiori, grandi e piccoli, e il rapporto di questi con la società circostante e con l'altro da sé, come nel caso del rapporto tra Tom e Damien, una vicinanza palpabile tra regista e personaggi che si percepisce forte durante la visione del film. Téchiné torna a temi già trattati in passato, sotto i riflettori qui un toccante racconto sull'adolescenza (tema già trattato in L'età acerba) e sull'omosessualità (I testimoni) ma anche, seppur in maniera più marginale, sulla famiglia e sulle relazioni in generale. Per narrare la sua storia Téchiné sceglie una struttura suddivisa per trimestri a seguire uno dei ritmi fondamentali dell'adolescenza, quello della scuola, e l'alternarsi delle stagioni, entrambe le suddivisioni del tempo vedono lo scontrarsi e l'avvicinarsi di Damien e Tom in un costruirsi ragionato e tremendamente vivo, credibile, naturale, in un rapporto denso di difficoltà, dubbi, paure, vergogne, desideri, bisogni. Se i due ragazzi sono il centro di un film ammirevole, i coprotagonisti danno modo al regista di affrontare altri temi fondamentali della vita come la maternità, il dolore, la perdita, i rapporti genitoriali e filiali, Quando hai 17 anni diventa così lo spaccato di un mondo e non solo un riuscitissimo ritratto dell'"età acerba". Aiutato anche dalla sceneggiatura della Sciamma il regista offre uno sguardo lucido e sentito su un momento importante e per diversi versi difficile della vita dei due ragazzi, momenti fondamentali, per un verso o per l'altro, per tutti, fotografa con la finzione un reale molto vicino e partecipato senza mai scadere nel banale e senza mai andare a cercare lo spettatore in maniera evidente al fine di tirargli fuori qualcosa, una scelta di stile che non si può far altro che apprezzare in pieno.

mercoledì 1 maggio 2024

IL DITTATORE DELLO STATO LIBERO DI BANANAS

(Bananas di Woody Allen, 1971)

Chi approcciasse per la prima volta il Woody Allen degli albori conoscendone magari solo le più recenti fatiche si troverebbe davanti a un cinema decisamente diverso da quello al quale il regista newyorkese ci ha abituato negli ultimi decenni (e non solo), incappando in una comicità differente, più demenziale e diretta, in strutture narrative meno articolate e più libere, nella fattispecie la narrazione procede per accumulo (sempre coerente e consequenziale) di gag e battute, situazioni strampalate e ridicolaggini, garantendo peraltro una frequenza di risate per minuto decisamente alta. Anche il personaggio interpretato da Allen in tanti film, il suo "tipo umano", il newyorkese di origine ebraica un po' ipocondriaco, insicuro, preda dell'ansia e dell'inadeguatezza con la favella sciolta e straripante è qui presente solo con alcune di queste caratteristiche, un "work in progress" già molto efficace ma ancora da compiersi nell'arrivare a quel modello definitivo che in moltissimi hanno (abbiamo) amato e amano ancor oggi, magari con un po' di magone quando capita di vedere nelle opere recenti di Allen proprio "quel" personaggio interpretato da qualcun altro, ricordiamoci che Woody conta ormai quasi novanta primavere, stare davanti alla macchina da presa è ormai impresa improba sia per la fatica puramente fisica sia perché i personaggi da lui scritti spesso proprio novantenni non sono e richiedono quindi interpreti diversi. È un Allen quello de Il dittatore dello Stato libero di Bananas che oltre a divertire graffia anche un po' seppur lo stesso autore disconosce i rimarcati intenti politici che tanta critica attribuì al film negli anni della sua uscita.

Fielding Mellish (Woody Allen) lavora come collaudatore di attrezzature strampalate per una grossa azienda statunitense. Mentre in Sud America, nello stato di Bananas, si compie un colpo di stato per il quale sale al potere il dittatore Emilio Molina-Vargas (Carlos Montalbán) Fielding incontra la giovane e politicamente impegnata Nancy (Louise Lasser), una donna molto piacente che sta raccogliendo firme affinché gli Stati Uniti non appoggino ciò che sta accadendo nel Bananas ma anzi sostengano la rivoluzione per la libertà portata avanti dal comandante dei ribelli Castrado (Jacobo Morales). Fielding, assolutamente disinteressato all'argomento, coglie la scusa per frequentare Nancy finché questa non lo mollerà perché in cerca di un uomo più maturo e deciso. Con l'intento di dare una svolta alla sua vita e magari riconquistare la giovane, Fielding si reca in Bananas dove viene preso in mezzo tra Vargas che lo vorrebbe eliminare per far poi ricadere la colpa sui ribelli e così inimicare loro l'opinione pubblica U.S.A. e Castrado che lo vorrebbe tra i comandanti della rivoluzione. Ovviamente ne scaturiranno situazioni deliranti.

Il dittatore dello Stato libero di Bananas è comicità pura; nonostante l'amalgama sia coerente e ben tenuto insieme nel suo complesso, è evidente come Allen in questo film, ma in generale nella sua prima fase di carriera, avesse in mente principalmente la gag, l'uscita comica, il fuoco di fila di battute che qui funziona a meraviglia e regge senza interruzioni per l'intera durata di un film divertentissimo. Ci sono in sviluppo già accenni ai temi del grande Allen futuro: il rapporto complicato con le donne, qui rappresentate da Louise Lasser che di Allen è stata la seconda moglie, le insicurezze, la costruzione del suo tipo umano, le battute ficcanti e argute, non manca quindi il personaggio "Allen" di cui il mondo si è innamorato, manca ancora, almeno in parte, il regista, lo scrittore che andrà in futuro via via a concentrarsi su narrazioni più compiute e meno demenziali. Il film regge benissimo al passare del tempo, uscito da più di cinquant'anni Bananas (titolo originale più conciso) non ha perso un grammo della sua dirompente forza comica; in aiuto alla macchina delle gag (che in realtà di aiuti non ha bisogno) arrivano diverse stoccate al mondo della televisione con un'anticipazione di quello che è l'ormai acclarata propensione delle tv all'infotainment qui spettacolarizzato in maniera comica ben oltre il limite della decenza, e sappiamo tutti che ormai alcune trasmissioni di informazione la decenza l'abbiano dimenticata da tempo. Non mancano riferimenti alla religione (bellissima la scena del crick) ma nemmeno la passione di Allen per il cinema, passato (la carrozzina de La corazzata Potëmkin) e futuro (un Sylvester Stallone alle primissime apparizioni). Frecciate politiche arrivano al sistema dittatoriale di alcune "repubbliche delle banane" ma non si risparmiano nemmeno rivoluzionari e Governo statunitense, insomma, si prende in giro proprio tutti. Bellissima scelta per i titoli di testa di una commedia divertente e intelligente che ancor oggi merita più di una visione e che segna un passaggio fondamentale nella formazione del primo Woody Allen.

domenica 28 aprile 2024

PRIMER

(di Shane Carruth, 2004)

Non è passato molto tempo da quando ci siamo occupati di Upstream color, enigmatica opera seconda del regista originario della Carolina del Sud Shane Carruth, oggi, giusto per rimanere in tema, facciamo un salto indietro nel tempo e diamo un'occhiata al lungo d'esordio del regista, quel Primer che fin da subito si è visto affibbiare l'etichetta di "film cervello" e che ha scatenato diverse discussione sul web da parte di fan e detrattori per cercare di venire a capo di una struttura complessa che, come succederà anche con il film successivo, rende l'opera parecchio criptica se non proprio ostica. In realtà Primer, seppur complesso nella sua struttura narrativa (tanto da richiedere un piccolo schema esplicativo sulla sua pagina di Wikipedia), resta più inquadrabile rispetto al suo successore. Se in Upstream color si naviga a vista qui almeno lo spettatore ha ben chiaro di cosa il film si occupi, cioè i viaggi nel tempo. Magari Carruth affronta l'argomento con un piglio inedito e, per diversi motivi, con una narrazione poco chiara da seguire e complicata per il pubblico italiano dall'impossibilità di vedere il film doppiato (è su Mubi che presenta solo lingue originali con sottotitoli), però il contesto è limpido, sappiamo cosa stanno facendo i personaggi e anche perché, il come ecco... magari questo sì è da capire e decifrare, ma per questo tipo di film proprio questo aspetto potrebbe essere "il loro bello" (poi qualcuno citando Abatantuono potrà pur dire "sarà il suo bello ma a me mi fa cagare").

Quattro amici, tutti ingegneri, nel loro tempo libero lavorano nel garage di uno di loro, Aaron (Shane Carruth), a un esperimento portato avanti utilizzando pezzi di recupero e materiali sottratti dal posto di lavoro o da apparecchiature private dei quattro amici. Il gruppo, di cui fanno parte anche Abe (David Sullivan), Robert (Casey Gooden) e Phil (Anand Upadhyaya) non naviga nell'oro e sta cercando un qualcosa che possa dare una svolta alle rispettive vite; all'apparenza però i rapporti tra i quattro non sono completamente distesi, forse divergenze di opinioni e un po' di frustrazione stanno minando i loro esperimenti volti a studiare una forma di levitazione magnetica (o qualcosa di simile). Poi un fatto casuale porta uno di loro, Abe, ad approfondire alcuni elementi, riflessioni scaturite dal formarsi di una muffa a contatto di uno dei piccoli oggetti utilizzati per l'esperimento. Abe scopre che questa muffa si è sviluppata a una velocità che in natura non sarebbe possibile, ipotizza quindi una sorta di viaggio nel tempo compiuto dall'oggetto all'interno del macchinario usato dal gruppo per l'esperimento, unica possibilità per cui la muffa possa essersi sviluppata in tale fretta. In solitaria Abe porterà l'esperimento su un altro livello per permetterne l'applicazione su scala "umana", solo in seguito Abe coinvolgerà nella sua scoperta anche l'amico Aaron.

Come si diceva, più chiaro il contesto rispetto a Upstream color ma dannatamente complesso capirne lo sviluppo; in rete è possibile trovare dei piccoli studi sul film alcuni dei quali hanno la ragguardevole capacità di riuscire a farvi capire ancora meno di questo Primer rispetto a quel che possiate aver pensato di aver capito a fine prima visione (visioni successive e multiple sono necessarie per iniziare a orientarsi). Carruth, che di formazione è un matematico teorico, non indugia tanto sui paradossi temporali, i protagonisti cercano infatti dei modi per evitare qualsiasi possibilità di intoppo o alterazione alla loro realtà, gioca invece su un multilivello per cui ogni azione dei protagonisti che coinvolga la macchina del tempo andrà a creare una linea temporale alternativa e aggiuntiva all'originale (o così credo d'aver capito, ma non è mica detto...) ma il singolo componente, Abe o Aaron nel nostro caso, continuerà a esistere su una sua linea temporale per lui canonica ma con la possibilità di avvantaggiarsi dei propri brevi viaggi (la macchina ha capacità molto limitata) semplicemente anticipando i movimenti di borsa e investendo di conseguenza. Non è chiaro purtroppo come funzioni l'alternarsi in video di queste linee temporali anche se il flusso dovrebbe essere ben codificato, non è chiaro nemmeno se il flusso narrativo utilizzato da Carruth sia coerente e totale o se la proposta al pubblico sia frammentaria o sfasata rispetto alla totalità degli eventi. Visivamente si percepisce la povertà dei mezzi (si dice 7.000$ di budget), la grana dell'immagine non è pulita, la cromia è straniante e in generale tutta la fotografia (di Carruth che dirige, interpreta, scrive, pensa, monta, produce, musica, forse un po' troppo, "sì ma ti calmi" direbbero i giovani d'oggi) contribuisce a creare un senso di realtà sospesa che ben si sposa con il concetto di "fuori dal tempo", che poi non è proprio quello presente nel film ma tant'è... in fondo qual è proprio questo concetto presente nel film? Forse un po' troppo enigmatico questo Primer ma Carruth ha la capacità di affascinare e intrigare, i fan delle "seghe mentali" troveranno pane per i loro denti.

giovedì 25 aprile 2024

ZAMA

(di Lucrecia Martel, 2017)

Zama della regista argentina Lucrecia Martel è un film tratto dall'omonimo libro, da noi poco conosciuto, considerato un classico della letteratura argentina a opera di un autore qui in Italia altrettanto poco noto: Antonio Di Benedetto. Nell'opera e probabilmente nelle intenzioni della Martel (o più probabilmente in quelle di Di Benedetto, ma chissà) c'è la volontà di raccontare l'abuso bianco ai danni delle popolazioni del Sud America nel corso del 1700 (siamo nel XVIII Secolo) senza mai narrarlo in maniera troppo diretta, scegliendo un luogo all'apparenza decentrato in Paraguay nel quale l'impero spagnolo ha insediato un avamposto di scarsa importanza retto da un ufficiale, Don Diego de Zama (Daniel Giménez Cacho), che non è altro che un uomo mite, mediocre, sperso e desideroso solamente di tornare a casa, dalla sua famiglia, dalla moglie Marta, con nessuna voglia di avere a che fare con le beghe dell'impero, del colonialismo, del Governatore e della Spagna tutta. Zama è una coproduzione internazionale che vede coinvolti nel progetto oltre Spagna e Argentina anche Stati Uniti, Francia e Olanda e tra i produttori gente come l'attore Danny Glover e il regista Pedro Almodóvar. Da questa unione di forze ne esce un film sì storico ma del tutto peculiare, non c'è infatti nel film di Martel una vera ricostruzione storica, non c'è un vero focus su fatti ed eventi, un'attenzione specifica all'ambiente, il tutto viene lasciato all'intelligenza dello spettatore e alla vicenda di questo protagonista vessato e fuori posto, un poco inadeguato ma che forse dal canto suo, ne avesse avute le forze, avrebbe gestito il contatto con l'altro con maggiore gentilezza.

Don Diego de Zama è un ufficiale di origini argentine alle dipendenze della Corona Spagnola ora trasferito in un avamposto in Paraguay dove la vita scorre pressoché tranquilla. Zama spende diverso del suo tempo sulla spiaggia, guardando il mare, l'orizzonte, guardando forse verso quella casa a cui vorrebbe tornare e per la quale ha già da tempo chiesto un trasferimento. Questo trasferimento però, con una scusa o con l'altra, viene rimandato in continuazione fino a che Zama arriva a mettersi anche in cattiva luce nei confronti del Governatore (Daniel Veronese), uomo di certo poco onesto con il suo sottoposto. Nel frattempo nel villaggio Zama inizia a interessarsi a una nobildonna che vive sola, il marito sempre in viaggio, Luciana Piñares de Luenga (Lola Dueñas), allocata in una casa elegante con servitù del posto. Tra le truppe e i locali cresce sempre di più la fama di un terribile fuorilegge chiamato Vicuña Porto (Matheus Nachtergaele), uomo con il quale, dopo numerose umiliazioni e batoste morali, anche Zama si troverà ad avere a che fare.

Lucrecia Martel apre e chiude il suo Zama con inquadrature bellissime: la spiaggia, spazio aperto abitato da funzionari spagnoli come da indigeni, diventa per Zama prigione a cielo aperto nella quale non resta che guardare oltre l'orizzonte sognando casa; le meravigliose distese d'acqua coperte di verde nelle quali, dopo aver deciso di fare qualcosa e agire, non resta che sopravvivere incurante dei propri desideri. Zama è un film atipico, non un biopic, non un vero film storico nonostante si respiri per tutta la sua durata la prepotenza e il sopruso del colonizzatore bianco nei confronti di indios e schiavi; è un film libero Zama, un'opera che in diversi passaggi sembra casualmente abitata da attori, animali, comparse, schiavi, spagnoli, nobildonne, che pennella più che tratteggiare e che riesce a dare comunque l'impressione di un affresco finito. Questa impostazione lasca, dalle trame larghe, può diventare anche il maggior ostacolo nei confronti di un pubblico poco abituato a uscire dalle strade battute del mainstream per addentrarsi in quella foresta piena di sentieri magari più lussureggianti ma più impervi, i quali richiedono uno sforzo maggiore per essere percorsi, a colpi di machete è necessario liberare la mente e aprirsi al nuovo; sotto questo punto di vista Zama è un film difficile, inutile nascondersi dietro un dito, la visione potrebbe per alcuni risultare ostica nonostante le pregevoli caratteristiche di cui si accennava sopra. Se si accetta di uscire dai binari già posati da tantissime altre opere ci si può concentrare su una forma altra, su scenari di grande bellezza, sulla mediocrità dell'uomo, anche sulla Storia (più che sulla storia, qui evanescente) vista con uno sguardo diverso, presa alla larga, non narrata ma ben contestualizzata.

martedì 23 aprile 2024

SEMINA IL VENTO

(di Danilo Caputo, 2020)

Semina il vento è il primo film di Danilo Caputo a trovare una produzione e una successiva distribuzione nelle sale italiane passando prima per il Festival di Berlino; in realtà Caputo quando arriva a girare questo lungometraggio ha già alle spalle un'opera prima completamente autoprodotta, La mezza stagione, opera che è stata capace anche di raccogliere qualche riconoscimento all'interno della programmazione di festival così detti "minori". Semina il vento è anch'esso uno di quei film che vengono considerati "piccoli", realizzazione professionale ma budget di certo non stellare, caratteristica questa che non ha inficiato sulla buona riuscita di un film che dà tutta l'impressione di non necessitare di mezzi ingenti per comunicare al meglio e veicolare i suoi più che legittimi contenuti. Caputo ambienta la sua storia in Puglia durante un periodo di grave moria degli ulivi, evento che solo qualche anno fa abbiamo visto accadere sul serio, in una terra già martoriata dall'inquinamento (siamo vicino Taranto) e dalle azioni scellerate di alcuni dei suoi abitanti; quella di Caputo sembra quasi un'urgenza di raccontare un momento e un luogo difficili ma anche quella di sottolineare la concreta speranza di un possibile cambiamento.

Nica (Yile Vianello) studia agronomia lontano da casa, un luogo al quale è molto legata ma che in passato aveva abbandonato in tutta fretta. Dopo circa tre anni la giovane ritorna al suo paese, una terra inquinata dalle esalazioni e dagli scarichi dell'industria siderurgica, torna a quel campo di ulivi di proprietà della nonna, alberi che ormai da diversi anni non danno più né olive né sostentamento alla famiglia di Nica a causa di un parassita, il Liothripis oleae, un piccolo pidocchio che induce in questi simboli della Puglia una malattia all'apparenza inarrestabile. A casa Nica ritrova una madre scoraggiata e in crisi depressiva a causa delle difficoltà incontrate nell'intraprendere una nuova esistenza (vorrebbe aprire un negozio, ma...), il padre (Espedito Chionna, una carriera da giocatore di calcio in serie B alle spalle) si è ormai arreso, ha rinunciato a coltivare la terra e a curare gli ulivi e sta solo cercando di prendere qualche indennizzo per poi abbattere, ormai disposto a eludere la retta via pur di raggranellare qualche soldo per tirare avanti. Solo Nica, con l'aiuto dell'amica d'infanzia Paola (Feliciana Sibilano), continua a cercare un modo per debellare il parassita, per ridare vigore e speranza a una terra che di parassiti nella sua storia recente ne ha visti passare fin troppi.

Quella che racconta Caputo è una terra assediata da diverse forme di "male" che si concretizzano in una natura avversa a causa dell'espandersi del parassita che ricorda l'invasione di Xylella che qualche anno fa portò all'abbattimento di milioni di ulivi in Puglia, ma soprattutto in comportamenti sconsiderati da parte degli uomini che abitano proprio quella terra che dovrebbe essere loro sostentamento, patria, cuore e appartenenza. Limpido il riferimento, mai palesato a chiare lettere, al polo industriale dell'Ilva di Taranto che ha negli anni donato ai pugliesi lavoro e morte, la frase del film più riportata è proprio "le persone preferirebbero morire di cancro piuttosto che di fame", affermazione proferita da uno dei protagonisti. E se la dicotomia lavoro/salute può essere un nodo difficile da sciogliere (anche se non dovrebbe), il mancato rispetto della propria terra, esplicitato dalla questione dell'immondizia, e l'avidità imperante su tutto (gli sversamenti) sono inaccettabili sotto ogni punto di vista. Ma nonostante questo assedio all'apparenza soverchiante nel film di Caputo la protagonista Nica, con il bel volto della Vianello, è un faro di speranza che emana una luce fortissima: è la speranza delle nuove generazioni che in effetti vivono un certo riavvicinamento alla terra (non solo il solito desiderio di aprirsi l'agriturismo) e coltivano giusti moti di ribellione e insofferenza verso uno status quo malato e distruttivo lasciatogli in eredità dalle generazioni precedenti. Dal punto di vista dello stile Caputo indugia molto sulla natura, quasi a donarle una mistica ancestrale, ripresa anche dalla narrazione di antiche credenze di paese (lo strusciarsi su una data pietra per propiziare la gravidanza ad esempio), costruisce una bella protagonista, forte e decisa a opporsi anche agli errori del proprio padre, lambisce con la presenza spirituale della nonna e l'utilizzo nella storia della gazza anche una sorta di realismo magico che fa il giusto paio con alcune inquadrature sugli alberi e sulla natura davvero molto significative. Nonostante tutto il marcio che c'è Semina il vento rimane un film di speranza, la nostra terra, non solo quella di Puglia, ne ha veramente bisogno.

sabato 20 aprile 2024

A SWEDISH LOVE STORY

(En kärlekshistoria di Roy Andersson, 1970)

Opera prima del regista svedese Roy Andersson che dopo i primi due lungometraggi degli anni 70 sparisce dagli schermi per tornarvi solo venticinque anni più tardi; nel 2014 gode di una seconda e diffusa popolarità grazie al film Un piccione seduto sul ramo riflette sull'esistenza, Leone d'oro al Festival di Venezia. A swedish love story è l'ottimo esordio di un regista allora ventisettenne che guarda all'amore negli anni dell'adolescenza in maniera delicata e altrettanto profonda ed evocativa, in un film che visto oggi riporta la memoria non solo per ogni spettatore al suo "tempo delle mele" ma anche a un immaginario anni 70 che, seppur qui ovviamente svedese, richiama stili, abitudini e comportamenti non solo europei ma universali (con tendenze occidentali, dell'altra parte del mondo almeno gli scenari, se non i sentimenti, erano diversi). Con il suo esordio Andersson cerca di cogliere le istanze che in quegli anni, e già nei precedenti in realtà, abitavano il cinema europeo (ma anche statunitense se pensiamo alla New Hollywood) con uno sguardo sia alle nuove generazioni, qui rappresentate dalla storia d'amore del titolo tra i giovani Annika e Pär, sia allo status quo relativo alla situazione sociale, con un focus sulle famiglie, per nulla sereno e rassicurante.

Annika (Ann-Sofie Kylin) è una tredicenne molto bella, i suoi genitori portano avanti un matrimonio poco sereno, suo padre John (Bertil Norström), venditore di frigoriferi, ha inoltre problemi con il lavoro, si sente poco realizzato e non apprezzato agli occhi della moglie. Pär (Rolf Sohlman) va a scuola e lavora anche nella carrozzeria di suo padre Lasse (Lennart Tellfelt), nel tempo libero il ragazzo va in giro sul suo motorino poco performante insieme a un gruppetto di amici che iniziano ad avere in testa le esponenti dell'altro sesso. Sia Annika che Pär sono ragazzi molto timidi, il loro primo incontro avviene durante una visita delle rispettive famiglie a dei parenti ricoverati in casa di riposo. Dopo questo primo contatto visivo i due si cercano con difficoltà, nessuno riesce a fare il primo passo. Nel frattempo Annika si confida con la zia Eva (Anita Lindblom), Pär ha il suo gruppetto di amici. Quando finalmente i due ragazzi riusciranno a conoscersi la loro storia correrà in parallelo a quella delle loro famiglie nello scenario di una Svezia anni 70 i cui ragazzi giovani guardano nel look e nei modi a ciò che arriva da oltreoceano. Questa inedita situazione sarà per Annika e Pär tutta una scoperta.

Roy Andersson ci mostra una visione amorevole e delicata della nascita del rapporto tra questi due adolescenti belli e puri, riesce a farlo ponendo l'accento su piccoli gesti, particolari minimi che potrebbero sembrare banali ma che ricondotti all'età dell'adolescenza, al momento in cui tra mille timori si cerca di dichiarare o far percepire all'altro il proprio amore, titubando, con la paura di sbagliare, di fare figuracce che a quell'età possono sembrare irreparabili, beh, allora in quel caso nulla è banale, nemmeno il gesto più innocente del mondo. A questo proposito Andersson infila alcune sequenze deliziose, in una di queste i due ragazzi si confidano con i rispettivi amici, nessuno di loro ha il coraggio di palesare l'interesse per l'altro, hanno paura di apparire stupidi, il gruppo torna verso casa, i ragazzi spingono a mano i loro motorini, Pär apre il gruppo, Annika è in coda, sono distanti, lei guadagna terreno, fa il primo passo (le donne sono sempre più coraggiose in questo), poggia la mano sul sellino del motorino di Pär, un gesto all'apparenza semplice, senza importanza, ma è facile immaginare e percepire quanto i cuori di Annika e di Pär battano veloci in quel momento, quanto può essere costato in termini di coraggio quel gesto all'apparenza infinitesimale, una vertigine che apre a sentimenti di tenerezza e nostalgia per un tempo puro e andato, per emozioni che oggi non ci sono più se non di riflesso (bravissimo Andersson a farcele rivivere). Poi la luce cambia, è passato del tempo, la mano di Annika è ancora su quel sellino ma i due ragazzi parlano tra loro, si è instaurata un minimo di confidenza, una musica dolce li accompagna, non sentiamo quel che si dicono ma non è necessario, sentiamo la sintonia del battito dei loro cuori, poi un treno, due parole, finalmente un bacio e l'abbandono in un abbraccio. Una piccola sequenza perfetta. Ottimo il lavoro sul contesto, siamo in un'altra epoca, vediamo questi tredicenni fumare senza remore, il look è mutuato dai modelli nordamericani, motori, giacche di pelle, chewingum immancabile, ottima la scelta dei brani a corredo (la scena in discoteca ad esempio), Andersson coglie bene anche i turbamenti di quell'età, l'umiliazione delle botte prese davanti alla ragazza di cui si è innamorati, la vergogna e la fuga che portano a dover cominciare tutto da capo, una vergogna difficile da affrontare e superare, il tradimento degli amici: "Cosa le dico ora? Non ce la faccio. E tu te ne sei stato lì a guardare". Lui la ignora per un po', lei soffre poi lo chiama (è di nuovo lei a muoversi per prima), grida il suo nome sopra il rumore dei motorino, lo insegue, lui scappa, il volto bellissimo di Annika è rigato dalle lacrime, finalmente lui trova il coraggio di tornare, salta giù dal motorino, la abbraccia. Altra piccola sequenza perfetta come perfetta è l'inquadratura finale. Andersson dà poi sempre più spazio alla famiglie, al disagio del contesto fino ad arrivare a un finale che porta in sé un tocco di grottesco surreale da applausi. Forse in A swedish love story c'è davvero il meglio dell'adolescenza.

mercoledì 17 aprile 2024

THE DOOR IN THE FLOOR

(di Tod Williams, 2004)

Chi segue almeno da qualche tempo questo spazio virtuale avrà ormai capito (non posso pensare altrimenti) che il primo scopo di chi scrive non è quello di aggiornarvi sull'ultima uscita cinematografica, cosa che di quando in quando peraltro può anche capitare; per quello ci sono già centinaia di spazi e (per fortuna) fior di professionisti che campano di cinema e al cinema possono dedicare l'intera giornata lavorativa e magari anche di più, fornendo così un servizio esaustivo e puntuale. Qui interessa anche e soprattutto recuperare pellicole dal passato, recente, recentissimo ma anche remoto o remotissimo se capita, opere passate sotto silenzio, dimenticate o anche note e meritevoli di una seconda visione e di nuova attenzione presso un pubblico magari assente, per qualsivoglia motivo, al momento del primo passaggio in sala (non sempre sicuro e scontato). Per fortuna oggi, tra piattaforme varie e supporti fisici è possibile riappropriarsi di un cospicuo numero di quelle opere considerate "minori" o comunque meno viste alle quali può valer comunque la pena di dare un'occhiata, perché alla fine nessuno può sapere in anticipo dove possa nascondersi il suo film della vita o anche solo quello dell'anno, che è già cosa da ricordare e da tenere da conto (nel mio caso, negli ultimi anni, erano nascosti in uno splendido film georgiano e nell'opera unica e disperata di un regista cinese poi morto suicida, tanto per dire). Dall'infinito (a volte penso lo sia davvero) catalogo Prime Video oggi andiamo a ripescare The door in the floor di Tod Williams, dramma familiare con protagonisti il sempre ottimo Jeff Bridges, una Elle Fanning bambina e una dolente Kim Basinger.

I coniugi Cole sono sposati ormai da tempo, Ted (Jeff Bridges) è uno scrittore di racconti per ragazzi di un certo successo, illustra da sé i suoi libri e coltiva la passione per l'arte e per il disegno in sessioni dal vivo con modelle tra le quali vi è l'amica Evelyn (Mimi Rogers). La moglie Marion (Kim Basinger) è una donna ancora bellissima alla quale però si è estinta la scintilla vitale; la donna è preda di uno stato depressivo a causa della perdita dei due figli maschi in un incidente stradale avvenuto qualche tempo prima. La coppia ha ancora una figlia, la piccola Ruth (Elle Fanning) amorevolmente accudita soprattutto dal padre Ted. La bambina è ancora molto legata al ricordo dei due fratelli che tiene vivo confrontandosi continuamente con una parete piena di foto di famiglia provenienti da un'epoca precedente il mortale incidente. In estate Ted assume come assistente il giovane Eddie (Jon Foster), un ragazzo timido e ben educato che coltiva il sogno di diventare scrittore e ammira molto il lavoro di Ted; lo scopo principale di questo rapporto di lavoro sarebbe quello di far fare a Eddie un po' di praticantato in modo che questi possa imparare qualche trucco del mestiere da Ted e allo stesso tempo dargli una mano con le incombenze quotidiane e fargli da autista (comprensibilmente Ted non vuole più guidare). Eddie conosce così la famiglia Cole, il ragazzo ricorda a Marion uno dei suoi figli, questo e altri motivi spingeranno la signora Cole ad avvicinarsi sempre più al giovane, cosa che scardinerà i già poco stabili equilibri familiari.

Tod Williams non è un regista troppo conosciuto, quattro film all'attivo e nessuno di primissimo piano anche se nel mazzo compaiono il Cell tratto da Stephen King e uno degli episodi della saga Paranormal activities. In effetti sotto il punto di vista della regia The door in the floor non sviluppa segni particolari per farsi ricordare, nondimeno il film gode di una narrazione classica ma non stereotipata che lavora bene su tutti i personaggi principali e costruisce un bel dramma familiare capace di affrontare il tema del lutto e della perdita in maniera credibile e non abusata mettendo in scena due reazioni al dolore quasi opposte incarnate da un lato dall'iperattività di Ted che scrive, dipinge, tiene letture pubbliche, gioca a squash, quasi a voler tenersi occupato per scacciare il dolore, e dall'altro dall'inedia di Marion che si scuoterà, in superficie, solo con l'arrivo di Eddie. Nel film sono inseriti alcuni rimandi che troveranno poi un loro significato sul finale come l'attenzione per i piedi nelle foto dei due fratelli da parte di Ruth o il significato del titolo stesso del film; la vicenda viene sorretta anche da un Bridges che è un corpo attoriale fenomenale qui in contrasto a una Basinger splendidamente dimessa in sottrazione perenne. Curioso rivedere la Fanning bimbetta vivace all'età di sei anni, ottimi apporti anche da parte di Mimi Rogers che si concede in nudo integrale e del giovane Jon Foster. Come si diceva sopra, un film che non sarà mai tassello fondamentale del cinema del nuovo millennio ma che nemmeno merita l'oblio a cui sembra destinato. Diamogliela un'altra occasione a questi film.

sabato 13 aprile 2024

PARKER: L'INFERNO IN TERRA

(The hunter; The outfit, The handle di Richard Stark, 1962/1963/1966)

Parker: L'inferno in terra è una raccolta di tre romanzi scritti dall'autore newyorkese Donald E. Westlake sotto lo pseudonimo di Richard Stark. Questa raccolta venne edita parecchi anni fa, attorno al 2008, da Mondadori nella collana Supergiallo: I grandi Maestri, un supplemento a Supergiallo, costola della gloriosa I gialli Mondadori. Questa piccola antologia raccoglie alcuni dei primi romanzi che Richard Stark (usiamo pure lo pseudonimo) dedicò al personaggio di Parker, un criminale che in seguito trovò diverse volte la strada per arrivare sul grande schermo; nella fattispecie i tre titoli presentati sono Anonima carogne del 1962, Liquidate quel Parker! del '63 e infine Parker: a ferro e a fuoco del 1967. Potremmo dire che Richard Stark è un po' il rovescio della medaglia di Donald Westlake, scrittore che nel corso della sua lunga e prolifica carriera ha siglato romanzi con una pletora di nomi da far girar la testa, ma qui limitiamoci pure a parlare dei due già citati. Nei romanzi a firma Westlake l'autore predilige, pur rimanendo nel genere crime, un approccio alla materia molto divertente (e sicuramente divertito): i toni sono spesso ironici, mai troppo truci o seriosi, a volte i protagonisti sono criminali da strapazzo, personaggi sopra le righe, colpevoli per caso o senza cattiveria, non è improbabile imbattersi in sue narrazioni nelle quali non si presenti nemmeno un omicidio (La danza degli aztechi per esempio). Stark è il suo opposto, Parker è il prototipo del protagonista noir, hard boiled, serio, dedito al lavoro (che poi sarebbe il crimine), spietato quando serve, pratico e deciso ma mai inutilmente crudele; non c'è ironia in questo protagonista e in questi romanzi, secchi e diretti verso la loro inevitabile conclusione. Appunto, due facce della stessa medaglia accomunate da una narrazione vista dalla prospettiva dei criminali, spesso le forze dell'ordine, dove presenti, si ritagliano il ruolo di semplici comprimari.

La serie dedicata a Parker conta un numero di titoli piuttosto importante, qui vengono presentati il primo, quello che sembra essere il terzo (in realtà il secondo è dello stesso anno) e il settimo della serie. Tra Anonima carogne e Liquidate quel Parker! sembra non esserci soluzione di continuità, le vicende che il protagonista si trova a dover affrontare nei primi due episodi della raccolta sembrano essere l'uno la diretta conseguenza dell'altro senza buchi narrativi nel mezzo. Discorso diverso per Parker: a ferro e a fuoco che si può considerare come un episodio successivo non troppo legato ai primi due. Si apre con Parker evaso di galera, incastrato dopo un colpo andato male e durante il quale il suo ex socio Mal, con l'involontaria complicità della stessa moglie di Parker, tentò di far fuori il Nostro abbandonandolo dopo averlo dato ormai per morto. In Anonima carogne assistiamo quindi al ritorno in libertà di Parker e alla sua vendetta nei confronti dell'ex socio ora entrato a far parte dell'Organizzazione, cosa che complicherà un poco la vita al nostro Parker. In Liquidate quel Parker! il discorso a base di vendetta si amplia ai vertici dell'Organizzazione che si sono trovati a dover fare i conti con un osso davvero troppo duro per i denti di molti di loro. Più avanti nella storia di Parker, in Parker: A ferro e a fuoco, il protagonista si troverà invece a collaborare con l'Organizzazione che ne richiede i servigi per eliminare un loro scomodo concorrente, una piccola parte nella vicenda qui l'avranno anche le forze dell'ordine che dovranno scontrarsi con l'incontenibile tenacia del Nostro.

Stark adotta per i romanzi di Parker una narrazione asciutta ed essenziale che si rifà ai più noti stilemi del noir e dell'hard boiled; il protagonista è un uomo granitico, deciso e sempre più che sicuro dei suoi mezzi, semmai dubita di tutti gli altri, monolitico nella sua tenacia, impermeabile a vizi e tentazioni quando è all'opera o in fase di preparazione di un colpo o di un'azione, un cliente difficile da trattare per chiunque, caratteristica questa che forse l'autore spinge in alcuni casi anche un poco troppo oltre, sembra infatti incredibile che un'organizzazione simile alla mafia italo-americana (l'esempio mi sembra più o meno calzante) non riesca a mettere il sale sulla coda a un singolo uomo per quanto in gamba questo possa essere. Stark intaglia un criminale duro ma anche giusto, leale ai compagni che si comportano con lui in modo corretto, tanto da arrivare a rischiare la vita per loro, non privo di pietà in taluni casi, spietato quando si sente tradito o minacciato, a ogni modo un vero criminale. Siamo nel campo dei classici del noir, il nome di Stark può essere annoverato tra i fondamentali del genere proprio grazie a Parker, magari accanto ad autori più noti e quotati come Dashiel Hammett o Raymond Chandler, ma i fan del genere questo già lo sanno.

venerdì 12 aprile 2024

POLAR

(di Jonas Åkerlund, 2019)

Polar nasce come fumetto pubblicato sul web; ideato dallo spagnolo Victor Santos il personaggio del killer a pagamento Duncan Vizla, detto il "Black Kaiser", sarà poi protagonista di diverse storie noir in origine pensate prive di testo e dialoghi, una narrazione per sole immagini capaci di bastare a loro stesse, realizzate con uno stile essenziale in bianco e nero con spruzzate di arancio come unico segno di colore; il lavoro compiuto da Santos è stato accostato per diversi aspetti a quello imbastito da Frank Miller per il suo Sin City, una delle opere imperdibili per chi ama il fumetto "moderno", ma oltre a questo lo stesso autore cita tra i suoi riferimenti anche il Nick Fury, agent of S.H.I.E.L.D. di Jim Steranko, notevolissima opera dai remoti anni 60 di casa Marvel. È di questo materiale di base che si appropria il regista svedese Jonas Åkerlund, più noto come direttore di video musicali che non come regista cinematografico (Metallica, Madonna, Jamiroquai, Iggy Pop, The Smashing Pumpkins, U2, Coldplay, Lady Gaga, Rammstein e molti altri, tutti nomi di primissimo piano dello stardom musicale). La trasposizione di Åkerlund non rispetta lo stile scelto per la sua narrazione da Victor Santos ma carica invece il "suo" Polar di colori saturissimi e sparati, ultraviolenza pop e postmoderna aderendo a una filosofia dell'eccesso che può divertire ma non è poi così scontato che possa pagare in toto, in fondo il Duncan Vizla col volto di Mads Mikkelsen potrebbe ben prestarsi a qualcosa di molto più serio e cupo.

L'eccentrico e pasciuto Blut (Matt Lucas) gestisce un'agenzia di killer professionisti tra i quali spicca per capacità il silenzioso e impeccabile Duncan Vizla (Mads Mikkelsen) conosciuto come il Black Kaiser, l'uomo di punta tra quelli sul libro paga di Blut. L'agenzia però ha una regola, arrivati ai 50 anni i suoi killer vengono sottoposti a pensionamento forzato, una liquidazione faraonica e una messa a riposo che mette l'agenzia a riparo da eventuali cali di prestazione dovuti all'età in avanzamento. L'agenzia però è in un momento di crisi economica, ricoperto dai debiti Blut pensa di poter risparmiare molto denaro sulle pensioni dei suoi ex dipendenti togliendoli di mezzo; organizza così un'ultima e finta missione per il suo Black Kaiser con l'unico scopo di attirarlo in trappola ed eliminarlo. Nel frattempo Vizla si ritira in una località sperduta in montagna dove conosce la sua nuova vicina di casa, una donna che sembra aver paura anche della sua ombra, la Camille interpretata da Vanessa Hudgens. Ovviamente Vizla non cadrà nella trappola ordita dall'agenzia e così Blunt, tramite l'intermediaria Vivian (Katheryn Winnick), manderà una squadra di killer spietati e dementi alla ricerca del suo ex numero uno, ne conseguiranno carneficine e torture a profusione.

Per questa trasposizione Jonas Åkerlund gioca su forma e superficie più che con la narrazione e lo sviluppo dei personaggi; nonostante la scelta di puntare su un'iperviolenza esibita e onnipresente che tocca vette di kitsch probabilmente ricercate ad arte dallo stesso regista e su un'approccio visivo dai toni accesi spesso sopra le righe, Polar non parte poi neanche male e trova in Mikkelsen il volto perfetto da cucire sulla figura di un killer infallibile. Purtroppo il film si accascia presto sul risaputo e sul prevedibile, perdendo via via d'interesse anche a causa di un reiterarsi di violenza e uccisioni che ben presto diventano il classico troppo che stroppia. Nel complesso il film, pur senza lasciare particolari tracce di sé, può anche rivelarsi una visione divertente per poi perdersi nella medietà anonima del catalogo Netflix che un po' ci ha abituati al consumo di questi prodotti usa e getta. È indubbio che Åkerlund almeno sotto il punto di vista tecnico il mestiere lo padroneggi, oggi è forse un po' poco guardare unicamente al post-moderno soprattutto nel genere crime dove, senza voler per forza scomodare Tarantino, abbiamo visto cose decisamente migliori, il primo Guy Ritchie ad esempio (impagabile) ma anche opere minori e meno conosciute ma meglio riuscite, al brucio mi viene in mente ad esempio In ordine di sparizione di Petter Moland, giusto per rimanere tra la neve e sui registi scandinavi. Detto questo comunque Polar una sufficienza la strappa, ci sono ingenuità narrative, sesso gratuito e abbastanza fuori contesto, ma anche passaggi divertenti e un ritmo discreto, quindi si può fare. Queste due ore però le si possono anche impiegare con qualcosa di meglio.

martedì 9 aprile 2024

SHORT SHARP SHOCK

(Kurz und schmerzlos di Fatih Akin, 1998)

Agli esordienti è solito consigliare di scrivere sempre di ciò che si conosce, consiglio questo che Fatih Akin per il suo lungometraggio d'esordio osservò più o meno alla lettera; il regista tedesco di origini turche è qui anche sceneggiatore e per questa sua prima opera attinge agli ambienti non sempre salubri della sua gioventù; ritorna così ai tempi in cui nel distretto periferico di Amburgo che va sotto il nome di Altona (più di 250.000 abitanti) Fatih frequentava le gang locali, erano anni in cui i rapporti tra tedeschi e figli di immigrati non sempre erano semplici e distesi. Come il regista stesso è poi riuscito a tirarsi fuori da giri poco puliti così tenta di fare il protagonista principale di questo Short sharp shock, titolo internazionale della pellicola che non trovò grande risalto qui da noi nonostante la menzione al festival di Locarno, il regista infatti, che oggi gode anche in Italia di una certa fama, si fece conoscere solo diversi anni più tardi con film come La sposa turca (2004) o Soul kitchen (2009). C'è da dire che questo Short sharp shock, magari corredato di una buona traduzione nel titolo, avrebbe sicuramente meritato maggior visibilità e un'attenzione degna di un esordio vitale e già ben calibrato e molto ben riuscito. Per fortuna il cinema resta e alcune pellicole come questa si fa sempre in tempo a recuperarle.

Il turco Gabriel (Mehmet Kurtulus) esce di galera e torna nel suo vecchio quartiere di Altona, ad Amburgo, torna dalla famiglia e dalla sorella Ceyda (Idil Üner), dai suoi amici, il serbo Bobby (Aleksandar Jovanović) e il greco Costa (Adam Bousdoukos) che attualmente sta frequentando proprio Ceyda. Il ritorno del giovane si trasforma ben presto in un giorno di festa, non solo per la famiglia ma anche per i due amici che per Gabriel, contraccambiati, provano un amore fraterno e sincero. L'incontro si apre davvero su una festa, si sposa infatti il fratello di Gabriel, questi offre un lavoro onesto al fratellino minore il quale sembra davvero intenzionato ad accettarlo e a rigar dritto, a maturare e crescere, a entrare nella società degli onesti e magari col tempo metter su famiglia. Ma Bobby e Costa non hanno le stesse intenzioni, forse perché non hanno provato la galera da vicino, il primo intenzionato a entrare nel giro della mala albanese alle dipendenze di Muhamer (Ralph Herforth), il secondo troppo sfaccendato e fuso per smettere di rubare. I due ragazzi non sono cattivi, anzi, sarebbero anche due elementi di buon cuore, hanno però una grande capacità di ficcarsi nei pasticci e l'ambiente circostante non è dei migliori e non perdona, sarà proprio Gabriel a dover intervenire per sistemare i guai dei suoi compari, in più c'è anche Alice (Regula Grauwiller), la bella donna di Bobby...

Forse le strade di Altona non sono proprio le mean streets scorsesiane ma la vitalità criminale e i legami interpersonali, così tragici, sinceri, legati da amore e morte, sono più o meno gli stessi. Quella di Fatih Akin è una visione della violenza credibile e misurata, seppur tragica mai calcata, parossistica o messa in ridicolo e ha del romantico la parabola di questi tre amici che si conoscono da sempre, i legami con le loro donne, mai sussidiarie e protagoniste anche loro a tutto tondo, donano profondità a un racconto che trova da subito uno stile narrativo e un equilibrio tale da permettere a questo Short sharp shock di imprimersi nella memoria ed esser ricordato (se se ne fosse solo parlato di più ai tempi...). Colorito e vivace lo spaccato multiculturale della Germania degli immigrati: tedeschi, albanesi, greci, serbi, balcanici, in un melting pot ricco e allo stesso tempo carico di tensioni e pericoli; in questo scenario Akin fa crescere i suoi personaggi e trova un gruppo di interpreti poco noti ma dai volti giusti che poi ricorreranno nel suo cinema, ottima l'intesa tra i tre ragazzi capaci di costruire un gruppo affiatato al quale ci si affeziona molto presto. Esordio che cattura, una visione soddisfacente non solo per gli amanti del genere criminale, chiaro esempio di come l'incrocio di culture abbia qui portato i suoi frutti, Akin un regista sicuramente da approfondire.