domenica 19 ottobre 2025

ARAGOSTE A MANHATTAN

(La cocina di Alonso Ruizpalacios, 2024)

Il 16 ottobre scorso, in occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione, in più di trenta sale ACEC sparse per l’Italia, è stato proiettato il film Aragoste a Manhattan (titolo originale La cocina, più diretto) del regista messicano Alonso Ruizpalacios, presente in videoconferenza al termine della proiezione per rispondere ad alcune domande di esercenti e spettatori. Diciamo che in realtà, come ha confermato lo stesso regista al termine della visione, nonostante il film sia ambientato quasi interamente nella cucina di un ristorante di New York, il The Grill, Aragoste a Manhattan ha poco a che vedere con il cibo e con l’alimentazione. Ruizpalacios ha infatti spiegato di aver volutamente evitato ogni deriva legata al cosiddetto “food porn”, un’estetica sempre più diffusa su social media, web e televisione negli ultimi anni. La preparazione del cibo, dei piatti, resta per lo più fuori campo: per i protagonisti del film, quasi tutti immigrati irregolari, il cibo e l’atto del cucinare sono una questione di mera sopravvivenza. Come sottolinea il regista c’è una sola scena in cui si assiste effettivamente alla preparazione di un piatto, ed è l’unico momento del film in cui il cibo viene preparato con e per amore, segnando un’eccezione carica di significato all’interno del racconto. Anche la scelta del bianco e nero sembra confermare le parole del regista, il cibo a cui ci ha abituati la televisione è infatti soprattutto colore, presentazione, estetica, una qualità, quest’ultima, che a Ruizpalacios certamente non manca, ma che nel film sembra andare in tutt’altra direzione.

La giovane Estela (Anna Diaz) arriva a New York dal Messico in cerca di lavoro; la madre l’ha indirizzata al The Grill, un ristorante multietnico in piena Manhattan dove lavora Pedro (Raul Briones Carmona), un amico di famiglia di qualche anno più vecchio di Estela. Dopo aver superato un colloquio in parte rocambolesco (Estela non parla inglese), la ragazza viene introdotta nella caotica cucina del ristorante dove ritroverà Pedro e farà la conoscenza di cuochi, cameriere e impiegati di quello che è uno spaccato del melting-pot culturale newyorkese, ben lontano dall’appartenere a quella parte di popolazione americana che ce l’ha fatta, che è riuscita a trovare il suo posto all’interno dell’illusorio e ingannevole Sogno Americano. In concomitanza all’arrivo di Estela il contabile Mark (James Waterson) riscontra un ammanco di cassa di più di 800 dollari; il proprietario del locale Rashid (Oded Fehr) ordina al suo aiutante Luis (Eduardo Olmos) di condurre un’indagine interna e recuperare i soldi. Nel frattempo tensioni e preoccupazioni esasperano lo staff della cucina, in particolare Pedro che ha difficoltà a gestire il suo rapporto con la cameriera Julia (Rooney Mara) dalla quale aspetta un figlio.

Come dichiarato da Ruizpalacios, Aragoste a Manhattan è un film politico sul fallimento del sistema capitalista che si regge sulla disuguaglianza non solo razziale (in cucina sono quasi tutti immigrati illegali), ma anche e soprattutto di classe (il proprietario non è statunitense, è solo il padrone, uno ricco che pensa di avere più diritti degli altri). Il Sogno Americano è appunto solo un sogno, come quelli che Pedro cerca nei volti e nelle parole dei suoi colleghi in un momento di pausa dal lavoro e che si riducono a poche cose, semplici, o come nel caso di Nonz (Motell Foster) a qualcosa di totalmente incomprensibile. Il sistema si regge sullo sfruttamento dei più deboli, degli indifesi, di quella manodopera illegale tenuta sotto scacco dalla speranza di ottenere finalmente i documenti, la cittadinanza, per iniziare una vita da regolare, magari proprio in quella città che sembra così soverchiante alla giovane Estela al suo arrivo a New York. L’arrivo in città è il caos, come quello che troverà in cucina, una sorta di torre di Babele di culture sulle quali Ruizpalacios punta molto, come nella splendida sequenza dove i cuochi e le cameriere, per gioco, si esibiscono in una gara di insulti ognuno nella propria lingua: una bolgia totale. La critica al “sistema” è ovunque: nei ritmi di lavoro, nell’ingresso “opportunista” di Estela (che ruba il lavoro a un’altra ragazza), nella continua guerra tra poveri all’interno della cucina, nella mancanza reale di possibilità, nell’attaccamento possessivo ai propri spazi. Non c’è più spazio per l’amore per il proprio lavoro, né per i clienti, né per la cucina, né per il cibo. Per accrescere la sensazione di “chiusura” dei personaggi all’interno della cucina il regista messicano adopera un formato 4:3 che avvicina molto i protagonisti tra loro, usa spesso il pianosequenza per dare l’idea da “girone infernale”, una tecnica che esplode nella bellissima sequenza della cucina allagata e del crollo emotivo di Pedro, protagonista sugli scudi all’interno di un cast eterogeneo selezionato con diversi casting tra Messico, New York e Londra, vero punto di forza del film (ci sono statunitensi, messicani, colombiani, franco-algerini, albanesi, israeliani, etc…). Ci sono anche le aragoste ma in fondo, forse, non sono poi così importanti.

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