domenica 28 luglio 2024

DUST IN THE WIND

(Liàn liàn fēng chén di Hou Hsiao-hsien, 1986)

Dust in the wind è una delle opere di Hou Hsiao-hsien che si inserisce a pieno titolo all'interno del movimento della New Wave del cinema di Taiwan del quale il regista è considerato uno dei maggiori e più autorevoli esponenti. Dell'origine e dei contenuti della corrente di cui sopra abbiamo già parlato presentando altri film del regista (Cute girl, The green, green grass of home e I ragazzi di Feng Kuei) e un paio di quelli di Edward Yang, altro esponente della New Wave taiwanese (The terrorizers e Taipei Story); Dust in the wind, oltre a essere ascrivibile al citato filone è anche il primo tassello di un'ideale trilogia che il regista ha realizzato con la collaborazione alle sceneggiature di Wu Nien-jen il quale ha apportato a questo film e ai due successivi (Città dolente e Il maestro burattinaio) elementi autobiografici che ben identificano alcuni dei temi ricorrenti del cinema di Hou Hsiao-hsien e in maniera più generale i temi di quella nuova ondata di cinema taiwanese che cominciò a generarsi nella prima metà degli anni Ottanta dello scorso secolo. Per Dust in the wind il più evidente di questi temi è il contrasto tra la vita più semplice, seppur a volte dura, delle province e della campagna in contrasto alle difficoltà, sopportate soprattutto dalle generazioni di giovani, davanti alle quali ci si trova andandosi a inserire in un contesto cittadino sempre più moderno e caotico e teso verso una produttività disumanizzante e condizioni di lavoro inaccettabili e disperate.

Wan (Wang Chien-wen) e Huen (Hsin Shu-fen) si conoscono da diverso tempo, frequentano la stessa scuola e sono cresciuti insieme nel villaggio di provincia di Jiufen, un piccolo centro rurale nel nord di Taiwan. Ogni giorno tornano da scuola insieme con il treno, salgono il pendio che li porta alle loro case, i genitori hanno dei lavori duri, i due ragazzi vivono un rapporto d'amore platonico molto riservato e compìto. Quando si avvicina la fine dell'anno scolastico Wan confida al padre di non voler proseguire negli studi e di aver deciso di recarsi nella capitale, Taipei, per cercare lavoro. Il padre, pur cercando di far capire al figlio l'errore nella sua decisione, non gli impedisce di partire. In città il ragazzo troverà lavoro in una tipografia e arrotonderà facendo qualche consegna. Huen seguirà il suo amico/amore poco dopo e inizierà a lavorare in una sartoria. Gli ambienti di lavoro, soprattutto per Wan, non saranno sempre facili e armoniosi nonostante non manchi mai quel pizzico di umanità e solidarietà che sempre sarebbe necessaria tra esseri umani. I ragazzi iniziano a sentire la nostalgia di casa e di un contesto duro ma più semplice, dove non c'era delinquenza e dove ancora non avevano avuto a che fare con l'asprezza della vita da adulti. Poi Huen viene chiamato per il servizio di leva, in un Paese politicamente mai completamente tranquillo e pacificato, la vita di Huen e Wan cambierà ancora una volta.

Come già accadeva in The green, green grass of home è il movimento di un treno ad aprire il Dust in the wind di Hou Hsiao-hsien, un mezzo di trasporto che tra i Sessanta e i Settanta del secolo scorso era il naturale collegamento tra le città, dove Wan e Huen studiano, e le campagne dove i ragazzi risiedono. Con un tono più serio e consapevole della drammaticità dell'evolversi dei tempi, Hsiao-hsien ancora una volta pone a confronto la vita rurale e il frenetico e forzato tran tran dell'esistenza produttiva cittadina che costringe l'uomo a immergersi in un vestito che quasi mai gli calza a pennello. A sostenere, almeno per una buona parte del film, le difficoltà di Huen e Wan c'è quell'affetto reciproco che è certamente amore e che mai viene esplicitato. Il regista ci mostra spesso atti di solidarietà tra i giovani, non solo tra i due protagonisti, Wan e Huen si aiutano economicamente in diverse occasioni senza dare nessuna importanza ai soldi, si sostengono come nell'episodio in cui a Wan viene rubata la moto con la quale effettua le consegne, passaggio che riporta in maniera naturale al neorealismo di Ladri di biciclette. Il mondo rurale viene quindi rappresentato con una sorta di vena nostalgica a idealizzarne il ricordo, un legame verso una vita semplice alla quale il regista riconosce la stessa importanza che tributa al cinema, qui presente come in altri suoi film, è forse proprio quel telo bianco, tirato tra le intemperie tra due pali di paese, che è esposto alla polvere nel vento del titolo. Lo sguardo al passato, quello nostalgico, non omette però le difficoltà della povera gente, il lavoro duro delle miniere, le prime rivendicazioni sui diritti, eppure in qualche modo progresso e città riescono pian piano ad allontanare i due giovani, la chiamata di leva farà il resto, con Dust in the wind siamo negli Ottanta dello scorso secolo ma ancora oggi su modernità e progresso in relazione allo sgretolamento dei rapporti umani possiamo dire di avere ancora tutto da imparare.

venerdì 26 luglio 2024

DEADPOOL & WOLVERINE

(di Shawn Levy, 2024)

Sono diversi i motivi per i quali il Deadpool & Wolverine di Shawn Levy muove tra i fan del Marvel Cinematic Universe (e del vecchio universo Fox degli X-Men e dei Fantastici 4) una dose non trascurabile di aspettative. Tra questi il più evidente è il recente calo qualitativo generale, seppur con diverse eccezioni, dei prodotti targati Disney/Marvel e di quelli a tematica supereroica (in DC non se la passano poi tanto meglio), un calo al quale si sperava che questo terzo episodio delle avventure del "mutante chiacchierone" potesse porre freno e fungere in qualche modo da ripartenza. Gli scarsi risultati di The Marvels, l'indifferenza per prodotti come Licantropus, l'oscenità di film come Ant-Man and the Wasp: Quantumania, l'idiozia di cose come l'ultimo Thor e la mediocrità di serie come Moon Knight o Secret Invasion hanno contribuito a determinare quel sentimento di disaffezione verso un universo condiviso che fino a qualche anno fa andava ancora molto forte, complice anche il casino del multiverso al quale in molti si sono francamente stancati di cercare di star dietro. Insomma, era necessario un cambio di passo e Deadpool & Wolverine era l'occasione giusta per dare un segnale di svolta. Missione riuscita? Insomma, solo in minima parte. Il secondo nodo focale era l'innesto massivo dei personaggi ex-Fox all'interno del MCU, cosa che proprio grazie alla gestione del multiverso non risulta essere un passo poi così difficile da compiere, in questo caso la Disney/Marvel si avvale dell'aiuto della TVA, l'agenzia di controllo temporale già vista nella serie Loki, per inserire nel multiverso Marvel il buon caro vecchio Deadpool e riportare indietro dalla morte (Logan) un burbero Wolverine per la prima volta con la storica tutina gialloblù. Missione riuscita? Beh, anche qui insomma, diciamo pure di sì, però... 

Il caro Wade Wilson, in arte Deadpool (Ryan Reinolds) ha in passato avuto la fortuna sfacciata che di lui si innamorasse la bellissima Vanessa (Morena Baccarin); è per lei che il mercenario mutante tenta di cambiar vita e appendere la tutina rossa al chiodo, con l'amico Peter (dal film precedente, Rob Delaney) cerca di barcamenarsi come venditore di auto usate per portare avanti il tentativo di condurre una vita normale. Questo anche a causa del rifiuto da parte di Happy Hogan (Jon Favreau), braccio destro di Iron Man, di arruolare Deadpool negli Avengers, cosa della quale il Nostro sentiva un gran bisogno per vedersi finalmente degno e importante. Proprio su questo sentimento fa leva l'agenzia TVA per affidargli una missione per la quale la sua linea di realtà rischia però di essere annientata. Per portare a termine la sua missione, che presto non convergerà più perfettamente con quella della TVA e del suo agente Paradox (Matthew Macfayden), Deadpool ha bisogno di un'ancora forte che sia un punto fermo di un'altra realtà; il mutante pensa così a Wolverine (Hugh Jackman), un eroe indiscutibile che ha effettuato il sacrificio supremo per garantire un futuro alla giovane Laura (la X-23 di Logan), peccato che tra tutte le versioni possibili Wade vada a pescare proprio il peggiore dei Logan, quello che nella sua realtà è riuscito a combinare solo dei gran casini; inizierà un'avventura piena di sangue, scontri e turpiloquio dalla quale non si sa bene come uscirà il nuovo universo targato Marvel.

Diciamo che ci potrebbero essere due modi per leggere il film di Shawn Levy, regista che in passato ha collaborato già sia con Reynolds che con Jackman (e probabilmente si è trovato molto bene). Il primo è considerare il film come un Deadpool 3, in questo caso il film è perfettamente riuscito; Deadpool & Wolverine è molto divertente, pieno di battutacce triviali, molte a sfondo sessuale, tracima di strizzatine d'occhio all'epoca Fox dei supereroi (non anticipo troppo su questo aspetto per non rovinare la visione a chi non avesse ancora visto il film) e in generale alla cultura pop, sfoggia una colonna sonora ruffiana e molto indovinata e spinge il pedale su quell'iperviolenza grottesca e artificiosa che non può non far ridere ma che non risulta assolutamente adatta ai più giovani. Questo era un altro dei temi che aleggiava sul film come una spada di Damocle: la Disney sarà in grado di gestire un personaggio come Deadpool senza edulcorarlo e snaturalizzarlo? In questo caso la risposta è sì, violenza gratuita e volgarità si sprecano, il divertimento "politically uncorrect" è assicurato. Il secondo modo di guardare al film di Levy è quello di vederlo come il nuovo tassello del MCU, in questo caso l'esperienza sembra molto meno riuscita (cosa che può anche non importare ai più). L'impressione è che nel tirare giù questo Deadpool & Wolverine non ci si sia preoccupati troppo di creare una trama avvincente o interessante. Non mancano intuizioni buone (e che vanno un po' sprecate se non lette come mero punto di partenza) ma per lo più il film vive di momenti, battute, allusioni, omaggi, sequenze di scontro e passaggi divertenti guardando solo in maniera blanda a un totale che ha come scopo quello di buttare dentro i personaggi Fox e denigrare il multiverso che sembra aver arrecato così tanti danni al MCU. Certo, il multiverso fa schifo, ma lo abbiamo finalmente cancellato? Da segnalare ancora l'affiatamento perfetto tra Reynolds e Jackman che sono indiscutibilmente una coppia molto divertente, e infine l'intuizione migliore del film, la potenzialmente splendida Cassandra Nova (Emma Corrin), personaggio qui poco approfondito e che si spera possa trovare maggior spazio altrove, magari inserita in una narrazione più seria (o almeno in una narrazione). In conclusione film molto divertente che probabilmente si rivelerà essere un ottimo successo commerciale, resta il fatto che il MCU necessiti di un ripensamento.

giovedì 18 luglio 2024

I VITELLONI

(di Federico Fellini, 1953)

Siamo nel 1953 e I vitelloni, tra le opere del primo periodo di Federico Fellini, può ancora essere accostato alla corrente del neorealismo italiano, movimento dell'immediato secondo dopoguerra dentro il quale Fellini non verrà mai inserito a pieno titolo se non appunto, in maniera marginale, per un paio di opere tra le quali compare proprio questo I vitelloni, uno dei suoi film più apprezzati e riconosciuti anche all'estero. In effetti, mettendo in parallelo le principali caratteristiche della corrente neorealista e i contenuti de I vitelloni è facile notare come solo alcune di queste siano sovrapponibili tra film e filone. Fellini mette un poco da parte la Storia e si concentra sul privato dei suoi protagonisti; anche l'attenzione che molte opere neorealiste pongono sulla miseria e sulle difficilissime condizioni del dopoguerra sono qui messe in secondo piano, seppure il regista le lasci intuire, sempre comunque in maniera fievole. Sono diversi ormai gli anni trascorsi dalla fine del conflitto, i nostri sfaccendati protagonisti, seppur in stato di carenza di lavoro, non danno mai l'impressione dei veri miserabili, si concedono qualche piccolo vizio, hanno tutti un tetto familiare ad accoglierli, vestono tutto sommato bene, non sentono quel morso della fame che spesso la faceva da padrone al cinema solo fino a qualche anno prima. Al centro del racconto più che ragazzi stritolati dalle difficoltà si iniziano a vedere giovani senza direzione, allergici al lavoro in taluni casi (quasi tutti in effetti), preda di qualche vizio di troppo per l'epoca. Certo, il contesto sociale non è ancora florido ed è sfondo su cui costruire, I vitelloni non presenta nemmeno tutti quegli accenni autobiografici di cui spesso si dice in merito a questa pellicola che, tra l'altro, non è neanche stata girata a Rimini, città natale di Fellini, anche se in qualche modo l'ambientazione potrebbe essere quella della riviera romagnola.

Il film si apre nel momento dell'incoronazione della reginetta di un concorso di bellezza tenutosi sulla spiaggia durante la quale viene eletta vincitrice la giovane Sandra (Leonora Ruffo). Nel seguente parapiglia dovuto a un'improvvisa tempesta la ragazza si sente male; uno dei protagonisti, Fausto (Franco Fabrizi), intuita l'origine del malore di Sandra (è incinta), sapendosi colpevole tenta di levare le tende, il padre (Jean Brochard) che è uomo vecchio stampo e tutto d'un pezzo lo costringerà a restare e a sposare la ragazza. Così Fausto resta, come resteranno nel paese che sembra offrire sempre così poco i suoi amici: l'immaturo e fannullone Alberto (Alberto Sordi) che ancora si mantiene scroccando qualcosa alla sorella lavoratrice Olga (Claude Farell), Riccardo, il meno definito e afflitto dal vizio del gioco (interpretato da Riccardo Fellini, fratello del regista), Leopoldo (Leopoldo Vannucci) che sogna di poter vivere scrivendo commedie, quantomeno ci si impegna, è infine c'è Moraldo (Franco Interlenghi), grande amico di Fausto e fratello di Sandra, miscela che porterà a qualche difficoltà, l'unico all'apparenza più serio e senza grilli per la testa, riflessivo, malinconico, sarà l'unico che (forse) riuscirà a muoversi per costruire qualcosa lontano dai luoghi natii.

Quello de I vitelloni non è ancora il Fellini "magico" che più avanti sarà definito dalla critica proprio in virtù della sua propensione a sconfinare nel "visionario" e nel "fantastico", termini che virgolettiamo per dare definizioni "con le molle". È un regista che lavora sulla commedia mettendo a nudo e in risalto i vizi e i malcostumi di questi giovani protagonisti, mischiando il lato più umoristico con il melodramma dato qui dalla condizione di Sandra, neo mamma, costretta all'affronto del dover vivere con un giovane marito, che ama, il quale non riesce a trattenersi dall'andar dietro ogni gonnella che vede passar per strada. Tra i vari sfaccendati, tutti a loro modo buoni più che altro a parole, sempre a proporre di andarsene ma inchiodati a quel dolce far nulla di provincia in un'epoca ancora non raggiunta dal boom economico prossimo futuro, l'unico più quadrato (ma altrettanto perso a parer di chi scrive) è Moraldo che tiene gioco all'amico di sempre per non inquietare la sorella per poi dargli una lezione da ricordare sul finale, poche parole ma ficcanti. Sarà l'unico ad andarsene davvero, verso cosa, verso dove nemmen si sa. Forse, ipotesi non confermata, l'interessamento alla vita di quel ragazzino che lavora in ferrovia gli ha smosso un qualcosa dentro. Sotto il profilo meramente costruttivo e tecnico ci sono già sequenze gestite da grande regista a partire dalla festa iniziale finita sotto l'acqua per concludere con la sequenza magistrale con Moraldo che parte in treno e con il carosello dei suoi amici che gli corrono sotto gli occhi, addormentati nelle loro camere da letto, come se queste scorressero al di là del finestrino, un passaggio davvero formidabile. Non sono da meno alcune scelte narrative come il contrasto tra generazioni ben esemplificato dal papà di Fausto, uomo integro e ben disposto, nonostante il figlio sia più che trentenne, a prenderlo a cinghiate dopo che questo ha fatto soffrire per l'ennesima volta la sua povera moglie. Tra neorealismo (meno) e commedia all'italiana (un po' di più) I vitelloni rimane un pezzo di storia del nostro cinema da rispolverare senza remore.

domenica 14 luglio 2024

INSIDE OUT 2

(di Kelsey Mann, 2024)

È possibile che quella che andrete a leggere sarà un'impressione sull'ultimo film di casa Pixar un poco di parte. Non credo che in questo ci sia nulla di male, soprattutto se la cosa viene esplicitata in maniera chiara e limpida. Diciamo subito che rispetto al suo predecessore Inside out 2 compie un passo in avanti. Dal primo episodio che vedeva protagonista per la prima volta la giovane Riley sono passati quasi dieci anni (Inside out uscì nel 2015); in che cosa dunque la casa di produzione "della lampada" compie questo passo in avanti? Per rispondere a questa domanda non servono grandi analisi né particolari elucubrazioni perché la risposta è la più immediata tra quelle possibili. Semplicemente Inside out 2 si sposta un poco in avanti nel tempo e vede la sua protagonista, Riley appunto, passare dalla pre-adolescenza del film d'esordio a un'adolescenza piena con tutti gli sconquassi che questa particolare età può portare nella vita di una giovane fanciulla. Lo schema messo in campo già dieci anni fa trova terreno fertilissimo nella nuova situazione psicologica ed emotiva in cui Riley si viene a trovare, in Pixar si muovono quindi sul sicuro, sia dal punto di vista meramente formale (lo stile di animazione per intenderci), sia sul piano della struttura narrativa. Il film infatti non presenta grosse novità, l'esordio del regista Kelsey Mann non stupisce quanto fece il primo episodio, opera che reputai all'epoca (e reputo tutt'ora) un piccolo grande gioiello d'animazione, però, nonostante lo schema vada a ripetersi senza grandi innovazioni, Inside out 2 è un film, soprattutto se messo in relazione ai nostri tempi, forse ancor più prezioso del suo predecessore.

La piccola Riley è cresciuta e si è finalmente ambientata nella sua nuova città; qui ha trovato Bree e Grace, le sue due amiche del cuore, continua a praticare con amore il gioco dell'hockey e si prepara per il passaggio alla scuola di grado superiore. Nel mezzo di tutti questi aspetti positivi, mentre Gioia nella sua testa è salda al comando della ormai affiatata squadra di emozioni formata anche da Disgusto, Rabbia, Tristezza e Paura, irrompe nella vita di Riley quella forza sconosciuta e difficilmente gestibile che va sotto il nome di adolescenza. Così nella testa di Riley partono i lavori di rinnovamento, una nuova consolle viene installata per far posto alle nuove emozioni che andranno ad affiancare il team di Gioia per i prossimi anni, tutte emozioni con le quali finora Riley non aveva avuto a che fare: queste sono Invidia, Ennui (noia), Imbarazzo e soprattutto la più nociva e pericolosa (se non controllata) Ansia. Prima dell'inizio del liceo le tre amiche hanno la possibilità di frequentare un campo estivo di alcuni giorni durante il quale verranno selezionate alcune giovani ragazze per entrare nella prestigiosa squadra femminile di hockey delle Firehawks. Mentre Bree, Grace e Riley si recano al campo quest'ultima scopre che le prime due non frequenteranno il suo stesso liceo; a Riley crolla il mondo addosso, si vede già proiettata nella nuova scuola in completa solitudine, Ansia inizia a prendere il controllo nella mente della ragazza facendole compiere scelte a volte discutibili e mettendo in pericolo quella  costruzione dell'io che finora per Riley aveva prodotto una personalità attiva e positiva. Starà al gruppo di Gioia tentare di mettere a posto le cose.

Chi vi scrive (e qui torniamo alla poca imparzialità nel giudizio) è, prima che un appassionato di cinema, un papà di una ragazza adolescente che da diversi anni combatte un rapporto difficile e per alcuni aspetti (quello della socialità) quasi invalidante con stati d'ansia incontrollabili e conseguenti crisi di panico. È questa una condizione che quando si presenta a certi livelli di importanza, come è capitato per nostra figlia, va affrontata con l'ausilio e il supporto di personale preparato. Per chi vive da anni una situazione di questo tipo un film come Inside out 2 non può essere visto (per fortuna) con l'occhio clinico e distaccato che potrebbe avere uno spettatore meno coinvolto. Nel mettere in scena il passaggio all'adolescenza la sceneggiatura di Meg LeFauve coglie perfettamente quello che può essere considerato uno dei mali delle generazioni giovani di questo particolare periodo storico, un male meno diffuso fino ad alcuni decenni orsono; gli stati d'ansia fuori controllo sono in aumento continuo nei ragazzi e la struttura narrativa del film ne evidenzia benissimo la pericolosità quando questi fenomeni non si riescono a tenere a bada. C'è una scena in particolare nel film, un momento di una partita decisiva al campo estivo, minuti in cui nella testa di Riley si affastellano dubbi, preoccupazioni e rimorsi gestiti da un'Ansia sempre più dominante alla consolle nella sua testa, che sfocia in una vera e propria crisi di panico, una scena coraggiosa che al cinema ha fatto scoppiare in lacrime nostra figlia e noi genitori (e tantissime altre persone suppongo), un momento che ha piazzato lì sullo schermo, ben evidente, il dolore, il trauma, la fatica con le quali la nostra bambina (che ormai bambina più non è) si trova a combattere tutti i giorni. È una scena che ti strazia il cuore, probabilmente è un effetto che farebbe a qualsiasi spettatore dotato di un minimo di sensibilità, figuratevi a noi che combattiamo con situazioni come queste ormai da molto tempo. La gestione di questo nuovo personaggio, Ansia, deve aver richiesto uno studio accurato in casa Pixar, un lavoro che rischia di venire un po' sottovalutato (come mi è capitato di leggere) da chi ovviamente è meno coinvolto da questo aspetto in particolare che in effetti si mangia (proprio come fa la vera ansia) tutto il resto. Uno dei difetti che si potrebbero attribuire al film è infatti quello di sfruttare meno di quel che sarebbe stato possibile emozioni come Imbarazzo ed Ennui, personaggi che si sarebbero potuti prestare a un sacco di situazioni, sia di alleggerimento (che in una certa misura ci sono) che più seriose, e che avrebbero potuto arricchire ancor di più questo Inside out 2, ma in fondo in poco più di un'ora e mezzo va da sé che non si può infilare proprio tutto. Di tanto in tanto fa capolino Nostalgia, rappresentata come una vecchina che viene a più riprese invitata a togliersi di torno perché ancora non è arrivato il suo momento di mettersi alla consolle, altro tocco intelligente usato con levità in casa Pixar ma che fa breccia nella testa degli spettatori più adulti. Poche novità quindi se valutiamo il film dal punto di vista dell'innovazione ma grande attenzione nei contenuti e una grande importanza nel veicolare messaggi e consapevolezza. Troppo spesso i nostri ragazzi non stanno bene, ma noi, come società, come collettivo, non tanto come singole famiglie (che ovviamente si concentrano sui propri figli), che cosa stiamo davvero facendo per loro?

domenica 7 luglio 2024

IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO

(The killing of a sacred deer di Yorgos Lanthimos, 2017)

Tanto sarà immerso nel fango e nel lerciume (e anche nella merda) il successivo lavoro di Yorgos Lanthimos La Favorita (prima sua collaborazione con Emma Stone e incetta di riconoscimenti), tanto è limpido, glaciale e pulito questo precedente Il sacrificio del cervo sacro, entrambi film molto riusciti, anche in maniera parecchio differente tra loro, a dimostrare l'intelligenza e l'ecletticità stilistica del regista greco, uno tra i contemporanei capace di dar vita a dibattiti e schieramenti sia tra la critica che tra il pubblico, cosa questa che già di per sé sottolinea il raggiunto status quantomeno di artista molto interessante da parte di Lanthimos, ormai uno dei registi a cui guardare nell'ambito della cinematografia mondiale di oggi. È curioso notare come nell'arco di un solo anno Lanthimos passi da un film all'apparenza freddissimo, preciso e asettico in ogni suo passaggio a uno vitale, grottesco per alcuni tratti, sporco e costellato da personaggi pieni di desideri e aspettative; c'è da dire che per La Favorita il regista non si è occupato della fase di scrittura, affidata questa a Tony McNamara che sarà poi di nuovo sceneggiatore per il greco con il più recente Povere creature!, a ogni modo allo spettatore scegliere l'esito a lui più congeniale, ciò che importa è che la scelta, quale che sia, passi comunque da opere decisamente meritorie e significative.

Steven Murphy (Colin Farrell) è un cardiochirurgo tenuto in grande considerazione nell'ospedale in cui opera; l'uomo vive nella sua bellissima casa con la moglie Anna (Nicole Kidman), una donna di classe e oftalmologa di successo, e con i due figli, il piccolo Bob (Sunny Suljic) e l'adolescente Kim (Raffey Cassidy). Senza che la sua famiglia ne sia a conoscenza Steven incontra spesso un giovane, Martin (Barry Keoghan), i due più che altro parlano, il giovane sembra essere affezionato al medico e tiene in considerazione le sue opinioni e il suo apprezzamento. Da principio la loro relazione non è chiara: non sono parenti, non sono amanti ma c'è un qualcosa, probabilmente nel loro passato, a legarli. Dopo qualche tempo Martin viene finalmente presentato in famiglia, il ragazzo ci mette davvero poco a fare breccia nel cuore di Kim, Anna invece lo trova semplicemente un ragazzo a modo, ben educato seppur proveniente da una realtà non così agiata ed elegante come quella dei Murphy. Poi sarà la volta per Steven di dover conoscere la mamma di Martin (Alicia Silverstone), una donna sola che mostrerà un certo interesse per il dottore. Pian piano si scoprirà il legame che c'è tra Steven e Martin e la storia prenderà pieghe sempre più difficoltose e inspiegabili che porteranno Steven a dover prendere decisioni estreme.

Il titolo del film di Lanthimos, che di primo acchito potrebbe risultare enigmatico ai più e intelligibile solo per chi conserva rudimenti di conoscenza in materia di miti greci, si rifà all'Ifigenia in Aulide, narrazione nella quale i protagonisti si troveranno a confrontarsi con il volere di dei ben più benigni di quello con il quale avranno a che fare i personaggi dell'opera del regista greco. In realtà ne Il sacrificio del cervo sacro non ci sono dei, la malasorte che affligge i componenti della famiglia Murphy è ben identificabile ma Lanthimos non ce ne esplicita mai la natura mantenendo così per tutta la durata del film un'ambiguità che pian piano diventa più comprensibile, o quantomeno indirizzabile, ma che non si scioglierà mai fino in fondo se non risalendo appunto al mito. Il contesto, sequenza iniziale a parte che presenta un'operazione a cuore aperto, è di una glacialità impeccabile. Nella messa in scena tutto è ordinato, simmetrico, pulito, rilucente; la famiglia dell'alta borghesia qui narrata è algida, di una freddezza che si esplicita anche nel sesso tra marito e moglie dove la fantasia frequente della coppia consiste in una moglie che finge di essere completamente anestetizzata, come nelle operazioni del marito, e così si concede senza passione alcuna. Allo stesso modo il dottore reagisce di fronte a un pericolo che mette a rischio la stessa vita dei suoi cari, senza grandi scatti emotivi, in preda a una razionalità impotente che solo in pochissimi casi mostrerà quel minimo di umanità necessaria che la situazione richiederebbe, radicata forse in una convinzione di superiorità di lui verso tutto e tutti, anche nei confronti della moglie che in fondo vede "solo come un'oftalmologa". Lanthimos lavora sulla colpa, sull'assunzione di responsabilità e su un terribile contrappasso, una colpa che il protagonista, mentendo a sé stesso e agli altri, tende a giustificare autoassolvendosi ("un chirurgo non sbaglia") tentando comunque in qualche modo di mitigarne il rimorso che ne deriva. È quando i nodi vengono al pettine, quando in qualche modo da quella situazione surreale, pericolosa e inspiegabile si dovrà infine uscire che Lanthimos diventa cattivissimo, mettendo in pessima luce tutti i suoi protagonisti principali. Nel far questo il regista sporca (giusto un po') la sua pulizia formale e apre le porte al caos, un caos che non si può combattere ma solo accettare, un'operazione da compiere caricandosi sulle spalle tutte le conseguenze del caso che sublimano in una sequenza finale davvero agghiacciante. Così giustizia è fatta, non ci sono scappatoie, non ci sono appigli che denaro, posizione, prestigio possano offrire. Ottima la prestazione del cast che vede emergere un Barry Keoghan sottilmente inquietante che rivaleggia senza timori con star più blasonate di lui e che trovano casa in maniera comoda nella compostezza messa in scena dal regista greco.

mercoledì 3 luglio 2024

SOLDI SPORCHI

(A simple plan di Sam Raimi, 1998)

L'occasione non solo fa l'uomo ladro, lo fa pure assassino. 

Nel 1998 Sam Raimi si era già costruito un nome e contava su un bel numero di appassionati raccolti, soprattutto ma non solo, grazie alla trilogia de "La casa" (La casa del 1981, La casa 2 del 1987 e L'armata delle tenebre del 1992). Oltre al trittico sopra citato il regista del Michigan aveva riscosso consensi da parte dei fan anche per il western Pronti a morire e ancor più per il supereroico "ante litteram" Darkman. Nel corso dei suoi primi anni di carriera Raimi costruisce uno stile che in più occasioni si avvale di un'amalgama di avventura e generi (l'horror nel caso della trilogia) misto a un approccio ironico, a volte decisamente comico, a stemperare gli eccessi, un approccio al cinema che nel tempo si rivelerà essere uno dei tratti distintivi che il pubblico imparerà ad amare nei lavori del Nostro. Con Soldi sporchi tutto ciò che di ironico, frivolo e leggero c'è stato fino a quel momento nel cinema di Raimi viene dal regista momentaneamente accantonato per virare su un racconto duro che mette a nudo il peggio dell'animo umano condizionato in maniera negativa da egoismi, avidità, opportunismo e dalla ricerca di quel salto facile che da un corrotto "sogno americano", citato apertamente da uno dei protagonisti del film, non può che portare a un più realistico incubo, non solo americano ma proprio di una specie intera che in fondo, ingannandoci, vogliamo credere di base ancora buona e altruista.

Hank Mitchell (Bill Paxton) è un uomo onesto, è sposato con Sarah (Bridget Fonda), una bibliotecaria dalla quale sta aspettando la loro primogenita; l'uomo ha un impiego modesto al quale si applica con dedizione in una ditta di sementi. Quella dei Mitchell è una vita tranquilla, rispettabile, senza troppe soddisfazioni ma meglio di quella di altre famiglie che abitano la stessa provincia innevata del Minnesota in cui i Mitchell risiedono. Di certo una vita migliore di quella del fratello di Hank, Jacob (Billy Bob Thornton), uno sfaccendato dal carattere stralunato che difficilmente potrebbe inserirsi in un qualche contesto sociale a modo, o di quella dell'amico di Jacob, il disoccupato Lou (Brent Briscoe) sempre alla ricerca di soldi e di quella pace che sua moglie Nancy (Becky Ann Baker) giustamente non gli concede. In occasione di una visita sulle tombe di famiglia i tre si trovano insieme; lungo il tragitto verso casa, in mezzo alla neve, Hank, Jacob e Lou si imbattono nel relitto di un piccolo aeroplano ormai nascosto dalla coltre bianca; al suo interno il pilota è morto da tempo, al suo fianco un borsone contenente un'ingente somma di denaro, una cifra superiore ai quattro milioni di dollari. Dopo lo smarrimento iniziale e la convinzione da parte di Hank che l'unica cosa possibile da fare sia avvisare la polizia, Jacob e Lou riescono a convincere il più assennato di loro a non consegnare subito il malloppo e aspettare almeno che l'aereo venga ritrovato, così da capire se qualcuno sia davvero alla ricerca di quel mucchio di soldi. Dopo diverse discussioni Hank accetta la proposta a patto di conservare lui stesso i soldi non fidandosi degli altri due, tipi non proprio in quadro. La situazione ovviamente peggiorerà in fretta in un crescendo di errori e disgrazie senza fine.

Soldi sporchi è un noir nerissimo, senza speranza, di una cupezza assoluta che contrasta con il bianco candore della neve che avvolge la provincia del Minnesota. In questi scenari aperti e innevati (è facile pensare subito a Fargo ma qui non c'è niente da ridere) Raimi mette in scena il disfacimento dell'uomo causa avidità radicata; sono tutti diversi tra loro i protagonisti descritti da Raimi, quel poco di buono, quel pizzico di bontà d'animo che ancora alberga tra le nevi della provincia americana (che ingenuamente forse ancora crede al sogno o a una versione deviata di esso) arriva da dove non te lo aspetti, da quell'umanità a volte bollata come "white trash" o "minorata" che ancora non si è fatta corrompere del tutto dalla società del possesso e del benessere. Anche l'uomo potenzialmente più onesto è corruttibile se se ne presenta la giusta occasione. La figura di Hank è quella di un uomo la cui pretesa d'onestà crolla presto, con conseguenze nefaste, di fronte all'imprevisto e alla possibilità di un salto sociale ed economico verso l'alto; ancor peggio quella di Sarah che sogna l'esplosione improvvisa di quella vita borghese o addirittura privilegiata che in segreto ha sempre desiderato, a costo di influenzare e spingere il marito contro la sua natura di base e a costo di passare su tutto e tutti. Lou è un disperato incolto, schiacciato da sé stesso e dal sistema, Jacob è l'unico che nel suo disagio coltiva sogni puri e semplici, magari essere accettato da una donna (e sì, fosse anche solo per i suoi soldi, e chi se ne frega), ricomprare la fattoria di famiglia, trovare finalmente un posto in quella terra dove è cresciuto e dove il sogno americano è morto da tempo (il padre suicida, la fattoria in decadenza), quel sogno che da sempre, e ancora oggi, è per lo più bagnato dal sangue di gente innocente. Raimi costruisce un crescendo di situazioni e tensioni che vanno a scardinare la patina superficiale, già sporca e impoverita, di una rettitudine di maniera pronta a crollare al primo colpo. L'impatto sarà terrificante. Neo noir crudele e ancora modernissimo, più moderno oggi che in quel già lontano 1998, sarebbe bello se Raimi tornasse ancora una volta a queste atmosfere.

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