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lunedì 11 novembre 2024

TOKYO SONATA

(di Kiyoshi Kurosawa, 2008)

Pur non essendo tra i registi asiatici più noti in occidente, almeno avendo in mente come riferimento il grande pubblico, Kiyoshi Kurosawa si porta sulle spalle una carriera ormai lunga e costellata da numerose opere che prese il via già negli anni 70 quando Kurosawa trovò i primi impieghi in veste di assistente alla regia per poi prendere una direzione più indipendente nel decennio successivo quando il regista esordì nel lungometraggio con un film erotico, uno di quelli che in Giappone vengono definiti pinku eiga. Con il passare degli anni il regista nato a Kōbe nel 1955 si sposterà sul dramma e soprattutto sull'horror, genere nel quale Kurosawa si guadagnerà una certa fama presso il pubblico di appassionati. Alla sessantunesima edizione del Festival di Cannes il regista presenta questo Tokyo sonata, un dramma familiare dai risvolti sociali che verrà riconosciuto con il Premio della giuria nella sezione Un certain regard; tra festival asiatici e riconoscimenti ottenuti oltreoceano Tokyo sonata si ritaglia il suo spazio all'interno del mare di opere meritorie che arrivano dalla terra del Sol Levante. Inoltre il film, uscito in anni di piena e totale crisi economica (la Grande Recessione), si giova di un'attinenza con l'attualità del momento e con la situazione contingente che permette dello stesso una lettura non limitata alla sola situazione nipponica offrendo bensì una più ampia riconducibilità alle difficoltà affrontate dalle classi medie (e povere) di tutto il mondo.

Tokyo, anni di crisi economica; le grandi imprese iniziano ad approfittare della manodopera e delle professionalità a basso costo formatesi in Cina delocalizzando così interi rami d'azienda per abbattere i costi di gestione e aumentare i ricavi per i vertici. In una di queste grandi ditte viene tagliato in toto il reparto amministrativo, è così che Ryuhei Sasaki (Teruyuki Kagawa), un uomo di mezza età con moglie e due figli a carico, si trova dalla mattina alla sera senza lavoro e senza mezzi di sostentamento per mantenere la propria famiglia. Imbevuto di quel senso dell'onore che caratterizza molti giapponesi, Ryuhei non trova il coraggio di confessare alla moglie Megumi (Kyōko Koizumi) quello che a conti fatti vede come un fallimento personale. Inizia così per l'uomo una vita di menzogne nella quale Ryhuei si alza al mattino, si veste e finge di andare a lavoro, per poi passare le giornate alle mense per i poveri frequentate da tanti ex impiegati come lui vestiti di tutto punto, altri umiliati che non hanno il coraggio di affrontare con sincerità la loro nuova condizione. Nel frattempo il figlio minore Kenji (Inowaki Kai), refrattario alle autorità che stanno perdendo credibilità ai suoi occhi (il padre, il professore) vorrebbe iniziare a prendere lezioni di piano, il figlio più grande, Takashi (Yû Koyanagi), stufo di lavori inconcludenti come la distribuzione di volantini, cerca ingenuamente soluzioni alternative senza soppesarne a fondo le conseguenze.

Con Tokyo sonata Kiyoshi Kurosawa fonde il dramma pubblico a quello privato, ci mostra il lato duro di una Tokyo, qui sineddoche per il Giappone tutto, che si concede a un sistema del capitale prettamente occidentale (americano) introiettandone di conseguenza anche le falle e l'esecrabile tendenza a porre l'uomo in posizione sussidiaria al capitale; questa sorta di colonialismo liberale si avverte anche nella contraddittoria permissività di un Paese che vieta la guerra a partire dalla sua Costituzione ma permette ai suoi giovani di arruolarsi tra le fila dell'esercito Statunitense, ormai "compagno di capitalismo". Questa situazione diffusa viene esplorata in Tokyo sonata attraverso le vicissitudini della famiglia Sasaki sulla quale si riversano le conseguenze della crisi economica. Kurosawa filma una Tokyo abitata da fantasmi, sono questi persone in carne e ossa, ex impiegati che vagano per la città schiacciati tra la vergogna del fallimento e il nuovo bisogno, una condizione prima a loro sconosciuta, vagano vestiti di tutto punto in zone periferiche, vicino i raccordi, rassegnati, quasi invisibili sullo sfondo di una città e di un contesto che li fa riconoscere allo spettatore come anime vaganti sulla stessa barca del protagonista. Oltre alla crisi economica il regista pone attenzione alla crisi dei rapporti e della famiglia; i Sasaki non comunicano tra loro, vivono di una convivenza quasi sempre educata, formale ma, soprattutto nella figura della madre, intimamente infelice. La crisi è solo l'occasione per mostrare la fallacità di un sistema (Paese, famiglia) che non si regge più: figure autorevoli in crisi e delegittimate, dal lavoro, dai loro stessi figli, un sistema patriarcale a volte ottuso e orgoglioso fino al parossismo, in alcuni casi fino a un'esiziale e tragica conclusione. La rigidità, la vergogna del diventare (nella propria autostima e auto considerazione) meno di quel che finora si è stati porta altra infelicità, porta al disastro. A strattonare regole assurde solo un ragazzino che vuole suonare il piano, che vuole seguire un suo desiderio, che vuole rompere questo sipario d'infelicità sceso sull'esistenza della sua famiglia suonando il Clair de lune dalla Suite Bergamasque di Debussy, magari aprendo gli occhi a un padre, riempiendo il cuore di una madre, consolando un fratello scottato dalla dura realtà. O forse è solo un momento, una nostra illusione destinata a bruciare nel tempo.

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