martedì 31 gennaio 2023

LOVE AFTER LOVE

(Di Yi Lu Xiang di Ann Hui, 2020)

La regista Ann Hui, classe 1947, è considerata per ciò che riguarda il cinema asiatico e soprattutto per quello di Hong Kong una vera e propria istituzione, premiata in numerose occasioni nei maggiori festival asiatici e in particolare all'Hong Kong Film Awards la Hui ha ricevuto anche il Leone d'oro alla carriera dal Festival di Venezia, premio che ne conferma l'apprezzamento almeno da parte della critica anche in occidente. Filmografia nutritissima che ha attraversato fasi ed epoche e che è riconosciuta anche come parte fondamentale e voce originale della New Wave del cinema di Hong Kong, corrente di cui abbiamo brevemente parlato in occasione di alcuni approfondimenti sul cinema di Wong Kar-wai. Se nella seconda metà degli anni 70, e poi ancora per un decennio, la New Wave di Hong Kong è riuscita a unire la sensibilità orientale con quella occidentale diventando una forte fonte di reddito e di esportazione di cinema all'estero diversificando le proposte e puntando molto sui generi, soprattutto il crime, e sublimando una contaminazione tra cinema orientale e gangster movie statunitense di grande impatto, Ann Hui ha proseguito per la sua strada senza troppo farsi influenzare dalle mode e dando il suo concreto contributo al cinema di Hong Kong continuando a parlare dei temi a lei cari. Figlia di madre giapponese e padre cinese, nata in Cina ma trasferitasi con la famiglia a Hong Kong, Ann Hui racconta spesso nei suoi film di donne espatriate dal proprio paese; la condizione femminile in un mondo maschilista e la lontananza dalle proprie origini sono alcuni dei temi più frequentati nelle sue opere da regista, ampiamente presenti anche in questo Love after love, uno dei suoi lavori più recenti.

Hong Kong, prima della Seconda Guerra Mondiale. La giovane Ge Weilong (Ma Sichun) lascia Shanghai alla volta di Hong Kong, città nella quale intraprende un suo percorso di studi. Ge Weilong proviene da una famiglia povera e la vita a Hong Kong non è proprio economica, la ragazza decide così con fare umile di andare a chiedere aiuto e ospitalità alla zia Liang (Faye Yu), una donna che da anni ormai non ha più rapporti con il fratello, il padre di Weilong, e che a Hong Kong mantiene un tenore di vita elevato e abita in una bellissima villa isolata circondata da un grande giardino. Qui orbitano anche un paio di giovinette i rapporti delle quali con la zia Liang non sono chiari, nella casa inoltre sono spesso ospiti uomini facoltosi o potenti che in qualche modo la zia Liang tenta di compiacere, un poco alla volta la donna matura cerca di coinvolgere in queste dinamiche anche la giovane nipote che però si dimostra un po' restia al gioco mentre perderà la testa per lo sfaccendato sciupafemmine George Qiao (Eddie Peng) il quale non tarderà a far cadere nella sua tela anche Ge Weilong, il ragazzo infatti, anch'egli di povera estrazione, ambisce a un buon partito in grado di potergli garantire un alto tenore di vita e il prosieguo di una vita da elegante fannullone.

Una bella definizione per questo Love after love di Ann Hui l'ha data Luca Pacilio de Gli Spietati dicendo che per alcuni aspetti "il film suona come un dramma di James Ivory ambientato in Oriente". La confezione è elegantissima, alcune delle prime sequenze lasciano a bocca aperta per la sapienza nell'uso dei colori, della luce, per la bellezza degli scenari e la raffinatezza del contesto. Questo impatto visivo ad alta qualità può esser visto come il miglior pregio del film ma anche un po' come il suo difetto, una confezione patinata che attira le attenzioni e sopperisce in qualche modo le mancanze di una narrazione fredda e priva di impatto emotivo; non c'è mai empatia per questi protagonisti, anche dal punto di vista delle "manovre" messe in atto da questa zia, il tutto è stemperato da quella che alla fine è una sorta di placida benevolenza e accettazione dei desideri di Ge Weilong, che di scelte sbagliate ne farà già per conto suo, da parte di una zia già ben inserita nel suo contesto. Pur non entusiasmando Love after love rimane nel complesso un buon film che invoglia comunque a recuperare altro della regista, magari proprio qualcosa proveniente dall'epoca della New Wave di Hong Kong, questo lo consigliamo soprattutto a chi apprezza sopra ogni cosa l'eleganza formale.

domenica 29 gennaio 2023

ORION

(di Ben Bova, 1984)

Quello di Ben Bova è un nome pressoché sconosciuto al grande pubblico con l'eccezione degli amanti duri e puri della fantascienza; Bova non è un autore che verrebbe in mente alle masse nemmeno se si entrasse nel dettaglio di una discussione "di genere" diciamo, un lettore medio potrebbe citare Asimov, Bradbury, Dick, magari anche il nostro Evangelisti e una serie di altri nomi noti tra i quali siamo certi non comparirebbe comunque quello di Bova. Eppure lo scrittore originario di Filadelfia è stato per diversi anni curatore di una delle riviste più longeve della fantascienza americana, Analog (fondata nel 1930), e per questo ruolo più volte premiato, e anche il suo corpo d'opera in qualità di scrittore vanta una sfilza di titoli che, divisi in numerose saghe, si avvicinano alle sessanta unità. Il collega di Bova, Franco Forte, curatore di questa collana (Urania - 70 anni di futuro), per la decima uscita ha scelto di proporre il primo romanzo del ciclo di Orion, saga iniziata nel 1984 e che conterà poi sette volumi, l'ultimo dei quali pubblicato nel 2011. Nonostante sia solo il primo capitolo delle avventure di Orion il libro omonimo trova in sé un senso compiuto che non lascia l'impellente bisogno di avventarsi su un eventuale seguito (come potrebbe accadere con Hyperion di Dan Simmons ad esempio) o su altro materiale, la lettura si rivela quindi indicata anche solo per appagare la propria curiosità e saggiare la fantasia di questo autore scomparso nel novembre del 2020.

John O' Ryan è all'apparenza un uomo comune che vive in un contesto che, sempre all'apparenza, sembra del tutto simile al nostro. Siamo a Manhattan, all'interno di un ristorante John nota una bellissima donna dagli occhi grigi, Aretha Promachos il suo nome (scopriremo in seguito) e subito dopo due loschi figuri che catturano la sua attenzione. Passano pochi istanti prima che i due facciano saltare il locale con un ordigno esplosivo lanciato proprio in direzione di John. O'Ryan però non riesce a capire il motivo del loro gesto, in fondo lui è un uomo comune con un lavoro e una vita ordinarie, sarà proprio Aretha a mettere una pulce nell'orecchio di John il quale, dopo poco tempo, si rende conto di non avere ricordi che vadano più indietro di un recente passato e di poter controllare in misura molto maggiore di un normale essere umano tutte le funzioni del proprio corpo. La sua vera (?) identità è infatti quella di Orion, una sorta di guerriero predestinato a essere il campione della luce, soldato del dio Ormazd nella guerra eterna per sconfiggere l'oscurità incarnata dal bruto Ahriman che vorrebbe la distruzione dell'umanità intera. In un viaggio a ritroso tra le epoche (mentre l'avversario Ahriman compie il viaggio nel senso temporale opposto) Orion si troverà più e più volte a doversi opporre ai piani del dio oscuro volti a modificare la storia al fine di favorire l'estinzione della razza umana.

Romanzo di puro intrattenimento che presenta un classicissimo confronto dicotomico tra bene e male con una non banale, seppur già ampiamente esplorata, discettazione sulle metodologie esperite per il raggiungimento dei propri fini non così dissimili da ambo le parti. Al netto di significati reconditi, non troppo profondi in realtà, Orion rimane un buon libro d'azione/avventura dai toni fantastici (più che fantascientifici), la prosa di Ben Bova è scorrevole e non presenta segni di stile marcati, la narrazione è strutturata in cinque parti distinte che si focalizzano su diversi momenti di questa guerra tra bene e male per la sopravvivenza della razza umana, ricorre la presenza dei due antagonisti e dell'amore di Orion per la donna dagli occhi grigi che in ogni epoca cambia nome e non serba ricordo del suo amato. Interessanti e ben costruite le descrizioni d'ambiente delle varie epoche tra le quali la più affascinante rimane quella relativa all'espansione dell'impero mongolo dopo la morte di Gengis Khan. Lettura divertente dal ritmo serrato che invoglia pagina dopo pagina la prosecuzione, il libro non lascia sospesi pur essendo parte di una saga, né probabilmente lascerà troppi ricordi da conservare a futura memoria. Romanzo onesto che gode di una buona costruzione con la quale intrattenersi per qualche tempo.

sabato 28 gennaio 2023

MOONLIGHT MILE - VOGLIA DI RICOMINCIARE

(Moonlight mile di Brad Silberling, 2002)

Sembra iniziare tutto con una storia molto triste. Sul finire degli anni Ottanta, quindi più di dieci anni prima dell'uscita di questo film, Rebecca Shaeffer era una giovane attrice di belle speranze, poco più che ventenne, un paio di titoli all'attivo al cinema di quelli neanche male, Radio days di Woody Allen e Scene di lotta di classe a Beverly Hills diretto da Paul Bartel, qualche ruolo per la tv e uno da protagonista nella serie Mia sorella Sam. All'epoca la Shaeffer aveva un ragazzo, Brad Silberling, il futuro regista di questo film, ed era perseguitata da uno stalker, tal Robert John Bardo che, dopo averla infastidita più volte nei luoghi di ripresa in cui Rebecca girava, riuscì a procurarsi il suo indirizzo di casa e un'arma illegale. Il 18 Luglio del 1989, dopo essersi presentato a casa dell'attrice e averla infastidita per l'ennesima volta, in un secondo passaggio Bardo non si limitò al suo essere seccante, estrasse la pistola e sparò a bruciapelo al petto della giovane attrice la quale morì poco dopo essere giunta in ospedale. Una morte inspiegabile a opera di un pazzo poi reo confesso e condannato all'ergastolo. Si dice che il dolore e l'elaborazione di questo lutto da parte di Silberling divennero la materia prima sulla quale, con le dovute differenze, il regista di Washington imbastì la trama, o almeno lo spunto iniziale, di questo Moonlight mile - Voglia di ricominciare.

Il giovane Joe Nast (Jake Gyllenhaal) sta aiutando i coniugi Ben (Dustin Hoffmann) e Jojo Floss (Susan Sarandon) nei preparativi per una cerimonia funebre. Scopriamo presto che la scomparsa è Diana (Careena Melia), figlia dei Floss e futura sposa di Joe, il loro matrimonio era alle porte, la vita di Diana stroncata da un omicida entrato nella tavola calda nella quale avrebbe voluto uccidere la moglie, un luogo dove si trovava per caso anche la giovane che perderà così la vita senza ragione alcuna. L'evento, come è normale che sia, sconvolge le vite dei Floss e di quello che sarebbe diventato il loro futuro genero; i due genitori affrontano la sofferenza e la perdita ognuno a modo suo cercando di non farsi trascinare nel cliché dell'annientamento totale di fronte al dolore e cercando un modo per reagire alla morte di Diana e andare avanti con le loro vite. Ben, disponibile ed educato con tutti, si lega sempre più a Joe, ospite a casa loro, lo coinvolge anche nell'attività di famiglia, un'agenzia immobiliare che dovrebbe convincere i piccoli negozianti della cittadina in cui abitano i Foss a vendere le loro attività in favore di un grosso gruppo in cerca di terreni. Jojo che è scrittrice ha un blocco completo, dalla morte della figlia cerca una sincerità che vada oltre i comportamenti di circostanza, del coniuge, dei conoscenti, degli amici che vengono a portare condoglianze stiracchiate. Joe accetta di stare sotto l'ala di Ben perché si sente in colpa per un segreto non ancora confessato riguardante la sua Diana; tra i locali ai quali Joe dovrebbe fare la proposta di vendita c'è quello in cui la sera lavora Bertie (Ellen Pompeo), la postina della cittadina, anche lei alle prese col dolore di una perdita, l'incontro tra i due smuoverà le acque.

Guardando la filmografia di Silberling si può dire che il regista di Moonlight mile non abbia proprio il piglio dell'autore. Esordio con il fantasmino Casper (1995), torna poi al cinema per ragazzi qualche anno dopo con il Lemony Snicket di Jim Carrey, nei suoi primi anni di carriera anche questo Moonlight mile e il City of angels con Nicholas Cage e Meg Ryan. Poi nel 2006 quel 10 cose di noi (ve lo consiglio), film piccolo piccolo, indipendente, con Paz Vega e Morgan Freeman che in qualche modo fece sì che il nome di Silberling mi rimanesse in testa. Questo recupero, ad anni di distanza, è un po' frutto di quel ricordo, di quelle belle chiacchierate tra la Vega e Freeman. Non ha ricevuto delle grandi critiche o dei grossi riscontri questo Moonlight mile, la regia di Silberling è abbastanza anonima e il sospetto che in qualche momento si cerchi la lacrima dello spettatore c'è, eppure conoscendo la premessa il giudizio complessivo assume un altro valore. Senza volersi troppo aspettare il film a conti fatti non è malvagio, poggia intanto su almeno tre bravissimi attori, due colonne come Dustin Hoffman e Susan Sarandon entrambi portatori di belle interpretazioni nonostante l'approccio a tratti più leggero, a Hoffman basta uno sguardo di mezzo secondo alla foto della figlia per prenderti al cuore, per un giovanissimo Gyllenhall ci vuole un attimo di più ma su quel banco dei testimoni è lui che si ritaglia il momento più toccante del film. Ben costruiti i rapporti tra questo potenziale genero e i suoi suoceri sfumati, se è con Ben che Joe si trova a passare più tempo è con Jojo che instaura una comprensione più profonda, anche nel momento della verità è qui che si troverà più a casa. Non un passaggio fondamentale per la nostra conoscenza del cinema, però vi dirò che se mi dovesse mai capitare di imbattermi nei due film che ancora non ho visto di questo regista (Land of the lost e Un uomo ordinario) sono abbastanza certo che il nome di Silberling mi tornerà alla mente ancora una volta.

martedì 24 gennaio 2023

POETRY

(Si di Lee Chang-dong, 2010)

Con Poetry terminiamo la disamina dei film di Lee Chang-dong resi disponibili dalla piattaforma Mubi (di Burning - L'amore brucia avevamo già parlato in passato). Poetry è il penultimo film all'interno della filmografia del regista sudcoreano, si dovranno aspettare ben otto anni prima del successivo Burning, a oggi ultima opera di Lee Chang-dong, un film imperdibile, perfetto viatico per innamorarsi di questo regista da approfondire senza esito alcuno. Nonostante i temi affrontati dal regista anche in questo Poetry siano indubbiamente dolorosi e affatto leggeri, il film gode di una certa delicatezza veicolata dalla prova di Yoon Jeong-hee, attrice simbolo del cinema della Corea del Sud, all'epoca dell'uscita di Poetry sessantaseienne e purtroppo scomparsa pochissimi giorni fa (il 19 Gennaio). Continua a indagare le pieghe dell'animo umano Lee Chang-dong, mettendone ancora una volta a nudo gli aspetti problematici e qui irrimediabilmente negativi, in contrapposizione c'è però anche un viaggio in quella che più si avvicina a un'innocenza, quella di una donna ormai anziana che si prende cura del nipote adolescente e che inizia a fare i conti con i primi effetti di una malattia degenerativa. Lee Chang-dong, non senza una buona dose di coraggio, mette in contrapposizione ai mali del mondo l'arte della poesia, ne mette in risalto l'importanza e la descrive se non proprio come la cura ai moti d'oscurità e indifferenza che albergano negli animi e nelle ormai consolidate abitudini degli uomini, almeno come veicolo di comprensione e di una differente visione del mondo e degli altrui dolori (come dei propri), un mezzo per focalizzare un'empatia e una sofferenza condivisa necessarie per non cadere verso la barbarie, quella dell'indifferenza, ormai imperante.

Siamo nella zona di Incheon, vicino i confini con la Corea del Nord. Dal fiume locale affiora il cadavere di una giovane studentessa; purtroppo i suicidi sono in aumento nella zona e il ponte sul fiume è una grande tentazione per chi decide di intraprendere l'ultimo viaggio. Yang Mi-ja (Yoon Jeong-hee) è una signora anziana che si prende cura del nipote Jong-wook (Lee David), sua figlia è fuori per lavoro, trasferitasi in un'altra città ha lasciato alla madre l'incombenza di crescere suo figlio. Jong-wook frequenta la stessa scuola della ragazza suicidatasi, la nonna è un po' preoccupata per il nipote e anche per la sua salute, alcuni esami lasciano intendere la presenza di qualche problema, i suoi cali di memoria, le difficoltà a ricordare i nomi, indicano l'arrivo progressivo dell'Alzheimer. Qualche giorno dopo la scoperta del cadavere della ragazza Yang Mi-ja viene avvicinata da padre (Ahn Nae-sang) di uno degli amici di Jong-wook, questi confida all'anziana signora che un gruppo di giovani tra i quali suo figlio e proprio Jong-wook sono stati accusati di aver ripetutamente violentato la ragazza trovata morta; nell'intimo della donna il mondo si sgretola, il corso di poesia che ha iniziato a seguire al centro culturale sarà l'ultima difesa contro un mondo che sta perdendo i concetti di giustizia e i suoi valori, affogato nel materiale e nell'indifferenza anche verso la morte di una giovane ragazza. I giorni di Yang Mi-ja diverranno una resistenza docile alla barbarie e una ricerca di solidarietà e comprensione, per quanto postuma, verso quel corpo riverso nell'acqua.

Forse meno avvolgente di altre opere del regista in virtù proprio dell'estrema pacatezza della sua protagonista anche di fronte alla tragedia, che porta dolore e sofferenza elaborata però in modo privato e silenzioso, anche il Poetry di Lee Chang-dong è un film che vale la pena guardare con estrema attenzione, è un'opera che ha molto da dirci su quel che oggi l'uomo è diventato, e quel che ha da dirci purtroppo non è molto piacevole. Per fortuna esistono ancora la resistenza dei giusti, l'empatia, la poesia di chi ancora è in grado di comprendere una sofferenza. È proprio il concetto di poesia a porre un netto contrasto con l'orrore del mondo fin da subito, da quel titolo totalizzante che si oppone al freddo cadavere abbandonato e trascinato dalle acque, un contrasto che proseguirà per tutto il film con una Yang Mi-ja che cerca da un lato di costruire con sincerità la sua prima poesia mentre tenta di capire il gesto di un nipote all'apparenza indifferente e mai pentito di gesti gravissimi, ma soprattutto il dolore che deve aver provato quella ragazza, un dolore tale da portarla all'estremo gesto, e quello di una madre ora da blandire con il vil denaro nella noncuranza di genitori capaci di avallare con superficialità anche uno stupro di gruppo (che non vediamo). Vediamo invece la quotidianità, le lezioni del professore di poesia, il soffermarsi sulla natura, sulle piccole cose da parte di Yang Mi-ja, le belle sequenze delle partite a volano col nipote, sotto casa, in mezzo alla gente seduta per strada come fosse in un piccolo paesino (siamo invece in provincia, sì, ma in una grande città). Lee Chang-dong ci lascia anche alcune frasi sulle quali riflettere legate all'importanza della poesia e al saper cogliere la sua essenza e l'essenza del mondo necessaria per poterla riversare nella poesia stessa. "Per creare una poesia bisogna vedere", "per capire bisogna scrivere", massima quest'ultima che ci sta particolarmente a cuore, esempio banale, quante volte dopo aver scritto di un film, di un autore, di un disco, ci rendiamo conto di averlo capito un poco di più? Ancora una volta Lee Chang-dong ci accompagna in un viaggio che vale la pena di essere percorso, magari con più pazienza di altri ma con invariata dedizione.

domenica 22 gennaio 2023

GUARDIANI DELLA GALASSIA HOLIDAY SPECIAL

(Guardians of the galaxy holiday special di James Gunn, 2022)

Con un poco di ritardo parliamo dello speciale natalizio dedicato ai Guardiani della Galassia ancora una volta diretti da James Gunn di ritorno al Marvel Cinematic Universe dopo la trasferta nel DC Extended Universe per girare The Suicide Squad - Missione suicida, film che si è rivelato ben presto essere una delle cose migliori (la migliore?) dell'intero progetto orchestrato dalla Distinta Concorrenza, come soleva con eleganza chiamare il compianto Stan Lee i rivali di casa DC. James Gunn sfrutta tutta la potenzialità delle piattaforme e del nuovo mondo nel quale è possibile giocare con le immagini e con i formati, ora la tradizione dello speciale natalizio (o episodio natalizio), pratica ad appannaggio delle serie tv, si può estendere anche a un franchise nato per la grande sala e che in questa occasione festosa e speciale si trasferisce sul piccolo schermo di Disney+ per allietare le feste dei fan con una quarantina di minuti di buoni sentimenti, atmosfere natalizie e trovate comiche come da programma ci si aspetterebbe da un film dedicato ai Guardiani. Questo Holiday Special è un po' quello che nei fumetti era l'episodio fill-in all'interno delle serie regolari dei vari eroi, con qualche importante differenza. Se nei fumetti questi episodi servivano a far tirare il fiato al team creativo (sceneggiatore, disegnatore, inchiostratore) della serie affidando un episodio a dei sostituti che solitamente non proseguivano le trame principali ma creavano un mero riempitivo (magari anche molto sfizioso ma comunque appunto un fill-in), qui la formula usata da Gunn e già denominata da Disney Special Presentation (anche il film breve Licantropus rientra sotto questa etichetta) mantiene invariato il cast, il regista e la produzione (anche se il focus è puntato più che altro su Mantis e Drax) ma crea una digressione che permette di narrare una vicenda a tema (natalizio in questo caso) che ovviamente non poteva trovare posto al cinema in uno dei lungometraggi dedicati a questa banda scalcagnata di peculiari eroi.

Mentre Peter Quill (Chris Pratt) versa in uno stato depressivo a causa della scomparsa di Gamora, sulla stazione orbitante di Knowhere, attuale residenza dei Guardiani, Kraglin (Sean Gunn) racconta a Mantis (Pom Klementieff) e Drax (Dave Bautista) un episodio riguardante Peter quando era bambino, il suo mentore Yondu e lo spirito del Natale, una tradizione terrestre della quale né Youndu, né tantomeno Mantis e Drax sembrano avere colto l'essenza. Nonostante Mantis e Drax abbiano un genere di empatia per gli altri molto peculiare ed estranea al comune senso terrestre, entrambi amano Peter e capiscono, pur non capendo, quanto questa ricorrenza del Natale, che sulla Terra proprio in questi giorni si avvicina, possa aiutare Peter a migliorare il suo umore e attenuare il dolore per la sua perdita. Appresa l'usanza di scambiarsi dei regali per la festa, il dinamico duo decide di regalare a Peter qualcosa che per lui possa avere un grande valore, allora cosa può esserci di meglio se non regalare al loro grande amico quello che per lui è sempre stato l'eroe terrestre migliore di tutti gli altri? Ottima idea senonché, causa vecchie dichiarazioni dello stesso Star-Lord (nome di battaglia di Peter), pare che questo eroe altri non sia che il mitico Kevin Bacon. Così Drax e Mantis organizzeranno un viaggetto sulla Terra per andare alla ricerca di Bacon, rapirlo e portarlo a Peter come regalo di Natale.

In questo Holiday special James Gunn riesce a cogliere il classico spirito dei film natalizi mantenendo vivo l'approccio che ha finora caratterizzato il successo del brand legato ai Guardiani della Galassia. Al centro della narrazione c'è l'amore per quella strana famiglia che nel corso di questi anni sono diventati i Guardiani ai quali, forse, si unirà anche Cosmo, una cagna al centro di uno dei più ridicoli casi di gender swap finora messi in atto da Disney. Sotto i riflettori Drax e Mantis, la seconda riesce a ritagliarsi qui quello spazio che forse finora le è mancato all'interno dei film e lo fa portando ai fan sia una maggior conoscenza del personaggio sia qualche rivelazione che amplificherà la sorpresa per questo Natale inaspettato. L'episodio è un puro divertissement, si punta molto sulle canzoni di Natale, come tradizione vuole, alcune appositamente composte da Gunn insieme al gruppo degli Old 97's, una delle quali cantata sul finale proprio da Kevin Bacon. Come si confà all'occasione è la fiera dei buoni sentimenti, dei legami d'amicizia, di quello tra Peter e Yondu, figura paterna che vediamo in flashback nel prologo e nel finale del film realizzati in animazione (non esaltante tra l'altro), il pezzo forte però resta la vicenda Kevin Bacon, una star di Hollywood che si trova a venir rapita da una coppia di fulminati extraterrestri dall'apparenza non troppo rassicurante (almeno Drax), ma alla fine anche Kevin capirà che il tutto è a fin di bene e che lassù c'è qualcuno che ha davvero bisogno di questo Natale. Uscita da prendere per quello che è, un giocoso e gioioso omaggio al Natale in compagnia della banda più scalcagnata del MCU, purtroppo poco protagonisti Groot e Rocket ma un po' di spazio anche per loro rimane, chissà che questa non diventi un'occasione ricorrente in casa Marvel (l'anno scorso avevamo avuto la serie natalizia di Occhio di Falco, ne approfittiamo per fare i migliori auguri di pronta guarigione a Jeremy Renner).

giovedì 19 gennaio 2023

LE FORZE DEL DESTINO

(It's all about love di Thomas Vinterberg, 2003)

C'era una volta il Dogma 95, movimento del quale proprio Thomas Vinterberg, insieme al connazionale Lars Von Trier, è stato promotore e fondatore. Lo slancio dei due autori nacque dalla volontà di andare in controtendenza rispetto a un cinema, principalmente hollywoodiano, dominato dagli effetti speciali e da artifici visivi per tornare a un approccio più naturale alla materia, un ritorno alla recitazione, alle storie, a una messa in scena più semplice e spontanea. Vinterberg e Von Trier non portarono avanti queste idee in maniera aleatoria e improvvisata, no, si diedero delle vere e proprie regole da seguire, una sorta di decalogo grazie al quale i futuri film del Dogma, una volta appurato il rispetto delle regole che andremo a breve a menzionare, riceveranno anche una sorta di certificazione di appartenenza e un numero progressivo a completare il titolo dell'opera, una sorta di catalogo del movimento il cui esordio ufficiale toccò proprio a Thomas Vinterberg con l'ottimo Festen - Festa in famiglia, menzionato anche come Dogma #1. In breve altri registi si unirono all'iniziativa impegnandosi a seguire regole abbastanza stringenti: solo camera a mano, suono naturale e niente musica aggiunta in fase di montaggio, nessun oggetto estraneo alle scenografie in cui si girava e che non dovevano essere "costruite", illuminazione naturale sia in diurna che in notturna, narrazione lontana dai generi, unità di tempo e via discorrendo. Un esperimento di grande interesse che produsse trentacinque opere e che si chiuse a un decennio dalla sua nascita avvenuta (come da nome) nel 1995. Ora dal secondo film di Vinterberg, visto anche il successo di critica ricevuto da Festen che rimane tutt'oggi un grande film, ci si sarebbe aspettata la stessa aderenza al progetto, schiena dritta e andare, invece l'autore, come per una sorta di subitanea abiura, abbandona il Dogma per gettarsi (anche se non completamente) tra le braccia di Hollywood realizzando un film con tanto di effetti speciali, seppur non rutilanti, e siglando un'opera che non è nemmeno lontanamente riuscita come l'esordio e che lascia perplessi sotto più punti di vista.

Siamo in un futuro che ormai è già passato, Le forze del destino è ambientato nel 2021, il mondo è simile a quello che già conosciamo, almeno all'apparenza, ma si vedono chiari i segnali di un'avvicinamento al disastro incontro al quale la specie umana sembra dirigersi con un alto grado di noncuranza. Abbondano le morti improvvise, i cuori si fermano, i cadaveri vengono lasciati per strada o nei luoghi dei decessi senza che nessuno se ne curi, i passanti li scavalcano senza empatia né pietà. Inoltre le temperature, in barba al nostro riscaldamento globale, continuano ad abbassarsi delineando un pianeta sempre più freddo che va incontro a una sorta di nuova glaciazione, a New York nevica in Luglio, la gente sembra godersi il momento. Nel frattempo arrivano strane storie dall'Uganda dove la popolazione pare abbia iniziato a levitare. In questo strano scenario il relatore universitario John (Joaquin Phoenix), diretto in Canada, fa scalo nella Grande Mela per incontrare sua moglie Elena (Claire Danes) e farle firmare i documenti per il divorzio. Il rapporto tra i due non sembra però così pessimo, Elena è una famosa pattinatrice su ghiaccio intorno alla quale ruota sempre un numeroso staff oltre ai componenti della sua famiglia, tutta gente alla quale John sembra in fondo piacere parecchio. Dopo il primo incontro però avvengono episodi un po' strani, delle figure non facilmente identificabili dal principio fanno la loro comparsa e intorno a Elena sembra nascere un alone di pericolo e turbamento. Starà a John fare luce sulla situazione in un mondo che sembra non avere più punti fermi.

Confrontando le prime due opere di Vinterberg si può dire che l'uscita dal Dogma non abbia fatto bene al regista danese. Le forze del destino, che si fregia di un titolo italiano tanto anonimo quanto idiota, è un film che manca di messa a fuoco (nonostante qui, perdonatemi la battuta, Vinterberg abbia potuto usare tutti i mezzi a sua disposizione), è difficile capire dove il regista voglia andare a parare, non solo dal punto di vista narrativo, ma soprattutto nella volontà di comunicare o trasmettere qualcosa, può essere che la chiave di lettura sia quella di un'umanità rassegnata e indolente che non sa da che parte andare, cosa che si riflette in un film che non è di certo inguardabile ma che risulta un po' insapore, senza una direzione, difetto difficilmente perdonabile a un'opera seconda che sulle spalle si porta un predecessore illuminato come Festen. Altro "delitto" è lo sperpero di un attore come Sean Penn, relegato a una piccola parte non chiaramente leggibile, è il fratello di John che vaneggia a telefono a bordo di un aereo, mezzo di trasporto del quale apprendiamo lo stesso pare aver avuto il terrore fino a poco prima. Il nucleo centrale del film, quello che riguarda Claire e che qui non sveleremo, sembra non trovare un vero punto di interesse, anche Phoenix non può molto affogato in uno script confuso e poco accattivante anche dal punto di vista visivo. Rimangono alcuni buoni momenti, qualche location più interessante (i corridoi dell'hotel) e poco altro, peccato perché nel complesso si percepisce come qualcosa di meglio sarebbe potuta facilmente saltar fuori da questo lavoro, così non è stato, da guardare solo se si è fan del genere "fine del mondo in avvicinamento" con la consapevolezza che anche in questo segmento c'è di meglio da recuperare.

martedì 17 gennaio 2023

THE HUMANS

(di Stephen Karam, 2021)

Dramma da camera, anche se qui la camera si trasforma in un intero (seppur angusto per molti versi) appartamento. The humans è la trasposizione su schermo dell'omonima pièce teatrale scritta dallo stesso Stephen Karam (qui sceneggiatore e regista) e che portò il drammaturgo a vincere nel 2016 il Tony Award, uno dei premi più prestigiosi per quel che riguarda il mondo del teatro. Con la "lieta" occasione di una cena per il giorno del Ringraziamento da trascorrere in famiglia, Karam mette in scena i malesseri dell'oggi tramite le vicende dei Blake attraverso le quali sarà possibile, in maniera a volte diretta a volte metaforica, gettare uno sguardo profondo sulle paure e sulle preoccupazioni della società americana, estendibili anche oltre confine, che passano dalla situazione economica alla ricerca di una realizzazione personale, dalla paura per le malattie a quelle dettate dalle minacce esterne, dal cambiamento climatico, dall'invecchiamento o anche solo da una gestione dei rapporti familiari non sempre facili. A volte le paure sono meramente quelle dettate dalle proprie azioni, dalle conseguenze delle stesse, paure che si trasformano in veri e propri incubi minacciando di sostanziarsi in forme concrete nella realtà quotidiana di tutti i giorni. Sei personaggi pressoché sempre in scena con un'alternarsi serrato di battute e, almeno nella versione cinematografica, un settimo incomodo, l'appartamento, a fare la parte del leone: onnisciente, onnipresente, minaccioso fino a divenire terrorizzante.

La famiglia Blake si riunisce per il giorno del ringraziamento nel nuovo (nel senso di novità non di moderno) appartamento newyorkese che Brigid (Beanie Feldstein) dividerà con il suo compagno Richard (Steven Yeun). In visita arrivano i genitori di lei, Erik (Richard Jenkins) e Deirdre (Jayne Houdyshell), sua sorella Aimee (Amy Schumer) e l'anziana nonna ormai invalida Momo (June Squibb) costretta su una sedia a rotelle che renderà difficile la gestione della serata negli angusti spazi del vetusto appartamento. I preparativi per la cena iniziano tra discorsi cordiali e convenevoli, qualche difficoltà data dalle misure del luogo e dal fatto che i due ragazzi vi si sono appena trasferiti mancando quindi di parecchie comodità ancora di là da venire. Ma ciò che non convince papà Erik è in parte la struttura che presenta zone con caloriferi scrostati, pareti gonfie, scantinati bui, impianti vecchi e rumorosi e almeno una vicina di casa non troppo silenziosa. In realtà l'uomo riversa sulla nuova situazione alcune delle sue paure: una figlia molto lontana (i genitori vengono da fuori città), la previsione di costi newyorkesi insostenibili, l'ubicazione in una zona molto vicina a quella del fu World Trade Center che solleva spiacevoli ricordi e il timore che questa sia soggetta ad alluvioni e altre catastrofi ancora. Erik è agitato, ultimamente non dorme bene, ha degli incubi notturni e la cosa inizierà a pesare e farsi sentire con l'avanzare della serata. Richard e Brigid si confrontano con una situazione che forse non è quella da loro sperata, soprattutto per quel che riguarda le aspirazioni e l'aspetto lavorativo delle loro vite, il perseguimento delle loro passioni, mentre Aimee si sta relazionando con il dolore di una relazione finita e una malattia in via di peggioramento. Ma a traballare più di tutti sono i due capostipiti, quelle che dovrebbero essere le colonne portanti della famiglia e che vedono le loro fondamenta sgretolarsi sotto i loro piedi. 

Stephen Karam chiude i suoi personaggi in casa e getta via la chiave. L'alloggio che ospita il nucleo familiare dei Blake si pone da subito come poco ospitale, una volta dentro l'esterno viene completamente tagliato fuori: i vetri sono oscurati e comunque le finestre affacciano su spazi angusti, i corridoi sono strettissimi soprattutto per la sedia a rotelle di Momo, i due piani collegati da una scala in metallo che diventa passaggio continuo tra i due spazi rendono scomodi i movimenti, l'unico luogo di contatto sembra essere la tavola attorno alla quale si raccoglierà la famiglia andando verso il finale. È solo grazie alla sequenza iniziale che vediamo una sprazzo di cielo, la camera di Karam guarda dal basso verso l'alto le quattro mura del cortile dell'edificio che tratteggiano quella che sembra essere una sorta di prigione, come in seguito a tratti sembrerà l'ambito familiare, in alto lo squarcio azzurro forma delle geometrie in una bella sequenza che sembra opporsi a tutte quelle scontate panoramiche girate dai droni che ammorbano il cinema contemporaneo, si intravede anche una croce, simbolo di un credo religioso che tornerà a più riprese nel film, sentimento dal quale, forte o meno che sia, Erik e Deirdre cercano di trarre coraggio. Con il passare del tempo tra i vari protagonisti salgono le tensioni, qualche piccola accusa, qualche parola fuori posto, vengono fuori segreti e confessioni e tutte le paure dei Blake, soprattutto quelle di Erik, sembrano riversarsi in quei muri, nello scantinato, nelle stanze buie fino a prendere corpo. The humans non arriva mai a essere, come detto da più parti, un horror psicologico, si ferma parecchio prima e rimane (e non è affatto poco) un'ottima rappresentazione delle dinamiche familiari più difficili e dei pesi enormi che la società esterna è in grado di gettare su quella che dovrebbe essere la comunità più protetta per l'individuo che le appartiene. Karam mantiene l'impostazione teatrale ma gioca bene con il set, con i suoni, con le luci, donando profondità a questo kammerspiel fatto più che altro di dialoghi e sensazioni. Lo scenario è a tratti claustrofobico, non è un horror The humans ma i fantasmi ci sono tutti, sono i nostri, quelli che albergano nell'animo umano, nelle nostre paure e nelle nostre reazioni, quelli che rischiano di farci fare danni e incrinare anche i rapporti con le persone a noi più care.

lunedì 16 gennaio 2023

CLÉO DALLE 5 ALLE 7

(Cléo de 5 à 7 di Agnès Varda, 1962)

Agnès Varda, scomparsa nel 2019, è stata una voce di primo piano per il cinema mondiale sotto diversi aspetti, alcuni anche rifiutati o tenuti in scarsa considerazione dalla stessa autrice ma riconosciuti invece dai suoi colleghi e dalla critica tutta. La regista belga di adozione francese viene indicata come la prima vera autrice femminile nel campo della settima arte grazie alla sua visione di cinema afferente al reale, immersa nei movimenti e nella vita della città, una Parigi meravigliosa ormai per noi d'altri tempi (almeno in questo Cléo dalle 5 alle 7); in base a questa e ad altre caratteristiche la Varda è indicata tra gli esponenti maggiori della Nouvelle Vague francese insieme a colleghi più che blasonati quali François Truffaut, Jean-Luc Godard, Éric Rohmer, Alain Resnais e diversi altri, addirittura viene a lei attribuita la nascita del movimento grazie al suo primo lungo (La pointe courte) che anticipa di ben cinque anni quello che è poi diventato un po' il film simbolo dell'intera Nouvelle Vague, quel Fino all'ultimo respiro di Jean-Luc Godard che vede protagonisti Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg e anche qui la Parigi degli anni Sessanta. Si trovano nel cinema della Varda una grande vivacità e un'innovazione formale, una cesura rispetto a quanto fatto dai suoi predecessori e una costruzione del film e della narrazione molto originali, caratteristiche che si possono ammirare in buona misura anche in questo Cléo dalle 5 alle 7, film che proprio di recente è stato votato dalla nutrita e autorevole giuria messa insieme dalla rivista Sight and Sound al quattordicesimo posto tra i film più significativi (belli/migliori, fate voi) della storia del cinema.

La giovane e bellissima Cléo (Corinne Marchand) si reca da una cartomante per avere delle rassicurazioni sul suo imminente futuro; la donna sembra tutto sommato riuscire a inquadrare per bene la vita della ragazza, quando però il discorso si sposta sulla morte e sulla malattia la cartomante (Loye Payen) non riesce a vedere giorni lieti in arrivo per Cléo la quale le chiede di provare a leggerle la mano. Dopo averla guardata, la cartomante imbarazzata e preoccupata le mente dicendole di non saperla leggere. Cléo è da pochi giorni stata in ospedale per alcuni esami, lì il medico che l'ha seguita le ha prospettato la possibilità di essere affetta da un cancro, da qui il turbamento della ragazza. Uscita dalla cartomante, insieme alla sua domestica Angela (Dominique Davray) Cléo cerca dei modi per ingannare il tempo, ha circa due ore da far passare prima di recarsi in ospedale a ritirare gli esiti degli esami, gira così per Parigi, fa qualche compera, si ferma nei bistrò, incontra i musicisti che per lei compongono le canzoni, Cléo è infatti una cantante finora un po' frivola e a volte capricciosa, spesso oggetto del desiderio degli uomini, una donna alla quale la prospettiva di una grave malattia apre ora nuovi orizzonti e la porta a riflettere in modo diverso e più profondo sulla sua vita.

Nel chiaro e comprensibile nervosismo che si accompagna a un'attesa come quella alla quale è costretta Cléo, seguiamo in tempo pressoché reale il tratto della giornata della nostra protagonista che va dalle cinque alle sette di un pomeriggio qualunque (per noi ma non per lei). La narrazione è suddivisa in brevi capitoli scanditi dall'orario, ognuno dei quali presenta l'attività in cui Cléo è impegnata in quel momento. La Varda apre con il colore, un'inquadratura ravvicinata sui tarocchi e sul futuro della giovane che fin da subito si volge in un bianco e nero nitido che ci accompagnerà fino alla conclusione. La regia è movimentata da tagli repentini di montaggio, da movimenti di macchina eleganti e da una scelta delle inquadrature studiata e che riesce a moltiplicare i punti di vista sull'immagine, si pensi al gioco di specchi all'interno del bistrò (sequenza da incorniciare) o ai riflessi sulle vetrine dei negozi parigini. Il montaggio vivace, frammentato è indice anche del turbamento e dell'agitazione della protagonista che si traduce nell'impossibilità di stare ferma. Lo stato d'animo di una Corinne Marchand semplicemente splendida (con o senza parrucca) si traduce in una corsa per le vie di Parigi, nei suoi locali, nei negozi (la difficile scelta del cappello è sintomo di irrequietezza), sui bus, nel giro in taxi, tutti passaggi che ci restituiscono non solo il momento particolare di Cléo ma anche la meraviglia della Ville Lumière. Nell'illustrarci tutto questo la Varda non manca di immergere la sua Parigi nell'attualità di quegli anni: la taxista segno del movimento femminista e dei tempi in cambiamento, gli accenni alla Piaf, alla guerra in Algeria, le proteste dei contadini francesi, un contesto rimarcato nel quotidiano, nel veritiero, anche dai frammenti di discorsi della gente comune che si sovrappongono a quelli dei protagonisti. Cléo dalle 7 alle 5 ci mostra il tempo che intercorre tra una previsione e una certezza, offerta a Cléo con la stessa leggerezza con la quale lei, fino a quel momento, aveva affrontato la vita. Da lì in avanti forse le cose cambieranno, grazie a un nuovo incontro, magari alla condivisione di un nome. Film di grande eleganza formale, due ore (meno in realtà) che corrono via veloci, di certo più velocemente per noi spettatori che non per la bella Cléo, a dimostrazione della relatività del tempo.

giovedì 12 gennaio 2023

OASIS

(Oasiseu di Lee Chang-dong, 2002)

Torniamo a stretto giro al cinema di Lee Chang-dong con un altro film bellissimo che conferma ancora una volta la caratura di un autore straordinario. Sono passati solo un paio d'anni dal precedente Peppermint candy e il regista sudcoreano torna con questo Oasis, film con il quale ottiene l'importante riconoscimento internazionale al Festival di Venezia (per la miglior regia e per la migliore attrice protagonista) e circa una quarantina di premi distribuiti tra vari festival "minori" in più continenti. Per questo Oasis Lee Chang-dong si affida nuovamente alla coppia d'attori composta da Sol Kyung-gu e Moon So-ri già protagonisti del suo film precedente e qui principali artefici della buona riuscita di un'opera graziata da due prove d'attore eccellenti, in particolare quella della bravissima Moon So-ri che per girare questo Oasis deve aver passato momenti decisamente impegnativi. Film dolenti quelli del regista, c'è ancora da soffrire, questa volta non per una bensì per due esistenze difficili, quelle di due personaggi, Hong Jong-du e Han Gong-ju, nei quali gli attori riescono a calarsi con una grazia dolente, anche molto energica per alcuni versi e davvero degna di nota, un passo avanti che permette a Lee Chang-dong di elaborare un suo stile e sviluppare la sua riflessione sulla sofferenza umana e sull'indifferenza a questa condizione della società circostante con chiaro riferimento alla sua Corea del Sud.

Hong Jong-du è appena tornato dalla sua famiglia dopo aver passato gli ultimi anni in carcere. Il giovane, guidando in stato di ebrezza, ha ucciso involontariamente un uomo. Hong è un immaturo incapace di stare in società a causa di quello che sembra un lieve ritardo, il giovane uomo è indipendente ma non ha mai lavorato in vita sua, non riesce a tenere un comportamento consono in pubblico, ha difficoltà a stare fermo, si muove in continuazione, tira su con il naso, non ha ben presente quali sono i limiti di buona creanza che la società impone. Eppure Hong non è un violento, di per sé avrebbe anche un animo delicato e altruista che però fa fatica a venir fuori a causa dei suoi comportamenti eccentrici. Dopo aver in breve tempo infastidito il fratello maggiore (Ahn Nae-sang) e gli altri parenti, Hong decide di andare a casa della vittima di quel vecchio incidente per scusarsi con la famiglia del dolore causato, qui incontra la figlia della vittima, Han Gong-ju, una ragazza affetta da paralisi spastica che vive in stato di abbandono da parte della famiglia in un fatiscente caseggiato popolare. In preda ad un raptus animale Hong tenta di usare violenza sulla donna, poi pentito si scusa con lei e fugge dopo averle lasciato un biglietto da visita. Dopo qualche tempo sarà Han a chiamare Hong chiedendogli di rivederlo, forse proprio perché quello strano ragazzo sembra averla vista come una donna e non come un'handicappata, un peso per la sua famiglia come la vedono tutti gli altri.

L'impatto che ha lo spettatore nel vedere per la prima volta i due protagonisti insieme è molto forte, la scena di questo ragazzo un po' tocco che tenta di stuprare una disabile affetta da un handicap grave è realmente disturbante, quello che Lee Chang-dong mette in scena ha tutte le caratteristiche del colpo basso, una situazione collocata per di più in una dimensione di semi degrado, di abbandono familiare, in una zona fatta di cemento e casermoni (incorniciati però da splendide montagne all'orizzonte) a rendere tutto ancor più duro, triste e spietato. Poi Oasis pian piano si apre e vede un ribaltamento totale e progressivo, l'elemento che sembrava portare distruzione (Hong Jong-du) si rivelerà invece essere quello capace di ricostruire, cambiare rotta e darsi senza chiedere nulla in cambio, un mutamento che porterà grande giovamento a Han che per la prima volta vede qualcuno interessarsi a lei in maniera sincera come neanche i suoi consanguinei hanno mai fatto, presi dalle loro vite e dalla possibilità di far fruttare la situazione a loro vantaggio. Saranno invece la società esterna, le famiglie di Hong e Hang a diventare elementi distruttivi non riuscendo a riconoscere qualcosa di puro perché distante dal pensare comune, non accettato, visto come disturbante e disdicevole, emblematica in questo senso la sequenza della cena in famiglia per il compleanno della madre di Hong. C'è alla base del film uno sguardo impietoso del regista nei confronti della società sudcoreana, come spesso accade nelle cinematografie del fareast la solitudine, il disinteresse delle istituzioni per i propri cittadini, la mancanza di solidarietà sono elementi ricorrenti del cinema recente, di contro c'è anche una gestione dei personaggi che in alcuni momenti diventa pura poesia (con tocchi onirici qua e là). Sulla sequenza del prefinale è impossibile non commuoversi, quando dall'oasi del titolo vengono eliminate tutte le paure con un ultimo grande gesto d'amore. Moon So-ri offre un'interpretazione impressionante, portare avanti un ruolo come questo dev'essere stata una vera impresa, molto credibile anche Sol Kyung-gu, insieme una coppia da ricordare. Così Lee Chang-dong mette sul piatto una storia d'amore che va fuori dai canoni, con momenti non proprio ad "alta digeribilità" ma capace di creare magia anche lì dove nessuno si cura di vederla.

lunedì 9 gennaio 2023

GLASS ONION - KNIVES OUT

(Glass Onion: A knives out mystery di Rian Johnson, 2022)

Più che un sequel del successo del 2019 Cena con delitto - Knives out questo Glass onion è semplicemente un'altra avventura che vede protagonista il (finto?) goffo investigatore Benoît Blanc, interpretato ancora una volta in maniera molto divertente da un Daniel Craig in vacanza premio dal suo ruolo di serioso James Bond. In regia troviamo sempre Rian Johnson a dare continuità al progetto insieme a tutto il suo staff di collaboratori; di nuovo per mettere in scena il mistero di turno viene raccolto un cast di tutto rispetto che oltre al già citato protagonista può contare sull'apporto di gente come Edward Norton, Janelle Monáe, Dave Bautista, Kate Hudson, Kathryn Hahn e altri nomi noti oltre che su alcuni cameo di primissimo piano (Hugh Grant tanto per citarne uno). Si reitera l'aspetto ludico nella struttura del film, anzi lo si moltiplica in una serie di costruzioni e ricostruzioni a catena, tanto che per Glass onion il modello non è più nemmeno il mystery all'inglese, la costruzione alla Agatha Christie, la parodia alla Invito a cena con delitto, il modello ora è autoriferito, un'estensione dello stesso primo Knives out, che questo poi sia un bene o un male sarà il gusto del singolo spettatore a deciderlo.

Siamo negli anni della pandemia Covid-19: in barba ai divieti i ricchi borghesi continuano ad organizzare eventi e a dare feste selvagge, come quella organizzata della stilista Birdie Jay (Kate Hudson) e dalla sua assistente Peg (Jessica Henwick). Nonostante il caos che regna al party Birdie si annoia, per fortuna a risollevare il suo umore arriva un pacco, una scatola con degli enigmi da risolvere che nasconde al suo interno un invito da parte dell'impresario e inventore Miles Bron (Edward Norton), uno degli uomini più ricchi del pianeta, a partecipare a un'esclusiva cena con delitto sulla sua isola privata, in una casa da favola e ultramoderna. A ricevere la scatola enigma anche lo scienziato Lionel Toussaint (Leslie Odom Jr.) dipendente di Bron, la governatrice del Connecticut Claire Debella (Kathryn Hahn), l'influencer Duke Cody (Dave Bautista) con la sua ragazza Whiskey (Madelyn Cline) e Cassandra Brand (Janelle Monáe), ex socia dello stesso Miles Bron e malamente estromessa dalla società multimilionaria che i due avevano creato insieme, la Alpha Industries. L'ultima scatola arriva all'investigatore Benoît Blanc (Daniel Craig), l'unico tra i vari invitati a non avere una connessione diretta con il padrone di casa, ma quest'ultimo invito si rivelerà essere una sorta di "fuori programma". Una volta giunti gli ospiti sulla splendida isola di Bron passerà poco tempo prima che la cena con delitto del padrone di casa produca un cadavere vero e proprio invece del programmato intrattenimento ludico. Starà ovviamente a Benoît Blanc venire a capo dell'intricata faccenda e scoprire il vero colpevole prima che i morti comincino ad accatastarsi uno sull'altro.

Al secondo capitolo per il franchise di Knives out il giochino (questo è) mostra già la corda; il film è un puro divertissement che non diverte nemmeno poi troppo, la confezione è lussuosa, il cast in palla con un Daniel Craig che probabilmente si diverte come un matto (lui si) nella parte del finto scemotto e un Edward Norton che purtroppo fatica a trovare quei ruoli interessanti che per lui sembravano prospettarsi a inizio carriera (Schegge di paura, Fight club, American history X, La 25a ora), Rian Johnson si concede in toto all'aspetto ludico del film, piazza Mcguffin, costruisce e ricostruisce, riparte e riavvolge e strato dopo strato toglie zavorra alla cipolla di vetro del titolo (fisica, di rimando e metatestuale) per arrivare al suo cuore, alla risoluzione dell'enigma. Giocare per giocare nel primo capitolo si poteva contare su una costruzione d'ambiente più calata nel genere e affascinante: il vecchio maniero, i suoi corridoi, l'atmosfera d'altri tempi ben si sposavano con i rimandi al giallo classico e al Cluedo, gioco apertamente citato in questo Glass onion ma che appare ormai un poco fuori contesto calato in questa assolata isola tropicale con villa avveniristica. Per fortuna c'è appunto un gran bel cast che si guarda con piacere, nonostante il genere solitamente richieda attenzione qui il cervello trova spazio a sufficienza per scollegarsi, per carità, ci si intrattiene per un paio d'ore e più ma a fine visione quell'effetto di soddisfazione che lasciano i film davvero ben realizzati latita. Siamo noi che siamo diventati troppo rompipalle ed esigenti o sono loro che ci propinano troppi prodotti di scarso interesse? A Benoît Blanc l'ardua sentenza.

sabato 7 gennaio 2023

PRAYERS FOR THE STOLEN

(Noche de fuego di Tatiana Huezo, 2021)

Tatiana Huezo è una regista nata in El Salvador con doppia nazionalità, oltre a quella del paese d'origine possiede anche quella messicana, paese nel quale la Huezo attualmente risiede e dove è cresciuta fin dalla tenera età. Tramite i suoi corti, i suoi documentari e grazie ora al suo primo lungometraggio di finzione la Huezo cerca di sensibilizzare lo spettatore su quella che è una piaga e un vero e proprio dramma in atto continuo in alcune località del Messico dove a spadroneggiare sono i cartelli del narcotraffico e dove le forze dell'ordine sono impotenti o spesso colluse con il malaffare, tutto a discapito delle popolazioni locali assoggettate alla schiavitù del lavoro nelle piantagioni e ancor peggio per le giovani donne, al probabile futuro di schiave sessuali o vittime del traffico di esseri umani. Quella della Huezo è una delle tante nuove voci femminili che grazie alla distribuzione di alcune piattaforme si stanno affacciando con maggiori possibilità a un pubblico sempre più vasto, è una voce potente che già da questa sua prima incursione in un'opera di finzione coglie nel segno e ci colpisce con una narrazione che, senza essere mai estrema, è capace di tagliarci le gambe di fronte alle brutalità che gli uomini permettono che accadano alle loro figlie. Allora è necessaria una preghiera per queste vite in fioritura che si perdono, che vedono spezzati i loro sogni, le loro speranze, la loro crescita, è necessaria affinché il dramma venga ricordato in quanto assente dalle narrazioni che ci vengono quotidianamente proposte e affinché queste bambine non vengano rimosse e totalmente ignorate dal discorso pubblico. 

Nella zona di San Miguel la popolazione, quasi totalmente femminile, è tiranneggiata dai cartelli della droga. Gli uomini spesso lavorano lontano da casa per cercare di guadagnare qualcosa o ancora peggio finiscono a far parte di quel giro di malaffare che diventa la principale minaccia per le vite delle giovani bambine e future donne di San Miguel. Così sta alle madri provvedere alla sicurezza delle loro ragazze, Rita (Mayra Batalla) è la mamma della piccola Ana (Ana Cristina Ordóñez González), fin dalla tenera età della figlia Rita cerca in tutti i modi di far capire ad Ana i pericoli insiti nel loro luogo di appartenenza, le insegna a passare inosservata, a non attirare l'attenzione, a non allontanarsi e soprattutto a scappare e nascondersi non appena si palesa il sospetto dell'arrivo dei narcotrafficanti nel villaggio. Con tutto ciò sempre ben impresso in testa Ana cerca di vivere una vita il più possibile felice con le sue amiche Maria (Blanca Itzel Pérez) e Paula (Camila Gaal), prima con i giochi, poi con le confidenze e soprattutto frequentando la piccola scuola del paese dove le ragazze hanno modo, nella persona del maestro Leonardo (Memo Villegas), di confrontarsi con una delle poche figure maschili positive presenti nella loro vita. Quando le ragazze crescono e arrivano nel fiore degli anni, per Ana (Marya Membreño) e per sua madre Rita le cose si fanno più difficili, con la maturità le giovani donne diventano prede ambite per i narcotrafficanti, evitarli diventa sempre più difficile.

Anche le cose più semplici come un taglio di capelli in Prayers for the stolen spezzano il cuore, vedere una bambina (la tenera e bellissima Ana Cristina Ordóñez González) piangere per i suoi capelli persi, a causa dei pidocchi dice la madre Rita, in realtà per nascondere una femminilità a quelle latitudini pericolosa, diventa una sequenza straziante se ci si ferma a pensare che quel racconto di fantasia è realtà, nuda e cruda e insopportabile. La regia della Huezo non ha nulla dell'esordiente: la scansione narrativa, la gestione delle immagini, la qualità delle stesse sono da professionista scafata, i dettagli sui piccoli insetti che abitano la montagna intorno al villaggio, le riprese sul verde lussureggiante, sui bianchi e sui grigi delle cave (di gesso?), insieme a una fotografia limpida, donano un nitore alle immagini di altissimo livello. All'interno di questa narrazione molto dura la Huezo non lesina su trovate visive affascinanti (i cellulari accesi in cima alla montagna, dove il segnale è più forte), al contenuto di grande impegno accompagna una forma compiuta e attraente che prova diverse soluzioni con ottimi esiti. La Huezo gestisce bene la tensione narrativa, se nel villaggio un cane abbaia è subito paura, è una paura reale per le sorti di queste bimbe a cui non è dato sognare (cosa che le piccole fanno sempre e comunque), di queste adolescenti a cui non è dato vivere sessualità e femminilità, in un ciclo di violenza che in qualche modo andrà spezzato e nei confronti del quale al momento l'unica alternativa è la fuga. Tra le piaghe messe in evidenza dal film anche il lavoro minorile e il rigenerarsi di questo ciclo di violenza che non si ferma mai e che cerca sempre nuovi adepti anche nelle famiglie per bene, anche nelle famiglie delle stesse vittime. La regista messicana trova delle bellissime interpreti, le tre bambine e poi le tre adolescenti riescono a creare tra loro una bellissima alchimia che ci fa soffrire ancor di più di fronte agli eventi messi in scena. Prayers for the stolen non è solo un film doveroso ma è anche un'opera bella che lascerà nel tempo un ricordo doloroso e, si spera, una maggiore consapevolezza.

venerdì 6 gennaio 2023

AVATAR - LA VIA DELL'ACQUA

(Avatar: The way of water di James Cameron, 2022)

Sono passati tredici anni dal primo capitolo di Avatar e tutti quanti (in realtà io non tanto) stavano aspettando in trepidante attesa il ritorno di James Cameron al mondo di Pandora. In questi anni di pausa Cameron si può dire si sia dedicato quasi completamente a questo progetto, allo studio delle nuove tecnologie e a come applicarle al meglio alla sala e alla narrazione cinematografica; tra il primo Avatar e questo secondo capitolo qualche impegno da produttore e un paio di sceneggiature (Alita e Terminator: Destino oscuro) ma il grosso delle sue energie il regista canadese pare averlo dirottato qui, su Pandora, sul (molto) prossimo capitolo e, forse, su altri sequel ancora. Non è facile valutare un film come Avatar - La via dell'acqua, uscita di certo importantissima almeno per due ragioni: la prima è legata alle possibilità tecniche messe alla prova con questo film da Cameron (con ottimi esiti) e allo sviluppo che ne potrebbe conseguire per una visione del cinema proiettata verso il futuro; la seconda, più veniale, è la boccata d'ossigeno rigenerante che un film come questo potrà portare alle sale, all'industria cinematografica in previsione di incassi che saranno senza dubbio alcuno decisamente alti. Quindi che fare, partire da qui per elaborare le proprie considerazioni, tenendo conto dell'importanza tutt'altro che marginale di ciò che abbiamo appena detto, o valutare la narrazione di questo secondo capitolo che, a dirla tutta, è di certo meno interessante dell'aspetto tecnico, della realizzazione in 3D del film e della resa visiva di un mondo acquatico che lascia a bocca aperta lo spettatore? E se avesse ragione Peter Greenaway quando diceva che "il cinema è un mezzo di espressione troppo ricco per lasciarlo ai narratori di storie"?

Jake Sully (Sam Worthington) e la sua compagna Na'vi Neytiri (Zoe Saldana) vivono ormai da tempo in pace sul pianeta Pandora, la famiglia si è allargata con i tre figli della coppia: Neteyam (Jamie Flatters), giudizioso e obbediente, Lo'ak (Britain Dalton), adolescente ribelle con una grande capacità di ficcarsi nei guai e la piccola Tuk (Trinity Jo-Li Bliss). Inoltre i due si prendono cura anche di Kiri (Sigourney Weaver), un'adolescente di razza Na'vi nata dall'avatar della dottoressa Augustine (sempre Sigourney Weaver) e di Spider (Jack Champion), ragazzino umano figlio del defunto colonnello Quaritch al tempo della cacciata degli umani da Pandora troppo piccolo per affrontare il viaggio di ritorno verso la Terra. La famiglia è unita, la connessione con la terra e con le specie viventi di Pandora sempre più forte, ma a rompere l'equilibrio tornano gli umani conquistatori, tra di loro c'è anche un avatar di nome Quaritch, una specie di clone del colonnello nel quale sono stati impiantati i ricordi del detestabile militare ma che mantiene una sua consapevolezza, l'avatar sa di essere un clone e non il colonnello. Ciò nonostante Quaritch perseguirà una vendetta personale contro la famiglia di Sully la quale sarà costretta a fuggire e a chiedere asilo presso la tribù acquatica dei Metkayina governata dal giusto Tonowari (Cliff Curtis) e dalla compagna (la vera regnante) Ronal (Kate Winslet). Qui la famiglia Sully imparerà un nuovo livello di connessione con il pianeta e con le sue specie marine, ma l'uomo purtroppo arriverà anche qui.

Partiamo col dire che, parere personale, non mi trovo troppo d'accordo con Greenaway, il cinema fatto di sola forma non mi entusiasma, d'altronde le possibilità di trovare nuove vie del narrare ci sono, innovare è possibile e i due Avatar di Cameron a conti fatti ne sono una chiara dimostrazione. Infatti, oltre a una forma esaltante, qui c'è anche una narrazione, tradizionale e lineare, magari debole, per qualcuno anche abborracciata o quantomeno superficiale, ma è indubbio che dal punto di vista narrativo il film sia più che classico, il nuovo sta tutto nel modo di narrare, una svolta (non totale, lo stacco dal primo Avatar non è così significativo) che avviene tramite la forma. Qui sta la difficoltà prima accennata nell'inquadrare questo La via dell'acqua. Abbiamo tre ore e rotte di un film d'avventura realizzato con un 3D che raggiunge il suo apice di avvolgente bellezza nelle riprese sottomarine, nell'acqua, elemento notoriamente molto difficile da gestire su schermo (crearlo in digitale credo sia una specie di incubo per gli animatori, fare riprese sottomarine di livello un compito non per tutti), tre ore che passano senza colpo ferire. L'esplorazione dei mari da parte dei giovani della famiglia Sully è qualcosa che si fa difficoltà a descrivere a parole, quelle sole sequenze meritano il prezzo del biglietto. L'impatto visivo è fantastico. Potremmo chiuderla qui, vale la pena spendere i soldi del biglietto per questo secondo capitolo di Avatar? Sicuramente si, il film è un'esperienza per gli occhi irrinunciabile. Per tutto il resto diciamo che ne vale la pena se vi è piaciuto il primo capitolo. La vicenda è gestita un po' così... un esempio: dopo il primo attacco degli umani quella di Quaritch contro Sully diventa una classica vendetta personale. Ma non la classica vendetta da film western, no, una vendetta che comporta una distruzione di mezzi talmente massiva, una perdita di vite umane (dalla parte proprio degli umani intendo) così cospicua, una devastazione ai danni delle razze autoctone così devastante che ci si chiede, ma a che pro? Ma chi la finanzia questa vendetta personale? A che scopo miliardi di dollari dei contribuenti devono finire sprecati in questa vendetta? Ma dove sta il senso di tutto ciò? Detto questo poi abbiamo i temi ecologici cari a Cameron, rapporti molto difficili tra padri e figli adolescenti, figure femminili in chiaro risalto con un ribaltamento di genere dove qui l'uomo fugge per proteggere la famiglia (fallendo) mentre la donna combatte (incitando la violenza; ma davvero vogliamo un ribaltamento delle figure di questo tipo?) e altri sottotesti sicuramente non nuovi. Ciò che conta è (solo?) lo sguardo di Cameron, il nostro sguardo sulle sue meraviglie, la sua ossessione per l'acqua e l'impegno nel travalicare i confini dell'immagine. Poi che si vogliano trovare letture più stratificate e profonde come è capitato di leggere a proposito di questo film è il gioco (a volte utile e illuminante, a volte forzato) della critica; qualche giorno fa guardavo Guida perversa al cinema, chiaro esempio dove in mezzo a teorie affascinanti e illuminanti è possibile anche scovare forzature atte a uso e consumo del proponente la teoria di turno e trovare conferme a tesi che si ha la volontà di sostenere a priori. Impossibile quindi dare un giudizio univoco, almeno per chi scrive, sarà una contraddizione magari, un po' come sostenere la causa del contatto estremo con la natura affidandosi a tecnologie avanzatissime che del naturale fanno quasi a meno (c'era Kate Winslet nel film. Ah si?), forse a sostenere il naturale al cinema c'era il Dogma più che questo Avatar. Quindi si, alla fine Avatar - La via dell'acqua è un film da vedere, per il resto been there, done that, bought the T-shirt.

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