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domenica 29 settembre 2024

CAPITALISM. A LOVE STORY

(di Michael Moore, 2009)

Recupero indubbiamente tardivo ma non fuori tempo massimo questo di Capitalism. A love story del regista Michael Moore dato l'argomento purtroppo ancora tragicamente attuale. Moore arriva a questo documentario sui mali perpetrati dal capitalismo e dai suoi seguaci oltranzisti dopo aver mosso i suoi primi passi giusto venti anni prima in quel di Flint, la città dove il regista classe 1954 è nato e cresciuto, raccontandone le allora coeve vicissitudini legati all'ondata di licenziamenti messa in atto nel locale stabilimento dalla casa automobilistica General Motors nonostante l'azienda godesse all'epoca di ottima salute (è il capitalismo, baby!). I temi che stanno a cuore al regista del Michigan, soprusi aziendali a scapito dell'occupazione, delocalizzazione, prevaricazioni, tornano anche in Downsize this! e The Big One. Nel 2003 per Moore arriva anche il premio Oscar nella categoria "miglior documentario" per Bowling a Columbine; prendendo come motore scatenante la tragedia di Columbine, la quale mosse anche Gus Van Sant per il suo Elephant, Moore mette alla gogna il disagio tutto americano della fascinazione per le armi e la violenza che la loro diffusione porta nelle strade, peggio ancora nelle scuole, degli Stati Uniti d'America. Con Fahrenheit 9/11 Moore si scaglia contro la guerrafondaia amministrazione Bush e ottiene la Palma d'oro a Cannes, risultato storico per un documentario. Nel 2007, solo due anni prima di questo Capitalism. A love story il regista mette sotto accusa l'intero sistema sanitario americano con Sicko, ne tratteggia l'immoralità e la mancanza di etica che peraltro contraddistingue numerosi aspetti del Grande Paese. Capitalism. A love story è soltanto l'ultimo tassello che arriva a mettere in luce la stortura di un sistema che si vorrebbe esportare identico in tutto il mondo (il capitalismo, non la democrazia) per mantenere saldi controllo e benessere in mano a pochi eletti.

Dopo vent'anni Michael Moore ritorna a Flint, perché cos'era la vicenda del suo paese natale se non una delle tante storie di sciacallaggio aziendale tipiche e finanche perseguite dal sistema del capitale spinto così in voga negli U.S.A. almeno dai primissimi anni 80 in avanti? Moore esplora i fondamenti del capitalismo, le sue storture e le conseguenti aberrazioni prodotte ai danni dei cittadini statunitensi (e di riflesso del mondo, pensiamo solo a Lehman Brothers); per farlo parte dall'antica Roma e dai suoi privilegi per pochi eletti fino a chiudere su un commosso Franklin Delano Roosevelt, ormai malato, che propone una nuova carta dei diritti basata sul diritto alla casa per le famiglie, su un mercato libero da monopoli e giochi di forza, equo e dignitoso, su un sistema sanitario garantito, su un sistema garante delle pensioni e dell'istruzione che potesse mettere i cittadini al riparo dalla malattia, dagli eventuali infortuni e dalle perdite di lavoro. Roosevelt morì l'anno successivo, ovviamente della sua carta dei diritti non se ne fece più nulla. Quello che Moore ci mostra sono le ricadute di un sistema ormai traviato e corrotto, astratto per molti versi, sulla vita reale, sulle persone, sui loro affetti e sulle loro esistenze, mette in relazione le grandi tragedie personali con la propaganda politica e finanziaria che bombarda in America persone spesso non preparate a capire cosa stanno realmente facendo con i loro soldi, con le loro case (pensiamo a tutti i prodotti sub-prime, agli incentivi a ipotecare le case per ottenere liquidità, etc...). Sembra assurdo poi vedere come questi alfieri del capitalismo spinto, bravissimi nel farlo, abbiano nel corso dei decenni inculcato nella testa degli americani il terrore per parole come socialismo, comunista e cose del genere, probabilmente anche del colore rosso, mi chiedo se negli U.S.A. qualcuno di sua spontanea volontà si compri un'auto o un maglione di colore rosso senza cagarsi addosso o provare vergogna. E così case pignorate, disoccupazione, lavori di responsabilità pagati con sacchetti di noccioline e via discorrendo.

Quello di Moore è un documentario di parte, quando guardi un lavoro di Moore sai cosa stai andando a vedere, con tutti i dovuti distinguo è un po' come guardare un film di Ken Loach, sai più o meno la direzione che prenderà il vento anche senza essere un meteorologo. Moore non condanna in toto il capitalismo, mostra alcuni esempi virtuosi dove gruppi di imprenditori/lavoratori portano avanti aziende remunerative e in attivo che credono nella redistribuzione della ricchezza a vantaggio di tutti, come sempre non è lo strumento in sé a essere sbagliato, è come lo si usa. E come lo si usa oggi nel mondo è il modo sbagliato (e spesso lo si fa con dolo in maniera criminale). Il regista come sempre mantiene un tono leggiadro e ironico che alleggerisce la visione anche quando gli argomenti trattati dovrebbero farci incazzare tutti (e spesso lo fanno, alcuni passaggi sono dolorosi, altri sono tragicomici per l'idiozia e la mancanza di vergogna che il sistema del capitale può arrivare ad assumere). Così assistiamo a esperti di finanza che non riescono a spiegare il funzionamento dei prodotti derivati (in fondo come fanno a condannarti se nessuno capisce un cazzo di quello che hai fatto?), al tentativo di Moore di andare a recuperare nelle banche i soldi dei contribuenti con tanto di sacchetti per la raccolta, lo vediamo sigillare con il celebre nastro giallo con la scritta "Crime scene do not cross" l'edificio della Citibank, ovviamente le banche e la finanza sono insieme a Wall Street l'obiettivo principale di Moore in questo Capitalism. A love story. Non c'è molto da dire, quello che ci racconta il regista è sotto gli occhi di tutti da un sacco di tempo, Moore chiude con un appello a impegnarsi nel fare tutti qualcosa al riguardo e con una dichiarazione d'intenti: "Mi rifiuto di vivere in un Paese del genere. E non me ne vado".

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