(The time that remains di Elia Suleiman, 2009)
Con Il tempo che ci rimane il regista Elia Suleiman, qui anche sceneggiatore e autore del soggetto, ci offre un racconto autobiografico mostrandoci, in maniera laterale e non completamente filologica, una parziale storia della sua famiglia tramite episodi provenienti da periodi diversi che hanno come sfondo il conflitto senza risoluzione tra palestinesi e israeliani; lo fa con un dignitosissimo silenzio (Suleiman anche protagonista non pronuncia mezza parola in tutto il film), anche perché cosa rimane ancora da dire su insensatezza e violenza? Oltre alla scelta comunicativa degna di un re del muto, Suleiman gioca con il registro dell'assurdo, alcune situazioni che il regista propone sono del tutto dementi, la violenza del conflitto, il sopruso e l'umiliazione, la frustrazione per la mancanza di libertà, soprattutto da parte del padre Fuad (Saleh Bakri), non esplodono mai in scene cruente o forti, tramite il silenzio, gli sguardi, le parole della parte avversa, gli accenni, i non detti, Suleiman delinea un popolo, quello palestinese, a cui si cerca di sottrarre identità e dignità, tutti motivi per i quali Il tempo che ci rimane, che di fronte alla Storia non sembra mai molto, è un film importante più che avvincente.Per gran parte del film a essere sotto i riflettori è il padre di Elia, Fuad, che fin dall'occupazione israeliana di Nazareth del 1948 decide di resistere, contravvenendo anche ai patti siglati - forzatamente - dal suo stesso padre, all'epoca sindaco della città. Fuad costruisce e traffica armi, occupazione quest'ultima che nel film non viene mai mostrata, anzi, ci viene presentata, come spesso accade ne Il tempo che ci rimane, con una sequenza allusiva più volte reiterata che assume i toni del ridicolo. Il confronto tra l'uomo e l'esercito di occupazione diverrà aperto e Fuad ne pagherà le conseguenze. Salto in avanti nel tempo, Elia è un bimbo che va a scuola, costantemente redarguito dal maestro perché continua a definire gli Stati Uniti "colonialisti" o "imperialisti", cosa inaccettabile per l'alleato israeliano, la contrapposizione tra i due popoli permane, la vita prosegue tra oppressione e situazioni comiche. Un decennio più tardi, mentre il padre continua la sua vita in opposizione e si avvicina al suo ultimo momento, Elia denunciato viene costretto a lasciare il Paese. Ai giorni nostri Suleiman torna a casa, dopo l'esilio, a trovare la madre anziana, i vecchi amici. La città è cambiata, la gente è cambiata, la libertà ancora si aspetta, non rimane che rincorrerla con un tuffo nell'onirico in una delle immagini più significative del film.
È tutta una questione di sguardo per Suleiman, per una situazione che sembra non trovare mai una fine (basti vedere le recenti bozze di accordo che coinvolgono Israele e i territori della regione Palestinese), un continuo riproporsi d'ingiustizie che Suleiman ci mostra con un tocco lieve e grottescamente surreale. Scenette inverosimili che si ripetono giorno dopo giorno, desideri di lievità frustrati, anche per gli stessi "occupanti", personaggi improbabili, militari spersi dentro un'idiozia collettiva alla quale non si riesce a mettere un freno. Nell'assurdità però, non bisogna dimenticarlo, c'è anche la grande tragedia, che con piccoli episodi Suleiman ci mostra. Lo sguardo, appunto, è ovviamente di parte come è normale che sia vista la storia familiare dell'autore e della sua città, ma riesce a mantenersi equidistante tra l'assurdo e il tragico con una propensione a non calcare la mano sugli aspetti infami della vicenda che sono più o meno noti a tutti. L'approccio di Suleiman per questo film, per la sua interpretazione in particolare, da molti è stato paragonato al Cinema di Tati o addirittura di Buster Keaton, anche la sua regia asseconda la misura che l'autore ha scelto di dare al progetto, con una direzione molto limpida e pacata che non manca però di lasciar intuire allo spettatore il dolore e l'angoscia celate dietro a vite dall'apparenza per lo più normalizzata.
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