sabato 31 luglio 2021

SI ALZA IL VENTO

(Kaze tachinu di Hayao Miyazaki, 2013)

Le vent se leve, il faut tenter de vivre!

Queste parole tratte da Le cimitière marin di Paul Valery sono il giusto accompagnamento alla vicenda di Jiro Horikoshi, giovane appassionato di aeroplani che ne progetterà diversi per l'aviazione giapponese tra i quali il più noto è lo Zero, velivolo che deve la sua fama all'utilizzo durante il secondo conflitto mondiale. Si è detto già all'epoca dell'uscita nelle sale italiane di Si alza il vento (tenitura di quattro giorni) come quello che era stato annunciato come l'ultimo film di Hayao Miyazaki prima del suo ritiro dalle scene fosse anche il suo film più contraddittorio, mettendo in scena l'età giovanile di un personaggio innamorato del volo e della progettazione e che suo malgrado, dato il periodo storico, contribuì allo sforzo bellico mettendo a disposizione del suo Paese aerei che si rivelarono armi mortali, la scelta di Miyazaki, da sempre ecologista e pacifista (innamorato anche lui degli aerei), di raccontare la figura di Horikoshi è stata vista come ambigua, ambiguità che guardando il film però non traspare affatto. Non c'è nessuna passione per la guerra nei protagonisti del film, né in Horikoshi, né nel collega e amico Honjo, né nei vertici della Mitsubishi, azienda per cui Horikoshi realizzerà i suoi aeroplani. E così per i protagonisti di questa storia il vento si alza, è il vento del cambiamento, il vento della Storia del secolo breve che costringerà il frutto delle loro passioni a prendere la via della guerra, e nonostante tutto bisogna pur tentare di vivere, far fruttare quel decennio di creatività ed energie che pare venga messo a disposizione di ogni uomo, come ricorda in sogno a Jiro il suo idolo, il progettista italiano (in realtà nato in Tirolo quando ancora era dominio austriaco) Giovanni Battista Caproni. Bisogna tentare di vivere il sogno, nonostante il terremoto devastante, la guerra, la malattia delle persone care, seguire il vento per quel che si può.

Jiro Horikoshi è un ragazzino appassionato di aerei, il suo idolo è il costruttore italiano Giovanni Battista Caproni, purtroppo la sua miopia accentuata gli impedisce di diventare un pilota, così Jiro si dedicherà allo studio degli aerei e poi alla loro progettazione. La storia segue la vita di Jiro dagli anni 20 ai 40 del secolo scorso, sono anni pieni di difficoltà per il Giappone: la crisi economica di fine anni 20, il terremoto del '23, le due guerre, in particolare la Seconda Guerra Mondiale. Con questi eventi sullo sfondo Jiro studia, sogna, progetta, si innamora della giovane Nahoko e con lei vivrà anche il dramma della sua malattia, la ragazza è infatti affetta da tubercolosi. Dopo gli studi l'assunzione alla Mitsubishi dove Jiro si distingue in fretta come progettista di talento, ci saranno poi i confronti con l'industria europea decisamente più avanti con le innovazioni, fino alla creazione del modello perfetto, lo Zero che renderà orgoglioso il Giappone ma che purtroppo sarà anche un'arma bellica latrice di morte.

Per la prima volta il maestro Miyazaki affronta la Storia, cosa che in seno allo Studio Ghibli finora aveva fatto Takahata (Una tomba per le lucciole), donando al pubblico proprio quei suoi sentimenti contraddittori, da una parte la vergogna per la scelte operate dal suo Paese durante il secondo conflitto mondiale, l'avversione per la guerra e per ogni forma di violenza, dall'altra l'amore e la passione per quelle opere di ingegneria utilizzate purtroppo per arrecare dolore. C'è una sorta di fatalismo di fronte agli eventi, nella figura di Jiro, ma anche in quelle di Nahoko e di Honjo, legate all'impotenza di fronte ai tempi che ci è dato vivere, anni magari difficili, crudeli e che pure è necessario vivere e percorrere, ha una grande profondità questo Si alza il vento, illuminato da un'animazione d'eccezione che in realtà per le opere di Miyazaki eccezione non è, il verde e il blu dei suoi film sono sempre rasserenanti, resi qui più delicati dalle splendide partiture di Joe Hisaishi. E alla fine Jiro è un po' Miyazaki ma è anche un po' il Giappone, è in parte anche Tatsuo Hori, il romanziere che scrisse il libro omonimo e al quale si deve la parte sentimentale del racconto non ispirata alla vera vita di HorikoshiSi alza il vento è forse tra i film più ambiziosi e completi del maestro, non l'ultimo fortunatamente a sentire le voci del suo ritorno a lavoro, al momento con il progetto dal titolo (forse) provvisorio How do you live? che tutti noi aspettiamo con grande curiosità.

venerdì 30 luglio 2021

OLD SOUTH

(di Pasquale Ruju e Giampiero Casertano, 2021)

Una volta l'anno fa piacere tornare tra le tavole giganti del sud ovest degli Stati Uniti in compagnia di Tex e dei suoi pards, in questo caso specifico il solo Kit Carson. Il Texone continua a essere un appuntamento speciale anche per quei lettori che come me hanno da tempo abbandonato la frequentazione con il Texas Ranger più amato nel nostro paese (in altri lidi c'è sempre Chuck Norris da tenere in considerazione), la possibilità di vedere all'opera autori solitamente estranei alle vie battute dal Nostro è sempre un'occasione preziosa; se purtroppo diradano i grandi artisti internazionali che accettano di sobbarcarsi l'impresa titanica, in casa nostra non mancano certo gli autori capaci di tenere in mano la matita con grande merito, per quest'anno l'onore è toccato a Giampiero Casertano, già disegnatore Bonelli per Dylan Dog, Martin Mystère e copertinista di Nick Raider. La sceneggiatura tocca questa volta a Pasquale Ruju, scrittore verso il quale sento un feeling particolare e che difficilmente mi delude.

Old South prende le mosse ai tempi della Guerra di Secessione, siamo nel 1864 sul confine tra Arizona e New Mexico, per gli Stati Confederati del Sud le cose si stanno mettendo male, lo squadrone di soldati sudisti comandato dal Capitano Carraway con l'aiuto del Tenente Dubbs e del Sergente Mallory sta attraversando il territorio Apache tirandosi dietro un cannone colmo fino all'orlo di monete d'oro, un bottino che servirà a garantire agli uomini di Carraway un più che dignitoso futuro una volta che i soldati dell'Unione avranno vinto definitivamente la guerra. Mentre una piccola delegazione di soldati nasconde l'oro del cannone per servirsene una volta che le acque si saranno calmate, gli apache attaccano il piccolo contingente che si porterà nella tomba il luogo segreto della sepoltura dell'oro. Diversi anni più tardi, sfuggiti a un attacco indiano, Tex e Carson approdano nella cittadina di Old South, all'apparenza un luogo tranquillo dove Carraway è il Primo Cittadino, Dubbs lo sceriffo e Mallory il suo vice. Old South è effettivamente una cittadina prospera e tranquilla, gli abitanti si difendono dagli apache, almeno da quelli bellicosi (che non sono la maggioranza) e si dedicano ai loro lavori, in realtà il paese è stato fondato nei pressi del luogo in cui è stato sepolto l'oro nella speranza di ritrovarlo, con il passare degli anni però Carraway si è sinceramente affezionato alla sua cittadina e ai suoi abitanti, ritrovare l'oro non gli preme più di tanto, ma non per tutti è così, in vista poi c'è il rischio di una nuova guerra indiana, cosa che Tex e Kit sono decisi a scongiurare.

La matita di Casertano è bella potente, neri decisi dove servono, linee marcate, segni spessi il giusto, volti molto caratterizzati, tutti con segni distintivi, forse il meno interessante è proprio quello di Tex che per forza di cose deve inserirsi nel solco di una tradizione quasi secolare ormai, Casertano si diverte di più con Carson e con gli altri coprotagonisti della storia sui quali può sfogare maggiore creatività. Ottimo l'inserimento dei protagonisti negli spazi, paesaggi con un senso della profondità accentuato, interni e vedute urbane precise e dettagliate, è un disegno quello di Casertano che dà un senso di compiutezza a ogni tavola. Ancora una volta la sceneggiatura di Ruju si legge molto bene e intrattiene senza fatica né punti morti, il trentasettesimo Texone si rivela così un altro bel viaggio nei territori del vecchio west.

mercoledì 28 luglio 2021

SENZA RIMORSO

(Without remorse di Stefano Sollima, 2021)

Solo per appassionati del genere action e magari nemmeno tutti. Senza rimorso è un film d'azione muscolare, ben girato e con diverse trovate di regia di Sollima niente affatto male, è nello sviluppo però tremendamente convenzionale e risaputo che la sceneggiatura va a inficiare ciò che di buono ha costruito il regista con la macchina da presa. Senza rimorso è uno di quei film che porta a pensare che il genere d'azione debba essere per forza di cose considerato un filone minore nella produzione cinematografica (soprattutto se i parametri di giudizio adottati sono quelli di qualità e contenuti e non quelli riferiti agli incassi), assunto tra l'altro non sempre valido, basti vedere ottime saghe action come quella di Jason Bourne per esempio o classici del genere come i primi Die Hard e altro ancora. Rimane il fatto che per innalzarsi dalla media e garantire almeno del sano divertimento il film d'azione deve necessariamente essere ben costruito e presentare una buona dose di originalità o, in alternativa, un approccio ironico o esageratamente tamarro (vedi John Wick per citarne uno), Senza rimorso purtroppo non fa nulla di tutto ciò, Taylor Sheridan (che ha sicuramente fatto di meglio in passato) infiocchetta uno script da minimo sindacale lasciando a Sollima il compito di rendere il tutto più godibile, il nostro connazionale sigla un ottimo lavoro che non basta purtroppo a rendere il film interessante.

John Kelly (Michael B. Jordan) fa parte di un team di Navy Seal impegnato in un'azione di recupero in Siria, a coordinare l'operazione c'è Robert Ritter (Jamie Bell) della C.I.A., la squadra al comando di Karen Greer (Jodie Turner-Smith) trova più opposizione del previsto, si imbatte infatti in un'equipe militare russa e in un traffico d'armi non preventivato, da subito a Kelly sorgono dubbi sul coinvolgimento di Ritter in quella che a tutti gli effetti è un'operazione nascosta dalla missione ufficiale. Rientrati a casa alcuni dei membri che componevano la squadra dei Seal vengono assassinati, il tentativo viene fatto anche con Kelly che però è un osso duro e sopravvive, nell'agguato però perdono la vita la moglie incinta (Lauren London) e la bimba che porta in grembo; ancora una volta sono coinvolti soldati russi. Appresa la notizia il Comandante Greer, insieme a Ritter e al sottosegretario alla Difesa Thomas Clay (Guy Pierce) studiano una strategia di risposta da attuare su territorio russo. John Kelly, impazzito dal dolore e ormai fuori controllo troverà il modo di essere della partita.

La cosa più interessante del film è la presenza di Jamie Bell, attore ormai adulto che più o meno tutti abbiamo amato nei panni di Billy Elliot, e questo è tutto dire. Purtroppo di accattivante c'è davvero poco nello sviluppo di Senza rimorso (mi sforzo di evitare facili battute sul titolo), dopo poche sequenze si intuisce chi potrebbe essere il burattinaio di tutto l'intrigo, nella costruzione davvero nessuna sorpresa. Purtroppo c'è da dire che anche il cast manca del giusto carisma, Michael B. Jordan purtroppo non è Bruce Willis, non è Matt Damon e non è nemmeno Keanu Reeves che nei loro ruoli action hanno riversato personalità marcate, ognuno a modo suo, qui il nostro protagonista è semplicemente anonimo, più interessante Jodie Turner-Smith ma insufficiente a tener su la baracca da sola. La regia invece funziona, Sollima crea un paio di momenti tesi il giusto, aiutato anche dallo score in qualche caso, infila alcune sequenze dinamiche davvero ben riuscite, quella sull'aereo ad esempio ma anche il lungo passaggio dell'assedio nell'edificio, tecnica e ritmo ci sono, peccato manchi una trama avvincente. Non è un film terribile Senza rimorso, però quanti ne abbiamo visti di simili, con l'offerta abnorme di film che c'è oggi sicuramente si può investire il tempo in qualcosa di più interessante. Occhio alla scena post-credits, si minacciano sequel a pioggia.

lunedì 26 luglio 2021

QUALCOSA DI TRAVOLGENTE

 (Something wild di Jonathan Demme, 1986)

Una panoramica a filo d'acqua ripresa dall'Hudson sulle note di David Byrne e Celia Cruz ci introduce alla New York del 1986, quando lo skyline più famoso del mondo era ancora iconico e completo, è proprio a Manhattan che l'incontro tra Charles Driggs e Lulu cambia, forse per sempre, le loro vite e dà il via a una commedia brillante che non ha timore di sfociare nel thriller più dinamico cambiando di registro pur rimanendo un'opera sempre divertente e riuscita. Probabilmente Qualcosa di travolgente è un film che oggi non sarebbe potuto arrivare nei cinema senza qualche polemica, le istanze femministe non vedrebbero di buon occhio la parabola di crescita e cambiamento che ogni avventura on the road che si rispetti porta con sé, non quella di una Lulu che conosciamo come donna indipendente e selvaggia per finire in qualcosa (all'apparenza almeno) di completamente diverso. All'epoca sicuramente ci si faceva meno problemi, i modelli erano diversi e in fondo anche i rivoluzionari del '68 hanno finito per imborghesirsi.

Charlie Driggs (Jeff Daniels) è un uomo tranquillo, sposato con due bambini, un lavoro noioso che gli è appena valso la promozione a vicepresidente e una bella casa in un pacifico sobborgo newyorkese. Durante un pranzo in una caffetteria incontra Lulu (Melanie Griffith), una ragazza disinibita e trasgressiva che lo trascinerà in una serie di avventure scombinate, condite di sesso e piccoli crimini, che riusciranno a far uscire il lato più selvaggio del compassato Charlie. I due si nascondono delle cose l'un l'altra, mentre Charlie inizia a preoccuparsi per il suo ritorno al lavoro, Lulu rivela una vita che non sembra appartenere alla ragazza incontrata solo il giorno prima: Lulu in realtà si chiama Audrey Hankel e ha un passato tumultuoso e doloroso alle spalle a causa di un suo ex, delinquente e violento, Ray Sinclair (Ray Liotta). L'avventura eccitante di Charlie e Lulu si trasformerà in un gioco decisamente più serio con il ritorno in scena di Ray, criminale scarcerato ma per nulla redento.

Jonathan Demme gira Qualcosa di travolgente prima di arrivare ai suoi più grandi successi commerciali e di critica, film come Una vedova allegra... ma non troppo, il pluripremiato (cinque Oscar) Il silenzio degli innocenti e Philadelphia (altri due Oscar), il cinema di Demme non è ancora quello che piace tanto all'Academy, è un cinema più libero, a tratti spensierato, non troppo legato agli schemi, capace di virate e punti di vista non omologati a quelli che erano i dettami imperanti nell'America degli Ottanta, più che mai spinta al consumo, al benessere e ad uno stile di vita dettato dalle nuove ricchezze. Il protagonista maschile in qualche modo abbandona lo stile di vita imposto dalla società, la ricchezza, le convenzioni sociali, per tuffarsi in un'avventura mossa dall'attrazione prima e dal sentimento poi, viva, reale, appagante più di quanto un buono stipendio possa mai garantire, lei, una stupenda Melanie Griffith, compie un percorso diverso provenendo da esperienze decisamente più complicate. Il passaggio dal registro della commedia a quello del thriller avviene in maniera naturale grazie soprattutto a un'interpretazione impeccabile di un Ray Liotta al suo meglio, ottimo ritmo sostenuto da una bella colonna sonora e qualche esibizione musicale all'interno del film, qualche cameo da individuare e tanta voglia di libertà: Qualcosa di travolgente è il sogno proibito di chi non è mai riuscito a farsi travolgere, di chi non ha osato, di chi ha calcolato troppo, di chi non ha avuto il coraggio o di chi semplicemente ha guardato al concreto, al sicuro, in questo il film ha un'indole rivoluzionaria che porta lo spettatore soddisfatto ai titoli di coda, allietati dalla Wild thing versione Sister Carol.

domenica 25 luglio 2021

IL SIGNOR OMICIDI

(The travesty di Donald E. Westlake, 1976)

Donald Westlake è stato il maestro del giallo umoristico, uno scrittore sistematico e indefesso che ha scritto una quantità esagerata di storie siglandole con diversi pseudonimi oltre che con il suo vero nome: i romanzi con protagonista il criminale Parker a nome Richard Stark, i racconti di fantascienza come Curt Clark, e ancora Tucker Coe, Samuel Holt, Alan Marshall e diversi altri ancora, il grosso del corpo d'opera a firma Donald Westlake. I romanzi di Westlake sono spesso impostati, come in questo caso, per dare al lettore come principale punto di vista quello del criminale, criminali che sovente non sono personaggi realmente malvagi ma uomini un poco border line, spesso affatto pericolosi, che si trovano per volontà o per caso in situazioni surreali o destinate a risvolti più divertenti che non realmente dense di thrilling, fermo restando una costruzione delle vicende sempre coerente e accattivante. Anche nel caso de Il signor omicidi la costruzione di questa breve novella (circa centoventi pagine) aderisce al punto di vista del colpevole, che il lettore conosce fin da subito, e si sviluppa in un concatenarsi di avvenimenti ben studiato e che lascia spazio anche ad alcune digressioni dalla trama principale.

Carey Thorpe è un critico cinematografico molto richiesto che scrive per diversi giornali di New York, è un uomo che piace alle donne; durante una delle sue uscite serali con Laura Penney, Thorpe ha un litigio con la donna, in seguito a una piccola colluttazione in casa di lei la donna cade e battendo la testa muore. Un incidente, non intenzionale e non dettato da motivi reconditi, il bisticcio di un momento e poi la tragedia. Thorpe non vuole rischiare la galera, accertatosi della morte della donna raccoglie le sue cose e sparisce, non sapendo di essere stato visto da un occhio privato che stava seguendo la Penney per conto del marito. L'investigatore, Edgarson, decide di non riferire nulla alla polizia ma bensì di ricattare Thorpe in modo da intascare un guadagno a suo avviso facile, nel frattempo i sergenti Bray e Staples iniziano a indagare sul delitto, il più giovane dei due, Staples, è un fan delle recensioni di Thorpe e inizia a prenderlo in simpatia, da qui poi le cose si ingarbuglieranno un poco prendendo strade spesso divertenti.

La prosa di Westlake ha in questo racconto uno stile molto classico, pubblicato nel '76 (epoca in cui è anche ambientato) Il signor omicidi tratteggia immagini e personaggi che potrebbero tranquillamente appartenere ai decenni precedenti, in realtà il protagonista dice di essere nato nel '42 e di essere stato all'università nei 60 quindi presumibilmente la storia si svolge effettivamente negli anni 70. Tutto il racconto è impregnato di cinema, sono tantissime le citazioni di film della Hollywood classica che per bocca di Thorpe riempiono le pagine del libro, sono chiamati in causa attori, registi, produttori in una ricostruzione d'epoca che sembra appunto retrodatare la storia rispetto al decennio dei 70. La struttura è divisa in capitoli, ognuno dei quali porta un titolo che sembra quello di un giallo a sé stante: L'avventura del 27 mancante, L'affare dell'amante nascosto, Il caso di Wicker e via discorrendo, alcuni lo sono davvero in quanto il protagonista sarà così bravo a sviare i sospetti della polizia che il Sergente Staples lo inviterà a partecipare in più occasioni alle indagini di altri casi, cosa che confonderà ancor di più le acque. Il tono è sempre leggero, divertito, la concatenazione di eventi intriga e ne esce una lettura veloce e decisamente sfiziosa. Devo dire che, letti ormai alcuni dei romanzi dell'autore, finora Westlake non ha mai deluso, la lettura è frizzante, l'estate è nella sua piena fase canicolare, se servisse un giusto antidoto eccovelo servito.

sabato 24 luglio 2021

HELLBOY - IL RICHIAMO DELLE TENEBRE

(Hellboy: Darkness calls di Mike Mignola e Duncan Fegredo, 2007)

Dopo le storie brevi dei precedenti volumi si torna finalmente a una narrazione più corposa e compatta con questo Il richiamo delle tenebre, l'ottavo volume delle avventure del demone buono Hellboy. Con questa uscita Mignola sigla una delle avventure più coinvolgenti del personaggio, in bilico tra passato e proiezioni future andando ad attingere a molto del background di Hellboy che dopo numerose miniserie inizia a essere parecchio corposo e affollato di personaggi con i quali costruire eventi sempre più avvincenti. La grossa novità, tenendo conto che non si tratta questa di una storia breve, è l'affido delle matite a un'altro disegnatore, il creatore di Hellboy cede onere e onore al grandissimo Duncan Fegredo che qui offre una prova eccelsa  riuscendo a non far rimpiangere il tratto di Mignola nemmeno a lettori che come me che lo amano in maniera incondizionata.

La storia si apre in Italia dove Igor Weldon Bromhead lega al suo volere la dea Ecate grazie alla conoscenza del suo vero nome. Intanto in Inghilterra una congrega di streghe mette in moto altri avvenimenti che porteranno Hellboy a confrontarsi con il redivivo cacciatore di streghe Henry Hood, gli sviluppi di queste vicende riporteranno in scena personaggi che abbiamo imparato a conoscere nel corso degli anni: Gruagach il maiale, il vampiro Vladimir Giurescu, il guerriero Koshchei e soprattutto la strega Baba Yaga. Per venir fuori da quello che è a tutti gli effetti un atto di vendetta di Baba Yaga nei confronti del Nostro, Hellboy dovrà affrontare schiere di morti, guerrieri immortali e interagire con una serie di comprimari, spesso prelevati dal folklore russo, che arricchiscono questa storia carica d'azione, di presagi e di tutti gli elementi che ci fanno ammirare i vari racconti che vanno a comporre quell'universo gotico denominato Mignolaverse.

Nonostante Il richiamo delle tenebre presenti moltissimi elementi, la narrazione di Mignola è sempre coesa e avvincente, ciò che lascia a bocca aperta è con quanta personalità Duncan Fegredo raccolga il pesante testimone, pur rimanendo nella scia del creatore di Hellboy donando così continuità alla serie, Fegredo se ne discosta in maniera personale riuscendo a mantenere le stesse atmosfere che i lettori di Hellboy hanno imparato ad apprezzare ma allo stesso tempo tratteggiando una versione del demone e del suo mondo originale e riuscita oltre ogni aspettativa. Guardando il lavoro di Fegredo non si riesce a dire se il disegnatore inglese preferisca disegnare i mostri, i paesaggi, i dettagli degli interni, gli antri bui, i volti, le scene di massa, impossibile capirlo tanto ogni singola tavola è definita e realizzata con attenzione maniacale al più piccolo particolare. Bellissimo volume sotto tutti i punti di vista chiuso da un corposo sketchbook che ancora una volta sottolinea la maestria di questo splendido artista.

giovedì 22 luglio 2021

A CLASSIC HORROR STORY

(di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, 2021)

Se la via per un cinema di genere nostrano ben fatto deve passare dall'omaggio, dalla citazione, dal gioco meta, allora che sia! Il film di Roberto De Feo (già regista di The nest) e di Paolo Strippoli guarda in maniera aperta, fin dal titolo, all'horror classico americano, creando un gioco di rimandi e strizzate d'occhio che fortunatamente non rimane fine a sé stesso ma in buona misura esplora anche la tradizione nostrana gettando idee e basi, magari ancora elementari e non troppo approfondite, che possono aprire la via a un filone, quello del folk horror italiano, che sicuramente non incontrerebbe nessuna difficoltà nel reperire fonti, tradizioni e figure inquiete per alimentare la fantasia di sceneggiatori e registi della penisola. De Feo e Strippoli riescono a mantenere in equilibrio i due aspetti del film, seppure all'apparenza il gioco al rimando possa sembrare predominante per la naturale inclinazione dello spettatore all'appagamento nel riconoscere qualcosa per lui noto e magari ampiamente apprezzato, in A classic horror story c'è anche altro, ma andiamo per ordine.

Si apre sulle note de Il cielo in una stanza di Gino Paoli; Elisa (Matilda Lutz) è una giovane ragazza che sta prendendo in considerazione un'interruzione di gravidanza, spinta all'atto anche dalla madre che teme per il futuro della figlia, per raggiungere la famiglia in Calabria si unisce ad altri viaggiatori per un carpooling: Mark (Will Merrick) e Sofia (Yuliia Sobol), una coppia di ragazzi che sta andando in vacanza, Riccardo (Peppino Mazzotta), un medico poco socievole, e lo studente di cinema Fabrizio (Francesco Russo) di ritorno a casa. Mentre Fabrizio documenta il viaggio, qualcuno beve, qualcuno si fa i fatti suoi, il camper che usano come mezzo di trasporto macina chilometri. In nottata, mentre Mark è alla guida, il gruppo ha un incidente e il camper finisce contro un albero; Mark rimane ferito, impossibilitato a muoversi, per fortuna Riccardo è medico e prende in mano la situazione. Dopo qualche ora di sonno il gruppo si risveglia ma il camper non è più sul ciglio della strada bensì in una radura al centro della foresta vicino a una strana e solitaria casa nel bosco. Spaventati dalla situazione Fabrizio e Riccardo esplorano i dintorni in cerca della strada fino a trovare tra gli alberi una scena raccapricciante: teste di maiali impalate ancora grondanti sangue e tre fantocci addobbati come divinità pagane sui toni del rosso; secondo Fabrizio sono tre figuri della tradizione calabrese che si dice diedero origine alle tre mafie, i loro nomi Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Intanto le ragazze si avventurano nella casa.

Come da titolo, un classicissimo. Nel film si leggono rimandi a pezzi di storia dell'horror, nelle atmosfere, negli ambienti ma anche nel girato di alcune sequenze che riprendono in maniera quasi pedissequa momenti celebri di altri film, su tutti si legge prepotente la presenza del recente Midsommar di Ari Aster, ma anche Misery non deve morire, il capostipite Non aprite quella porta, per alcune dinamiche di prossimità anche il The village di M. Night Shyamalan e altre fonti ancora. Tutto funziona bene, c'è solo un momento in cui la sceneggiatura potrebbe non trovare la giusta spiegazione, ma per il resto tutto gira a dovere, la regia così come le scelte degli ambienti riescono a creare quell'atmosfera malsana che crea la giusta tensione. Inoltre le maschere e gli abiti dei carnefici, un misto di vesti cerimoniali pagane, legno e foggia da animali selvatici, incutono il giusto timore, non si eccede nelle scene truci ma nella mente dello spettatore l'orrore dilaga più volte. Nello sviluppo della trama, arrivati al punto di svolta, si assestano un paio di bei colpi, almeno uno potenzialmente intuibile ma comunque davvero ben giocato, l'apertura finale cambia un po' le carte in tavola e dona un giusto tocco di personalità al film di De Feo e Strippoli. Straniante ma azzeccata la scelta di inserire classici della canzone italiana in colonna sonora, geniale l'utilizzo di La casa di Sergio Endrigo, belli i volti, a parte Merrick e Sobol un po defilati e meno caratterizzati nei personaggi, gli altri fanno un ottimo lavoro, la Lutz è già da tempo padrona del genere e qui è un'ulteriore conferma, convincente Mazzotta che abbiamo imparato a conoscere nei panni di Fazio, agente in forza al commissariato di Salvo Montalbano, ottimo Francesco Russo. Sul finale un'altra scelta di casting indovinatissima e che qui non menziono per non anticiparne la comparsa a chi non avesse ancora visto il film, chiusura con la quale i registi si tolgono probabilmente qualche sassolino dalle scarpe.

Un bel film, nei colori, nella regia, nella fotografia; certo, non troppo originale, anzi, ma l'operazione è dichiarata e onesta e rimane un bel trampolino di lancio per lavorare su qualcosa di personale e realmente nostrano, la strada è quella giusta.

lunedì 19 luglio 2021

LOKI

(di Kate Herron, 2021)

Terza serie del nuovo corso Marvel post Endgame, per Loki c'erano grandi aspettative (solo in parte mantenute purtroppo) sia per la natura ambigua e imprevedibile del personaggio, sia per il talento innegabile di Tom Hiddleston, sia per la possibilità di sperimentare con una serie che poteva avvicinarsi più all'approccio innovativo di WandaVision che non a quello classico di The Falcon and the Winter Soldier. Diciamo che la grossa novità portata da Loki, ormai credo lo sappiano tutti, è l'introduzione del concetto del multiverso, affiancata dalla rivelazione di un nuovo villain che potrebbe diventare fondamentale per il prosieguo della fase quattro. A parte un'accelerazione verso il finale nelle ultime due puntate la serie sembra non avere una direzione precisa e coerente, ondeggiando tra eventi temporali, versioni alternative, spiegazioni e tradimenti, la visione non risulta mai troppo interessante o appagante se non per momenti isolati, valorizzati dalle doti degli attori nel cast, Hiddleston soprattutto ma anche un Owen Wilson molto convincente. La noia si affaccia a più riprese, lo spaesamento pure, la perplessità anche, come detto da più parti in alcuni frangenti sembra di trovarsi di fronte effettivamente a un Doctor Who in salsa Marvel al cospetto della distruzione di Gallifrey, e questo sarebbe un gran complimento se non fosse per il fatto che il paragone potrebbe tenere solo se fatto con alcune delle puntate più fiacche della serie storica della BBC. Si voleva iniziare a parlare del concetto di multiverso? Volevamo anticipare il personaggio di grande calibro dei giorni a venire? Benissimo, non erano però necessarie sei puntate fuori fuoco per imbastire un discorso che molto probabilmente verrà ripreso a breve (Doctor Strange in the multiverse of madness?). Il multiverso, qui sta in fondo il succo di tutto Loki. Certo, poi c'è un buon lavoro di sviluppo del personaggio, che già era tra i più interessanti del MCU, ma principalmente ciò che conta è il multiverso. Introducendo questo concetto tutto sarà più o meno giustificabile: contraddizioni dovute a personaggi in forza ad altre case cinematografiche? il multiverso! Attori che prima o poi lasceranno i loro ruoli e che andranno sostituiti? il multiverso! Operazioni necessarie di retcon? Il multiverso! Vogliamo azzardare anche potenziali collaborazioni con la Distinta Concorrenza? Il multiverso! Il multiverso è la panacea di tutti i mali e offre infinite possibilità.

Detto questo e detto della delusione generale provata durante la visione del serial, di questo Loki cosa rimane? Il multiverso! Ok, questo l'abbiamo detto. C'è l'introduzione della TVA e dei Custodi del tempo, figure marginali del mondo Marvel che tengono sotto controllo il flusso temporale evitando che si dirami dando vita a realtà alternative, interessanti più per l'omaggio al suo creatore (Marc Gruenwald) che non per il resto, c'è un buon collegamento con il passato e si risponde alla domanda where is Loki? che aleggiava da tempo, abbiamo un Loki in versione femminile che fa girare la testa al nostro Dio dell'inganno che, narcisista com'è, non poteva che innamorarsi di sé stesso, personaggio che poi fa girare la testa a Loki ma non so quanto lo faccia con quella degli spettatori (a mio avviso un grande mah?). Nel penultimo episodio siamo graziati dalla comparsa del "vero" Loki interpretato da Richard Grant, quello della Marvel delle origini e posi cos'altro? Si, ecco, alla fine arriva Polly. No, scusate, alla fine arriva mamma! Nemmeno, chi arriva? Spoiler, si ecco, alla fine arriva Kang in un'interpretazione sopra le righe di Jonathan Majors, gran personaggio, sì, ma, forse in futuro, per ora curb your enthusiasm!

domenica 18 luglio 2021

BLACK WIDOW

(di Cate Shortland, 2021)

L'emozione più grande suscitatami dalla visione di Black Widow è stata sicuramente quella legata al ritorno in sala, a una parvenza di normalità che a sentire i più recenti piani di governo durerà probabilmente davvero poco. Per il resto Black Widow è un buon tassello di quel mosaico che è il Marvel Cinematic Universe, un action ben girato, capace di intrattenere senza smuovere molto l'universo cinematografico della Marvel che negli ultimi mesi è stato relegato alla serialità televisiva, diciamo pure che come prodotto il film stand alone dedicato alla storia della Vedova Nera si avvicina più alla tradizione di The Falcon and the Winter Soldier che non alle deviazioni sperimentali (e più interessanti) di WandaVision e Loki. Al Team Marvel si aggiunge un'altra regista, l'australiana Cate Shortland che porta a casa un buon lavoro senza lasciare però traccia di stile, omologandosi a ciò che Disney richiede per il suo universo supereroico. Rispetto al recente Wonder Woman 84 della Distinta Concorrenza, come si soleva chiamare la DC Comics ai tempi di Stan, siamo di nuovo avanti, qui ci sono almeno una sceneggiatura coerente e scene action ben dirette e coinvolgenti, personaggi alla loro prima apparizione che catturano da subito l'attenzione del pubblico, già con il loro spessore e che si avrebbe voglia di vedere di nuovo in azione. Si può fare l'appunto a questo film di non emergere da una media che per il genere inizia a essere un po' troppo affollata, ad ogni modo l'origin story della Vedova si lascia guardare volentieri graziata anche da un cast di tutto rispetto.

Prologo datato 1995, in Ohio la giovane Natasha (Eva Anderson) vive insieme alla sorellina più piccola Yelena (Violet McGraw), alla madre Melina (Rachel Weisz) e al padre Alexei (David Harbour). In realtà i due adulti sono agenti russi infiltrati in occidente agli ordini di Dreykov (Ray Winstone), il direttore della Stanza Rossa, un'organizzazione che mira ad addestrare giovani ragazze per diventare spie al soldo della madre Russia. L'azione si sposta poi all'epoca del dopo Civil War, Natasha (Scarlett Johansson) è in fuga dal governo degli Stati Uniti a causa degli avvenimenti in Sokovia, gli Avengers sono divisi, nel frattempo una Yelena (Florence Pugh) ormai cresciuta riesce a liberarsi dal controllo della Stanza Rossa e coinvolge Natasha in una missione volta a liberare le altre potenziali Vedove dal controllo di Dreykov, per farlo alle due ragazze non rimarrà che riunire la loro problematica e raccogliticcia famiglia, prima tappa liberare di prigione Alexei, il famigerato Red Guardian.

Rispetto alla vera storia di Natasha Romanoff, quella narrata anni fa nei fumetti, Black Widow si prende parecchie libertà inserendo diversi personaggi all'interno di un nucleo familiare, seppur fittizio, che in realtà non è mai esistito, creando così un background tutto sommato funzionale allo sviluppo del MCU. Black Widow in realtà non è un film strettamente necessario nell'economia dei progetti futuri della Marvel al cinema se non per l'introduzione di Yelena, ha invece il sapore di un doveroso omaggio al contributo di Scarlett Johansson a questa saga infinita, il suo personaggio meritava qualcosa di più rispetto al ruolo di comprimario sexy che finora ha per lo più ricoperto, visto il probabilissimo abbandono dell'attrice questo spazio a lei dedicato risulta più che doveroso; si presenta così un possibile sostituto, la Yelena Belova interpretata da Florence Pugh, attrice capace di gestire al meglio sia il registro più ironico che quello puramente action, ottima scelta in ottica futura, si spiega il mistero della missione di Budapest più volte citata dal Natasha e da Occhio di Falco, e si discute sulle pose della bellissima spia. Ancora una volta, come sempre più spesso accade, cinema quasi tutto al femminile, la liberazione delle vedove dal giogo dell'oppressore è rivelatrice in questo senso, ancora una volta un film che si inserisce nel solco di rotte già tracciate. Si guarda agli incassi e va bene così, non bisogna però dimenticare di come il fumetto, anche quello Marvel, sia stato reso grande da tanti guizzi d'autore, probabilmente sarebbe ora di tentare questa strada anche all'interno del Marvel Cinematic Universe, perché se è vero che la qualità media è sempre sopra il livello di guardia, spesso anche di parecchio, il rischio di appiattimento è dietro l'angolo, la sovraesposizione quasi certa, qualche deviazione necessaria.

venerdì 16 luglio 2021

VIVARIUM

(di Lorcan Finnegan, 2019)

L'esordio dell'irlandese Lorcan Finnegan è un film a tema, un racconto inquietante realizzato con pochi elementi che punta a far riflettere lo spettatore su alcuni aspetti della vita moderna, sulle sue dinamiche e soprattutto sulle sue storture che spesso non percepite minano quella che potrebbe essere una piena libertà, in parte imbrigliata da bisogni e abitudini (auto)imposti dalle quali l'uomo non riesce a uscire, un po' come il criceto che corre in tondo sulla ruota nella sua gabbietta, proprio come in tondo girano per diverso tempo i due protagonisti di Vivarium. Finnegan è bravo a massimizzare i risultati con poche risorse, nonostante siano diversi i passaggi inquieti nel film, questi vengono realizzati efficacemente senza grande dispendio di mezzi; con la giusta recitazione, volti indovinati e qualche trucco di messa in scena Vivarium offre i suoi bei momenti, annegati in una routine ciclica che sfiora solamente il filone del time loop senza mai aderirvi, la coazione a ripetere qui e sì forzata ma soprattutto metaforicamente mentale.

Gemma (Imogen Poots) è una giovane maestra d'asilo, il suo ragazzo Tom (Jesse Eisenberg) lavora come giardiniere, i due sono una coppia vivace e affiatata che sta cercando un posto dove iniziare una vita insieme. Venuti a sapere di un nuovo quartiere residenziale con abitazioni alla portata delle loro tasche, i due giovani si recano nell'agenzia dove trovano Martin (Jonathan Aris), uno strambo agente immobiliare che li accompagnerà a Yonder, un complesso di villette fuori città ma facilmente raggiungibile. Tom non sembra troppo convinto della scelta ma per accontentare Gemma acconsente alla visita; una volta sul posto Martin mostrerà loro la villetta n° 9, una casa identica a molte altre in un viale di case identico a molti altri. Durante la visita Martin si rivela sempre più strano; mentre Tom e Gemma danno un'occhiata al giardino della villetta il loro accompagnatore scompare. Non troppo scontenti di questo sviluppo i due salgono in macchina per tornarsene a casa ma, con sorpresa prima e sgomento poi, scoprono di non riuscire più a lasciare Yonder, ritrovandosi sempre di fronte all'ingresso della villetta numero 9, ancora e ancora. Ovviamente a Yonder non c'è campo per i cellulari e nessun altro abitante ha ancora preso fissa dimora nel quartiere, Gemma e Tom si trovano soli e senza vie di fuga. Dopo una prima notte passata nella casa i due scoprono che qualcuno ha lasciato loro del cibo, tutti alimenti insapori e inodori; la cosa si ripeterà giorno dopo giorno finché davanti alla porta di casa alla coppia viene lasciato un bambino da allevare, altra fonte di inquietudine che innalzerà ancora di più il tasso di "incredibile" che la vicenda vissuta da Tom e Gemma sta assumendo.

Vivarium ricorda un episodio di Ai confini della realtà con una venatura horror in più, quella sensazione di inquietudine strisciante inserita in una cornice talmente rassicurante da far venire i brividi. I colori pastello delle case di Yonder, tutte verdi, tutte uguali, posizionate sotto un cielo irreale e cosparso di nuvole finte, ricordano l'arte di René Magritte, esponente del surrealismo, corrente che ben si adatta alla situazione dei protagonisti che più che in un sogno si trovano catapultati in un vero e proprio incubo. La cifra surreale viene perseguita in parte anche da Lorcan Finnegan in almeno una sequenza molto ben congegnata e ben riuscita (quella che ci porta al di sotto del marciapiede), la straniante location riporta alla mente la vita finta e controllata di The Truman Show, le fonti non sono certo nuove ma tutto il discorso che c'è dietro la vita forzata di Tom e Gemma apre a riflessioni importanti. La prima potrebbe essere quella dell'omologazione che la società impone e dalla quale è difficile uscire, quasi impossibile, proprio come accade a Yonder, una vita tracciata su binari più o meno prestabiliti che rende molte cose insapori (come qui il cibo). Per sfuggire a questa vita il rifugio spesso è il lavoro eccessivo (Tom scava e scava) e che qui, anche metaforicamente, non porta a nulla di buono, con conseguente allontanamento dagli altri (Gemma). Volendo si potrebbe leggerci anche un discorso sulla maternità, su ciò che ci si aspetta da una donna (ma magari non da un uomo, del ragazzo Tom si disinteressa completamente se non peggio), magari la chiave potrebbe essere il matrimonio come prigione, insomma le letture possibili e gli spunti di riflessione non mancano. In più alcuni momenti di inquietudine legati al ragazzino (Senan Jennings) fanno venire davvero i brividi. Esordio riuscito questo di Finnegan che rielabora materiali noti ma con una bella dose di intelligenza e tutto sommato questa è già una bella cosa.

mercoledì 14 luglio 2021

UN MATTINO DA CANI

(Quite ugly one morning di Christopher Brookmyre, 1996)

Qualcuno si è inventato la definizione (simpatica tra l'altro) di Tartan Noir per identificare un genere riconducibile a un gruppo di autori scozzesi dediti al giallo e alle sue declinazioni, che l'accostamento forzato tra tutte queste penne sia valido o meno, pare proprio che anche Christopher Brookmyre sia stato inserito all'interno del calderone. Brookmyre è nato a Glasgow, classe '68, questo suo primo romanzo è stato pubblicato in Italia da Meridiano Zero; sulla quarta di copertina campeggiano due strilli che attraggono l'occhio del lettore: "Brookmyre è un genio!" (Venerdì) e "Brookmyre è un pazzo!" (FilmTv). A leggere questo Un mattino da cani Brookmyre non sembra né un pazzo né un genio, sicuramente eccentrico in alcune descrizioni, molto divertente spesso e volentieri, un buono scrittore a tratti sopra le righe, nella struttura del romanzo in realtà parecchio convenzionale, il genio è altro. Leggendo il primo capitolo l'impressione è quella di tornare tra le strade di Leith, in mezzo a quegli spurghi di corea tanto cari a Irvine Welsh; il romanzo è infatti ambientato a Edimburgo ma la cifra stilistica di Brookmyre non è quella di Welsh (seppure in qualche momento la richiami alla mente), siamo più dalle parti di quel racconto criminale caro a gente come i fratelli Coen o a Tarantino o ad altri ancora, per la peculiarità idiota dei suoi protagonisti, gente con un ego più grande di loro stessi ma con capacità decisamente più piccole. La scansione della narrazione è invece decisamente classica, con un'indagine portata avanti non dalle forze dell'ordine bensì da un giornalista molto particolare, quel Jack Parlabane che tornerà in seguito in altri romanzi dello scrittore scozzese.

Jack Parlabane fa ritorno a Edimburgo dopo anni passati a Los Angeles; la sua è una fuga, il giornalista scozzese in America ha pestato piedi che non doveva pestare, per evitare di finire all'altro mondo la scelta obbligata è quella di cambiare continente, da qui il ritorno a casa. Data la sua propensione per i guai e le faccende torbide Parlabane viene subito coinvolto nell'omicidio del dottor Ponsonby, un suo vicino di casa che viene trovato dall'Ispettore McGregor e dai suoi in una scena del delitto quantomeno bizzarra, condita di vomito, sangue a vagonate e la giusta dose di merda. Da testimone casuale, grazie alla complicità dell'agente Dalziel prima e della moglie di Ponsonby poi, Parlabane diventa la mente più brillante a indagare sull'omicidio, stimolato dalla curiosità professionale ma soprattutto dal fascino della dottoressa Sarah Slaughter in Ponsonby. Ne verrà fuori uno scenario che dalla violenza apparentemente insensata dell'omicidio si sposterà nel ricco mondo della sanità britannica.

Come si diceva struttura classica, molto ben studiata nell'escalation delle indagini, in parte anche prevedibile, ma intervallata da passaggi più dinamici che sfociano nel pulp e nel ridicolo volontario, momenti molto divertenti come quello della descrizione dell'omicidio del dottor Ponsonby, quella della scena del delitto, della sua dinamica, degli eventi che coinvolgeranno anche più avanti nella storia l'assassino, quello della resa dei conti finale, sono tutti passaggi che mescolano una violenza molto accentuata a sentimenti di repulsione misti a grottesco che non possono non risultare divertenti. Brookmyre mescola una parte di giallo, una di pulp e una di denuncia sociale, il racconto di genere e le descrizioni dei momenti esagerati non impediscono infatti allo scrittore di Glasgow di affrontare in maniera seria una critica agli abusi che possono celarsi dietro la gestione del sistema sanitario nazionale e in generale dietro le grosse aziende pubbliche. Corruzione, interessi personali, ingerenze e così via, al centro un protagonista, Parlabane, moralmente dalla parte giusta ma avvezzo a sistemi poco ortodossi e incurante delle buone maniere, scaltro, sboccato e molto, molto intelligente. Se non siete lettori troppo per bene Un mattino da cani potrebbe essere il libro giusto per questa estate.

domenica 11 luglio 2021

LEI

(Her di Spike Jonze, 2013)

Per Spike Jonze Lei è tutta una questione di sentimenti (e anche per noi spettatori). L'impianto narrativo potrebbe benissimo rimandare per temi trattati a Black Mirror, una delle serie più intelligenti scritte negli ultimi anni per quel che riguarda le previsioni future di sviluppo e utilizzo delle tecnologie presenti già oggigiorno nelle nostre vite; rispetto agli episodi di questa serie il film di Jonze ha un approccio decisamente meno cupo e pessimista su ciò che il progresso potrà offrirci pur non nascondendo dinamiche che potrebbero compromettere la socialità per come l'abbiamo conosciuta finora, anzi ribaltandone l'assunto, dipingendo nuove inquietanti possibilità come accettate se non addirittura benviste in una società che potrebbe essere la nostra tra una manciata di anni. L'aspetto tecnologico della vicenda, affascinante e molto interessante se visto in prospettiva futura, non è che l'innesco per raccontare una storia d'amore e più in generale le difficoltà e i dolori sentimentali di un uomo in un momento particolare e non troppo felice della sua vita. Lei è un film che emoziona, struggente in alcuni passaggi, bellissimo, riuscito e sincero proprio perché il focus, l'interesse del suo autore, sono i sentimenti, universali, noti e che toccano le corde del cuore di tutti, raccontati con intelligenza e in maniera originale, una nuova confezione scintillante per tornare a parlare di qualcosa che esiste da sempre e che appartiene a tutti.

Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) scrive lettere su commissione in un'agenzia di comunicazione nella quale il suo lavoro è molto apprezzato, i clienti che vogliono mandare una lettera d'amore alla loro dolce metà trovano in Theodore un'indole sensibile e romantica che rende prezioso e unico il suo lavoro. In effetti Theodore è proprio così, un uomo sensibile e romantico, forse un po' immaturo, sognatore, un uomo che sta passando un periodo difficile, di scarsa socialità a causa della sua recente separazione dalla moglie Catherine (Rooney Mara). Passando molto tempo da solo Theodore sfrutta diverse applicazioni tecnologiche come passatempo, quando sul mercato viene lanciato un nuovo sistema operativo gestito da un'intelligenza artificiale autoevolvente decide di installarla sul suo computer. Theodore sceglie di rapportarsi con un'i.a. con voce femminile, questa si darà il nome di Samantha (Scarlett Johansson e Micaela Ramazzotti) e comincerà ad apprendere da Theodore, dalla rete e poi autonomamente come funzionano la vita e gli esseri umani, Samantha crescerà fino a sviluppare dei veri e propri sentimenti. Mentre l'intelligenza artificiale diventa sempre più complessa anche il rapporto tra lei e Theodore evolve trasformandosi in una vera e propria storia d'amore.

Spike Jonze non si concede spesso l'esperienza dietro la macchina da presa, quando lo fa però vale la pena di seguirlo. Lei è un film bellissimo, toccante, che esplora le debolezze e i sentimenti di un uomo puro, con i suoi difetti, i suoi pregi, le aspettative, gli errori, gli slanci sinceri e le difficoltà che sono di molti nell'affrontare apertamente le relazioni in tutte le loro sfaccettature e conseguenze. Jonze mette in scena una storia d'amore fantastica, nel vero senso del termine, che non manca di far riflettere sulle possibili implicazioni di una tecnologia che è già realtà, impressiona come alcune ipotesi di sviluppo paventate nel film siano per noi "solo umani" difficili da afferrare e comprendere, come può evolvere una creatura artificiale così diversa da noi? La complessità di dati, conoscenze, algoritmi, altrui esperienze pregresse, informazioni, possono davvero formare una personalità? E se sì che cosa viene dopo? Temi attraenti e pericolosi che però sono contorno alle dinamiche della storia d'amore tenuta in piedi da un Joaquin Phoenix che indubbiamente è uno dei maggiori talenti che il cinema oggi può vantare, e dalla sola voce per l'Italia di Micaela Ramazzotti parecchio criticata nel confronto con l'originale di Scarlett Johansson ma che a mio parere invece segna un ottimo lavoro di doppiaggio rendendo convincente anche nella nostra lingua la personalità di Samantha. Jonze sceglie di dare alla realtà narrata l'aspetto del mondo dei nostri giorni con qualche piccolissima innovazione tecnologica, nulla di troppo futuribile, tiene una tonalità costante anche nei colori che virano spesso su sfumature di arancione e rosso e in alcuni casi sull'azzurro, il tutto a rendere la storia molto vicina a noi e credibile; al protagonista maschile affianca spalle di altissima caratura: Amy Adams, Rooney Mara, Chris Pratt, Olivia Wilde e ovviamente Scarlett Johansson. Un film ad alta tecnologia che scalda forte il cuore, sembra un ossimoro ma il compito al regista riesce davvero bene, non si può uscire indifferenti dalla visione di Lei, un film commovente, coinvolgente, a tratti struggente nel narrare la difficoltà di incontrare l'altro, di viverlo senza proiezioni per quello che è in tutta la sua difficile complessità. Menzione per la splendida malinconia espressa dalla colonna sonora.

venerdì 9 luglio 2021

TAIPEI STORY

(di Edward Yang, 1985)

Nelle scorse settimane ho dedicato diversi post alla nascita della New wave del cinema di Taiwan esaminando per lo più i primi passi mossi dal regista Hou Hsiao-hsien, uno dei nomi di punta di quella che fu un'ondata di vero rinnovamento del cinema dell'isola. L'altro nome forte di questa corrente è stato Edward Yang, regista purtroppo prematuramente scomparso e che arrivò addirittura prima del suo illustre collega alla New wave partecipando al film collettivo In our time che viene di consuetudine indicato come l'opera con cui nasce il movimento. Con Taipei Story, datato 1985, non abbandoniamo però totalmente Hou Hsiao-hsien, in un'ottica di collaborazione tra vari autori decisi a portare nuovi contenuti e tematiche più impegnate nelle sale di Taiwan, il regista qui assume il ruolo di sceneggiatore e si presta al collega Yang anche come corpo attoriale essendo proprio lui a interpretare Lon, il protagonista maschile del film. A differenza del collega suo coetaneo (entrambi classe '47), Yang concentra il suo sguardo sulla modernizzazione della città di Taipei e degli agglomerati urbani tralasciando il parallelo con la vita nelle campagne caro a Hsiao-hsien, il tema è qui quello della spersonalizzazione che la metropoli moderna riversa sull'uomo, nel suo spirito, una spersonalizzazione immateriale che si sostanzia in una perdita di direzione, nello spaesamento così comune ancor oggi nelle società a impronta capitalista; Yang indaga  anche la perdita di personalità nell'architettura delle città, a riprova di ciò la scena dove un progettista urbano afferma di non essere più in grado di riconoscere i palazzi da lui progettati da quelli di altri professionisti causa un'omologazione devastante per la storia del Paese e per chi non riesce ad adeguarsi al nuovo modello, incapace di guardare al buono che lascia indietro, magari cancellandolo.

Lon (Hou Hsiao-hsien) e Qin (Tsai Chin) sono una giovane coppia che cerca il proprio posto nella moderna Taipei, città in fase di crescita e cambiamento, aperta alle logiche economiche dell'occidente. Le nuove generazioni hanno come modello l'America, punto di arrivo ideale della corsa al benessere, e il Giappone, ex potenza coloniale per l'isola di Taiwan, la futura identità del Paese sembra vada cercata altrove piuttosto che nelle radici dell'isola e nel suo passato. Lou invece è molto più legato alle tradizioni, agli uomini della generazione precedente, si rivela un prezioso aiuto per il padre di Qin, più della sua stessa figlia, ama ancora il baseball, sport che praticava in gioventù, fedele al suo piccolo negozio di stoffe, è un uomo lontano dalle tentazioni del facile benessere prospettato dal modello occidentale. Qin invece lavora in una grande azienda, è la segretaria personale del suo capo, una donna di successo, ma come spesso accade nella favolosa società del capitale l'azienda viene venduta e nella successiva riorganizzazione Qin, che aveva appena comprato e ammodernato un'appartamento tutto suo, si trova senza lavoro e senza saper che direzione prendere. Per la donna la speranza diventa il miraggio americano, quello della sorella di Lon che ha sposato uno statunitense, c'è la possibilità di un trasferimento e di entrare nella società del cognato, non tutto è oro quel che luccica però, i destini dei due giovani si complicheranno, la differenza di vedute farà la sua parte, il cambiamento in atto ci metterà il resto.

Le tematiche importanti affrontate da Yang sono diverse, oltre ai mutamenti della società taiwanese e le conseguenti difficoltà a cui i suoi abitanti vanno incontro, nel film si accenna a divorzi, situazioni familiari lontane dall'ottica della tradizione, argomenti difficilmente toccati in precedenza dal cinema di Taiwan, non si lesina sulle critiche a sistemi all'apparenza più moderni e accattivanti, è lo stesso Lon che racconta di come il cognato americano abbia ucciso un nero e ne sia uscito pulito (siamo nel 1985 e la storia è sempre la stessa), ed è lui a non accettare in fondo che questo diventi il suo modello di riferimento, e ancora infedeltà, corruzione, gestione poco limpida delle società, la narrazione di questa New wave assume tutt'altro spessore. Il ritratto che Yang e Hsiao-hsien dipingono è quello dello spaesamento totale dei protagonisti, in Taipei Story infatti non c'è una vera trama, ci sono situazioni, destini e prospettive di vita ai cui personaggi possono tendere senza mai che la situazione si sblocchi veramente, uomini e donne schiacciati dal nuovo che avanza e che perturba le esistenze annichilendo anche il privato dei protagonisti, una metafora di un Paese che ancora non sa in che direzione andare, strattonato da più parti dalle influenze di U.S.A., Cina e Giappone. Dal punto di vista estetico a farla da padrone è la metropoli con il suo caos, il suo sviluppo incontrollato, i palazzoni e alcune riprese notturne molto ben calibrate da Edward Yang, altro regista da studiare per approfondire il discorso sul cinema asiatico.

mercoledì 7 luglio 2021

ENEMY

(di Denis Villeneuve, 2013)

Enemy di Denis Villeneuve potrebbe apparire a una prima visione un film decisamente ermetico, di certo non è un film immediato, la possibilità di decifrarne il significato sta nell'opera da cui trae origine, L'uomo duplicato di José Saramago e in parte nelle contraddizioni presenti in ognuno di noi, in quel che si è e in quel che si vorrebbe essere, in quel che si prova e in quel che si mostra agli altri, in una dicotomia (o addirittura in una sfaccettatura più ampia) che appartiene a ogni essere umano, non semplificabile nel classico contrasto bene/male. Enemy inquieta, da qualsiasi angolazione lo si voglia guardare, sia che si voglia prendere in esame la mera possibilità di un doppio fisico pronto a prendere il nostro posto, un qualcuno in grado di sostituirci, prenderci il lavoro, la moglie, i figli, sia che lo si legga come metafora di una scissione interiore che impedisce una realizzazione piena o anche un semplice appagamento per ogni uomo combattuto tra desideri e convenzioni sociali, tra ciò che veramente si vorrebbe essere e ciò a cui ci si deve limitare e attenere. Spunti interessanti, affatto banali, messi in scena da Villeneuve con l'appoggio di un simbolismo tutto da decriptare.

Toronto. Adam Bell (Jake Gyllenhall) è un mite professore universitario che cerca di inculcare nelle teste dei suoi studenti il concetto per cui "ogni dittatura mira a mantenere il controllo mediante l'abbassamento del livello culturale e la massificazione dell'intrattenimento". Adam vive in un appartamento anonimo, non mostra grandi interessi oltre al lavoro e intrattiene una relazione con Mary (Mélanie Laurent) nella quale è evidente come non si trovi a proprio agio. Un giorno in sala professori un collega, dopo avergli fatto qualche strana domanda, gli consiglia la visione di un film: Volere è potere. In un momento di noia Adam decide di guardare il film, con sua grande sorpresa vi trova un attore in un ruolo minore uguale identico a lui. La cosa lo turba non poco, tramite i dati della casa di produzione Adam inizia a fare una ricerca sull'attore visionando gli altri suoi film e le informazioni sul web. Ormai ossessionato da questo suo doppio in tutto e per tutto identico a lui Adam decide di chiamarlo, scopre così che anche la voce dell'attore è identica alla sua. L'attore è Daniel St. Claire (Jake Gyllenhall), un uomo decisamente più sicuro nei modi rispetto al timoroso Adam, è sposato con Helen (Sarah Gadon) che aspetta un bambino; in seguito all'inevitabile incontro tra i due l'ossessione si ribalta, sarà Daniel a volere entrare nella vita di Adam mentre quest'ultimo inizia a essere spaventato dalla situazione. Ma le cose potrebbero ancora mutare, inoltre questo sdoppiamento è reale o un proiezione mentale? Che cosa stiamo guardando?

Affascinante per le implicazioni che a mente fredda il film lascia emergere, inquietante durante la visione, spiazzante in alcuni passaggi e nel finale, criptico in diversi momenti, in uno in particolare dove è protagonista non a caso una lynchiana Isabella Rossellini, straniante la scelta registica d'autore di Villeneuve che immerge tutta la vicenda in colori sulle tonalità del giallo e del seppiato e che ambienta il tutto in una Toronto periferica, non brutta ma desertificata, vuota e glaciale, impressionante la prova di un Gyllenhall bravissimo che tiene in piedi un doppio ruolo grazie a cambi di atteggiamento, di postura, passando da un'aria di sicurezza a una d'incertezza, mettendo in scena il concetto personificato del doppio, della nostra parte più oscura, forse solo più decisa, o più semplicemente quella desiderata. Un film concettuale, da ripercorrere a visione terminata, caratteristica questa che già di per sé rende il film meritevole di una visione, aggiungiamoci la grande prova del protagonista e il fatto che Villeneuve ormai abbia ampiamente dimostrato di essere un ottimo regista, non resta altro da fare che decidere se dare o meno una possibilità a questo film. A voi la scelta.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...