domenica 30 aprile 2023

ERASERHEAD

(Eraserhead di David Lynch, 1977)

Sono ormai passati più di quarantacinque anni dall'uscita di Eraserhead, esordio di un giovane David Lynch nel lungometraggio, e ancora oggi, che di cinema ne abbiamo visto molto altro (opere di Lynch comprese), non abbiamo i mezzi per decifrare un film come questo, nonostante interpretazioni legate all'inconscio o alla dimensione più terrena ne siano state date più d'una senza mai arrivare a nulla di risolutivo; e non è detto che si possa, e non è detto che sia necessario, e non è detto che si debba. Eraserhead è un film considerato oggi seminale proprio perché non lascia appigli alla razionalità, perché si muove interamente in un mondo onirico che non necessita di spiegazioni seppure alcune di quelle date nel corso degli anni possano anche sembrare plausibili; sappiamo che in tutte le opere di difficile decifrazione, se si vuole, ci si può mettere di punta, muoversi nella direzione che si preferisce e cercare di far tornare i conti, con più o meno forzature, al fine di validare l'interpretazione che ognuno di noi preferisce sposare. Ma con Eraserhead (e con Lynch) nasce una concezione di cinema dove le sensazioni, le atmosfere e soprattutto le inquietudini la fanno da padrone, in barba alla trama e a tutte le regole scritte della narrazione, pur tenendo conto che nel mare di stranezze messe in scena con Eraserhead non è difficile intravedere una linearità di base al quale è comunque difficile attribuire un senso. Ciò che veramente qui importa è il lavoro fatto con le immagini, con la luce, con i suoni, in un bianco e nero espressivo che anticipa tanti segni di stile del regista di Missoula e che poi esploderanno nelle opere successive di Lynch, molte delle quali più abbordabili di questo esordio (anche se non proprio tutte).

In un mondo post qualcosa (atomico, industriale, crollo economico, razionale) il timido tipografo Henry Spencer (Jack Nance) rientra a casa attraversando uno squallido quartiere che dà l'idea della rovina più totale; una volta a casa una vicina gli comunica che in sua assenza è passata una sua ex fiamma, Mary (Charlotte Stewart), per invitarlo da lei per una cena. Quando Henry si presenta a casa della ragazza conosce la sua famiglia grottesca e peculiare: il padre Bill (Allen Joseph) con un'espressione stralunata costantemente stampata in faccia e la madre (Jeanne Bates), una donna senza peli sulla lingua che appena può approfitta per chiedere a un Henry molto a disagio i suoi trascorsi sessuali con la figlia. Viene fuori che Mary è incinta; a breve i due andranno a convivere con il bambino che si rivelerà non essere un vero bambino ma un feto mostruoso che si lamenta di continuo, anche quando una volta rimasto solo Henry cede alle lusinghe della conturbante vicina di casa (Judith Roberts). Intanto Henry fa sogni strani durante i quali vede una donna dalle guance deformate e gonfie (Laurel Near) che canta per lui e schiaccia embrioni di grandi dimensioni. Gli incubi continuano e Henry perde letteralmente la testa (che poi verrà trasformata in gommini per matite, gli eraserhead del titolo, ma questo è un dettaglio) ma tutto sembra muoversi sempre più solo su un piano onirico...

In Eraserhead si inizia a vedere il Lynch che verrà, quello delle sue opere più celebri, nei passaggi da un mondo (onirico) all'altro, in quei dettagli di confine già riconoscibili. Chi (ri)guardando oggi Eraserhead può non pensare a Twin Peaks al palesarsi di drappi e tendaggi, al comparire di quelle geometrie ora note che compongono pavimenti di spazi che sembrano sale d'attesa per l'ignoto e l'inconcepibile? Chi può non pensare al Lynch a venire di fronte a quelle lampade a stelo appoggiate al muro a illuminare il quadro (dello schermo) in una maniera così peculiare? E all'udire quei rumori? Quelle scariche elettrostatiche? Qui c'è già il David Lynch che ameremo di più e che in quel 1977 irrompeva con una creatura informe tutta da catalogare (auguri!) che se ne infischiava di ogni senso se non di quello di un mondo altro (sogno, inconscio, chiamatelo come vi pare) che non concede grossi appigli al reale, nonostante le varie letture posteriori sul terrore della paternità (anche accettabili se vogliamo, come si diceva qui sopra). È un unicum David Lynch nel panorama cinematografico ed Eraserhead dimostra come il regista lo sia stato fin dal principio, fin da quando rischiò di finire gambe all'aria per realizzare un film (questo) assolutamente anti commerciale e che vide una gestazione lunga quasi sei anni; poi le proiezioni di mezzanotte, poi la fama di cult movie, poi il successo, poi la storia...

giovedì 27 aprile 2023

L'INCUBO SUL FONDO

(Creatures of the abyss di Murray Leinster, 1961)

Lo scrittore statunitense Murray Leinster (all'anagrafe William Fitzgerald Jenkins) ha iniziato a scrivere fantascienza già dai primi anni 20 del 1900, il primo racconto ascrivibile al genere firmato dall'autore, Il grattacielo impazzito, risale addirittura al 1919. Tra sortite nel giallo, nel western e finanche nel romanzo rosa, il grosso del corpo d'opera di Leinster è dedicato proprio alla fantascienza ed è a lui che vengono attribuiti i primi slanci verso il multiverso nella letteratura di genere grazie al racconto Bivi nel tempo del 1934. Nel corso degli anni le opere brevi di Leinster vengono pubblicate su alcune delle riviste statunitensi più celebri per quel che riguarda la letteratura del fantastico: Amazing Stories, Astounding Stories, Startling Stories fino ad arrivare alla longeva Analog. L'incubo sul fondo è un romanzo breve del 1961, siamo già nell'ultimo decennio della carriera dell'autore di Norfolk (Virginia), che in Italia trovò la sua prima pubblicazione già nel 1962 proprio tra le pagine di Urania, ristampato più volte nel corso degli anni trova nuova vita nella dodicesima uscita della collana Urania 70 anni di futuro ritagliandosi uno spazio tutto sommato meritato, almeno per chi come me non vanta una conoscenza enciclopedica del genere e non ha mai avuto occasione di leggere questo libro in precedenza.

Terry Holt sta smantellando la sua una volta fiorente attività di materiale elettronico a Manila, nelle Filippine. L'ex socio di Holt deve aver combinato qualcosa di strano, in più nella comunità locale di pescatori si è creato un alto grado di malumore nei confronti di un'imbarcazione di nome Rubia che sembra aver ottenuto in chissà che modo il monopolio del pescato di quei mari: mentre le altre imbarcazioni tornano a riva con le pive nel sacco la Rubia rientra dalle sue escursioni sempre stracarica di pesce, una situazione incomprensibile che forse potrebbe avere a che fare con uno degli apparecchi elettronici venduti dalla Jimenez & Company, la piccola ditta di cui Holt è socio. Mentre Holt impacchetta le sue cose, sotto la supervisione di un capo della polizia apparentemente cordiale ma dai comportamenti affatto disinteressati, una ragazza entra nel negozio e propone a Terry una collaborazione, prima per la creazione di qualche strano apparecchio sottomarino, poi per prendere parte a una spedizione di ricerca sull'attrezzatissima imbarcazione Esperance. I modi della ragazza sono molto gentili e condiscendenti ma da subito a Holt sembrano troppo misteriosi e manipolatori, non di meno l'offerta della donna è quasi impossibile da rifiutare, cosa che irrita Holt non poco. Nei giorni seguenti Holt tenta di carpire alcune informazioni più precise sulla spedizione ma la ragazza si tiene sempre sul vago e fa intuire a Holt come le informazioni su ciò che la Esperance si appresta a fare Holt dovrà toccarle con mano, è questo l'unico modo perché l'uomo possa scendere a patti con qualcosa di incredibile e di conseguenza credere.

È una buona lettura questo L'incubo sul fondo, romanzo breve che conta su diversi pregi: innanzitutto ci troviamo davanti a una narrazione che corre rapida e spedita e vanta la caratteristica fondamentale di riuscire a incuriosire il lettore su ciò che avverrà nei capitoli successivi con una struttura semplice e lineare, così come semplice e scorrevole è anche la prosa di Leinster che non si perde mai in troppi giri di parole e costruisce una storia efficace e in qualche modo, tenendo conto dei tempi, sempre avvincente. L'incubo sul fondo vive dell'accumulo di curiosità riguardo a ciò che sta succedendo sotto la superficie del mare e che noi (e i protagonisti con noi) non vediamo: c'è un lembo di mare, quello scoperto dalla Rubia, dove i pesci non si comportano come dovrebbero, nel quale si concentrano in misura abnorme, dove compaiono specie che lì non dovrebbero trovarsi e al corpo dei quali sono a volte attaccati strani oggetti non naturali. Tra ipotesi e tentativi d'indagine Leinster costruisce, dosando bene il ritmo tra misteri e rivelazioni (o ulteriori ipotesi), un racconto di fantascienza che unisce in maniera coerente spazi siderali e abissi marini in un connubio che invoglia alla lettura; magari non un caposaldo del genere però L'incubo sul fondo, all'interno di questa collana celebrativa, si difende bene e svolge al meglio il suo compito d'intrattenimento.

martedì 25 aprile 2023

HAPPY HOUR

(Happīawā di Ryūsuke Hamaguchi, 2015)

Happy hour è un film del 2015 distribuito in Italia con un certo ritardo e reso disponibile grazie al successo che il regista giapponese Ryūsuke Hamaguchi ha ottenuto un po' ovunque con il suo ultimo film, quel Drive my car che alla notte degli Oscar edizione 2022 vinse la statuetta come "miglior film straniero" piazzandosi davanti anche al nostro È stata la mano di Dio, meraviglia di Paolo Sorrentino. È una fortuna che alcuni premi festivalieri ci permettano di poter riscoprire opere del passato recente, magari ignorate fino alla premiazione di turno, occasione per portare questo o quel regista sotto i riflettori; nella fattispecie la possibilità di guardare questo Happy hour si trasforma anche nella possibilità di partecipare a un'esperienza visiva peculiare, che richiede tempo e pazienza ma che saprà ripagare lo spettatore capace di immergersi a pieno dentro un film, dentro una storia (o più storie come in questo caso) e finanche nei sentimenti di protagonisti che potrebbero essere per tutti noi dei conoscenti, degli amici, dei congiunti. Tempo e pazienza si diceva, ma anche impegno: Happy hour non è affatto un film difficile da seguire e comprendere, tutt'altro, la trama è lineare e affronta temi quotidiani che tutti conosciamo anche se magari non li abbiamo toccati con mano in prima persona (il divorzio ad esempio); la narrazione di Hamaguchi si dipana però per più di cinque ore (317 minuti), cinque ore assolutamente non pesanti ma che richiedono un minimo di dedizione, non fosse altro che per la mera durata complessiva del film che è comunque diviso in più parti, scelta che può agevolare la visione su più giorni, un po' come se fosse una miniserie.

Siamo a Kobe nel Giappone odierno, qui Hamaguchi ci racconta la quotidianità di quattro amiche, due si conoscono dalle scuole medie (Jun e Sakurako), le altre due si sono unite al gruppo più avanti, insieme formano una piccola compagnia di donne vicine ai quaranta piuttosto affiatata: Jun (Rira Kawamura) al momento è disoccupata e vive con il marito Kohei, un biologo, Sakurako (Hazuki Kikuchi) è una casalinga anch'essa sposata e madre di un figlio adolescente, completano il gruppo Akari (Sachie Tanaka), un'infermiera divorziata ora single e Fumi (Maiko Mihara) che gestisce uno spazio culturale dove si tengono diversi incontri e con il quale collabora anche suo marito Takuya, una sorta di piccolo editore. Proprio nello spazio di Fumi le altre tre amiche decidono di partecipare a un seminario tenuto dal giovane Ukai che farà lavorare l'intero gruppo sulle connessioni interpersonali e sull'equilibrio individuale partendo dalla gestione del proprio baricentro. Il seminario sarà l'occasione per le quattro amiche, e non solo per loro, di andare più in profondità nei loro sentimenti e tirare fuori sensazioni e situazioni ancora non dette. Per Jun arriverà così il momento giusto per confessare alle amiche di essere in causa con il marito per ottenere il divorzio, una rivelazione che scuoterà un po' lo status quo del gruppo, Akari ad esempio si sentirà tradita dal silenzio dell'amica su una fatto così importante, ma l'amicizia tra le quattro donne è salda e il momento di difficoltà di Jun, il suo comportamento e la sua risolutezza saranno il motore per esami di coscienza e mutamenti di prospettive all'interno dell'intero gruppo.

Se pensiamo a questo Happy hour in rapporto al posteriore Drive my car probabilmente più conosciuto qui in occidente, è possibile notare come alcuni elementi ritornino e vengano esplorati poi con maggior profondità nel film successivo: si pensi al rapporto tra i protagonisti e l'arte, qui presente per Fumi, per suo marito, in senso più ampio anche per il personaggio di Ukai o per la giovane scrittrice Kozue; in Drive my car per il protagonista Yūsuke. Torna inoltre il tema centrale del tradimento e quello dei rapporti interpersonali, sviluppati in entrambi i film con ritmi lenti e con una narrazione che si prende tutto il tempo necessario per arrivare al cuore delle questioni con naturalezza e senza strappi. L'elemento che invece sembra essere stato sovvertito è quello del rapporto tra silenzi e parole: se in Drive my car sono i primi a prevalere qui sono proprio le confessioni, i confronti, le aperture, i discorsi, a mutare prospettive ed equilibri interiori, mutamenti che si rifletteranno anche all'esterno nei rapporti tra i vari protagonisti. Se, come disse Hitchcock, "il cinema è la vita senza le parti noiose", la sensazione che si prova guardando un'opera estesa come Happy hour è che questo film sia la vita compresa anche di quelle parti che potenzialmente potrebbero essere noiose ma che Hamaguchi è capace di farti apprezzare e vivere insieme ai suoi protagonisti. L'esempio più lampante potrebbe essere la sequenza del seminario incentrato su equilibrio e baricentro; in un altro film si avrebbe un sunto di questo incontro al quale le protagoniste partecipano con in evidenza qualche momento saliente, qui invece si ha proprio l'impressione di partecipare all'intero incontro, cosa molto insolita per un film. Eppure tutto è naturale nella gestione dei tempi dilatati di Hamaguci, la sua regia asseconda il momento presente, le sue scelte amplificano oltre misura la sensazione di reale e autenticità richiesta da film di questo genere portando lo spettatore a vivere un'esperienza di visone non così comune nel cinema odierno; pur non essendo girato in tempo reale (il rapporto non è 1:1 tra il tempo di visione e quello del racconto) si ha la sensazione di seguire appieno la vita di queste quattro donne interpretate meravigliosamente dalle quattro attrici che, anche questa cosa insolita, hanno vinto il Pardo d'oro al Festival di Locarno per la migliore interpretazione femminile tutte insieme, come collettivo. Un film molto significativo che arriva da un regista ancora giovane, con uno sguardo personale molto interessante, graziato da momenti di grande profondità e interpretazioni di ottimo livello; ogni tanto è richiesto un po' di impegno anche nel farsi un regalo. Fatevelo se potete.

giovedì 20 aprile 2023

LA BATTAGLIA DI ALGERI

(di Gillo Pontecorvo, 1966)

È un film importante per il cinema italiano quello di Gillo Pontecorvo, un caposaldo del (neo)realismo, uno dei pochi girati e ambientati oltre confine; ancor di più La battaglia di Algeri importante lo è stato nei confronti dell'Algeria, a sottolineare una solidarietà con la causa di quella nazione in un'ottica anticolonialista (seppur senza nascondere gli orrori perpetrati da ambo le parti, dalla Francia Paese invasore e dal Fronte di Liberazione Nazionale algerino), una presa di posizione che arrivava a pochi anni dalla conclusione degli eventi narrati (L'Algeria ottiene l'indipendenza nel 1962) da parte di un regista che proprio in Francia aveva trascorso diversi anni della sua vita, di origini ebraiche esule a causa delle leggi razziali fasciste. Il film vinse il Leone d'oro alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, i francesi la presero male, parole dure sulla stampa dei cugini d'oltralpe, si parlò di film antifrancese, scandalo e vergogna perché al Lido quell'anno sembrava ci fosse di meglio. Il fatto è che la vera vergogna probabilmente fece un po' male a un paese invasore in torto palese; La battaglia di Algeri è un film di forte senso civile, è un film che non lesina nel rimarcare le brutture degli attentati del Fronte di Liberazione Nazionale così come quelle delle torture dell'esercito francese, con la differenza che i primi erano a casa loro, i secondi no. Di certo è questo il film più celebre di Pontecorvo, regista non troppo prolifico del quale però spesso si ricordano anche titoli come Kapò, Queimada e Ogro.

Siamo alla resa dei conti per il rivoluzionario algerino Ali La Pointe (Brahim Haggiag), le forze militari francesi agli ordini del colonnello Mathieu (Jean Martin) sono alle porte del suo nascondiglio nella casba di Algeri, è l'occasione per Ali di ricordare le esperienze di lotta degli ultimi anni con il Fronte di Liberazione Nazionale per liberare Algeri e il Paese dalla presenza forzata dell'esercito francese. La memoria torna al 1957 quando per il piccolo criminale Ali c'è il carcere, per i patrioti c'è invece la ghigliottina ad attenderli. Uscito di galera Ali viene reclutato da Saari Kader (Yacef Saadi) per entrare a far parte del FLN, un'organizzazione di resistenza che ha lo scopo di liberare Algeri dalla presenza dei francesi. Il primo passo del FLN sarà quello di ripulire la casba dalla criminalità organizzata degli stessi algerini per poter poi agire più liberamente e in maniera più strutturata contro il nemico colonialista. I metodi del Fronte non saranno di certo leggeri, gli attentati nel quartiere europeo di Algeri faranno contare numerosi morti (diverse centinaia) mentre dalla parte dei militari non si risparmieranno metodi del tutto simili che prevedono anche torture fisiche indegne di un Paese civile. Con il tempo aumentano le uccisioni nei confronti dei gendarmi francesi, la casba viene isolata e tra le strade di Algeri inizia una guerriglia urbana che trasforma il quartiere in una vera e propria zona di guerra, ciò nonostante il FLN trova la solidarietà di giovani, donne e bambini che puntano a vivere in un Paese libero. Ci vorranno anni prima che il risultato venga finalmente raggiunto al costo di tante vite spezzate da ambo le parti.

Gillo Pontecorvo ricostruisce gli eventi che incendiarono Algeri dal 1957 al 1962 girando un film che ha molte caratteristiche del documentario nonostante il regista inserisca nella narrazione anche una cifra personale che accompagna le vicende dei vari personaggi, alcuni dei quali presi pari pari dai reali protagonisti di quei giorni: l'interprete che porta in scena uno dei fondatori del FLN ad esempio è stato in realtà un vero rivoluzionario, Yacef Saadi fu infatti proprio uno dei reali fondatori del FLN. La narrazione, nonostante non manchi mai di coerenza, è un poco frammentaria, ha più la forma della cronaca che non quella del racconto romanzato, scelta di stile che dona ancor maggior veridicità a questo La battaglia di Algeri, una messa in scena che è costata parecchia fatica, si parla di più di 30.000 comparse e numerose location, resa ancor più reale grazie ai permessi ottenuti per girare tra le reali vie di Algeri e della sua casba. È un film morale quello di Pontecorvo, forse è proprio per questo che in Francia venne da subito malvisto tanto che la sua proiezione venne vietata nel Paese fino al 1971, decisione che dimostra come questo film di denuncia sociale sia riuscito a colpire nel segno e dove probabilmente ai tempi faceva più male, su una ferita ancora del tutto scoperta. Al netto dei meriti storici e tecnici, la regia e la costruzione del film sono ottime, La battaglia di Algeri ha anche il pregio di risultare ancora oggi come un film moderno, forse proprio grazie alla visione illuminata di un regista che ha saputo un poco discostarsi da una narrazione più classica che in questo caso sarebbe potuta risultare un po' troppo addomesticata.

domenica 16 aprile 2023

THE CALL

(di Lee Chung-hyun, 2020)

Nel 2020, da noi direttamente su Netflix, arriva dalla Corea del Sud questo The call, film di un giovane Lee Chung-hyun che ha raccolto critiche discordanti, divise tra chi ne ha apprezzato la capacità di creare suspense e chi ne ha criticato alcuni risvolti di sceneggiatura considerandoli poco credibili e calibrati, questo ovviamente al netto di una certa dose di sospensione d'incredulità che il genere del thriller sovrannaturale, al quale The call appartiene, ovviamente richiede. Devo dire che, a mio  modesto parere, con The call abbiamo guadagnato un altro ottimo prodotto proveniente dall'estremo oriente e anche la possibilità di tenere d'occhio un regista non ancora troppo noto qui in occidente. Inoltre fa piacere rivedere tra le protagoniste Jeon Jong-seo, presente un paio d'anni prima nel magnifico Burning - L'amore brucia di Lee Chang-dong nel quale l'attrice originaria di Seoul si ritagliava una delle sequenze in assoluto più belle del film. Qui siamo in territori diversi, siamo in pieno genere e The call non ha la profondità di sguardo che poteva avere un Burning (e non ne ha nemmeno nessuna pretesa), non di meno la prova del giovane regista ha tutte le carte in regola per essere apprezzata dagli amanti del thriller ma anche da chi apprezza l'horror psicologico, assolvendo in pieno alla sua funzione, e non meriterebbe di perdersi nel vastissimo (e spesso anonimo) catalogo della piattaforma di Los Gatos.

La giovane Kim Seo-yeon (Park Shin-hye) torna nella vecchia casa in cui è cresciuta da bambina per star vicina alla madre costretta in ospedale da una malattia. La zona è un poco fuori mano e la casa è stata lasciata andare; lungo il tragitto Kim perde il suo cellulare, sarà costretta così a ripristinare una vecchia linea telefonica collegata a un cordless vecchio di diversi anni. Sarà una sorpresa quindi sentire quel telefono iniziare a squillare, all'altro capo della linea c'è una ragazza, Oh Young-sook (Jeon Jong-seo), che chiede aiuto in preda all'angoscia, sua madre sta tentando di ucciderla. Ovviamente nessuno può conoscere quel numero in disuso ormai da anni, col tempo Kim scoprirà che per qualche strano motivo quella linea è in grado di metterla in contatto con Oh Young-sook, una ragazza non del tutto equilibrata che ha vissuto nella casa vent'anni prima con la madre, una sorta di sciamana impazzita. La cosa strana è che Kim sembra parlare direttamente con la Oh Young-sook del 1999, vent'anni circa nel passato. La giovane del passato, che conduce un'esistenza non proprio facile, trova consolazione nel contatto con Kim tanto da arrivare a modificare alcuni eventi del suo presente per cambiare il futuro e consentire a Kim di vivere un'esistenza priva di alcune sofferenze che l'hanno segnata nel corso degli anni. Anche Kim troverà il modo di dare una mano a quella ragazza del passato che sembra così bisognosa; le azioni delle due donne provocheranno forti cambiamenti nelle vite di entrambe ma Oh Young-sook, appunto non troppo equilibrata, non riuscirà a gestire con serenità alcune delle dinamiche, cosa che renderà la ragazza pericolosa anche per la sua nuova amica del futuro.

The call dimostra un'ottima capacità di inquietare e tenere in tensione lo spettatore per tutta la sua durata, sotto questo aspetto il film è riuscitissimo, anche sotto il punto di vista della sceneggiatura non mi sembra ci siano queste eclatanti sbavature che possano impedire allo spettatore di godersi la visione di quello che a conti fatti è un ottimo thriller dai risvolti sovrannaturali; se proprio una critica la si vuole fare al lavoro di Lee Chung-hyun può essere quella di aver sfruttato una struttura non originalissima con dinamiche già viste nel cinema orientale e non solo, ma anche questo nulla toglie a un film che si gioca bene tutte le sue carte. Una di queste è l'ottima interpretazione di una Jeon Jong-seo che si conferma attrice di buon livello in un ruolo che qui valorizza la sua bravura; non è da meno il contributo alle musiche di Dalpalan decisamente riuscite e che catturano l'orecchio di chi guarda (ascolta) in più di una sequenza. Lee Chung-hyun gioca con l'uso di diverse cromie sui due piani temporali andando ad apportare modifiche su costumi e colori nel momento in cui qualche azione va a modificare il futuro di Oh Young-sook o il presente di Kim Seo-yeon, sullo sfondo, forse poco sfruttata, una madre sciamanica interessante e inquietante che porterà la figlia a deflagrare in un disequilibrio mentale dalle conseguenze tutt'altro che rasserenanti. Ottima gestione della tensione per un film che gioca con i paradossi dei viaggi nel tempo senza che i protagonisti viaggino mai per davvero nel tempo, uno scarto significativo che permette al regista di creare la giusta suspense (e ce n'è davvero parecchia) e un'opera molto divertente.

giovedì 13 aprile 2023

LO STRAORDINARIO VIAGGIO DI T. S. SPIVET

(The young and prodigious T. S. Spivet di Jean-Pierre Jeunet, 2013)

A chi il nome di Jean-Pierre Jeunet non dovesse dire nulla ricordiamo solo che il regista francese, classe 1953, è l'autore de Il favoloso mondo di Amélie, il suo film più conosciuto, ma anche di altre cosucce come Delicatessen (con Marc Caro) e Alien - La clonazione. Lo straordinario viaggio di T. S. Spivet, che nel titolo italiano allude un pochino e richiama la sintassi del titolo di Amélie (in originale invece è altro), è un film rivolto principalmente a bambini e ragazzi, il suo protagonista è un piccolo ometto di dieci anni interpretato dall'esordiente Kyle Catlett, un bimbo dal volto tenerissimo, e impreziosito da presenze note come quella di Helena Bonham Carter (la mamma del protagonista) e da quelle di alcuni caratteristi dai discreti curriculum come Julian Richings (il camionista) o Harry Standjofski (il poliziotto). Lo straordinario viaggio di T. S. Spivet è uno di quei film che starebbero bene nel programma del Giffoni Film Festival, uno di quelli che si guardano volentieri in famiglia, con i propri figli, e dalla cui visione si esce soddisfatti nonostante la consapevolezza di non aver assistito di certo a un capolavoro della settima arte ma semplicemente a un prodotto ben confezionato per il pubblico più giovane. Nonostante il target in tenera età, non mancano nel film momenti dove si affrontano aspetti dolorosi come la morte recente di un fratello, un lutto che troverà sfogo sul finale di una vicenda per il resto surreale e abbastanza divertente.

Siamo nel Montana ai tempi nostri, T. S. Spivet (Kyle Catlett) è un bambino con un'intelligenza vivace e molto al di sopra della media che vive in una fattoria circondata dal verde e da animali domestici, il padre (Callum Keith Rennie) è una sorta di cowboy moderno con il quale il piccolo T. S., interessato più ai prodigi scientifici che non alle armi, ha davvero poco in comune. Mamma Clair (Helena Bonham Carter) è una dottoressa con il pallino dell'entomologia, la sorella più grande Gracie (Niamh Wilson) è stufa della vita di provincia e sogna di partecipare a un concorso di bellezza tipo Miss America per poter cambiare vita e magari finire in televisione. La famiglia si troverà a dover convivere con il lutto per la perdita del piccolo Layton (Jakob Davies), fratello gemello di T. S. morto in seguito a un incidente con un'arma da fuoco. Un giorno T. S. viene contattato dall'istituto Smithsonian di Washington che ha ricevuto i progetti loro inviati dallo stesso T. S. per la costruzione di una macchina capace di dimostrare la possibilità del moto perpetuo; allo Smithsonian, inconsapevoli del fatto che questo T. S. Spivet sia un bambino di dieci anni, sono desiderosi di assegnargli un prestigioso premio per la sua invenzione. T. S., facendo credere di agire come portavoce del padre muto, accetta di partecipare alla serata di premiazione e all'insaputa della famiglia partirà per un viaggio avventuroso attraverso i territori americani che porterà il bambino dal Montana a Washington facendogli incontrare sulla sua strada le "meraviglie" dell'immenso continente americano.

Film per ragazzi che tocca anche alcuni temi adulti senza però appesantirli troppo o approfondirli oltremodo; il nocciolo del film sta nel viaggio avventuroso del piccolo protagonista lungo il quale lo stesso si troverà a confrontarsi con personaggi improbabili, a volte positivi, a volte meno, sempre abbastanza surreali (il camionista che lo accompagna a Washington senza farsi mezza domanda sul fatto che i genitori possano essere preoccupati per lui). L'opera di Jeunet è da prendere con la giusta dose di tenerezza tenendo ben presente come questa sia rivolta principalmente ai ragazzi, valutandolo con questo spirito Lo straordinario viaggio di T. S. Spivet si può ritenere un film riuscito, apprezzabile anche dal punto di vista formale. Colpiscono l'occhio i colori carichi e netti dei paesaggi così come il vezzo messo in atto dal regista nel sovrapporre alle immagini filmate inserti disegnati a illustrare alcuni passaggi della narrazione; giova anche l'aver indovinato un bel protagonista con la presenza di Kyle Catlett che ispira da subito una certa simpatia, ben più del celebre Young Sheldon con il quale il bambino potrebbe avere dei punti in comune (e anche la narrazione d'ambiente e di contorno ricorda il serial comunque successivo). Il passaggio attraverso il dramma e la paura per l'incosciente avventura di T. S. sarà il viatico per fortificare legami familiari messi a dura prova degli eventi della vita; pur senza essere un film memorabile il film di Jeunet è una buona soluzione per una serata da passare tutti insieme sul divano, magari sotto le coperte.

mercoledì 12 aprile 2023

LA PROPOSTA

(The proposition di John Hillcoat, 2005)

Per quanto ci si ostini a dire che il western sia un genere morto e sepolto l'epopea del vecchio ovest continua a riemergere e a riaffacciarsi al grande pubblico, negli ultimi anni non solo al cinema ma anche (e soprattutto) nella serialità televisiva grazie alla quale sono diversi i prodotti, alcuni anche di ottimo successo, che sono tornati a confrontarsi con il genere: Yellowstone, qualche anno prima Justified, ora Outer range, The english e altro ancora. È quasi doveroso quindi, di tanto in tanto, recuperare qualcuno di questi western moderni che ci si è persi per strada, magari perché il film in questione, come accaduto a questo La proposta, al momento della sua uscita non ha sollevato entusiasmo pari alla polvere che i "cowboys" di John Hillcoat sollevano nel durissimo deserto australiano. E se è vero il detto che vuole l'America come Paese costruito sul sangue e sulla violenza, anche il retaggio dell'Australia non scherza, almeno a quel che ne dicono gli sceneggiatori d'eccezione Nick Cave e Warren Ellis, che de La proposta curano ovviamente anche la colonna sonora, e il regista John Hillcoat, tutti gentiluomini australiani come una buona parte del cast diviso tra attori autoctoni e britannici, altra parte in causa nello sviluppo dell'enorme isola, come la storia ci ha da tempo insegnato. Nick Cave, Warren Ellis, John Hillcoat... non è che ci si potesse aspettare un film allegro e spensierato e infatti La proposta è un western duro, sporco e senza fronzoli, ambientato in un outback australiano che in quanto a immaginario western poco ha da invidiare alle polverose cittadine statunitensi di fine 1800.

Sul finire del 1800 in Australia i fratelli Burns sono a capo di una banda dedita ai più efferati delitti, questo soprattutto grazie al fratello maggiore Arthur (Danny Huston) squilibrato e violento. Siamo negli anni in cui l'esercito inglese sta cercando con la forza di conquistare e ammansire il continente australiano, porre fine a violenze scriteriate, stupri e omicidi è il compito del Capitano Morris Stanley (Ray Winstone), di stanza in Australia insieme all'elegante moglie Martha (Emily Watson). La tenacia del Capitano Morris gli permette di catturare due dei fratelli Burns, Charlie (Guy Pearce) e il minore Mikey (Richard Wilson), più fragile e meno pronto a subire e sopportare le violenze che anche l'esercito inglese è in grado di perpetrare per raggiungere i suoi scopi. Così, per porre fine a un'era di truce anarchia, il Capitano Morris fa una proposta a Charlie, all'apparenza il più ragionevole dei fratelli Burns: Charlie dovrà portare a Morris la testa di suo fratello Arthur per aver salva la vita e la libertà, la sua e quella del fragile fratello minore Mikey, una proposta che vale la pena ponderare vista l'insensata discesa nella violenza in cui Arthur ha trascinato la banda e l'incapacità di difendersi da solo del fratello minore che in mano agli inglesi non è detto che possa dormire tra due guanciali. A Charlie non resterà così che mettersi sulle tracce del fratello maggiore.

Il western di Hillcoat è arido, duro e cattivo, spesso paragonato per visione a quello del grande Sam Peckinpah al quale, a dirla tutta, dobbiamo cose decisamente migliori di questo La proposta (Il mucchio selvaggio giusto per citare un solo capolavoro). È uno scontro tra due violenze quello che si perpetra su e per il territorio australiano: la (in)civiltà rappresentata da Morris Stanley è la violenza istituzionalizzata, accettata sulla base di una bugia di civilizzazione per avere la quale si sono seppelliti i cadaveri degli aborigeni come negli U.S.A. quelli dei nativi, stessa ipocrisia a un mondo di distanza. Il furore selvaggio e folle di Arthur Burns e sodali è una violenza anarchica, individualista e contraria, annebbiata dalla mancanza di regole, limiti e freni inibitori e che sembra sfociare nella pazzia sconclusionata. La musica di Cave ed Ellis accompagna i toni ocra di Hillcoat, la polvere gialla, i cieli arancioni che conducono il protagonista, che dovrebbe simboleggiare una sorta di equilibrio tra civiltà e follia (ma è comunque solo un altro assassino), verso un destino finale che, tanto per cambiare, è tinteggiato di violenza. Hillcoat gira un film secco che non lesina su alcuni passaggi brutali, dalle punizioni corporali a parti di teste completamente sradicate dai corpi, per metterci di fronte ancora una volta all'ipocrisia e all'indole barbara del genere umano. Abbiamo visto western migliori, le intenzioni sono più che buone, l'approccio anche, davvero meritevole, ne esce un film anche fin troppo asciutto ma forse è giusto così, una narrazione arsa per una terra bagnata solo dal sangue.

martedì 11 aprile 2023

KNOCK KNOCK

(di Eli Roth, 2015)

Devo ammettere di non conoscere il cinema di Eli Roth, regista ricordato principalmente, almeno nella fase iniziale della sua carriera, per i primi due capitoli della saga Hostel e per The green Inferno. Non essendo amante dell'horror più estremo ed essendosi il regista creato presto la fama di  autore dedito a un horror molto truce e sanguinolento (torture porn?) avevo finora sempre evitato il confronto con i suoi lavori. Giunto il Nostro a esiti più normalizzati e accomodanti arriva anche per me il tempo di un confronto con un cineasta che comunque negli ultimi anni (decenni ormai) è riuscito a crearsi un nome attorno al quale sono nate anche delle aspettative, confermate o disattese lascio ad altri deciderlo. Diciamo subito sgombrando il campo da ogni dubbio che con questo Knock knock l'horror non c'entra proprio nulla, siamo di fronte a un thriller abbastanza addomesticato e risaputo che gioca su un twist di genere (inteso come maschile/femminile e non cinematografico) che dona giusto un pizzico di variazione a quello che è lo schema da home invasion che abbiamo già visto al cinema e in televisione più e più volte. Nessun trauma né grossi disturbi da parte di quest'opera di Eli Roth che probabilmente non è una delle più riuscite della sua filmografia ma che se presa per il giusto verso, ovvero come un'opera di intrattenimento senza troppe pretese, la si può guardare anche con un certo gusto, consapevoli che né il messaggio moralizzante da quattro soldi del film né il finale vagamente ironico (che in realtà un paio di sorrisi li strappa) lasceranno un segno profondo nello spettatore, ma alla fine di questo poco ci importa.

I Webber sono una famiglia felice che vive in maniera agiata in una bella casa di lusso. Papà Evan (Keanu Reeves) è un architetto ed ex d.j. mentre sua moglie Karen (Ignacia Allamand) è un'artista di successo in procinto di partecipare a un'esposizione personale delle sue opere. Insieme ai loro due bambini la coppia si sta godendo la festa del papà, ultima giornata in famiglia prima che Karen e i bimbi partano per qualche giorno alla volta della sede della mostra che ospiterà le opere di Karen. Evan ha in programma un week end tranquillo per rimettersi in pari con il lavoro arretrato, senonché la sera della partenza di moglie e figli alla sua porta si presenta una coppia di giovani e belle ragazze. Bel (Ana de Armas) e Genesis (Lorenza Izzo) si sono perse mentre andavano a una festa, hanno sbagliato indirizzo e ora si ritrovano bagnate marce, sotto un diluvio e incapaci di capire dove debbano recarsi per partecipare alla festa alla quale sono state invitate. Chiedono così aiuto a Evan, la possibilità di stare qualche minuto all'asciutto, fare una telefonata, usare il bagno, darsi una sistemata. Evan dal principio è titubante, in fondo per un uomo sposato, vada come vada, può sembrare compromettente far entrare in casa due giovani ragazze (e che ragazze) zuppe e infreddolite proprio nel momento in cui moglie e figli sono assenti. Certo, anche rifiutare un aiuto a due ragazze in quelle condizioni potrebbe essere visto come un atto di estrema scortesia. Evan così fa entrare in casa le due ragazze che pian piano si dimostrano sempre più audaci e disinibite fino a rivelarsi col tempo due pazze scatenate pronte a tutto per rovinare la vita felice del caro Evan che, a dirla tutta, non riuscirà a resistere all'avvenenza delle due giovani.

Knock knock è il remake di un film del 1977 di Peter S. Traynor che vedeva protagoniste Sondra Locke, attrice per diverso tempo legata sentimentalmente a Clint Eastwood e produttrice di questo remake, e Colleen Camp che in questo Knock knock Eli Roth ha voluto in un ruolo minore; il film si intitolava Death game. Nulla di nuovo quindi come è facile desumere; anche nelle dinamiche dello sviluppo la sceneggiatura del regista e del sodale Nicolás López non presenta grosse sorprese, chi ha masticato in vita sua un po' di cinema può immaginare più o meno come procederà e come andrà a finire il film che poggia la sua riuscita molto sulla presenza di due fanciulle deliziose come la de Armas (qui al suo esordio internazionale) e la Izzo, all'epoca sposata proprio con il regista Eli Roth. Il lato sensuale del racconto, mixato a quello sadico che rivelerà le due ragazze come squilibrati angeli vendicatori di tutti i soprusi perpetrati da maschi incapaci di resistere alle tentazioni da loro stesse messe in campo (ma chi avrebbe potuto?), tengono in vita il prodotto che, pur senza spiccare per doti particolari, si rivela piacevole e intrattiene a dovere, a patto di scordarsi chiavi di lettura sinceramente banali e buttate sul tavolo alla meno peggio. La tensione che si avverte per il destino futuro della vita perfetta di un Evan Webber che avevamo da subito bollato come figura positiva tiene viva la curiosità per l'intera durata, insieme a quella di capire quali sadiche torture (psicologiche più che fisiche) le due donzelle riusciranno a mettere in atto ai danni del povero Keanu. Confezione pulita e ben articolata per un film che sfoggia una certa eleganza di realizzazione, che non colpisce troppo in profondità ma diverte e che si chiude con una vena ironica che, apprezzata o meno, alla fine inquadra bene la caratura dell'operazione tutta. Nulla di fondamentale ma alla fine non male.

lunedì 3 aprile 2023

LA MIA VITA A GARDEN STATE

(Garden State di Zach Braff, 2004)

All'epoca dell'uscita nelle sale cinematografiche del film La mia vita a Garden State, esordio alla regia per l'attore Zach Braff, il Nostro era protagonista da circa tre anni del serial tv Scrubs - Medici ai primi ferri, suo primo ruolo di successo che gli è valso diverse candidature come miglior attore protagonista a Golden Globe ed Emmy Awards; la sua prima prova dietro la macchina da presa è una di quelle commedie con un punta di drammatico mischiata al grottesco che piace tanto dalle parti del Sundance e che in generale riesce a far breccia nel cuore degli spettatori, in questo caso anche nel mio. La mia vita a Garden State è un film dove elementi drammatici, commedia grottesca e narrazione sentimentale sono ben bilanciati con una preponderanza per il lato romantico della vicenda ben supportato dalla presenza di una giovane Natalie Portman alla quale tocca il personaggio di Sam, un ruolo parecchio indovinato con il quale la Portman riesce a creare la giusta alchimia con il protagonista maschile, lo stesso Braff, per uno sviluppo magari risaputo ma allo stesso tempo ben sceneggiato e appagante e supportato da un cast di contorno che contribuisce a far girare al meglio il plot e le sequenze comiche.

Andrew (Zach Braff) è un giovane attore originario del New Jersey trasferitosi a Los Angeles nella speranza di lanciare la sua carriera che al momento conta solo di qualche piccola particina, in realtà Andrew è costretto a sbarcare il lunario come cameriere in un ristorante nel quale spesso viene maltrattato dai clienti. Dopo aver ricevuto la notizia della morte improvvisa della madre disabile Andrew torna a casa nel Jersey per partecipare al funerale e incontrare il padre (Ian Holm) con il quale ormai il giovane non ha quasi più nessun rapporto, di certo non uno affettuoso o costruttivo. Una volta a casa Andrew ha modo di ritrovare alcuni amici tra i quali lo stralunato Mark (Peter Sarsgaard) che vive di espedienti e colleziona una serie di oggetti, convinto di poterli rivendere e fare fortuna in un prossimo domani, e Jesse (Armando Riesco), un viveur che si gode la vita dopo aver fatto fortuna inventando il velcro silenzioso. A causa di alcuni mal di testa fulminanti ma brevissimi, sotto consiglio del padre, Andrew si reca da uno specialista per farsi visitare; nella sala d'aspetto del medico il ragazzo incontra Sam (Natalie Portman), una giovane (bugiarda) con la quale si instaura da subito un certo feeling. Nonostante i comportamenti bizzarri di Sam la ragazza diventa presto per Andrew una sorta di ancora, un punto fermo in un'esistenza assopita, annebbiata che sembra non aver più significati e direzione, sarà la sua presenza a permettere ad Andrew di affrontare i traumi del passato e a permettergli di guardare al futuro con una rinnovata serenità e uno slancio di nuova speranza.

Zach Braff con La mia vita a Garden State affronta le difficoltà di un giovane uomo nel trovare un posto e un significato nel mondo, nella messa in scena del regista originario del New Jersey (come il suo protagonista da lui stesso interpretato), come spesso accade, è un ritorno a casa alle proprie origini a fare da catalizzatore per un cambiamento necessario che trovava limiti autoimposti e ostacoli radicati in un trauma del passato. Il Braff sceneggiatore affronta questo percorso di crescita con un miscuglio di malinconia, spaesamento e puntate grottesche che colorano quella che è una storia d'amore (almeno il suo principio) magari risaputa e già vista ma che trova nei due interpreti una dolce chimica che rende questo esordio davvero molto, molto godibile. Il Braff regista non sfigura, alcune soluzioni metaforiche tra immagini e contenuto, seppur non rivoluzionarie, aiutano il film a percorrere i suoi binari con il giusto brio tra location strampalate, trovate assurde e momenti di tenerezza più che apprezzabili. In fin dei conti a Zach Braff si può forse rimproverare solo un finale un po' scontato, un finale che però in una commedia romantica è quello che un po' tutti gli spettatori si aspettano e vogliono vedere. Alla fine è un bel film questo La mia vita a Garden State, uno di quelli capaci, magari anche solo per qualche ora, di migliorarti l'umore e farti sentire in pace con te stesso per un po' di tempo e questo è più di quel che riescono a fare molti altri film tenuti in maggior considerazione.

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