martedì 28 maggio 2024

WINTER BOY - LE LYCÉEN

(Le lycéen di Christophe Honoré, 2022)

Winter boy è il titolo internazionale con cui Le lycéen è stato presentato, tra le varie manifestazioni a cui ha partecipato, anche al Torino Film Festival nell'edizione del 2022; opera molto personale questa per il regista francese Christophe Honoré che a circa vent'anni dal suo esordio dietro la macchina da presa decide di affrontare con un'opera parzialmente autobiografica il dolore della perdita del padre scomparso quando il regista era ancora adolescente, proprio come capita qui al protagonista Lucas. Nel rielaborare questa fase difficile della sua giovinezza Honoré decide di interpretare in prima persona il padre di Lucas, un ruolo breve, pochi passaggi all'inizio del film prima della morte prematura del personaggio, una scelta probabilmente molto sentita che per il regista non dev'essere stato troppo semplice da prendere e definire. Per la realizzazione di Le lycéen Honoré si affida a una rodatissima Juliette Binoche con la quale andare sul sicuro per il ruolo della madre del protagonista (e indirettamente del regista), per interpretare il fratello di Lucas, Quentin, Honoré sceglie Vincente Lacoste con il quale ha in passato già collaborato ad altri due lungometraggi e trova, con una scelta felicissima e indovinata, il giovane Paul Kircher nel ruolo del protagonista che in senso più o meno lato dovrebbe essere una sorta di suo stesso alter ego. Più che altrove la scelta dell'attore nel ruolo principale qui sembra determinante in quanto la naturale credibilità di questo giovane ragazzo si rivela essere un apporto fondamentale a un film che aveva necessità di non apparire troppo forzato in quanto il saliscendi emotivo del protagonista, dato dal lutto ma anche da un'età di passaggio, non era così semplice da gestire. Kircher ci riesce molto bene.

Lucas Ronis (Paul Kircher) è un adolescente che frequenta il liceo lontano da casa, ragion per cui torna al suo paese di montagna e dai genitori solo nel weekend; a scuola Lucas frequenta il suo compagno Oscar (Adrien Casse) con il quale intrattiene una sorta di relazione sentimentale. A seguito di un'incidente d'auto il padre del ragazzo (Christophe Honoré) perde la vita lasciando soli la moglie Isabelle (Juliette Binoche), Lucas e suo fratello maggiore Quentin (Vincente Lacoste), questi è già in cerca della sua indipendenza e abita a Parigi dove sta cercando di farsi un nome nel mondo dell'arte come artista emergente. La morte del padre è per Lucas un colpo tremendo che fa sorgere nel ragazzo una quantità di dubbi e domande complesse; la temporanea perdita di direzione di Lucas, dettata dal dolore, lo porta anche ad avere confronti aspri e fisici con il fratello che comunque è a lui molto legato e che gli propone di andare con lui a Parigi per cambiare aria per qualche tempo. Incoraggiato anche dalla madre Lucas affronta volentieri questa nuova avventura; in città Lucas conosce Lilio (Erwan Kepoa Falé), il migliore amico di Quentin, per il quale finirà per provare una sorta di attrazione; la vita sregolata che Lucas condurrà a Parigi non servirà al ragazzo per superare la morte del padre, una perdita che, forse, solo il tempo potrà guarire.

Le lycéen narra un periodo difficile nella vita di un adolescente, un momento di cambiamento forzato che porta il protagonista a uno spaesamento difficile da gestire tra rabbia, dubbi, fame smodata di vita e pulsioni di morte che traghettano il ragazzo verso una nuova fase della sua esistenza che si aprirà solo dopo tanto dolore sul finale del film. Honoré ci presenta Le lycéen come un racconto, è lo stesso Lucas a renderci partecipi della sua tragedia, è lui a parlare in macchina e rivolgersi al suo pubblico (noi spettatori? qualcun altro?) diverse volte lungo l'arco del film, così come farà Isabelle sul finale. Il film è ambientato nell'oggi del covid, uno dei documenti di finzione che rimarranno a memoria di quegli anni difficili con gli alunni mascherati, i volti coperti; non è quindi una puntuale messa in scena della tragedia personale del regista accaduta in un'altra epoca anche se la gestione della narrazione e i rimandi ai tempi del racconto non sempre sono così lineari. Ciò che maggiormente emerge dalla narrazione del regista francese, col supporto del magnifico Kircher, è la turbolenza emotiva di un ragazzo che nel lutto scopre la grande città, Parigi, si confronta con una visione delle relazioni e del sesso per lui diversa da quella che a casa sembrava consolidata, ma soprattutto si interroga sul mondo (i confronti con i sacerdoti) e con ciò che è stato il rapporto col padre, nasce in lui il timore che l'uomo non lo amasse perché "frocio", che questa figura paterna non fosse felice (a causa sua? Ipotesi di suicidio?) e così via. Honoré lavora molto bene con la musica, spesso protagonista, con la scelta dei brani da inserire nelle varie scene, dirige alla grande ottimi attori e riesce a narrare un episodio per lui importantissimo riuscendo a non appesantirne l'andamento nonostante il peso della materia e la lunghezza del film.

mercoledì 22 maggio 2024

FREAKS

(di Zach Lipovsky e Adam B. Stein, 2018)

Sarebbe stato meglio optare per il Freaks di Tod Browning ma tant'è, ormai è fatta. Ben due i registi dietro la realizzazione di questo Freaks datato 2018; Zach Lipovsky e Adam B. Stein arrivano entrambi da On the lot, talent show americano del 2007 alla ricerca di registi esordienti prodotto tra gli altri da Steven Spielberg e che vedeva tra i giudici la presenza di Carrie Fisher e Garry Marshall (Pretty woman, Paura d'amare, Se scappi... ti sposo). Dei cinquanta contendenti selezionati per la competizione solo diciotto arrivarono alla fase finale; in questa corsa durata circa quattro mesi e trasmessa da Fox, Stein e Lipovski si piazzarono entrambi nelle prime cinque posizioni della classifica (quinto e terzo rispettivamente); destinati a stringere un sodalizio duraturo, dopo questo Freaks i due siglano insieme anche il live action Kim Possible (tratto dal cartone animato di casa Disney) e Final destination: bloodlines di prossima uscita e atteso (?) per il 2025. La considerazione che Lipovski e Stein ottennero durante lo show venne poi confermata anche in una serie di festival di genere proprio nel momento dell'uscita di questo Freaks che raccolse diverse critiche positive e qualche riconoscimento qua e là. Indubbiamente alcune idee nel film ci sono (anzi, forse ce ne sono anche troppo seppur non nuovissime ma speziate con tocco personale), il budget probabilmente non enorme ha costretto la coppia di registi a dar sfoggio del loro estro trovando soluzioni di comodo alcune delle quali in effetti sono tra gli aspetti più interessanti di un film a conti fatti non completamente riuscito.

La piccola Chloe (Lexy Kolker) vive da reclusa in una casa completamente isolata dal mondo esterno: le finestre sono oscurate, il caos regna sovrano, Chloe non ha il permesso di uscire e deve arrangiarsi da sola anche per passare il tempo, suo padre (Emile Hirsch) sembra un uomo terrorizzato da ciò che c'è fuori dalla porta della sua abitazione, un mondo all'apparenza tutto sommato normale. L'uomo inculca alla bambina la dottrina della pericolosità del mondo esterno, specialmente per quelli "come loro", solo lui, di tanto in tanto, può uscire di casa per fare provviste per poi rinchiudersi nuovamente all'interno. Ogni tot l'uomo chiede alla figlia se i suoi occhi abbiano iniziato a sanguinare. Chloe dal canto suo cerca di essere una brava bambina, di compiacere il padre nonostante la sua voglia matta di uscire e correre al furgoncino piazzato davanti casa per prendersi un bel gelato, qui il signor Snowcone (Bruce Dern) sembra aspettare proprio lei con la promessa di una fantasmagoria di ottimi gusti a disposizione. In casa Chloe di tanto in tanto ha delle visioni, a volte vede la madre Mary (Amanda Crew), scomparsa da tempo, che le manca tanto, altre volte la figlia dei vicini di casa dai quali vorrebbe trasferirsi per condurre una vita normale, possibilità in effetti ventilata dal padre. In una situazione di apparente follia si inizia però a chiedersi se questo padre sia poi davvero così folle...

Freaks si gioca tutte le carte migliori nella prima parte del film e queste, tenuto conto del budget non altissimo a disposizione di Stein e Lipovski, sono effettivamente carte interessanti che permettono ai due registi di giocare una buona mano. Nella parte iniziale, quando i protagonisti sono solo due e chiusi sempre in casa, si fondono in maniera ottima un'idea di regia vivace e allo stesso tempo claustrofobica, capace però di donare il giusto movimento a questi interni squallidi, e uno sviluppo della narrazione che desta in effetti curiosità e accende nello spettatore il tarlo del dubbio e il desiderio di sapere di più. La situazione del mondo in cui i due si trovano a vivere si chiarisce solo pian piano, con l'arrivo nella narrazione del mondo esterno si perde un po' alla volta quell'alone di mistero che caratterizza l'incipit di Freaks e l'interesse un poco alla volta scema, anche perché i registri narrativi si differenziano e la gestione dello sviluppo ne risente inanellando sequenze poco ficcanti e dando sfoggio di effetti speciali più che dignitosi in relazione al budget ma non così entusiasmanti in merito alla piega che prendono gli eventi (diciamo che tra film di fantascienza, horror e cinecomics abbiamo visto molto di meglio). Scoperte le carte il film si sgonfia, ne rimane una visione almeno in parte piacevole ma anche la sensazione di aver assistito al dipanarsi di un'occasione non colta per intero. Stein e Lipovski mostrano di avere sia idee che talento, il tutto sta nel convogliare le forze per gestirle meglio e ad arrivare a qualcosa di più compiuto di questo Freaks.

domenica 19 maggio 2024

AZOR

(di Andreas Fontana, 2021)

Dai primi mesi del 1976 fino alla fine del 1983 l'Argentina attraversò uno dei periodi più bui e crudeli della Storia moderna del Paese; sotto la dittatura militare sparirono circa 30.000 persone: le famiglie videro scomparire i propri parenti, videro rapire i propri figli, i propri genitori, senza che nessuno desse loro notizie dei loro cari. Le torture si susseguivano su base quotidiana, i morti non si contavano, le forze dell'ordine erano il vero nemico in un Paese allo sbando; ancora oggi definizioni come "desaparecidos", "voli della morte", "Garage Olimpo", "centri di detenzione clandestina" fanno accapponare la pelle per il terrore che ancora riescono a evocare. Anni terribili, la vera morte di tutto ciò che è giusto, buono e democratico. Un contesto questo durissimo e già narrato in alcuni ottimi film, mi viene in mente il bellissimo Garage Olimpo di Marco Bechis. Con Azor il regista svizzero Andreas Fontana torna a quegli anni a Buenos Aires, nello specifico al 1980, compiendo un'azione narrativa molto originale e interessante, andando a raccontare quell'infausto periodo omettendo completamente qualsiasi bruttura del regime e il regime stesso che qui si percepisce forte ma che non viene mai mostrato, nominato, raccontato ma solo alluso, lasciato intuire, lambito per vie indirette. Eppure la sua presenza è forte, aleggia per tutto il film, sovrasta la gente per bene e i profittatori, la vecchia borghesia e tutti i collusi, compresi politici, banchieri, ricchi possidenti e alti prelati. È quindi un oggetto cinematografico da studiare questo Azor, molto godibile nella sua lateralità, nel suo viaggiare leggermente spostato dalla deflagrazione della cronaca, un film che nasce da un'idea egualmente intrigante. È lo stesso regista a raccontare come l'idea sia nata dal ritrovamento di un diario di viaggio di suo nonno, un banchiere privato e diplomatico svizzero in viaggio in Argentina per andare a trovare dei parenti. Fontana si meraviglia di come suo nonno, persona colta e informata su ciò che accadeva nel mondo, su quel diario tacesse totalmente della situazione politica in Argentina, dei fatti terribili che vi accadevano in quegli anni e ovviamente se ne chiede il perché. Da qui l'idea di romanzare un viaggio di un banchiere privato in cerca di opportunità e affari a Buenos Aires, in quegli anni, in quella situazione terribile, raccontandola (la situazione) tramite un'assenza, tramite i non detti delle persone, della Storia, dei protagonisti, andando poi ben oltre le vicende del nonno che in tutto ciò che vediamo (e non vediamo) in Azor non ebbe nulla a che spartire. Mi sembra tutto sommato una base molto succulenta da cui partire e che Fontana è stato in grado di gestire davvero molto bene, e non era cosa facile da fare.

Yvan De Wiel (Fabrizio Rongione) e sua moglie Inés (Stephanie Cléau) arrivano a Buenos Aires dopo un lungo viaggio dalla Svizzera; nell'arrivare incappano in alcuni ritardi dovuti ai controlli dell'esercito argentino. De Wiel è un banchiere privato svizzero, socio di una banca storica e portata avanti dalla sua e da altre famiglie da almeno tre generazioni; De Wiel è a Buenos Aires per chiudere alcuni affari con diversi importanti clienti argentini, affari da principio messi in piedi dal collega e socio René Keys ora scomparso senza aver lasciato traccia di sé. Si intuisce da subito, dalle parole delle varie personalità che De Wiel si trova a incontrare, come l'approccio agli affari dei due soci sia molto diverso, si dice che Keys, sicuramente uno di forte presa e capace di coinvolgere anche emotivamente le persone, abbia trasceso in alcuni suoi comportamenti, esagerato, fatto o detto qualcosa di poco consono. Ora, in quell'ambiente all'apparenza ovattato e poco permeabile, dove le cose vanno intuite e capite al volo, Keys è scomparso, non c'è più, nessuno ne sa nulla. Starà ora al nuovo arrivato rappresentare la banca, prendere contatti nei salotti buoni, muovere capitali dell'alta borghesia e tirare le fila di ciò che Keys aveva imbastito. Ma cos'è che aveva imbastito Keys?

C'è una scena nel film in cui Inés, la moglie del protagonista, parla con la padrona di casa in cui si tiene il piccolo ricevimento a cui sono stati invitati lei e il marito, le spiega come nel gergo dei banchieri svizzeri ci siano espressioni inventate, usate per non farsi capire da chi non appartiene a quel mondo; in questo gergo la parola "azor" significa qualcosa tipo "attento a ciò che dici". Forse è proprio questo precetto, azor, che Keys non ha rispettato muovendosi nella Buenos Aires del 1980. Non lo sappiamo per certo, Fontana ci porta in un mondo che sembra viaggiare per compartimenti stagni, l'orrore è là fuori, l'inquietudine serpeggia, alcuni incontri, alcuni dialoghi sembrano portare con loro una crescente dose di minaccia, ma nessuno parla di ciò che sta succedendo fuori le mura di una casa, al di là della tenuta di un anziano benestante, oltre le pareti di un club esclusivo dove banchieri, prelati e affaristi si ritrovano per muovere capitali. Nessuno sa dove sia Keys, nessuno dice cosa in realtà abbia fatto; eppure, nel suo spaesamento iniziale, De Wiel non sembra essere all'altezza del socio scomparso, nessuno parla chiaro e lui necessita di tempo per ascoltare, capire, affrontare una questione che prima di ogni altra cosa diviene affare morale. Gioca in maniera magnifica con l'assenza Fontana (aiutato molto per la sceneggiatura da Mariano Llinás), con la mancanza di Keys, con la mancanza di informazioni, con la mancanza della feroce dittatura argentina, tutti elementi che ci sono, incidono forti nel racconto ma non si vedono, sono ignorati. Nel giocare con l'assenza Azor è forse uno dei film più riusciti che mi sia capitato di vedere. Il lavoro fatto da Fontana, come quello di tutto lo splendido cast, è di una calibrazione impressionante: gli interni, la recitazione misurata (bravissimi Rongione e Cléau, inquietante Pablo Torre Nilson nei panni del Monsignor Tatoski), i singoli dialoghi, riescono a creare una sensazione palpabile causata da un pericolo a noi invisibile, cosa che spesso non riesce neanche ai registi di film horror. Fontana arriva dopo alcuni corti a questo esordio nel lungo nel migliore dei modi possibili, con un approccio al cinema originale e allo stesso tempo solido e inattaccabile, un nuovo nome da tenere d'occhio nei prossimi anni.

giovedì 16 maggio 2024

BROOKLYN'S FINEST

(di Antoine Fuqua, 2009)

Regista dagli esiti discontinui bollato come ottima promessa ai tempi del duro Training day (poliziesco sporco con Washington e Hawke) Antoine Fuqua torna nel 2009, a distanza di otto anni dal suo più celebre esito, proprio al genere che lo aveva portato per un breve periodo sugli scudi. Anche in questo caso, con meno turpiloquio gratuito (se la memoria non inganna), Fuqua esplora il lato corrotto, seppur molto umano, di tutori dell'ordine e della legge votati a "servire e proteggere" più che altro le loro necessità personali, siano queste dettate dall'amore per la famiglia, da malessere esistenziale o da strane amicizie e appartenenza razziale. Continua quindi l'esplorazione del lato meno limpido della legge, qui calato in un quartiere molto difficile di New York, una zona di Brooklyn governata dallo spaccio di droga e all'apparenza dominata dalla criminalità afroamericana, comunità soggetta a regolari violenze da parte di alcuni esponenti del New York Police Department. In questo contesto, con una narrazione tutto sommato che guarda al classico, Fuqua imbastisce almeno tre linee narrative principali destinate a lambirsi per poi convergere (ma mai troppo) su un finale che vede tutti protagonisti, struttura di certo non nuova ma all'apparenza, per come si muovono i personaggi lungo il film, inevitabile per dare una chiusura all'intero affresco collettivo.

La zona nord di Brooklyn è invasa dalla droga, gli agenti del 65esimo distretto si trovano a dover compiere retate continue e a confrontarsi quotidianamente con scontri e violenze; a causa del comportamento di alcuni di loro, agenti corrotti e violenti, l'operato della polizia è sotto attacco da parte dei media, soprattutto per comportamenti visti come razzisti, il quartiere conta infatti una numerosa popolazione di afroamericani. Sal Procida (Ethan Hawke) è un detective padre di tre figli e in attesa di due gemelli, la moglie Angela (Lily Taylor) soffre di un problema respiratorio che sta mettendo a rischio la sua salute e quella dei gemelli, la loro casa piena di muffa non è salutare per la famiglia e i soldi per comprarne un'altra non ci sono, la paga da detective è una miseria, così Sal fa di tutto per racimolare quel che serve (omicidi e furti di soldi sporchi compresi) per portare sua moglie in una casa nuova. Il detective Clarence Butler detto Tango (Don Cheadle) è da anni infiltrato nell'organizzazione criminosa gestita da Caz Phillips (Wesley Snipes) da poco tornato nelle sue strade dopo un periodo di galera. Tango vorrebbe uscire da quella storia e tornare a una vita normale, alla sua donna ormai persa, per farlo deve sottostare ai diktat dell'arrivista Smith (Ellen Barkin), agente dell' F.B.I. che vuole la testa di Caz su un piatto d'argento, ma Caz per Tango è ormai una sorta di amico. All'agente anziano Eddie Dugan (Richard Gere) mancano pochi giorni alla pensione, sette per la precisione. Dugan è un agente non troppo rispettato nel suo distretto e che cerca di evitare ogni rogna possibile per arrivare finalmente all'agognata pensione e togliersi di mezzo, magari incominciare una nuova vita con la prostituta Chantel (Shannon Kane), unico legame rimastogli in una vita vuota, una donna del quale Dugan è ingenuamente innamorato. A sette giorni dalla pensione il dipartimento apre un nuovo programma di reclute, due di loro saranno affiancate proprio a Duncan, la situazione minerà la prospettiva di quei sette giorni tranquilli che mancano alla chiusura di un ciclo. Le storie di questi personaggi conflagreranno in un finale amaro per tutti.

Rispetto al precedente Training day questo Brooklyn's finest è caratterizzato da una scansione dei ritmi più pacata, l'azione è intervallata da momenti di definizione dei personaggi e dalla continua ricerca di quell'ambiguità morale che non trova qui attenuanti ma in merito alla quale non si manca di rimarcare contraddizioni e difficoltà di chi si trova a operare in una situazione molto difficile. Emblematica in questo la figura di Procida, un poliziotto non encomiabile (tutt'altro), privo di equilibrio e realmente povero, a un livello al quale forse chi detiene determinate responsabilità non dovrebbe essere (mentre vede arricchirsi chi sta dall'altra parte della barricata o seduto dietro una scrivania). Fuqua dirige con mano ferma ed esperta riuscendo a tenere tutte e tre le linee narrative principali su un livello d'interesse sempre più che buono, la struttura a incrocio finale è ormai risaputa e la drammaturgia del film lascia prevedere allo spettatore in larga misura quello che potrebbe essere un'epilogo che, seppur non giunga inaspettato, chiude il cerchio senza deludere. Con Brooklyn's finest Fuqua mette in scena una tragedia per poliziotti sconfitti con un'attenzione particolare agli ambienti e agli scenari, sempre molto convincenti sia in interno che in esterno, indovina anche la scelta degli attori che aderiscono al meglio ai loro personaggi coadiuvati per bene da coprotagonisti di livello (Vincent D'Onofrio, Wesley Snipes). Si rimane nel genere ma si chiamano in causa argomenti di dolente attualità legate soprattutto all'atteggiamento della polizia statunitense, al razzismo, alla vita in quartieri difficili; Brooklyn's finest non sarà una rivelazione ma non deluderà gli amanti del poliziesco disilluso.

martedì 14 maggio 2024

MADELINE'S MADELINE

(di Josephine Decker, 2018)

Josephine Decker è una regista molto interessante, almeno a giudicare da questo Madeline's Madeline, autrice da noi praticamente sconosciuta e mai distribuita; si è forse parlato un poco del suo lavoro in occasione del lungometraggio Shirley, già il suo quinto in realtà, in quanto narra la vita della scrittrice Shirley Jackson, conosciuta anche qui in Italia e interpretata dal volto noto di Elisabeth Moss. Anche in questo caso ci vengono in aiuto le piattaforme, questo Madeline's Madeline è visibile infatti su Mubi mentre l'ultimo lungometraggio della Decker, Il cielo è ovunque è stato reso disponibile da Apple Tv+. Purtroppo siamo ancora portati, facendo un discorso generalizzato sul grande pubblico che ovviamente non può valere per tutti, a diffidare di forme narrative che non rientrino perfettamente nei canoni ai quali decenni di cinema classico e lineare ci hanno abituati, tra l'altro il lavoro della Decker non è nemmeno lontanamente tra i più ostici sulla piazza, il film in questione si può seguire senza fatica con un minimo d'attenzione, certo è che Madeline's Madeline un poco fuori dagli schemi (per fortuna) lo è. Oltre a ibridare in maniera molto convincente cinema e teatro, approccio non nuovo per la Decker, la regista londinese cresciuta in Texas ha anche il merito di scovare e dirigere con mano ferma quello che sembra essere un vero giovane talento, la protagonista Helena Howard nei panni di una splendida e intensa Madeline.

Madeline (Helena Howard) è un'adolescente che soffre di un disturbo comportamentale non ben precisato; il suo rapporto con la madre, anche lei all'apparenza non perfettamente in equilibrio con sé stessa, passa da momenti di dolce affetto a scontri verbali o anche fisici; non di rado un'affermazione da parte di mamma Regina (Miranda July), a volte innocente altre più cattiva, conduce Madeline a uno stato depressivo o finanche astioso, tra le due donne non sono infatti mancati in passato episodi violenti. Madeline non si trova molto bene nell'ambiente scolastico, dimensione che nel film non vediamo praticamente mai, ama molto però il corso di teatro sperimentale che sta seguendo con un gruppo di ragazzi e ragazze più grandi di lei e con l'insegnante Evangeline (Molly Parker) la quale ricerca un teatro personale, fatto di grande immedesimazione tra attori e soggetti portati in scena (Madeline è fenomenale nel diventare un gatto) e improntato al più totale abbandono nell'atto della performance. Man mano che Evangeline conosce meglio Madeline si sente sempre più attratta dalla sua recitazione ma soprattutto dalla sua storia, tanto da iniziare a pensare a un cambio di programma per il suo nuovo progetto teatrale per farlo diventare il racconto delle esperienze della sua giovane attrice, un racconto che rievocato in presenza della madre Regina scatenerà la fuoriuscita di ondate di dolore trattenuto e la ribellione dell'intera compagnia teatrale.

Sono diversi i punti di forza di un film senza dubbio da scoprire e diffondere, su tutti il talento della giovane protagonista, una Helena Howard (ventenne al momento delle riprese) molto intensa che porta con profondità sullo schermo gli sbalzi d'umore dettati da una condizione mentale instabile e dal rapporto con una madre troppo opprimente anche quando agisce a fin di bene. L'alter(n)arsi degli stati emotivi di Madeleine è il leit motiv di un film girato in maniera non convenzionale e dinamica con una camera sempre mobile a seguire il lavoro degli attori sul palco e a chiudere su volti, espressioni e performance artistiche, almeno una delle quali di rara intensità, capace di evocare allo stesso tempo dolore, compassione e disagio. Attraverso la voglia di teatro della protagonista viene ben esplorato il rapporto con due donne entrambe figure di riferimento per Madeleine: una madre spesso troppo protettiva, dura, una donna che vede nella figlia prima di tutto una malata da accudire e che alterna slanci d'amore a momenti di cattiveria (forse) involontaria, e un'insegnante motivante, accogliente che potrebbe essere un surrogato di figura materna più serena ma che si rivelerà ben presto come donna opportunista ed egoriferita. Il sapore è quello del cinema sperimentale in connessione al teatro che i ragazzi mettono in scena nel film, di pari passo la regia prova, riuscendoci, a vivacizzare le immagini, le sfumature, i colori, i passaggi, creando un senso di movimento a tratti vertiginoso. Ci sono aspetti plurimi della protagonista da leggere attraverso i suoi comportamenti, le sue esternazioni nei panni di gatto nei confronti della madre, dei compagni di corso ma anche verso gente appena conosciuta. Lo sviluppo del personaggio in fase di scrittura è stratificato e scena dopo scena porta a un finale che potrebbe confermare (o ribaltare) ogni interpretazione dello spettatore. Film a crescere, da giudicare dopo un paio di giorni dalla visione.

sabato 11 maggio 2024

LE PALUDI DELLA MORTE

(Texas killing fields di Ami Canaan Mann, 2011)

Ami Canaan Mann è una regista figlia d'arte che porta nel nome un'eredità parecchio ingombrante, quella del padre Michael autore di film rimasti nella memoria dei cinefili quali Heat - La sfida, Manhunter - Frammenti di un'omicidio, L'ultimo dei Mohicani, Collateral e diverse altre cose di altissimo livello. Non dev'essere semplice cimentarsi in un'arte, tra l'altro anche in un genere già frequentato dal genitore, con l'inevitabile pensiero di ciò che ha saputo realizzare l'illustre predecessore considerato uno dei nomi che contano nel cinema degli ultimi decenni; Ami Canaan Mann, almeno a giudicare da questo Le paludi della morte, senza timore riverenziale, magari carpendo qualcosa dal mestiere del padre ma senza raggiungerne le vette dei migliori esiti, confeziona un bel film solido e cupo, personale in quanto privo di quell'epica "manniana" che caratterizza quasi tutta la produzione di Michael Mann, un film diretto, centrato sul male e sull'umanità imperfetta dei protagonisti, un poliziesco sporco di terra e fango, sangue, povertà, ignoranza e violenza. Non un'opera prima, la Mann aveva infatti esordito con Morning già dieci anni addietro, ma di certo l'esito da noi più noto di una regista impegnata anche sul versante televisivo, anche questa una tendenza di famiglia, Mann padre fu infatti il vero artefice del successo della storica serie tv Miami Vice.

I Killing Fields sono una zona paludosa del Texas, un postaccio nel corso degli anni scenario di diversi omicidi di giovani donne. Quando in zona viene ritrovato il cadavere dell'ennesima ragazza vengono assegnati al caso due detective di Texas City nella contea di Galveston, l'autoctono Mike Souder (Sam Worthington) e il newyorkese Brian Heigh (Jeffrey Dean Morgan). Nel corso delle indagini i due detective interrogano tra gli altri alcuni clienti della prostituta Lucie (Sheryl Lee); la donna è madre di una ragazzina di nome Anne (Chloë Grace Moretz) costretta a una vita allo sbando a causa della famiglia disastrata da cui proviene, Brian si affezionerà alla giovane diventando per lei una figura protettiva. La fede cristiana di Brian e la sua indole altruista lo portano ad accettare di collaborare ad altri casi di omicidio avvenuti sempre nella stessa zona ma al di fuori della sua giurisdizione. Sono questi dei casi in carico alla detective Pam Stall (Jessica Chastain), ex moglie tosta e indipendente del collega Souder, un uomo decisamente meno delicato e paziente rispetto al solitamente mite e ben disposto Brian. Nonostante le differenze caratteriali i due uomini cercheranno di collaborare al meglio per rendere giustizia a tutte le vittime e per proteggere quelle potenziali costrette a vivere in quella sorta di inferno in Terra che sono i Killing Fields.

Se nel guardare questo film e nel collocarne la vicenda nella contea di Galveston dovesse suonarvi qualche campanello d'allarme è bene ricordare come Le paludi della morte sia uscito ben tre anni prima della stagione d'esordio di True Detective. Il film della Mann infatti richiama alla mente in maniera naturale alcune dinamiche proprie della coppia di protagonisti della serie ideata da Nic Pizzolatto (autore anche del romanzo intitolato proprio Galveston) e soprattutto anticipa l'importanza rivestita da questi luoghi/scenari nella stagione d'esordio della serie. Se l'impianto di base, al netto del sapore esoterico qui assente, può sembrare simile a quello di True Detective, Le paludi della morte non ha modo di approfondire allo stesso modo i protagonisti, non per mancanza della Mann che compie in questo senso forse il lavoro migliore dell'intero film, ma semplicemente per questioni di formato e minutaggio. Come anticipato è però proprio sullo studio dei caratteri che il film si regge, lo sviluppo della trama di per sé è meno curato e la scoperta del male non porta con sé rivelazioni: quello messo in scena dalla Mann è un male evidente e prevedibile, lo sono meno alcune evoluzioni dei protagonisti che regalano un pizzico di spessore in più a un film per il resto girato con mano ferma e ben calato nel genere. La Lee rappresenta al meglio quel white trash delle zone meno urbanizzate degli States, Jeffrey Dean Morgan porta in giro il volto migliore del mazzo insieme a quello di tutti i fetenti presenti nel film. Cupo, duro, anche se aperto a un raggio di speranza sul finale, Le paludi della morte dipinge proprio quell'America brutta con la quale nessuno vorrebbe avere a che fare e che nella successiva True Detective sarà capace di farvela fare addosso dalla paura con la sua inquietante e insensata crudeltà. Magari non proprio come papà ma le doti per camminare da sola a testa alta ci sono tutte.

giovedì 9 maggio 2024

ABBIAMO SEMPRE VISSUTO NEL CASTELLO

(We have always lived in the castle di Shirley Jackson, 1962)

Nata a San Francisco nel 1916 Shirley Jackson non ha avuto una vita felice né tantomeno facile né lunga, la scrittrice infatti ci lascia quando ancora doveva compiere quarantanove anni a causa di un'insufficienza cardiaca manifestatasi nel sonno. Il nome della Jackson viene spesso legato alla tradizione del romanzo gotico, non a torto, soprattutto in virtù della scrittura del romanzo L'incubo di Hill House a detta di molti uno dei romanzi più importanti in assoluto sul tema dei fantasmi. Anche in questo Abbiamo sempre vissuto nel castello, pur non essendoci riferimenti diretti a eventi sovrannaturali o a presenze spettrali, l'angoscia che sottotraccia si impadronisce pian piano del lettore e l'inquietudine dovuta a fatti parzialmente taciuti portano ad accostare anche questa ultima opera della Jackson all'affascinante filone del gotico di matrice anglosassone. Ciò che più colpisce di questo breve romanzo è la sensazione di atemporalità di cui le pagine della Jackson sono pervase: se alcuni elementi della narrazione ci lasciano capire che il dipanarsi degli eventi non può svolgersi in un'epoca troppo distante da quella contemporanea la data di pubblicazione (il libro fu edito in prima battuta nel 1962), lo stile di vita delle protagoniste del racconto e soprattutto lo stile di scrittura della Jackson (adattato dalla traduttrice Monica Pareschi) riportano facilmente la mente del lettore alla letteratura di fine Ottocento o comunque a un periodo decisamente precedente gli anni di pubblicazione del libro o di quelli in cui si svolgono i fatti. Fatti non tutti limpidi fin da subito...

"Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott'anni e vivo con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l'anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l'Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti". È questo l'incipit di Abbiamo sempre vissuto nel castello, una dichiarazione con la quale la protagonista principale del romanzo, Katherine Blackwood detta Merrycat, si presenta ai lettori. Come la ragazza afferma gli altri membri della famiglia sono tutti morti a causa di un evento legato al passato delle due sorelle. In realtà questa affermazione non è del tutto vera, nella magione di famiglia infatti con Merrycat e Constance vivono anche lo zio Julian, un anziano costretto in sedia a rotelle e non sempre presente a sé stesso, e il gatto Jonas. Gli altri sono davvero tutti morti. Constance, più grande di Merrycat, vive reclusa in casa, non ha contatti con l'esterno, è appassionata di cucina e bada alla sorella e allo zio con zelo e affetto sincero; è Merrycat a dover andare in paese una volta alla settimana per far provviste e comprare il necessario. Anche Merrycat non ama scendere in paese e soprattutto non ama incontrare altra gente, gente sempre pronta a giudicare (male) lei e tutta la stirpe dei Blackwood come se un odio atavico aleggiasse sul nome della famiglia, un odio probabilmente legato ai fatti di qualche tempo prima. Sono poche le persone e le famiglie che ancora hanno qualche contatto con le due sorelle e con lo zio Julian, qualche vecchio amico dei signori Blackwood, qualche signorina curiosa di dare un'occhiata a casa Blackwood di tanto in tanto. Poi un giorno si presenta alla porta il cugino Charles, desideroso di aiutare le maltrattate cugine e capace, poco alla volta, di modificare la visione di Constance sul mondo esterno e sul suo stesso modo di vivere, all'apparenza in maniera non del tutto disinteressata.

Nell'intero corso di questo breve romanzo striscia un sentimento di inquietudine che la Jackson è bravissima ad alimentare nella quotidianità della gestione di questa vita isolata da parte dei membri sopravvissuti della famiglia Blackwood. Non ci sono eventi fulminanti, orrori inspiegabili a minacciare la vita delle due sorelle, c'è però la cattiveria della gente del paese, il sospetto di ciò che è accaduto in passato che l'autrice cela nello svolgersi per gran parte del romanzo, c'è l'avvento di un elemento estraneo e destabilizzante (il cugino Charles) che scombina gli equilibri e in qualche modo incrina, almeno per qualche tempo, l'idillio tra le due sorelle. Che qualcosa non giri proprio nel verso giusto è palese per il lettore, il personaggio di Merrycat ad esempio è descritto nei suoi comportamenti dalla Jackson non come una ragazza diciottenne bensì come una bambina ancora immatura, Constance d'altro canto è incapace di affrontare il mondo esterno, tristi caratteristiche, soprattutto quest'ultima, che richiamano le difficoltà che la Jackson ha patito realmente nella sua vita, mortificata da una madre incapace di dimostrarle amore e dai problemi di relazione con gli abitanti del paesino del Vermont in cui si trasferì a seguito di un matrimonio poi rivelatosi fallimentare, un'esperienza dalla quale potrebbe forse nascere la figura negativa del cugino Charles. La Jackson trasferisce parte del suo vissuto tra le pagine di questo Abbiamo sempre vissuto nel castello rendendo il romanzo sempre vibrante e attraente, qualità che, insieme a una lunghezza non troppo estesa, rendono il libro una lettura piacevolissima e veloce.

sabato 4 maggio 2024

QUANDO HAI 17 ANNI

(Quand on a 17 ans di André Téchiné, 2016)

Inverno, un paese nei Pirenei francesi coperto dalla neve. Tom Chardoul (Corentin Fila) è un ragazzo di colore che abita in una fattoria isolata sulle montagne, un luogo un po' scomodo da raggiungere in inverno proprio a causa della neve che si accumula sulle strade; Tom vive con i genitori francesi che lo adottarono in tenera età a causa delle difficoltà della signora Chardoul (Mama Prassinos) nel portare a termine una gravidanza naturale. Tom frequenta la scuola del paese, a valle, nella stessa classe di Damien Delille (Kacey Mottet Klein). La madre di Damien, la signora Marianne (Sandrine Kiberlain) è un medico, lo stesso che ha in cura la signora Chardoul a causa di recenti malesseri; Marianne soffre un poco la mancanza del marito Nathan (Alexis Loret), pilota militare inviato in missione in Medio Oriente con cui parla quotidianamente tramite videochiamata e che riesce a vedere ogni tanto quando l'uomo gode di qualche periodo di congedo per tornare dalla famiglia. Per Damien come figura di riferimento c'è Paulo (Stefano Thermes), un ex collega del padre che sta insegnando al ragazzo tecniche di combattimento e autodifesa. Tom sembra avere per Damien un'immotivata antipatia, a scuola capita qualche episodio di scontro: occhiatacce, uno spintone dato senza ragione apparente e via via episodi più significativi. Quando la situazione della madre di Tom richiederà maggiore tranquillità la dottoressa Marianne proporrà a Tom di andare a stare per qualche tempo da loro in paese, col vantaggio che così Damien, più bravo a scuola, potrebbe aiutare Tom con gli studi; ovviamente Marianne non sa che i due, che saranno costretti a convivere sotto lo stesso tetto, si detestano, un'antipatia che in realtà nasce dalla paura e dall'attrazione che Damien prova per Tom.

Téchiné ambienta il suo Quando hai 17 anni in quel lembo della Francia dove anch'egli è cresciuto e ha trascorso gli anni dell'adolescenza, lo stesso periodo preso in esame per i protagonisti di questo film. Questa scelta rafforza ancor più quella che è la propensione naturale del regista francese nel delineare al meglio le figure umane, nel tradurre su schermo i loro moti interiori, grandi e piccoli, e il rapporto di questi con la società circostante e con l'altro da sé, come nel caso del rapporto tra Tom e Damien, una vicinanza palpabile tra regista e personaggi che si percepisce forte durante la visione del film. Téchiné torna a temi già trattati in passato, sotto i riflettori qui un toccante racconto sull'adolescenza (tema già trattato in L'età acerba) e sull'omosessualità (I testimoni) ma anche, seppur in maniera più marginale, sulla famiglia e sulle relazioni in generale. Per narrare la sua storia Téchiné sceglie una struttura suddivisa per trimestri a seguire uno dei ritmi fondamentali dell'adolescenza, quello della scuola, e l'alternarsi delle stagioni, entrambe le suddivisioni del tempo vedono lo scontrarsi e l'avvicinarsi di Damien e Tom in un costruirsi ragionato e tremendamente vivo, credibile, naturale, in un rapporto denso di difficoltà, dubbi, paure, vergogne, desideri, bisogni. Se i due ragazzi sono il centro di un film ammirevole, i coprotagonisti danno modo al regista di affrontare altri temi fondamentali della vita come la maternità, il dolore, la perdita, i rapporti genitoriali e filiali, Quando hai 17 anni diventa così lo spaccato di un mondo e non solo un riuscitissimo ritratto dell'"età acerba". Aiutato anche dalla sceneggiatura della Sciamma il regista offre uno sguardo lucido e sentito su un momento importante e per diversi versi difficile della vita dei due ragazzi, momenti fondamentali, per un verso o per l'altro, per tutti, fotografa con la finzione un reale molto vicino e partecipato senza mai scadere nel banale e senza mai andare a cercare lo spettatore in maniera evidente al fine di tirargli fuori qualcosa, una scelta di stile che non si può far altro che apprezzare in pieno.

mercoledì 1 maggio 2024

IL DITTATORE DELLO STATO LIBERO DI BANANAS

(Bananas di Woody Allen, 1971)

Chi approcciasse per la prima volta il Woody Allen degli albori conoscendone magari solo le più recenti fatiche si troverebbe davanti a un cinema decisamente diverso da quello al quale il regista newyorkese ci ha abituato negli ultimi decenni (e non solo), incappando in una comicità differente, più demenziale e diretta, in strutture narrative meno articolate e più libere, nella fattispecie la narrazione procede per accumulo (sempre coerente e consequenziale) di gag e battute, situazioni strampalate e ridicolaggini, garantendo peraltro una frequenza di risate per minuto decisamente alta. Anche il personaggio interpretato da Allen in tanti film, il suo "tipo umano", il newyorkese di origine ebraica un po' ipocondriaco, insicuro, preda dell'ansia e dell'inadeguatezza con la favella sciolta e straripante è qui presente solo con alcune di queste caratteristiche, un "work in progress" già molto efficace ma ancora da compiersi nell'arrivare a quel modello definitivo che in moltissimi hanno (abbiamo) amato e amano ancor oggi, magari con un po' di magone quando capita di vedere nelle opere recenti di Allen proprio "quel" personaggio interpretato da qualcun altro, ricordiamoci che Woody conta ormai quasi novanta primavere, stare davanti alla macchina da presa è ormai impresa improba sia per la fatica puramente fisica sia perché i personaggi da lui scritti spesso proprio novantenni non sono e richiedono quindi interpreti diversi. È un Allen quello de Il dittatore dello Stato libero di Bananas che oltre a divertire graffia anche un po' seppur lo stesso autore disconosce i rimarcati intenti politici che tanta critica attribuì al film negli anni della sua uscita.

Fielding Mellish (Woody Allen) lavora come collaudatore di attrezzature strampalate per una grossa azienda statunitense. Mentre in Sud America, nello stato di Bananas, si compie un colpo di stato per il quale sale al potere il dittatore Emilio Molina-Vargas (Carlos Montalbán) Fielding incontra la giovane e politicamente impegnata Nancy (Louise Lasser), una donna molto piacente che sta raccogliendo firme affinché gli Stati Uniti non appoggino ciò che sta accadendo nel Bananas ma anzi sostengano la rivoluzione per la libertà portata avanti dal comandante dei ribelli Castrado (Jacobo Morales). Fielding, assolutamente disinteressato all'argomento, coglie la scusa per frequentare Nancy finché questa non lo mollerà perché in cerca di un uomo più maturo e deciso. Con l'intento di dare una svolta alla sua vita e magari riconquistare la giovane, Fielding si reca in Bananas dove viene preso in mezzo tra Vargas che lo vorrebbe eliminare per far poi ricadere la colpa sui ribelli e così inimicare loro l'opinione pubblica U.S.A. e Castrado che lo vorrebbe tra i comandanti della rivoluzione. Ovviamente ne scaturiranno situazioni deliranti.

Il dittatore dello Stato libero di Bananas è comicità pura; nonostante l'amalgama sia coerente e ben tenuto insieme nel suo complesso, è evidente come Allen in questo film, ma in generale nella sua prima fase di carriera, avesse in mente principalmente la gag, l'uscita comica, il fuoco di fila di battute che qui funziona a meraviglia e regge senza interruzioni per l'intera durata di un film divertentissimo. Ci sono in sviluppo già accenni ai temi del grande Allen futuro: il rapporto complicato con le donne, qui rappresentate da Louise Lasser che di Allen è stata la seconda moglie, le insicurezze, la costruzione del suo tipo umano, le battute ficcanti e argute, non manca quindi il personaggio "Allen" di cui il mondo si è innamorato, manca ancora, almeno in parte, il regista, lo scrittore che andrà in futuro via via a concentrarsi su narrazioni più compiute e meno demenziali. Il film regge benissimo al passare del tempo, uscito da più di cinquant'anni Bananas (titolo originale più conciso) non ha perso un grammo della sua dirompente forza comica; in aiuto alla macchina delle gag (che in realtà di aiuti non ha bisogno) arrivano diverse stoccate al mondo della televisione con un'anticipazione di quello che è l'ormai acclarata propensione delle tv all'infotainment qui spettacolarizzato in maniera comica ben oltre il limite della decenza, e sappiamo tutti che ormai alcune trasmissioni di informazione la decenza l'abbiano dimenticata da tempo. Non mancano riferimenti alla religione (bellissima la scena del crick) ma nemmeno la passione di Allen per il cinema, passato (la carrozzina de La corazzata Potëmkin) e futuro (un Sylvester Stallone alle primissime apparizioni). Frecciate politiche arrivano al sistema dittatoriale di alcune "repubbliche delle banane" ma non si risparmiano nemmeno rivoluzionari e Governo statunitense, insomma, si prende in giro proprio tutti. Bellissima scelta per i titoli di testa di una commedia divertente e intelligente che ancor oggi merita più di una visione e che segna un passaggio fondamentale nella formazione del primo Woody Allen.

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