mercoledì 28 settembre 2022

GAGARINE - PROTEGGI CIÒ CHE AMI

(Gagarine di Fanny Liatard e Jérémy Trouilh, 2020)

Cité Gagarine è il nome di un complesso residenziale costruito negli anni 60 (inaugurato nel '63) a Ivry-Sur-Seine, un sobborgo parigino a sud est dell'area metropolitana, in una di quelle zone che oggi anche noi indichiamo con il termine francese banlieu. Il complesso abitativo nasceva da pulsioni moderniste del Partito Comunista francese che vedeva in questi casermoni proiettati verso l'alto un futuro di onesta prosperità per la classe operaia dell'epoca, tanto che a inaugurare la grande opera di edilizia abitativa venne chiamato addirittura il cosmonauta russo Yuri Gagarin, primo uomo ad andare nello spazio e simbolo di modernità e orgoglio per il Partito che ovviamente guardava alla Russia con un occhio di favore. Nel corso dei decenni Cité Gagarine iniziò a vedere un avvicendarsi di inquilini con operai che si trasferivano altrove, anche a causa della chiusura delle fabbriche, e una residenza fatta di immigrazione che aumentava anno dopo anno. Poi i problemi di molte banlieu e infine la decisione di dismettere e demolire gli edifici del complesso, ormai fatiscenti, con la promessa di trasferire altrove i suoi residenti; nel 2019 iniziano le opere di demolizione, l'anno successivo Fanny Liatard e Jérémy Trouilh girano quest'opera di finzione arricchita con inserti di repertorio che vuole narrare la vicenda Gagarine concentrandosi sul senso di appartenenza dei suoi abitanti a un luogo fisico, ai ricordi di una vita, più che sulla storia del complesso abitativo in sé.

Youri (Alseni Bathily), che porta il nome del celebre astronauta e, di rimando, del complesso abitativo in cui è cresciuto, è un sedicenne che non si vuole rassegnare alla decisione presa dal comune di abbattere Cité Gagarine, il luogo che per lui non è solo casa ma anche un mondo fatto di relazioni, ricordi, un luogo per cui il ragazzo prova un forte senso di appartenenza e attaccamento. Mentre alcune delle famiglie residenti si sono arrese, pronte a spostarsi sperando magari in una collocazione che possa essere per loro più dignitosa, viste anche le difficoltà abitative ormai presenti al Gagarine, Youri e il suo amico Houssam (Jamil McCraven) fanno di tutto per ridare al complesso una parvenza di abitabilità: sostituiscono le lampadine bruciate, imbiancano, riparano l'ascensore, anche con l'aiuto dell'amica Diana (Lyna Khoudri). L'impresa però è proibitiva, c'è troppo da fare, pochi fondi e una disillusione che serpeggia tra la maggior parte dei giovani del quartiere tra i quali spicca il piccolo spacciatore Dali (Finnegan Oldfield); gli ispettori alla fine daranno l'ordine di evacuazione, la demolizione è ormai inevitabile. Con una testardaggine sognante dettata dall'amore per il luogo in cui è cresciuto Youri rimarrà fino alla fine in casa sua, nella speranza di poter fare qualcosa per cambiare il destino di Cité Gagarine.

Esordio di qualità nel lungo per la coppia Liatard e Trouilh che partono dal loro corto del 2016 per arrivare a quest'opera dal sapore parecchio originale. Quella narrata è una vicenda che avrebbe potuto facilmente prendere la via del documentario o addirittura finire in una trasmissione televisiva a stampo cronachistico, nelle mani dei due registi francesi Gagarine diventa invece un film sognante, dove il fantastico si unisce al reale (si è parlato anche di realismo magico) e il complesso Cité Gagarine diventa un luogo dell'anima. I due autori evitano lo stereotipo della banlieu, il luogo difficile, la marginalità, spostando il discorso sull'attaccamento al quartiere, sulle radici, sull'amore per i luoghi della vita, per i muri, per i corridoi, per i tetti, per il circondario, un'appartenenza che un protagonista giovane, più di tutti, non è disposto a perdere, non è disposto a cedere, in questo senso sembra indovinato il sottotitolo italiano, Proteggi ciò che ami. I due registi riescono a oscillare tra reale e fantastico grazie anche a un'ottimo lavoro sulle immagini, senza voler rivelare nulla è da tenere presente almeno quella magnifica che coinvolge l'intero complesso sul finale del film ma, bene o male, tutti i passaggi onirici e sognanti con protagonista Youri sono realizzati con grande mestiere. C'è cuore, c'è testa, c'è professionalità in Gagarine, c'è un ottimo cast fatto da bei volti giovani, c'è l'amore che tutti provano per i luoghi cari e che mai, per nessun motivo, si vorrebbero perdere.

domenica 25 settembre 2022

TRE COLORI - FILM BIANCO

(Troi couleurs: blanc di Krzysztof Kieślowski, 1994)

A poco tempo di distanza da Tre colori - Film blu Krzysztof Kieślowski esce con il suo Film bianco, secondo tassello della Trilogia dei colori, trittico che muove i suoi passi a partire dalla bandiera francese e che abbina a ognuno dei suddetti colori una parte del motto fondante della Repubblica d'oltralpe: Liberté, égalité, fraternité. Tocca quindi all'uguaglianza, dopo la libertà esplorata in Blu, valore da prendere come già nel film precedente in senso lato; non è sufficiente pensare all'uguaglianza tra esseri umani per capire ciò che il regista polacco vuole trasmetterci con questo secondo episodio, è un'uguaglianza quella di Kieślowski che va ricercata nelle pieghe di un racconto che ogni spettatore interpreterà secondo il suo sentire, enigmatico nel giustapporre trama e significato, nonostante la costruzione del plot sia qui più costruita, più "facile" se vogliamo, che non in Blu che rimane un film più intimo, con un lavorio interiore più che di eventi che invece in Bianco hanno una consequenzialità classica e uno sviluppo limpido. Non c'è candore però in questo Bianco; se come anche la musica ci insegna il blu è colore della tristezza, coerente con il film omonimo, il bianco è quello della purezza e del candore, non troppo presenti nel film se non nella sequenza con Julie Delpy in abito da sposa, candida nella sua bellezza, ma è un ricordo del passato, per il resto qui anche la neve è sporca e macchiata.

Dominique (Julie Delpy) e Karol (Zbigniew Zamachowski) stanno affrontando in tribunale una procedura di separazione, la giovane francese contesta al marito polacco il fatto che da quando si sono sposati non sono mai riusciti a consumare il matrimonio, questo a causa di un problema legato all'impossibilità sopraggiunta di Karol nell'avere rapporti sessuali. L'uomo è ancora profondamente innamorato della donna che resta però ferma sulla sua decisione, tanto da cacciare di casa il marito costretto a dormire per strada o nelle stazioni della metro di Parigi, senza un soldo e con l'unica compagnia di una valigia con i suoi pochi averi. È proprio nella metro che Karol conosce il connazionale Mikolaj (Janusz Gajos), l'uomo si offre di aiutare Karol a tornare in Polonia, da suo fratello, al suo paese d'origine dove Karol esercitava il mestiere di parrucchiere. C'è però una condizione: una volta giunto sul posto Karol dovrà aiutare un uomo, incapace di compiere il gesto da solo, a togliersi la vita. Una volta giunto in Polonia la vita di Karol prenderà una svolta inaspettata, la Polonia non è proprio la Francia, le possibilità in un Paese in apertura sono molteplici, l'importante e saperle cogliere e magari, in un modo o nell'altro, tentare di riallacciare i rapporti con l'amata Dominique, ormai lontana in quel di Parigi.

Il film si apre, come il precedente, con una bella trovata di Kieślowski, un montaggio alternato tra le azioni del protagonista e il percorso della sua valigia che molta importanza assumerà più avanti nel corso del film. Questa volta il regista polacco rende da subito evidente il collegamento tra la sua opera e il motto francese, inquadrandolo chiaramente sulla facciata dell'edificio dove si tiene l'udienza di separazione e che riporta a grandi lettere scolpite proprio la dicitura Liberté, égalité, fraternité. Uguaglianza dunque, la richiede in maniera esplicita il protagonista Karol al giudice, l'uomo si sente discriminato a causa della sua lingua madre (è polacco come Kieślowski), mentre il colore bianco è richiamato come già detto nella sequenza dell'abito da sposa, nel paesaggio innevato della Polonia, dalla presenza fugace di un colombo, è però meno evidente nell'uso della fotografia rispetto a quel che accadeva nel precedente Blu dove spesso e volentieri virava nei toni della tinta in questione, qui invece i rimandi sono accenni, naturali condizioni di paesaggio, tutto più concreto come l'incedere della vicenda, più costruita rispetto al capitolo precedente. A richiamare il progetto comune c'è una brevissima comparsa di Julie (la stessa Binoche) di Film Blu e ritorna la scena di un anziano in difficoltà che tenta di gettare una bottiglia di vetro in una campana verde, sequenza che riporta alla mente l'episodio dedicato alla libertà. Nello sviluppo della vicenda il regista tratteggia una Polonia in apertura al libero mercato e dove le possibilità sono sì in aumento, ma portano con loro anche la possibilità di mettere da parte scrupoli e indole onesta, abbracciando nuove possibilità economiche che nascondono lo sporco che qui Kieślowski rende invece molto evidente. Un lato diverso dell'amore, del dolore provocato da un rapporto, qui affrontato con piglio meno intenso, più divertito e canonico. Non all'altezza del precedente Blu ma anche Bianco si difende più che bene.

venerdì 23 settembre 2022

I QUARANTANOVE RACCONTI

(The first forty-nine stories di Ernest Hemingway, 1938)

I quarantanove racconti di Ernest Hemingway rimane, insieme ad alcune raccolte di Raymond Carver, una delle più celebri antologie di scritti brevi. I racconti contenuti nell'edizione pubblicata a partire dal 1938 risalgono a un periodo che spazia tra la seconda metà degli anni 20 a tutto il 1933 circa e sono opere, già pubblicate in precedenza in altre compilazioni, che vanno dalle poche pagine fino ad arrivare a esiti più corposi ma quantunque brevi. Ciò che in primis accomuna questi scritti, che trattano argomenti e temi disparati ma riconoscibili tra quelli cari a Hemingway, è fuor di dubbio lo stile di scrittura dell'autore: frasi brevi, secche, concise, pochi fronzoli, dialoghi nei quali l'uso della ripetizione diventa cifra di stile, ricerca dell'essenziale e una riuscita d'insieme che non si può definire che "potente", di sostanza, una prosa indicata a descrivere la vita, a mettere nero su bianco la difficoltà di ottenere un lieto fine, nel racconto come nella vita, l'impossibilità di opporsi alla marea di un'esistenza incontrollata e incontrollabile. Tornano a più riprese anche i temi cari all'autore, tra l'altro già esplorati (o poi ripresi) nelle sue opere lunghe, pensiamo alla guerra (Addio alle armi), alle battute di caccia (Verdi colline d'Africa) o al rapporto con l'acqua (Il vecchio e il mare) o con la Spagna (Fiesta). Inframezzati da brevissimi inserti numerati e inseriti nella raccolta come "capitoli", i quarantanove racconti vanno a creare un corpo d'opera compatto che vanta un'unità di stile e una coesione in termini di vedute e di temi che donano all'intera opera il pregio della coerenza interna e quello di serbare una qualità media molto alto, poco affetta dal saliscendi qualitativo che di norma si riscontra in ogni antologia.

È lo stesso Hemingway nell'introduzione al libro a selezionare alcuni racconti e indicarli come i meglio riusciti o quanto meno come quelli a cui Hemingway è rimasto più affezionato. Uno di questi è il racconto che apre l'antologia, Breve la vita felice di Francis Macomber, uno dei preferiti anche di chi scrive, per chi lo conosce è impossibile non andare con il pensiero al biografico Verdi colline d'Africa; in un impianto questa volta di finzione si torna alle stesse atmosfere, con un'Africa rigogliosa come scenario, le battute di caccia come motore dell'azione e il coraggio e la viltà, il successo e il fallimento, l'amore e il tradimento come gli aspetti messi in disamina dell'umana esistenza, destinata almeno per qualcuno a non elargire (più) il lato migliore di sé stessa, racconto che ispirò il film Passione selvaggia diretto da Zoltán Korda. Sono spesso il coraggio, l'onore, la determinazione a conseguire per una volta (o per l'ultima volta) una vittoria, i temi che ricorrono e che non sempre trovano la soddisfazione nei personaggi protagonisti, viene in mente il torero in fase calante Manuel Garcia de L'invitto o il pugile Jack Brennan in Cinquanta bigliettoni. Numerosi i racconti dove è presente quello che è una sorta di alter ego di un Hemingway giovane, Nick Adams, scritti nei quali emerge l'amore per la natura, per la pesca, la vita semplice e vagabonda. Tornano anche alcune sensazioni già suscitate dal romanzo lungo Addio alle armi, ad esempio con In paese straniero dove si riconosce l'esperienza della convalescenza a Milano durante la guerra. Hemingway cita inoltre tra i suoi preferiti ancora Colline come elefanti bianchi, Qualcosa che mai proverete, Le nevi del Kilimangiaro, Un posto pulito illuminato bene e Le luci del mondo che, per sua stessa ammissione, pare non sia mai piaciuto a nessuno.

"La cosa più difficile che ci sia al mondo è scrivere una prosa assolutamente onesta sugli esseri umani". I quarantanove racconti sono lì a dimostrare come Hemingway sia riuscito nel suo intento e quanto il suo dubbio, il suo cruccio, non abbia ragion d'essere. Un racconto onesto sull'essere umano, sulla vita, sulle carte che questa serve e che spesso vanno a comporre una brutta mano, è proprio ciò che si trova in questi racconti e che li rende così affascinanti, presi uno a uno ma anche valutandoli nel complesso di una raccolta molto corposa (nell'edizione dei vecchi Oscar Mondadori ci avviciniamo alle 600 pagine). Non c'è dispersione durante la lettura, anche per chi, come chi scrive, ha un feeling migliore con il romanzo rispetto al racconto breve, il coinvolgimento in quello che è considerato un capo d'opera dell'autore risulta totale e pieno. Grandi eventi e piccoli momenti illuminano qui il mondo di Hemingway, riportando di riflesso le meraviglie e i dolori di una vita vissuta in maniera intensa, esperienze e testimonianze che si riversano su carta in episodi nei quali è nascosta la vita: dolore, sconfitta, amore, riscatto, guerra e forse, finalmente, pace.

martedì 20 settembre 2022

SOLE ROSSO

(Soleil rouge di Terence Young, 1971)

Mi chiedo se sia possibile non provare un'ottima predisposizione d'animo per un film, western per giunta, che riesce a unire nel cast nomi molto diversi tra loro come quelli del "giustiziere" Charles Bronson, della splendida "Bond girl" Ursula Andress, dell'elegantissimo Alain Delon e addirittura quello di Toshiro Mifune, il Samurai senza padrone, uno dei mitici sette di Akira Kurosawa. Voglio dire, hai già vinto, almeno da queste parti; basta dare un'occhiata a una delle locandine del film (la mia preferita è quella con i quattro in bianco/nero nel tondo rosso) per avere l'impressione in nuce di una costruzione perfetta. Il film poi nel suo sviluppo lo è forse meno, ma ormai il gioco è fatto, il cuore è già stato catturato. Quindi per recensioni spassionatamente obiettive, almeno per questa volta, conviene rivolgersi altrove, qui Terence Young, in questa occasione almeno, parte con un certo vantaggio, vantaggio tra l'altro circoscritto solo a quest'opera in quanto il regista, pur avendo diretto diversi capitoli del James Bond di Sean Connery, non guadagna punti ai miei occhi in quanto rimango abbastanza freddo nei confronti delle vicende legate all'agente segreto al servizio di Sua Maestà. Al netto di simpatie varie, Sole rosso rimane un buon western, curioso e atipico proprio grazie al cast eterogeneo e all'inserimento poco usuale dell'elemento giapponese che è qui capace di risultare originale come di prendersi un po' la scena a discapito di tutti gli altri personaggi comunque ben scritti e inseriti ottimamente nel contesto.

Una delegazione giapponese, che comprende l'ambasciatore (Satoshi Nakamura), viaggia in treno per raggiungere il Presidente degli Stati Uniti Ulysses Grant. Oltre al vagone su cui viaggiano i rappresentanti del paese nipponico, sul treno ce n'è un altro con un bel carico d'oro; è questo che fa gola alla banda di Link (Charles Bronson) e Gauche (Alain Delon), uomini che non si fanno scrupolo a sparare al fine di ottenere quel che vogliono. Dopo aver ammansito gli occupanti del treno e una pattuglia dell'esercito americano, Link e Gauche non mancano di depredare l'ambasciatore giapponese che viaggia scortato da due samurai tra i quali il fido Kuroda (Toshiro Mifune). Non pago del bottino l'avido Gauche, amante del bello, sfila ai giapponesi anche un'antica spada che avrebbe dovuto essere il loro regalo per il Presidente Grant. È questa la goccia che farà traboccare il vaso e che porterà a nuove e strane alleanze. Il viscido Gauche tradisce il suo compagno Link per tenersi tutto l'oro, l'ambasciatore del Giappone ordina a Kuroda di recuperare la spada (pena il seppuku in caso di fallimento), Link vuole Gauche vivo per recuperare l'oro, Kuroda vuole Gauche morto per recuperare la spada, i vecchi nemici diverranno riluttanti alleati, impareranno nel corso dell'inseguimento il rispetto reciproco e l'amicizia e anche quanto una sgualdrina possa contare nel cuore di un uomo, nella fattispecie Christina (Ursula Andress), la donna di Gauche.

Sole rosso non rientrerà mai nelle classifiche dei migliori western della storia del cinema eppure l'inserimento di Toshiro Mifune con tanto di costume tradizionale da samurai, di legame con il bushido e con il codice d'onore che ne deriva, mischiato a quello che a prima vista può sembrare un cast inverosimile ma che a parere di chi scrive si rivela la chiave di lettura più interessante del film, rende il risultato complessivo ben più che piacevole nonostante sotto altri aspetti, come il rapporto tra ritmo e durata e la scelta degli scenari, Sole rosso venga sorpassato a destra da altri titoli. Dietro il western ci sono le dinamiche da buddy movie e da "strana coppia", con un delinquente all'occorrenza spietato ma simpatico, interpretato da un Bronson più espressivo e accattivante del solito, e un samurai tutto d'un pezzo, serioso, ma che saprà sciogliersi un poco e fare più di un passo verso un uomo dal modo di essere che nella maniera più assoluta non gli appartiene. Bene anche Delon nel ruolo del bastardo con grazia, accompagnato da una Andress semplicemente splendida, a prendersi la scena è però Toshiro Mifune, un vero mito calato per bene nel vecchio west, ricordiamo tra l'altro che I sette samurai è stato prototipo per I magnifici sette di Sturges, pietra miliare del western. Ottima la sequenza iniziale con l'assalto al treno, qualche calo di ritmo nella parte centrale e l'immancabile attacco degli indiani che appare inserito un po' per dovere e legame con il genere. Ne esce un film comunque divertente che si segue molto volentieri in virtù di personaggi indovinati e di uno scostamento dalla norma decisamente piacevole, i duetti Bronson/Mifune non si dimenticheranno così in fretta, in fondo le ragioni per valutare un recupero di questo Sole rosso sono più d'una.

sabato 17 settembre 2022

FRANK

(di Lenny Abrahamson, 2014)

Come già in Garage del 2007 Lenny Abrahamson riprende il discorso sulle complicate condizioni mentali dei suoi personaggi; ancora una volta il regista irlandese racconta di un protagonista con difficoltà a integrarsi in maniera completa nella società in cui vive, contornandolo in questo caso da diversi altri elementi non troppo dissimili da lui, una banda, anzi una band, all'interno della quale la completa sanità mentale non è il primo requisito richiesto, anzi, proprio l'ingresso nel gruppo di un sano di mente rischia di far crollare equilibri fragilissimi e parecchio laterali rispetto al comune rapporto che la maggior parte delle persone ha con il fluire del vivere quotidiano visto come "normale". Seppur più vivace ed energico il piglio riversato nella realizzazione di Frank rispetto a quello adoperato per girare Garage, anche in quest'opera Abrahamson infonde una delicatezza di fondo che riesce a portare lo spettatore a un ottimo livello empatico con Frank e a provare un'enorme tenerezza per quest'uomo squinternato o quantomeno originale.

Jon (Domhnall Gleeson) è un impiegato frustrato che vorrebbe vivere della sua musica; il giovane cerca di comporre in maniera continua, prendendo spunto da qualsiasi piccolo evento della vita quotidiana: una donna con il cappotto rosso, una con il cappotto blu, una band che viene a suonare nella sua cittadina. La band è quella dei Soronprfbs (nome impronunciabile) e mentre Jon è in spiaggia assiste al tentativo di suicidio del loro tastierista. In seguito all'evento Jon ha modo di parlare con Don (Scott McNairy), sorta di membro/manager del gruppo, il quale dopo aver scoperto che anche Jon è un tastierista lo invita a rimpiazzare il suicida mancato per lo show della sera. Qui Jon cerca di integrare il suo mood, solitamente molto melodico (e banale) alla vena sperimentale del gruppo, l'esibizione è sorretta dalla presenza scenica del leader Frank che si presenta sul palco coperto da una grossa testa di cartapesta. Dopo lo show Jon verrà invitato proprio dallo stesso Frank a unirsi alla band per un breve periodo (che diverrà piuttosto lungo) dedicato alle prove e alle registrazioni del nuovo album dei Soronprfbs, Jon imparerà ad apprezzare il geniale compositore dalla testa di cartapesta che, con grande stupore, scoprirà essere per Frank una costante e non solo un oggetto di scena.

Frank rimane in bilico tra commedia divertente (parecchio) e tenera narrazione della malattia mentale in forma più o meno lieve, inserendo diversi spunti meritevoli d'essere approfonditi. Il film, come la condizione di Frank, giocano su un'equilibrio che potrebbe essere facilmente mandato a rotoli; all'interno della band dei Soronprfbs c'è il personaggio di Clara (Maggie Gyllenhall), anche lei non propriamente un esempio di assennatezza, che in un mondo un po' diverso dal nostro diventa per Frank un punto di riferimento importante e che contribuisce, insieme a Don e agli altri, a creare un microcosmo altro nel quale anche una persona schiva come Frank può trovare un senso riuscendo quindi a scatenare il suo talento naturale (e molto particolare) per la musica. Interessante vedere come questi equilibri vengano scombinati in gran parte dall'elemento nuovo (Jon) che in apparenza sembra portare ciò che per i più è la norma (approccio social, visione più commerciale della musica, desiderio di notorietà, etc...) che all'interno della band crea però scompiglio. Molto accattivante il lavoro fatto con la musica da Stephen Rennicks e con i brani dei Soronprfbs, l'impianto musicale, insieme alla splendida location isolata dove il gruppo si ferma a provare e incidere il disco, contribuisce a dare al film quell'aria fuori dalla norma che intriga lo spettatore. Impossibile, anche alla fine, a giochi scoperti, non provare tenerezza per il mondo creato da Frank e per Frank (con l'aiuto dell'amore degli altri membri della band) e per un personaggio originale, forse unico nel cinema recente. Abrahamson si conferma un ottimo cantore della diversità, con sguardo tenero, comprensivo, ci racconta storie di piccoli mondi possibili, da rispettare e iniziare a considerare qualcosa di più di semplici scostamenti dalla norma.

PS: volutamente non ho citato il nome dell'attore protagonista che qui offre una grande prova costruita solo sulla voce (è sempre mascherato), il consiglio è quello di affrontare il film inconsapevoli (se ancora non si è a conoscenza di chi abbia interpretato Frank) e godersi le eventuali sorprese del caso.

giovedì 15 settembre 2022

IL POTERE DEL CANE

(The power of the dog di Jane Campion, 2021)

Con Il potere del cane Jane Campion raccoglie critiche positive e un buon numero di riconoscimenti per la sua regia: l'Oscar, il Golden Globe, il British Academy e il Leone d'Argento a Venezia. Un bottino ricco che sottolinea come l'aspetto migliore di questo film sia proprio la regia accurata della Campion; seguono buone interpretazioni e location splendide capaci di far correre l'occhio in lungo e in largo, grazie proprio all'ottimo lavoro della Campion, come se si fosse realmente in quella valle, al crepuscolo dell'epopea del west (in realtà ciò che vede l'occhio sono i bellissimi paesaggi della Nuova Zelanda, Paese in cui il film è stato girato). Il potere del cane ha le caratteristiche di un western moderno, l'epoca è tarda, siamo nel 1925; anche se il corpo principale della mitologia del west americano si condensa nella seconda metà del 1800 non è inusuale che il cinema si occupi degli strascichi che l'età del Far West si portò dietro nei primi decenni del nuovo secolo, magari presentandone gli elementi noti contaminati dalla modernità incombente, con l'arrivo e l'utilizzo delle prime automobili ad esempio (mi viene in mente La ballata di Cable Hogue di Sam Peckinpah per dirne uno), ed è proprio questo lo scenario che ci troviamo di fronte affrontando la visione de Il potere del cane, titolo enigmatico che troverà il suo significato solo a narrazione inoltrata.

Montana, 1925. I fratelli Burbank, Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons), sono dei possidenti di terreni e bestiame molto benestanti. Mentre Phil è un po' lo stereotipo del cowboy rude, dal carattere forte (ma meschino e irascibile), ammirato dai suoi uomini e capace di cavarsela con tutte le incombenze pratiche che la gestione di un ranch richiede, George è invece un uomo debole, beneducato, attento alla forma e alle relazioni e con un animo più sensibile anche se non esente da disattenzioni e opportunismi. Il rapporto tra i due fratelli è difficile, George non ha il rispetto dei suoi uomini e non riesce a trovare un vero punto di contatto con il fratello che, a dispetto delle apparenze, è forse quello dei due che ne avrebbe più bisogno. Durante uno spostamento della mandria i due proprietari con una decina di dipendenti al seguito alloggiano in casa della vedova Rose Gordon (Kirsten Dunst), qui Phil non perde occasione per deridere le maniere effemminate del figlio di Rose, il giovane Peter (Kodi Smit McPhee) ferendo profondamente la madre nella quale nascerà un'avversione inguaribile per quell'uomo così villano. Sarà George a consolare la vedova e a scusarsi per il comportamento del fratello mostrando una sensibilità che convincerà Rose a sposare il più gentile dei fratelli Burbank, dovrà però venire a patti con la presenza costante di Phil nella casa di famiglia dove si trasferirà col figlio e il nuovo marito.

Il potere del cane è un film a cui manca qualcosa, all'apparire dei titoli di coda si prova un senso di incompiutezza anche se i fili intrecciati, come la corda che un redento Phil prepara per Peter, vengono tirati a dovere. I temi sono diversi, quello portante è l'omosessualità latente di alcuni dei protagonisti, un sentire all'epoca impossibile da rivelare, da nascondere a tutti i costi, soprattutto se si aveva necessità di contare sul rispetto dei propri uomini e se si portavano come una bandiera gli insegnamenti di quello che sembrava essere a tutti gli effetti un vero mito del west. Nulla di nuovo sotto il sole, argomenti noti almeno dai tempi del celebre Ang Lee, la Campion è molto brava, oltre che con la macchina da presa, nel costruire a poco a poco i personaggi e a far intravedere un po' alla volta tutto ciò che è presente nel loro animo, soprattutto in quello di Phil, i tormenti e tutti i non detti del caso. Gli eventi sono in qualche modo prevedibili, molto importante in questo senso la voce off di Peter a inizio film, rivelatoria, mentre il vero interesse sta appunto nello scoprire i personaggi: l'infelicità di Rose, il tormento di Phil, la debolezza di George e tutti quegli aspetti sottaciuti che pian piano ribaltano le simpatie dello spettatore. Eppure giunti al termine qualcosa manca, come un pasto senza il dolce alla fine, come una pietanza un po' scarsa di sale...

martedì 13 settembre 2022

IL SALE DELLA TERRA

(The salt of the Earth di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, 2014)

Wim Wenders incontrò per la prima volta l'arte del fotografo Sebastião Salgado una ventina d'anni prima della realizzazione di questo documentario, un film girato nel 2014 con l'aiuto del figlio dello stesso Salgado, il giovane regista Juliano Ribeiro. A folgorare il regista tedesco, durante una mostra in cui vi erano esposti alcuni scatti di Salgado, furono due immagini: la prima era uno scatto di una miniera d'oro in Brasile, immortalata nella fatica dei suoi cercatori, la seconda una toccante fotografia di un'anziana Tuareg priva della vista. Quando arrivò per Wenders l'occasione di incontrare di persona Salgado il progetto di realizzare un film sull'opera e sulla vita del fotografo prese vita grazie al contributo e alla disponibilità di Salgado stesso e di suo figlio Juliano. Ne esce un'opera molto convincente che trova una simbiosi perfetta tra cinema e fotografia, tra immagine ferma, cristallizzata, e immagine in movimento; per la realizzazione de Il sale della terra (sono le persone qui il vero sale della terra) Wenders ha l'umiltà e l'intelligenza di fare un passo indietro e di lasciar parlare molto le fotografie di Salgado, con estremo rispetto e ammirazione innamorata di un lavoro immenso; questo non vuol dire che lungo il racconto non si veda la mano del regista, c'è ad esempio una sequenza con un bianco e nero magnifico, lucente, che si apre come una delle foto di Salgado ma in realtà è la camera di Wenders a inquadrare il paesaggio dove tutto è fermo, il movimento arriva pian piano, un po' di vento, gli arbusti che si muovono, l'immagine si trasforma in un attimo da fotografia (qui curata da Salgado figlio e Hugo Barbier) in film e spesso da film in poesia, sempre grazie al lavoro profondo di un fotografo che ha girato il mondo, prendendosi anche dei bei rischi, per portare avanti la sua opera sociale colma di amore per l'umanità.

Il racconto procede per tappe seguendo la vita di Salgado, quella professionale che è inestricabilmente legata al suo privato, i viaggi lungo i quali troveranno corpo le sue opere, e i temi all'interno dei quali nasceranno mostre e libri, esperienze e riflessioni. Sempre sostenuto dalla moglie Lélia e dopo aver abbandonato il natio Brasile e percorsi dai quali non traeva più interesse, Salgado inizia il suo viaggio professionale mettendo a rischio la solidità familiare: un bimbo in arrivo, conti da pagare. Tutto viene ripagato dal contatto con un'umanità ferita, catturata nella sofferenza e nella difficoltà, ma capace di aprire il cuore e dare prospettiva ai valori, esperienze spesso dolorose, affrontare e dare luce e risalto alla fame, all'ingiustizia di bambini senza la speranza di un futuro, in Africa dove la terra è spaccata dalla siccità, indurita, dove alla fame, allo sfruttamento si aggiungono tragedie indicibili come quelle perpetrate in Rwanda, mette Salgado in posizione di dover fare i conti con la propria umanità, con la propria razza, tanto capace di bellezza quanto delle bassezze più atroci, di una violenza che non si riesce a spiegare. I segmenti sono vari e interessanti, lo stupro alla natura con l'incendio su vasta scala dei pozzi petroliferi in Kuwait, lo sfruttamento del lavoro e la schiavitù del sistema del capitale (uomini che si spaccano la schiena nelle miniere d'oro, non perché resi schiavi da altri ma autocondannatisi con l'idea improbabile di arricchirsi, schiavi del miraggio di un sistema che rende schiavi in maniera subliminale, riflessione affascinante e spaventosa), infine, piegato dalle sofferenze del mondo, il ritorno alla bellezza della natura e del paesaggio. Il film viene portato avanti dal racconto di Wenders che si alterna alle interviste e alle confessioni dello stesso protagonista per virare poi sui ricordi di bambino di un giovane Juliano, si alternano anche bianco e nero (da applausi) e colore, vecchi lavori e opere più recenti per finire con un ritorno in Brasile, alle origini, dove con una mossa tanto azzardata quanto felice Lélia e Sebastião riescono a riportare alla vita una terra ormai arida, quella del papà di Sebastião in quel di Aimorés dando nuova speranza, esempio e spinta per un futuro che forse ancora si può realizzare.

Un bellissimo viaggio attraverso il tempo, lo spazio e una vita vissuta da avventuriero prima ancora che da fotografo, da amante delle genti, da curioso e da artista di talento; Wenders contribuisce con bellissime immagini su paesaggi mozzafiato che non sfigurano nel confronto con il maestro della macchina fotografica; un connubio perfettamente riuscito, Wenders non è nuovo a operazioni di questo tipo, qui conferma la sua vena felice per quel che riguarda la messa in scena del lavoro di artisti da lui apprezzati.

venerdì 9 settembre 2022

7 PSICOPATICI

(Seven psychopaths di Martin McDonagh, 2012)

Abbiamo già avuto modo di dire in passato come di Martin McDonagh ne vorremmo un po' di più; regista parco, molto più attivo in teatro che non al cinema (ma il suo quarto lungo dovrebbe arrivare in Italia il prossimo anno, già premiato a Venezia) e, proprio in virtù di questo, autore che pone una grande attenzione alla fase di scrittura dei suoi film, regola ufficiosa alla quale non si sottrae nemmeno questo 7 psicopatici, forse il meno esaltante dei tre lunghi finora prodotti (con il suo primo corto vinse l'Oscar), schiacciato tra i gioielli In Bruges e Tre manifesti a Ebbing, Missouri; comunque anche questo si rivela essere un film ben studiato e parecchio divertente, sorretto anche da un cast di primissimo piano. Scrittura e recitazione quindi, ma anche la regia di McDonagh è sapiente e non manca di regalarci alcune escursioni su paesaggi mozzafiato e una rutilante carrellata di personaggi uno più psicopatico dell'altro, proprio come titolo vuole. McDonagh imbastisce una struttura di racconto metanarrativa, che riflette proprio sull'importanza della scrittura, della stesura delle storie all'interno di una delle quali, questa, ci immergeremo a partire dalle fasi della sua creazione. Ma prima di tutto 7 psicopatici è una divertente commedia noir, e alla fine è proprio il livello di lettura più evidente e lampante che si apprezza in misura maggiore.

Marty (Colin Farrell) è uno sceneggiatore in crisi, per il suo nuovo film ha in mano un bel titolo - 7 psicopatici - e poco altro, giusto l'idea per uno dei sette personaggi, l'abbozzo di un tizio mascherato che lascia sul corpo delle sue vittime un Jack sfilato da un mazzo di carte. Il suo amico fraterno Billy (Sam Rockwell), una sorta di aspirante attore fallito, cerca di sostenerlo in tutti i modi, dandogli delle idee (strampalate), cercando di allontanare Marty dalla bottiglia, facendogli vivere in prima persona situazioni che potrebbero finire nel film. Qualche idea inizia a girare, quella di un padre (Harry Dean Stanton) che per vendicare l'assassinio della figlia segue a distanza il suo assassino per tutta la vita, incutendogli un terrore fottuto, con una perseveranza tale che lo spingerà a seguire perfino il suo uomo all'inferno. Intanto Billy sbarca il lunario rapendo cani, una volta istituita la ricompensa dai relativi padroni i simpatici animaletti vengono ritrovati casualmente dal suo socio Hans (Christopher Walken) che passa a riscuotere alla cassa. Peccato che uno di questi cani sia di proprietà del malavitoso Charlie Costello (Woody Harrelson), uno non proprio incline a lasciar correre la benché minima mossa ai danni del suo amatissimo amico a quattro zampe. Con il passare dei minuti gli psicopatici aumentano di numero (fino ad arrivare a sette?) e il film, 7 psicopatici, quello di McDonagh, diventa il film, 7 psicopatici, che sta scrivendo Marty...

Più che una profonda riflessione sull'arte della scrittura il 7 psicopatici di McDonagh è un divertente gioco metanarrativo, un po' intricato, un po' confuso ma con un cast di attori e una mole di situazioni borderline che fanno perdonare qualsiasi piccola mancanza si possa trovare nel film: violento, sboccato e volgarotto ma con una propensione alla risata e all'esagerazione che mette tutto sotto un'ottima luce. Impareggiabile il personaggio interpretato da un ottimo, come al solito, Sam Rockwell; è in gran parte lui il motore che sviluppa la trama pensandola come un film e spingendo gli eventi verso quello che a suo avviso dovrebbe essere un gran finale, nel deserto, con una sparatoria a più mani, con auto che esplodono e rese dei conti inevitabili. La follia vera forse va cercata negli occhi liquidi di un Tom Waits luciferino, in quelli fermi di un altro grandissimo, Christopher Walken, sul fondo della bottiglia di Colin Farrell o nella giungla del Vietnam, forse nel solito inimitabile Harrelson o nell'intera figura di un'indimenticabile Harry Dean Stanton (Dio l'abbia in gloria). È facile che nemmeno McDonagh lo sappia, poco importa, qui ciò che conta è prendere il film per il verso giusto e farsi trascinare in questa corsa un po' fuori di testa, non rimarrà negli annali della storia del cinema ma un paio di ore piacevoli 7 psicopatici ve le garantisce di sicuro.

martedì 6 settembre 2022

24 CITY

(Er shi si cheng ji di Jia Zanghke, 2008)

Si dice che i grandi autori abbiano una sola storia da raccontare ma che siano in grado di declinarla con numerosi riflessi e presentarla sotto aspetti sempre diversi. Questa massima è fuor di dubbio applicabile al cinema di Jia Zanghke il quale nel corso degli anni, presi in considerazione diversi capitoli della sua filmografia, si è fatto a più riprese cantore della modernizzazione della Cina, del cambiamento di un Paese che nella corsa al capitale e al progresso sta repentinamente distruggendo il suo passato, non solo in relazione ai cambiamenti sociali radicali in atto ormai da tempo, ma anche tramite la vera e propria distruzione e modifica del paesaggio, con la cancellazione di tradizioni millenarie legate a luoghi specifici o, come in questo caso, più semplicemente con il cambio di destinazione di siti industriali che sono stati per generazioni sostentamento di intere famiglie e che ora diverranno altro a beneficio dei nuovi ricchi e benestanti. Nello specifico con 24 City, siamo nel 2008, Jia Zanghke ci racconta la chiusura della fabbrica 420 nella città di Chengdu, un sito che per circa 60 anni ha prodotto componenti per l'aviazione ed è stato in prima linea per l'approvvigionamento di parti militari ai tempi della guerra in Corea. Attorno alla fabbrica nacque un villaggio quasi autosufficiente nel quale tante famiglie hanno vissuto la loro vita per diverse generazioni, ora tutto sta finendo, i lavoratori vengono allontanati e il sito verrà raso al suolo per far nascere un nuovo grande complesso di edifici residenziali di lusso che si chiamerà proprio 24 City.

Per raccontare la chiusura della fabbrica 420 Jia Zanghke sceglie un registro ibrido che molto ha a che vedere con il genere del documentario: ci sono diverse interviste a ripercorrere il passato della fabbrica, le esistenze di alcune famiglie che traevano sostentamento dal lavoro prestato al suo interno, le storie di alcuni ex dipendenti; ciò che c'è di originale nel lavoro del regista è l'amalgama di interviste reali, registrate con i veri dipendenti dell'ex fabbrica, e di testimonianze di finzione, credibili e adeguate alla realtà raccontata, ma affidate ad attrici di chiara fama come Joan Chen, Lu Liping e Zhao Tao, volto ben noto ai fan del regista con il quale la Tao ha già collaborato numerose volte, vista anche in Italia come protagonista del film Io sono Li di Andrea Segre (ne parlammo tempo fa). Zanghke trova un approccio nuovo al documentario tramite questo mix di testimonianze reali e contributi ideati in fase di sceneggiatura che sembrano più reali di quelli autentici (e magari in qualche modo lo sono davvero); se ci si commuove di fronte all'ex dipendente che incontra un vecchio dirigente che non vede da anni, ormai anziano e stanco, e lo tratta come se fosse suo padre, carezzandolo, provando un'affetto sincero e contagioso per il vecchio collega, allo stesso modo si fatica a trattenere la lacrima durante la prova di Joan Chen, una donna ancora bellissima che ha passato una vita in quella fabbrica, dove oltre al suo ruolo di dipendente ha affermato con forza anche quello di donna indipendente. C'è il confronto tra generazioni, la giovane Zhao Tao è figlia di dipendenti ma per lei vuole ormai una vita diversa, sogna in grande, vede future ricchezze ma ha come priorità una bella casa per i suoi genitori.

Ciò che colpisce, e che si differenzia in misura maggiore dalla narrazione alla quale noi siamo abituati sulle dismissioni nel mondo del lavoro, è la mancanza assoluta di recriminazione, gli intervistati da Jia Zanghke, i suoi personaggi, mostrano al limite nostalgia, orgoglio per ciò che è stato e per ciò di cui hanno fatto parte, non c'è la critica al governo, non c'è la critica alla fabbrica, c'è una sorta di attaccamento a una vita passata in comune, in un luogo non certo splendido ma che ha permesso a molti di loro di condurre un'esistenza per i loro standard dignitosa seppur molto difficile (famiglie di sei persone in 20 metri di casa ad esempio), c'è la commozione, c'è la difficoltà ad adattarsi al nuovo, ci sono però anche le nuove prospettive, c'è, come in tutte le opere del regista cinese, la cancellazione del passato a favore del nuovo ordine. Seppure di diverso impatto rispetto a grandi film come Still Life, Al di là delle montagne o a I figli del fiume giallo, sarebbe quantomeno miope bollare questo 24 City come opera minore di un regista che ha tanto da dire e che riesce a farlo trovando una sua via anche con un film più "piccolo", più fermo ma egualmente immerso nel territorio e nella Storia. 

venerdì 2 settembre 2022

DIABOLIK

(dei Manetti Bros, 2021)

Piccola premessa: pur essendo un amante del medium fumetto ammetto di non essere un grande conoscitore del personaggio e della serie di Diabolik la quale, letta sporadicamente, non è mai riuscita a suscitare il mio interesse. Di contro invece è abbastanza chiara la mia radicata propensione a guardare con affetto tutti gli sforzi produttivi dei fratelli Manetti, fautori di un'idea di cinema verso la quale in me nasce una simpatia quasi naturale. Detto ciò parliamo quindi di questo Diabolik senza troppo andare a confrontare il lavoro dei registi romani con l'opera delle sorelle Giussani, anche se il fatto che i Manetti siano da sempre grandi fan del personaggio e i commenti degli amanti della serie lasciano trasparire come la trasposizione sfoggi una certa fedeltà all'opera originale creata dalle due signore del nero italiano. È proprio la "strana italianità" che i Manetti hanno cercato di ricreare a divenire caratteristica di base del loro film; nonostante i nomi delle ambientazioni siano quelle della città di Clerville o della marittima Ghenf e i personaggi di contorno, gli agenti di polizia ad esempio, portino nomi come Florian, Palmer, etc., è palese come le location siano città nostrane (Milano, Bologna, Trieste) e come gli attori reclutati dai Manetti spingano chiaramente su cadenze del Nord Italia, il tutto crea un effetto straniante acuito da un décor tipicamente anni 60 che, per chi non conosce il personaggio e la sua serie, può lasciare in principio un poco spiazzati. Ma a rimettere in ordine qualsiasi tipo di perplessità possa avere lo spettatore arriva Eva Kant.

Clerville anni 60. Diabolik (Luca Marinelli) è già un nome noto capace di far nascere preoccupazione in chiunque e l'ispettore Ginko (Valerio Mastandrea) è da tempo sulle sue tracce. Quando a Clerville arriva la bella e apparentemente molto ricca Lady Eva Kant (Miriam Leone) con tanto di gioiello di inestimabile valore al seguito, per Diabolik l'occasione di mettersi alla prova non potrà che dirsi troppo ghiotta per farsela sfuggire. Mentre le misure di sicurezza si stringono sempre più nell'hotel dove alloggia la Kant e dove il gioiello è custodito, il ladro assassino farà la sua mossa ben pianificata, cosa che non gli impedirà però di essere scoperto proprio dalla donna che sta rapinando la quale, invece di dimostrarsi intimorita dalla fama del terribile criminale, riesce a tenergli testa e ne subisce il fascino da uomo del mistero. Di contro anche Diabolik non può rimanere indifferente a una donna di un coraggio e di una bellezza strabilianti. Fatta comunella non resta che preoccuparsi dell'ispettore Ginko, poliziotto in gamba e che non molla mai, soprattutto se viene messo sulla giusta pista dall'inconsapevole moglie di Diabolik che, nella sua identità di Walter Dorian, è sposato alla sottomessa Elisabeth Gay (Serena Rossi).


Diabolik soffre un po' di quello che è un difetto ricorrente di diverse produzioni dei Manetti, ovvero attori coprotagonisti con un livello di recitazione non degno di un film per le sale; a parte le dovute eccezioni (ovviamente Mastandrea, Citran, la Scalera nota per dare il volto al sostituto procuratore Imma Tataranni) il resto del cast non brilla certo per doti attoriali, almeno non in questo film. Se la Leone (la vera protagonista del film, altro che Diabolik) è ancora autrice di una prova accettabile (ma con diversi passaggi non del tutto convincenti), è aiutata anche dall'importanza per il suo ruolo della presenza fisica, la Leone è una perfetta Eva Kant e la sua bellezza è davvero tale e tanta da far brillare di luce propria l'intero film. Spiace vedere un Alessandro Roja non così convincente (molto bene era andata in Song 'e Napule invece) e un Marinelli oltremodo imbambolato; vero è che il personaggio è glaciale e freddo e necessitava di sottrazione, ma qui si rasenta l'effetto stoccafisso. In diversi passaggi, soprattutto per chi non conosce il contesto del fumetto, c'è da dire che il contrasto tra ambientazione vaga, nomi stranieri, accenti e recitazione degli attori e décor tipico dell'Italia di fine Sessanta crea un insieme di elementi che a tratti sembra portare a un effetto di comico involontario. Di contro c'è da dire che il film cresce minuto dopo minuto, i Manetti offrono una bella prova di regia con soluzioni interessanti, vedi la scena dell'inseguimento iniziale (con un trucchetto del Diabolik davvero inverosimile però) o la rapina alla banca di Ghenf con uno split screen molto in linea con l'atmosfera dei tempi e del fumetto, quando si entra nel gioco alla fine ci si diverte anche. Buona la produzione che non sembra votata al risparmio come in altre opere dei Nostri. Il film non sarà un capolavoro ma alla fine una sufficienza se la porta a casa senza sforzi, il tocco dei Manetti c'è, se loro piacciono alla fine non si resta delusi nemmeno questa volta e ci si può pure scordare degli attori cani.


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