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lunedì 28 ottobre 2024

JOKER: FOLIE À DEUX

(di Todd Phillips, 2024)

Oh no! Quel cattivone di Todd Phillips ci ha rotto il giocattolo! Se n'è andato a casa e si è portato via il pallone! A noi il Joker di prima piaceva tanto (sigh! sob!). Eh già, sembra proprio che il nuovo lavoro del regista della trilogia di "Una notte da leoni" non sia stato troppo gradito da gran parte del pubblico adorante che presenziò entusiasta alle proiezioni del primo episodio di questo dittico dedicato al Joker. Un critico professionista a questo punto scriverebbe qualcosa come: "e sticazzi!", ma visto che chi vi scrive professionista non lo è affatto, eviterà accuratamente uscite di questo genere e tenore. La verità è che la nuova opera di Todd Phillips (che qui si dimostra quantomeno autore coraggioso, intelligente e anche dall'indole un po' punk nel fottersene di quello che avrebbe potuto pensare il pubblico del suo film) è in effetti più ostica e meno digeribile di quel che tutti noi ci saremmo potuti aspettare; il film fatica a scorrere, Phillips spezza il ritmo con tanti brani musicali che richiamano il musical classico ma che proprio musical non sono, e poi... e poi... e poi il Joker si vede poco, non sembra essere nemmeno il protagonista, c'è sempre questo Arthur Fleck, chi cazzo è poi questo Arthur Fleck? Arthur Fleck è un malato, una persona che ha subito angherie e violenze psicologiche, un sociopatico, un uomo con difficoltà a inserirsi nella comunità dalla quale è stato escluso, dileggiato, schernito, lo abbiamo visto bene nel primo capitolo, uno che si è rifugiato in un mondo di fantasia, nell'idea di poter far ridere e magari catturare un pizzico di quell'attenzione che gli è sempre stata negata; Arthur Fleck è un emarginato, non è Joker, Joker non esiste, non è nessuno, è una proiezione irreale di un uomo malato che ha sfogato il suo enorme disagio nella violenza. E a questo torna Phillips, all'uomo, torna a questo e ad altro ancora in un film che per lo spettatore non troppo pigro potrebbe acquistare valore solo a visione terminata, un po' come quei piatti che "riposati sono meglio".

È un film spiazzante questo Joker: Folie à deux, lo è per tanti motivi alcuni dei quali già accennati poco sopra, primo fra tutti il distacco dal suo predecessore. Phillips abbandona completamente o quasi la città, quella Gotham/New York che nel primo capitolo tanto aveva richiamato quelle atmosfere scorsesiane citate apertamente dal regista e dalla critica tutta (Taxi driver, Re per una notte), ce la nega quasi completamente, una scena sulla famosa scalinata ("basta cantare, parlami"), qualche esterno sulla folla acclamante al Joker di fronte al tribunale dove si tiene il suo processo e poco altro. Phillips si chiude in interni e confeziona un film che riesce a essere di una coerenza impressionante rispetto a quanto fatto nel primo capitolo pur scombinando apertamente le carte: Folie à deux è infatti un misto di dramma carcerario, di musical sui generis e di film processuale, generi diversi neanche amalgamati troppo bene tra di loro ma che si asservono allo scavo sul personaggio, (Fleck intendiamo, non il Joker che non esiste), si piegano al suo rapporto con la follia e con l'immagine che vorrebbe dare di sé (e forse, solo forse, qui c'è il Joker) e con quella che tutto il mondo vorrebbe vedere (e qui è il Joker sicuramente), a partire da quei rompiscatole di fan del primo film. Nel rapporto tra l'uomo - Fleck - e la sua immagine - Joker -, Lee Quinzel (Lady Gaga, e scordatevi la Harley Quinn della Robbie) riveste un ruolo quasi metatestuale impersonando il desiderio di spettacolo dello spettatore e il suo rifiuto di un Fleck senza Joker (geniale qui Phillips nell'anticipare le critiche del grande pubblico, l'opera acquista quasi un sentore da beffardo suicidio artistico, se davvero tutto è stato studiato in precedenza dal regista non rimane che dire "chapeau" e inchinarglisi, qualche lecito dubbio però rimane). Lee è affascinata dalla figura del Joker, lo ha studiato nel film che hanno fatto su di lui, un film nel film (non bellissimo, pare) che mette lei e noi spettatori nello stesso ruolo di fan, con l'unica differenza che lei ha la possibilità di incontrare il Joker (in realtà Arthur) nel manicomio criminale di Arkham, di innamorarsi della sua potenza eversiva e immaginifica magnificandone l'irreale e tentando di convincere Fleck che solo il Joker ha senso di esistere, che solo al Joker la giuria potrà dare credito al processo, solo il Joker potrà attirare la giusta attenzione e avere una possibilità, perché in fondo Arthur non è nessuno, a chi interessa uno così?, chi se lo può filare? (e no, lei non gli parlerà). Come al personaggio interpretato da un'ottima Lady Gaga (al servizio comunque di un Phoenix immenso che non ruberebbe nulla portandosi a casa un altro Oscar), anche al pubblico sembra interessare solo il clown, l'immagine altra dalla realtà che un uomo insoddisfatto cerca di dare di sé; in questo si cela tutta una riflessione sulla realtà di oggi dove tutti possono nascondersi dietro identità fittizie e cercare attenzione, proprio come ha fatto Arthur, ponendosi nei confronti degli altri in vesti che in fondo non ci appartengono. La cosa tragica, e torniamo sull'ormai celebre scalinata, è che quando la verità affiora, quando l'uomo dietro il trucco e l'inganno emerge, allora torna il rifiuto, il dramma dell'essere ignorati, dell'essere un nessuno tra molti. Quello che resta è, quindi, lo spettacolo, la finzione, la fuga dalla realtà, uno spettacolo qui accentuato da Phillips con la scelta di guardare al musical, uno dei generi d'eccellenza della Hollywood classica, perfetta la scelta di Lady Gaga quindi come coprotagonista mentre Phoenix se la cava bene anche nel canto, in fondo è già stato Johnny Cash in passato (Quando l'amore brucia l'anima, 2005), ottima la scelta dei brani, classicissimi anch'essi.

Così, dopo qualche piccola rivelazione come l'origin story della fissazione di Arthur per lo spettacolo e per l'idea balorda di poter far ridere gli altri, un'intro in animazione siglata dal talento di Sylvain Chomet (L'illusionista, Appuntamento a Belleville) in stile Looney Toons, un Phoenix su ritmi tip tap, le pochissime concessioni alla violenza del Joker (anche questa illusoria) e un giudizio su Cinemascore (che non so bene che valore possa avere) che lo indica come uno dei peggiori film tratti dai fumetti (see, ad avercene), quel che rimane è un film difficile, anti spettacolare, per nulla ruffiano e accomodante, girato molto bene e graziato da interpretazioni di livello altissimo (Phoenix) o molto, molto buono (Lady Gaga, Brendan Gleeson) che è diretta conseguenza della libertà d'espressione di un autore molto in gamba (libertà d'espressione concessa anche ad Arthur quando gli è permesso di presentarsi a processo nei panni del clown) che potrebbe: 1) averci provocato scientemente; 2) aver preso qualche cantonata rintuzzata con l'aiuto di una parte di critica cerebrale e indulgente; 3) aver siglato, volontariamente o meno, uno dei film più intelligenti dell'anno; 4) aver girato una "cagata pazzesca" degna de "La Corazzata Potemkin" di fantozziana memoria. Chi vi scrive oscilla tra l'opzione uno e l'opzione tre, a voi la scelta definitiva. 

mercoledì 23 ottobre 2024

DUNE PT. I e II

(Dune: Part one e Dune: Part two di Denis Villeneuve, 2021/2024)


Ammetto, nel terminare la visione di Dune: Part one, di aver pensato qualcosa del tipo: "ok, forse Dune non è proprio la mia tazza di te" (it's not my cup of tea, per chi non conoscesse l'espressione numerose sono le spiegazioni in rete). Premetto di essere a digiuno dell'opera letteraria di Frank Herbert universalmente riconosciuta come una delle letture fondamentali nell'ambito della fantascienza e più in generale in quello della creazione di mondi fittizi e complessi, in questo paragonata addirittura all'opera di Tolkien. Ne consegue quindi che non sarà qui possibile accostare l'opera letteraria al lavoro improbo ed enorme di cui si è caricato il regista canadese Denis Villeneuve decidendo di portarne sugli schermi una nuova trasposizione. E già, una nuova trasposizione. Perché sono almeno due, e illustrissimi, i precedenti tentativi di portare al cinema le beghe interplanetarie dell'Impero e dei ribelli Fremen, della casata Harkonnen e di quella degli Atreides; il primo completamente naufragato, il secondo quantomeno poco (pochissimo?) riuscito, questo nonostante i due tentativi succitati portassero rispettivamente le firme niente meno che di Alejandro Jodorowski (che non trovò mai produttori disposti a finanziargli il film) e di David Lynch che, costretto a condensare molto il testo di origine, uscì con uno dei prodotti meno indovinati della sua intera carriera. Così, dopo la scottatura presa con il Dune datato 1984 e dopo una prima parte della versione Villeneuve visivamente magniloquente seppur cupa ma narrativamente interlocutoria e a tratti troppo attendista, l'idea di mettere una pietra sopra al tutto non mi sembrò poi così peregrina. Per fortuna decisi di dar una possibilità anche a Part two e devo dire che ne è valsa davvero la pena, Villeneuve sembra scuotersi di dosso ogni timore e, sebbene in alcuni passaggi giochi sul risaputo (niente di male in fondo), ingrana la quarta e con la giusta densità di eventi e contenuti (narrativi e metaforici) dà vita anche lui a un universo che vale la pena di essere vissuto ed esplorato.

Arrakis è uno dei pianeti sotto il controllo dell'Imperatore Shaddam IV (Christopher Walken), un sito fondamentale in quanto Arrakis è l'unico pianeta conosciuto sul quale è presente la spezia, sostanza preziosissima in quanto capace di far muovere le astronavi lungo i loro viaggi interstellari. La spezia è ricchezza e potere, da molti anni ormai Arrakis e l'estrazione del prezioso elemento sono concessi dall'Imperatore alla casata Harkonnen, una stirpe di guerrafondai crudeli e spietati retta dal barone Vladimir Harkonnen (Stellan Skarsgård) e da suo nipote Rabban Harkonnen detto Bestia (Dave Bautista). Con una decisione all'apparenza inspiegabile la concessione viene revocata dall'Imperatore agli Harkonnen e affidata alla casata in ascesa degli Atreides, capeggiata dall'assennato e decisamente più umano duca Leto Atreides (Oscar Isaac), sposato con Lady Jessica Atreides (Rebecca Ferguson), una discepola del culto femminile delle Bene Gesserit, una sorellanza mistica di "streghe" bene inserite nei mondi politici, religiosi e di potere. Il loro primogenito Paul Atreides (Timothée Chalamet) sembra essere destinato a ricoprire il ruolo del prescelto di un'antica profezia da tempo perseguita dalle Bene Gesserit e presa a religione dai Fremen, il popolo nativo e perseguitato degli abitanti del deserto di Arrakis. In realtà la decisione dell'Imperatore non è dettata da scopi nobili ma porta in sé il secondo fine di bloccare l'ascesa della casata Atreides mettendogli contro i guerrieri Harkonnen. Nel complicarsi della situazione politica, mentre spirano segnali di guerra, Paul inizia ad avere visioni di una vita tra i Fremen, una vita da guerriero, forse da condottiero, al fianco di una giovane fanciulla indigena, lui ancora non lo sa, di nome Chani (Zendaya).

Villeneuve ha già dimostrato di godere di un feeling particolare con la fantascienza di grande richiamo (di pubblico) almeno in due occasioni, ossia con l'uscita dei bellissimi Arrival prima e Blade Runner 2049 poi; con la saga di Dune il regista alza il tiro e crea aspettative altissime nei fan dell'epopea messa su carta da Herbert, lo fa, almeno nel primo segmento, prendendosi i suoi tempi e cercando di rendere giustizia ad un'opera monstre evitando in maniera accurata di trarne un bigino che per forza di cose avrebbe scontentato i più e sicuramente i fan dei romanzi dello scrittore americano. Quel che ne esce è una prima parte fatta di passaggi dilatati che affascina dal punto di vista immaginifico e realizzativo ma che suscita qualche perplessità nel suo incedere, quasi come se si percepisse una sorta di timore reverenziale per la materia; Villeneuve però è un ottimo regista, forse con il suo girato ben in mente approccia una seconda parte con piglio nuovo e più deciso, alza i giri del motore e il mondo di Dune si espande e acquista vivacità oltre che a prendere vita. Le meravigliose trovate sceniche che nella prima parte sembravano soverchiare un po' tutto il resto iniziano ad accompagnare un complessivo di grande valore proprio nel momento in cui, stando a quel che si dice, Villeneuve inizia per alcuni particolari a tradire un poco il testo. Cresce di importanza il personaggio interpretato da Zendaya che nel corso di tutta la seconda parte avrà modo di vivere la maturazione e il cambiamento del suo rapporto con Paul Atreides, il vero protagonista della saga. Dune è, tra le altre cose, anche la storia di maturazione e cambiamento (predestinato?) di un protagonista incarnato al meglio da uno Chalamet duttile e talentuoso, un personaggio che si porta dietro una tragedia interiore e che sa (perché lo vede) che nel suo futuro ci saranno guerra e morte a carrettate e che i contrasti tra politica e religione, ma soprattutto quelli tra sentimenti e ragioni di Stato, non potranno che portare dolore e sofferenza a lui e a chi a lui sta vicino. Nell'incedere della narrazione tutto si carica di dramma, le sensazioni sono acuite dalle scelte musicali, ingiustamente criticate, di un Hans Zimmer cupo e oppressivo che giganteggia insieme alle immagini superbe di un mondo e di civiltà ostili. L'epica di Dune, immagino già dalla pagina scritta, si fonda su tantissimi contrasti, su una pluralità di elementi che convivono e rimandano l'uno all'altro donando spessore a tutto ciò che Herbert ha creato e Villeneuve ha reso magnificamente in immagini: pensiamo alla spietata violenza della razza Harkonnen, proveniente da un mondo dove anche i colori si ritraggono alla loro vista, immersi in scenari asettici e chiusi in enormi macchine di morte, e poi alla simbiosi dei Fremen con la natura, anch'essa dura e ostile, un popolo che ha imparato a viaggiare sfruttando i pericolosissimi vermi giganti della sabbia, a onorare i morti in un rito di comunione collettivo alla cui base sta un'idea geniale (gran trovata quella dell'estrazione dell'acqua, bellissima simbologia), a muoversi in sintonia con il deserto e soprattutto, almeno per parte di loro, a credere all'arrivo di un messia che veicola anche un discorso sulla fede e sulla corruzione delle religioni rappresentata bene dalle Bene Gesserit e dal personaggio interpretato da una bellissima Rebecca Fergusson in gran spolvero. Cresce con il tempo anche la figura, probabilmente chiave in un film futuro, di Alia (Anya Taylor Joy?), la sorella non ancora nata di Paul e già figura messianica anch'essa. Non sono mancate le letture dei due film in chiave sociale e politica con la visione dello sfruttamento delle risorse da parte del sistema del capitale (Occidente) ai danni delle popolazioni indigene depredate delle loro risorse nella loro terra e costrette alla ribellione (Medio Oriente), in un chiaro parallelo con Impero/Harkonnen da una parte e Fremen dall'altra. Ovviamente (e viene sempre più da dire giustamente) la parte dei cattivi spetta al capitale. Insomma, tanti spunti, spettacolo garantito, cinema di cassetta fatto per bene con ambizioni e dignità autoriali, una prima parte più faticosa e una seconda che compensa di tutto. Villeneuve è ormai una conferma che si inscrive nel genere tra le voci più interessanti e ambiziose del cinema contemporaneo (ben più di Cameron a parere di chi scrive).

sabato 19 ottobre 2024

THIS CLOSENESS

(di Kit Zauhar, 2023)

Visto che Mubi ce ne offre la possibilità torniamo a stretto giro al cinema indipendente statunitense con l'opera seconda, e al momento ultima, della regista sino-americana Kit Zauhar del quale esordio, Actual people, film del 2021, abbiamo parlato alcuni giorni orsono. Per ciò che riguarda le capacità produttive di This closeness non si nota uno stacco significativo rispetto al precedente lavoro della Zauhar. È possibile che This closeness sia costato un po' di più rispetto al suo predecessore, cosa che si può supporre più che altro dal fatto che Actual people fosse stato girato veramente con nulla o quasi; anche se il budget fosse effettivamente cresciuto la cosa non si nota, per This closeness la messa in scena rimane molto basilare, forse anche più di quanto accadeva in Actual people, in quanto questo secondo film è girato pressoché completamente in interni e in un'unica location, un piccolo appartamento di poche stanze a Philadelphia. Film ancor più essenziale nella realizzazione quindi, maggiormente claustrofobico e ancora una volta incentrato su stralci di vita vissuta e quotidiana con protagonisti appartenenti alle nuove generazioni qui poste sotto la lente d'ingrandimento della regista attraverso tre personaggi principali: una coppia giovane che affitta una stanza per un weekend e il proprietario di casa che con loro dovrà condividere gli spazi per qualche giorno. Tutto qui, il resto ancora una volta prende forma attraverso dialoghi e confronti tra questi giovani ragazzi in un film dove la parola, i gesti e i comportamenti sono il principale motore narrativo.

Tessa (Kit Zauhar) e Ben (Zane Pais) sono una giovane coppia che ha affittato una stanza per il weekend a Philadelphia in occasione di una rimpatriata con i compagni della scuola superiore (la high school americana) di Ben. Il ragazzo si occupa di giornalismo mentre Tessa ha raggiunto una certa notorietà (seppur di nicchia) su Youtube realizzando video ASMR (autonomous sensory meridian response), una tecnica di rilassamento grazie alla quale, attraverso suoni delicati, sussurri, atmosfere soffuse, si dovrebbero contrastare ansie, tensioni, stati depressivi e cose del genere. Dopo aver preso possesso della loro stanza i due ragazzi conoscono il proprietario di casa Adam (Ian Edlund), un ragazzo alto e magro che da subito a Ben e Tessa sembra un po' strambo. In effetti Adam qualche problema di socialità sembra averlo, passa il suo tempo da solo chiuso in casa, non è empatico nei confronti dei suoi ospiti, sembra spesso a disagio e mette a disagio gli altri, passa il tempo in camera a lavorare a computer creando video promozionali per una società sportiva. Adam parla spesso del suo ex coinquilino, il suo migliore amico, ma nel corso di questo weekend Ben e Tessa non riescono a capire se questo sia una persona reale o una fantasia di Adam che si dimostra un po' dissociato dal vivere comune. Un poco per la situazione imbarazzante creatasi con Adam in casa, un po' per la rimpatriata di Ben e la presenza di Lizzy (Jessie Pinnick), una compagna di Ben molto espansiva, cresce un po' di tensione all'interno della coppia; qualche confronto sembra ormai necessario.

La Zauhar chiude tre protagonisti (+2) in casa ed elabora sprazzi d'incomunicabilità, comprensioni a singhiozzo, scampoli d'immaturità relazionale, forti sentori di disagio sociale, vuoti improvvisi di discorso che parlano più dei pieni. Ben, Tessa e Adam sono tre personaggi molto diversi tra loro: tutti e tre abbozzano mestieri in cui la capacità di arrivare agli altri è fondamentale eppure si rivelano tutti inadeguati al compito nel loro privato e tra le quattro mura di questa casa prigione che è a tutti gli effetti l'unico set di This closeness (Questa vicinanza, che tanto danno può fare). Ben è in fondo molto immaturo, esce, si diverte, si ubriaca, flirta, seppur in modo innocente, con l'amica Lizzy in presenza di Tessa; il ragazzo si dimostra incapace di intavolare un discorso profondo nel momento della discussione, quando arriva lo scontro (verbale) si limita a frignare. Tessa è molto più esigente con sé stessa, almeno all'apparenza, sembra non dar peso al passato ed essere molto concentrata sul suo presente nonostante si intuisca la mancanza di un qualcosa, riesce per un momento ad avvicinarsi ad Adam che in maniera evidente non è in grado di affrontare il rapporto con l'altro con serenità. Le mancanze relazionali, forse anche di prospettiva, di questi giovani sono narrate, recitate e fatte recitare dalla Zauhar con grande naturalezza, l'impressione che si ha guardando This closeness è che questo sia un film poco costruito e dove lo è non lo lascia vedere, portando verso lo spettatore un senso di verità molto efficace e diretto. Si conferma così quella di Zauhar una voce interessante per quel che riguarda il panorama giovane e alternativo al cinema, forse ancora un laboratorio per ora che dovrà superare la prova, se mai se ne presenterà l'occasione, di una realizzazione più articolata e magari costruita su un budget più consistente. Da tenere d'occhio.

martedì 15 ottobre 2024

L'UOMO NELL'OMBRA

(The ghost writer di Roman Polanski, 2010)

Prendiamola un poco larga e partiamo da Robert Harris, scrittore inglese da non confondere con l'omonimo (per cognome) Thomas, noto a tutti per essere il creatore del personaggio di Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti (e non solo). Robert invece ha scritto alcuni thriller degni di nota come Fatherland (ve lo consiglio) ed Enigma, entrambi tra i suoi primi e lodati lavori, e anche il più recente Il ghostwriter, romanzo da cui questo film è tratto. È proprio Robert Harris, autore del soggetto di questo L'uomo nell'ombra a collaborare con Roman Polanski alla stesura della sceneggiatura che sarà poi lo scheletro per la realizzazione di questo thriller politico dai tratti che oscillano tra il moderno (per i temi trattati molto vicini all'attualità dei suoi anni) e il classico (per quanto concerne struttura e narrazione). Il film di Polanski, autore che dall'alto dei suoi capolavori pare essere ormai inattaccabile, venne all'epoca della sua uscita per lo più incensato da una critica che affastella (giustamente) letture sulla contemporaneità andando così ad appiccicare al film un'etichetta di "masterpiece" che pare, a parer mio, almeno un poco esagerata fermo restando il buon esito di un film che vive di ottimi momenti, dovuti alle grandi capacità di regista e costruttore di Polanski, ma anche di fasi di sviluppo non così interessanti e coinvolgenti che, insieme alle prime, vanno a formare un film sì piacevole e con ottimi spunti di riflessione ma in fin dei conti non proprio memorabile.

Il "ghost writer" di un noto politico britannico autoesiliatosi negli Stati Uniti d'America a Martha's Vineyard viene trovato morto, annegato al termine di un viaggio in traghetto. Data la necessità di far uscire in tempi brevi un'autobiografia del politico, l'ex premier britannico Adam Lang (Pierce Brosnan), l'entourage dell'uomo e il personale della casa editrice contattano un nuovo ghost writer (Ewan McGregor), uno scrittore che in realtà fino a quel momento non si è mai occupato di politica, una materia non troppo nelle sue corde, ma che sa come imbellettare i fatti a uso e consumo del pubblico e arrivare al cuore della gente puntando più sulle piccole cose che fanno l'uomo piuttosto che sugli eventi politici nei quali questo è stato coinvolto. Sotto quest'ultimo punto di vista non tira una bella aria per Lang, accusato di servilismo nei confronti degli U.S.A. e di aver autorizzato metodi di tortura nei confronti di sospetti terroristi sotto le pressioni della C.I.A. e della Presidenza americana. Nonostante una vaghezza persistente sulla vicenda della morte del suo predecessore, spinto dal suo agente Rick (Jon Bernthal) e dal lusinghiero compenso previsto per la revisione dell'opera (già imbastita dal suo predecessore) il ghost writer accetta l'incarico. Non appena le cose si mettono in moto e lo scrittore è in procinto di trasferirsi nei pressi della villa di Lang sull'isola di Martha's Vineyard per lavorare a contatto con quest'ultimo e con il suo entourage, diversi piccoli episodi ammantano di inquietudine e pericolo l'intera vicenda tanto da far nascere dei sospetti nel ghost writer sulla buona fede di Lang e di tutta la sua squadra, a cominciare da Ruth (Olivia Williams), moglie di quest'ultimo, e dalla sua assistente Amelia Bly (Kim Cattrall).

Se preso come esempio di thriller politico a sé stante L'uomo nell'ombra non fa di certo gridare al miracolo; quella sottile inquietudine strisciante è capace di arrivare allo spettatore ma lo sviluppo, a parte alcune sequenze molto ben riuscite (la prima scena, le vedute sulla spiaggia, il bellissimo finale), paga anche alcune scelte facili come le scoperte repentine arrivate senza sforzo alcuno a conoscenza di quello che a conti fatti è un uomo comune, un dilettante e non certo un investigatore, o come la trovata abusatissima del giochetto finale sul manoscritto; il film comincia ad acquisire vero interesse quando si inizia a farlo dialogare con l'attualità di quegli anni, qui troviamo almeno due temi interessanti. Il primo, come già detto all'epoca, è la vicinanza del racconto alle vicende pubbliche dell'ex Primo Ministro inglese Tony Blair tacciato anch'egli di troppo filoamericanismo, in quest'ottica il film acquista oltre che interesse anche valore nella visione spietata e sfiduciata di una politica ormai scollata dai bisogni reali dei cittadini e mossa da interessi elitari per soli addetti ai lavori. Il secondo tema d'interesse ricorre nel percepire il senso di chiusura e claustrofobia che il protagonista si trova a vivere nella villa di Lang in parallelo alla situazione dello stesso Polanski all'epoca in stato di arresto domiciliare in Svizzera, situazione nella quale il regista si dedicò al montaggio del suo film e che probabilmente ha influito non poco nella resa di alcune atmosfere presenti ne L'uomo nell'ombra. Teso il giusto, ben girato, gradevole, Polanski però farà molto meglio l'anno successivo con l'ottimo Carnage.

venerdì 11 ottobre 2024

MIO ZIO

(Mon oncle di Jacques Tati, 1958)

Monsieur Hulot è un personaggio di fantasia, sorta di alter ego del regista francese Jacques Tati; questo signore allampanato, un po' goffo, fumatore di pipa, portatore di cappello e amante della bicicletta compare in diversi film di Tati ed è dallo stesso interpretato, le sue peripezie si possono ammirare in Le vacanze del signor Hulot, film del 1953, nel qui descritto Mio zio (1958), forse il film più celebre e premiato tra quelli realizzati da Tati, in Play Time - Tempo di divertimento (1967) e in Monsieur Hulot nel caos del traffico (1971). Il personaggio divenne talmente celebre in Francia (e oltre) da guadagnarsi anche una curiosa apparizione nel film di François Truffaut Domicile conjugale da noi tradotto con un più farsesco Non drammatizziamo... è solo questione di corna. La celebrità di Monsieur Hulot è dovuta in particolar modo a Mio zio (non a mio zio, al film Mio zio, quello di cui vorrei parlare oggi), pellicola che alla trentunesima edizione dei premi Oscar vinse la categoria per il "miglior film straniero" battendo tra l'altro anche il nostro I soliti ignoti di Monicelli, mentre a Cannes si portò a casa il Premio della giuria. Se Hulot è quasi una gloria nazionale per i cugini d'oltralpe Tati non è da meno, anche lui omaggiato da altri autori, da recuperare lo splendido film d'animazione di Sylvain Chomet, L'illusionista, costruito su un abbozzo di sceneggiatura inedita dello stesso Tati che presentava qualche sentore autobiografico, omaggio da non perdere. Ma torniamo a Mio zio (non fatemi ripetere la battutaccia di prima...).

Il piccolo Gérard Arpel (Alain Bécourt), nove anni, vive con i suoi genitori in una casa modernissima. Siamo ancora negli anni 50 ma papà Arpel (Jean-Pierre Zola), proprietario di una fabbrica all'avanguardia che produce materiale plastico, ha deciso di andare a vivere in un quartiere in via di sviluppo in una casa avveniristica. L'abitazione è di un colore uniforme, geometrica nell'aspetto, ordinatissima e minimale all'interno, dotata di un impeccabile giardino con al centro una fontana a forma di pesce che a comando sputa acqua dalla sua bocca metallica e da altre mille diavolerie al passo con i tempi, anzi finanche precorritrici degli stessi. Papà Arpel non ha molto tempo per il piccolo Gérard, tra i due corre una distanza generazionale che sembra incolmabile, mamma Arpel (Adrienne Servantie) è sempre indaffarata per tenere pulita e in ordine la casa, per mostrarla ai vicini e un poco vantarsene, nell'accendere e spegnere di continuo la fontana a seconda delle visite (per risparmiare si immagina), nello star dietro a tutte le diavolerie di questa modernità senz'anima. Gérard, va da sé, quindi si annoia. Per fortuna c'è lo zio Hulot che spesso si prende cura del bambino, lo porta in giro, lo fa giocare per strada con gli altri monelli della sua età, gli permette di sporcarsi e mangiare deliziose porcherie, in generale di assaporare la vita di un'epoca che sembra ormai al tramonto e che Monsieur Hulot (Jacques Tati) non ha nessuna intenzione di abbandonare in favore di quella più fredda e impersonale che sembra prospettarsi da lì a poco.

Jacques Tati, come è nel suo stile, struttura il suo film con pochi dialoghi e lascia il compito di esplicare le situazioni a immagini e suoni, il suo Hulot praticamente non parla mai, è qui veicolo di uno stile di vita più antico e più umano, genuino e soprattutto vivace e conviviale rispetto a quello che la vita moderna impone e che, volontariamente o meno, i suoi genitori stanno imponendo al piccolo Gérard che, vista la tenera età, di tutto ha bisogno fuorché di un ambiente glaciale e di relazioni fredde. Così, quando il bambino è con lo zio, si assiste al ritorno a quella vita di strada (ricordiamoci che siamo a fine anni 50) dove i bambini tiravano scherzetti ai passanti, si sporcavano, facevano merenda tutti insieme, avevano quei contatti umani che la visione di Tati aveva già predetto che in qualche misura sarebbero andati persi in un tempo futuro (e purtroppo il regista ci aveva visto lungo). Dal punto di vista scenografico (scenografie di Henri Schmitt) c'è un bel contrasto tra la maison futurista degli Arpel e la casa di Hulot sita in un quartiere popolare, strade in terra battuta, vicini rumorosi, bambini gioiosamente invadenti, scale, passaggi, parapetti da percorrere per raggiungere il proprio nido, tutto meno funzionale ma decisamente più romantico. È questo uno specchio della differenza tra uno stile di vita semplice, magari meno organizzato ma più sentimentale, è una modernità scandita da un progresso che già nei Cinquanta metteva davanti ai contenuti l'immagine, l'apparire. Gli Arpel hanno una bella casa da mostrare, un giardino impeccabile, l'auto nuova, l'ultima diavoleria in fatto di portoni basculanti, ma stringi stringi il loro bambino preferisce la compagnia dello zio alla loro, e quindi a che pro tutto ciò? C'è già un bel pensiero da parte di Tati, senza mai voler essere passatista, su quanto sia opportuno o meno abbracciare modernità e progresso a ogni costo, in tutti gli aspetti della vita; mentre gli incontri degli Arpel con i vicini sono per lo più freddi, quelli di Hulot con perfetti sconosciuti (vedi la scena della caduta del passante nel fiume) sono il viatico per nuove amicizie, magari anche occasionali, baldorie, bevute, occasioni conviviali delle quali si bea, senza annoiarsi finalmente, anche il piccolo Gérard. A quest'ultima visione di vita si oppone la nascente società dei consumi: lavorare, produrre, consumare (cose inutili per lo più) e tornare a lavorare; papà Arpel, invidioso dell'affetto che il figlio prova per lo zio, tenterà a più riprese di inserire Hulot in questo meccanismo deumanizzante. Per fortuna, il finale ce lo dimostra, Hulot resiste e, almeno in questo film, riesce a fare scuola tirando fuori del sangue da quella che all'apparenza sembrava una rapa. Non male per questo strambo lungagnone dal cuore tenero.

mercoledì 9 ottobre 2024

I SEGRETI EROTICI DEI GRANDI CHEF

(The bedroom secrets of the Master Chefs di Irvine Welsh, 2006)

Nel 2006, anno di uscita di questo I segreti erotici dei grandi chef, Irvine Welsh era un autore già affermato che poteva vantare in curriculum alcune di quelle che ancora oggi sono tra le sue opere più famose, a partire da quella sorta di trilogia edimburghese che tornava a più riprese sugli stessi personaggi e su un piccolo mondo condiviso che si sviluppava principalmente attorno al Leith Walk, periferia nord di Edimburgo, un trittico formato dal capostipite Trainspotting, poi portato al cinema con successo dal regista Danny Boyle, dal capolavoro generazionale Colla e infine dal licenzioso Porno (non che gli altri fossero poi proprio scritti pudìci). I segreti erotici dei grandi chef è uno dei romanzi del primo periodo di Welsh (sono passati quasi vent'anni ormai dalla sua uscita) a non abbracciare una narrazione collettiva e a concentrarsi su pochi personaggi principali, qui sono due, il protagonista Danny Skinner e una sorta di suo alter ego, il ragazzo il cui destino è indissolubilmente legato al suo, il giovane Brian Kibby, non i soliti spurghi di corea che Welsh ci ha insegnato ad amare nel corso degli anni e delle pagine ma a ogni modo due edimburghesi appartenenti alla working class, seppure non proprio di quelli ai margini o ai più bassi livelli della classe lavoratrice. Riprendendo temi e luoghi noti e infondendo un tocco di novità al suo raccontare Welsh infila con grazia il suo sesto romanzo (e c'erano già state un paio di raccolte di racconti: The acid house ed Ecstasy).

Danny Skinner è un uomo ancora giovane e parecchio piacente che lavora per l'ufficio d'igiene di Edimburgo nella divisione che si occupa di ispezionare le cucine dei ristoranti della capitale scozzese. Competente ma a volte umorale, condizione forse causata da una dipendenza da alcool non ancora diagnosticata o forse dal fatto che Danny è cresciuto senza un padre, un padre del quale non sa nulla vista la reticenza a parlarne da parte della madre Beverly, una ex punk che oggi gestisce un negozio di parrucchiera, Danny non manca di infliggere pesanti sanzioni anche ai più noti chef della cucina edimburghese, come il grande (e grosso) De Fretais, autore del bestseller I segreti erotici dei grandi chef e massima autorità di una cucina da incubo. Brian Kibby è invece il classico bravo ragazzo, amorevole con la bella sorella Carolyne, rispettoso della madre e preoccupato per la salute del padre ricoverato in ospedale. Brian è un po' il classico sfigatello, impacciato con le ragazze, timido, si accompagna con un gruppo di nerd che ama i videogiochi e le convention di Star Trek, ha un rifugio in casa dove cura in maniera maniacale il plastico di una ricostruzione dominata da un trenino elettrico imbastita tempo addietro dal padre, un padre il quale, Brian ne è convinto, non apprezza il ragazzo fino in fondo. Quando Kibby viene assunto nello stesso ufficio di Skinner il veterano inizia a provare una forte antipatia per quel ragazzo così differente da lui, alcuni episodi fortuiti poi trasformano questa antipatia addirittura in una sorta di odio, una situazione che avrà evoluzioni per nulla aspettate...

Per alcuni versi I segreti erotici dei grandi chef può essere considerato un libro anomalo all'interno della produzione di Irvine Welsh in quanto fa qui capolino, in maniera anche prepotente si potrebbe azzardare, l'aspetto fantastico della narrazione che poco si era visto nei libri precedenti dello scrittore scozzese. Usando questo espediente Welsh, con la sua solita abilità, mette in campo diversi temi di peso, alcuni dei quali sono anche dei classici della letteratura, basti pensare (come accennato da molti) alla questione del doppio che ovviamente, senza voler scomodare nomi e titoli più che celebri, è stata esplorata nella narrativa in ogni epoca e a ogni latitudine. La dualità prende corpo nel rapporto tra Danny e Brian, da principio con una semplice relazione di conoscenza e rapporto tra colleghi, in seguito con una connessione sempre più profonda che porterà le azioni di uno ad avere conseguenze, anche fisiche, sulla vita e sulla condizione dell'altro, per poi evolversi ancora in qualcosa di diverso sul finale (che non racconteremo) del libro. Tornano inoltre i temi cari al nostro edimburghese preferito come la dipendenza, qui più da alcool che da droghe (che comunque non mancano), il sesso e quell'attitudine a sprazzi di linguaggio diretto e volgare al quale chi conosce lo scrittore da tempo è già più che abituato; a dispetto del titolo infatti I segreti erotici dei grandi chef pare decisamente più moderato di altri scritti di Welsh. Centrale nel romanzo è anche il rapporto con i padri: Danny il suo non lo ha mai conosciuto ed è questa una cosa che gli rode dentro, si susseguono gli scontri con una madre che si rifiuta di parlare, la ricerca di questo genitore sconosciuto sarà centrale nell'evoluzione del romanzo e anche, in qualche modo, nel rapporto con Brian che invece col suo di padre ha un rapporto particolare che forse nemmeno lui riesce a inquadrare fino in fondo, un padre buono ma che forse con lui non è mai stato del tutto sincero. I segreti erotici ha il sapore di una variante all'interno del percorso di Welsh, magari non piacerà a tutti ma il nucleo caldo che compone lo stile dello scrittore scozzese c'è tutto ed è ben presente, una scappata a Leith in fondo la si fa sempre volentieri, non sarà di certo questo giro a farvi cambiare idea.

sabato 5 ottobre 2024

AMERICAN HUSTLE - L'APPARENZA INGANNA

(American hustle di David O. Russell, 2013)

American hustle è forse l'opera di David O. Russell che ha riscosso maggior consenso (insieme a Il lato positivo) e ha creato il più alto tasso di entusiasmo preventivo, forte anche di un cast di primissimo piano che non poteva che far sperare per il meglio, un cast all'interno del quale spiccano, oltre al cameo dell'immarcescibile Robert De Niro (che qualche scelta pessima negli anni l'ha fatta pure lui), Bradley Cooper, Amy Adams, Christian Bale, Jeremy Renner e Jennifer Lawrence. Diciamo che con gente del genere al tuo servizio metà del lavoro te lo trovi già fatto. Il resto, più che la regia di David O. Russell, comunque sempre indovinata (e in qualche caso anche citazionista), lo fa una ricostruzione d'epoca e d'ambiente splendida e ricercata, una vera marcia in più per un film che nel suo complesso risulta forse meno esplosivo di quello che avrebbe potuto essere e trova il suo fulcro di maggior interesse nelle relazioni interpersonali tra i principali protagonisti. I costumi di Michael Wilkinson sono favolosi (perse all'Oscar il confronto con lo sfarzosissimo Il grande Gatsby di Luhrmann), il gruppo che ha lavorato alle scenografie ha fatto un lavoro per il quale da solo vale la pena di vedere il film. Sulla sceneggiatura, nomination all'Oscar anch'essa, a parere di chi scrive si poteva lavorare ancor meglio, il film comunque è andato molto bene ed è piaciuto molto, quindi bene così.

Irving Rosenfeld (Christian Bale) è un truffatore dalla parlantina svelta e dall'aspetto posticcio, pancia gonfia e riporto evidente, convince i suoi polli investitori ad affidargli 5.000 dollari che lui trasformerà per loro (e no, non lo farà) in 50.000 con un sistema non troppo chiaro. Irving è sposato con la bella ma instabile e imprevedibile Rosalyn (Jennifer Lawrence) e si prende cura con amore del figlio che lei ha avuto da una precedente relazione. Quando Irving incontra Sydney Prosser (Amy Adams) scatta un'attrazione sconfinata per una donna tanto bella ed elegante quanto furba e intelligente; grazie a Sydney il giro di affari (illeciti) di Irving incrementerà fino ad arrivare a una certa consistenza e la vita dell'uomo cambierà grazie a un amore profondo e reciproco che farà di Irving e Sydney una bellissima coppia con terzo incomodo, la Rosalyn di cui sopra. I due vengono però pizzicati e incastrati dall'agente dell'F.B.I. Richie DiMaso (Bradley Cooper) che vorrebbe utilizzare la coppia e le loro capacità per arrivare a pesci più grossi e a politici con conoscenze ambigue come il sindaco di Camden nel New Jersey Carmine Polito (Jeremy Renner). DiMaso è mosso però da un'ambizione molto pericolosa che renderà la vita di Irving e Sydney decisamente pericolosa, inoltre tra quest'ultima e DiMaso sembra scattare qualcosa...

"Alcuni di questi fatti sono realmente accaduti". Così si apre American Hustle che altro non è se non una messa in finzione, parziale e riveduta, dell'operazione dell'F.B.I. che va sotto il nome di Abscam che a partire dal 1978, iniziando come indagine sul traffico internazionale di opere d'arte, si allargò fino ad arrivare ad accuse di corruzione nei confronti di diversi politici di primissimo piano degli Stati Uniti toccando anche membri del Congresso, del Senato e sindaci eletti, una serie di personalità che vennero in seguito tutte condannate per i loro crimini. David O. Russell sceglie l'approccio divertente alla materia, non segue pedissequamente gli avvenimenti della reale vicenda, carica l'importanza di alcuni personaggi (la Rosalyn della Lawrence) e estremizza alcuni look del periodo donando ad American hustle un tocco comico surreale, il film ne guadagna in leggerezza ma forse risulta così meno ficcante di quanto avrebbe potuto essere. Rimangono però ottime costruzioni di dinamiche interpersonali come quella dell'amicizia tra Irving e Carmine, il triangolo, anzi quadrangolo, tra Irving, Sydney, Richie e Rosalyn, ma soprattutto il passo a due tra un bravo Christian Bale e una Amy Adams bellissima e più in forma che mai, sia nella veste di attrice si come bellezza tout court. È proprio il rapporto tra Irving e Sydney il motore che muove il film e attrae a esso lo spettatore, il rapporto a fasi alterne tra i due protagonisti principali è scritto con un altro passo rispetto a come viene trattata la vicenda in sé, meno interessante delle beghe sentimentali di tutti i protagonisti; con questo aspetto e con una messa in scena che è un piacere per gli occhi Russell innalza il livello di un film che avrebbe altrimenti potuto perdersi tranquillamente nel mucchio di proposte a tema criminoso e simili rigettate a getto continuo dal cinema americano, American hustle riuscirà invece così a farsi ricordare pur rimanendo ben lontano dal poter essere considerato un capolavoro del cinema moderno.

mercoledì 2 ottobre 2024

L'AMICO DI FAMIGLIA

(di Paolo Sorrentino, 2006)

L'amico di famiglia è l'ultimo film girato da Paolo Sorrentino prima dell'esplosivo successo di critica e pubblico arrivato con l'uscita de Il divo due anni più tardi, film spartiacque che ha consacrato la popolarità e il talento del regista napoletano presso il grande pubblico che da lì in avanti non ha mancato di seguire con curiosità e una buona dose d'attesa le nuove prove di quello che oggi è uno dei nostri registi più rappresentativi. Eppure gli esiti del lavoro di Sorrentino erano ottimi già da prima, a dimostrarlo anche (e non solo) questo L'amico di famiglia, film all'interno del quale le idee visionarie e il talento compositivo, di inquadrature e sceneggiatura, da parte di Sorrentino sono già ben evidenti seppur in qualche modo più misurate e ancora non esplose rispetto a quanto il regista ci farà poi vedere in futuro. Pensiamo per esempio alla scena iniziale: inquadratura ravvicinatissima su due occhi stanchi, occhiaie peste e gonfie, sono occhi vecchi su tratti rugosi; uno zoom all'indietro su musica di Theo Teardo e compare un volto intero incorniciato da un velo; è una vecchia suora. L'inquadratura si allarga, la suora mormora una preghiera, si vede il mare e la spiaggia nella quale la suora è sepolta, spuntano solo la testa giaculante e il crocefisso che porta al collo poggiato sulla sabbia, la camera si alza verso il cielo, si allontana e si riabbassa alle spalle di due loschi figuri intenti impassibili a osservare la suora. Non è da meno la successiva presentazione del protagonista, ma non sveliamo troppo a beneficio di chi ancora non avesse visto il film. Queste sequenze sono promesse; sono promesse di applicazione, sono promesse di una certa classe all'opera non appannaggio di tutti, elementi che andranno poi ad affinarsi e a crescere nel tempo portandoci al Sorrentino di oggi, a quello dei suoi più grandi e meritati successi.

Geremia de' Geremei (Giacomo Rizzo) vive in una situazione di discreto squallore in una triste località dell'Agro Pontino insieme alla madre disabile. Geremia è un sarto con una sua piccola attività che non è, come verrebbe naturale pensare, quella di confezionare abiti, bensì quella di prestare piccole somme di denaro alle persone in difficoltà della sua zona. Geremia de' Geremei è un usuraio. Nel ricoprire questo ruolo ricercato e disprezzato in egual misura Geremia mantiene un'immagine superficiale di interesse verso i suoi assistiti e le loro famiglie pre(te)ndendo a conti fatti il ruolo di "amico di famiglia", utile e servizievole alla bisogna ma spietato nei momenti di difficoltà. Tra i vari "clienti" di Geremia c'è anche Saverio (Gigi Angelillo), uomo povero in canna che deve far fronte alle spese del matrimonio della bellissima figlia Rosalba (Laura Chiatti) e alle pressioni dei consuoceri affinché la celebrazione di questa unione sia quantomeno dignitosa. Così, memore di tutte le umiliazioni subite in vita, Saverio tenta di evitare almeno questa e si rivolge a Geremia, uomo che facilmente può provocare repulsione e che non mancherà di irritare la ribelle Rosalba. Tra le varie vicende che Geremia seguirà in questo periodo, aiutato dal sodale Gino (Fabrizio Bentivoglio), un uomo col mito dell'America country, sarà proprio quella del matrimonio di Rosalba a muovergli dentro qualcosa, desiderio più che altro, perché Rosalba è davvero irresistibile, una di quelle donne capaci di far perdere la testa a chiunque, anche a un opportunista venale come Geremia.

Nel costruire il suo protagonista, come già fatto in precedenza e come farà poi in seguito, Sorrentino pone cura e attenzione a ogni particolare, sia estetico (l'abitazione buia, la fascia con le patate, la zoppia, la busta di plastica, etc...) sia caratteriale e comportamentale. Tanto era misurato il Titta Di Girolamo interpretato da Toni Servillo ne Le conseguenze dell'amore tanto è dialetticamente esuberante e affascinante Geremia de' Geremei, fatto sostanza dalla prova superba di un Giacomo Rizzo efficacissimo nel rendere al meglio tutte le contraddizioni di un personaggio intriso di egoismo e crudeltà ma capace di veicolare anche la pena dell'emarginazione, dell'esclusione e della solitudine. Geremia è portatore di un sapere linguistico sempre pronto, fatto di massime e affermazioni ficcanti, sfoggiate sempre al momento giusto, un uomo sveglio in contrapposizione al più ingenuo Gino (almeno a una prima lettura) che in testa ha solo l'America degli spazi sconfinati, un sogno lontano e poco realizzabile. Sfaccettato il giusto il personaggio della Chiatti, vittima e femme fatale in qualche modo, qui ancora un poco acerba ma con il phisique du role perfetto per il suo personaggio. Quello di Geremia è un personaggio stratificato, respingente ed esecrabile per il modo in cui conduce la sua vita, non manca tuttavia, soprattutto sul finale, di muovere una pietas contraddittoria nei suoi confronti in quanto bersaglio (lo si può anche solo dedurre guardandolo) di un'esclusione sistematica e di una negazione da parte degli altri (delle altre) alle umane passioni, un diniego di affetti che lascia intuire la vittima all'interno del carnefice. Nel triste scenario di un Agro Pontino dalle poche bellezze, una delle quali è indubbiamente Rosalba, Sorrentino riesce a ritagliare geometrie e scenari in perfetta simbiosi con gli eventi e con la colonna sonora dalla quale emerge la passione per la musica del regista. I primi tre film di Sorrentino costituiscono un piccolo corpo d'opera che forse gode di meno notorietà rispetto a ciò che è venuto dopo ma che non ne teme il confronto per valore, sono questi film da riproporre e rivedere in modo che anche chi ancora non li conosce possa ritrovarli e apprezzarli quanto (e magari più) di altre sue opere più recenti.