mercoledì 26 novembre 2025

RAPACITÀ

(Greed di Erich von Stroheim, 1924)

Personaggio non semplice e non sempre ben voluto a Hollywood il nostro Erich von Stroheim. Austriaco di nascita, figlio di un viennese ebreo, Stroheim (il von arriverà solo in seguito, per vezzo “aristocratico”) emigra negli Stati Uniti all’età di ventiquattro anni; naturalizzato statunitense inizia la sua carriera a Hollywood come attore, con ruoli da ufficiale (esperienza che ha effettivamente in curriculum) e poi da gerarca nazista, casting favorito dalla sua faccia non propriamente gioviale. Lavora con David Wark Griffith nei suoi due film più importanti e ricordati, Nascita di una nazione e Intolerance, per poi passare dietro la macchina da presa nel 1919, a guerra finita, con il suo film d’esordio, Mariti ciechi, un buon successo commerciale che gli apre le porte degli studios hollywoodiani. Rapacità (Greed in originale) è il film per il quale più si ricorda il controverso regista, capace di lasciare il segno nella Storia del cinema come di farsi odiare da produttori, studios, maestranze e attori con i quali ha collaborato (pare che la Swanson lo fece licenziare per le sue riprese maniacali, fonti di lungaggini inarginabili; torneranno a lavorare insieme molto più in là per Viale del tramonto). Rapacità è uno di quei “film maledetti” dalla genesi travagliata. Tratto dal romanzo di Frank Norris dal titolo McTeague (è il nome del protagonista principale), von Stroheim decide, impuntandosi, di voler girare tutta la vicenda nelle reali location descritte dal testo, location che comprendono la città di San Francisco ma soprattutto lande inospitali come quelle della Sierra Nevada e della Death Valley californiana. Le riprese si allungano, la messa in scena di von Stroheim è minuziosa fino al parossismo, si arriva alla mole record di 42 rulli di girato per un equivalente vicino alle sette ore di film, una cosa improponibile per l’epoca e difficile da commercializzare. Durante la realizzazione del film tutto finisce in mano alla Metro-Goldwyn-Mayer di Irving Thalberg; Rapacità, già scorciata di circa metà del girato dallo stesso von Stroheim, con l’aiuto del regista Rex Ingram arriva a una lunghezza di tre ore di girato. Non ancora soddisfatti, in MGM, tramite i loro montatori a stipendio, arrivano a una soluzione finale di soli 108 minuti; uno stupro per von Stroheim che pare sia scoppiato in lacrime assistendo alla proiezione di quello che per lui era il massacro del suo (capo)lavoro. Oltre al danno, la beffa: il materiale scartato va quasi tutto irrimediabilmente perduto, la versione addomesticata di Greed si rivela un insuccesso commerciale a fronte di una spesa inusitata per l’epoca, una cosa come 470.000 dollari. Ma vediamo di cosa tratta Rapacità.


McTeague (Gibson Gowland) è un uomo all’apparenza mite e buono, ma in situazioni particolari capace di atti violenti. Prima minatore, poi apprendista dentista, con il tempo McTeague apre un suo studio a San Francisco. Quando il suo amico Marcus (Jean Hersholt) porta sua cugina Trina (ZaSu Pitts), della quale è invaghito, da McTeague per la cura di un dente, questi se ne innamora. Il contrasto che potrebbe nascere tra i due uomini è smorzato subito da Marcus, il quale decide di farsi da parte in virtù dell’affetto sincero che prova per il suo amico McTeague. In studio Maria (Dale Fuller), donna delle pulizie, vende a Trina un biglietto della lotteria che in seguito si rivelerà vincente. Ormai ricca, seppur non completamente convinta della loro unione, Trina acconsentirà a sposare McTeague, sinceramente innamorato della novella sposa. Con il matrimonio, ma soprattutto a causa dei soldi vinti da Trina, Marcus torna sui suoi passi e inizia a sviluppare un odio profondo per McTeague, a suo modo di vedere reo di avergli sottratto donna e denaro. Col passare del tempo, per Trina la vita matrimoniale si rivela meno felice di quel che lei potesse pensare, non per colpe particolari di McTeague che in fondo è un buon uomo, inoltre sorge nella donna un attaccamento morboso a quel denaro vinto, tanto da non volerlo spendere e da iniziare a trattarlo come un “oggetto” da amare e adorare. La donna inizierà a chiedere per ogni cosa soldi al marito, rifiutandosi di attingere al suo patrimonio. Quando le cose volgeranno al peggio, con lo zampino di Marcus, la situazione per McTeague diverrà insostenibile, ma ancora la moglie non sarà disposta ad aiutarlo. Le cose si avviano verso un’inevitabile aura di tragedia.


Nel 1999 la Turner Entertainment tenta un restauro dell’opera integrandola con intere sequenze basate sui pochi fotogrammi ritrovati dei passaggi perduti del film. Questa versione raggiunge le quattro ore di durata, dando la possibilità agli appassionati di vedere qualcosa di più vicino alle reali intenzioni del regista, se poi questo abbia davvero fatto bene al film di von Stroheim è tutto da vedere. Con più di metà del film ricostruito con immagini statiche, è normale che il ritmo pensato dal regista per la sua opera venga a cadere, spezzato e inframezzato di continuo da inserti fotografici che, insieme alle didascalie aggiunte, hanno il pregio di ridare chiarezza e completezza alla trama, ma allo stesso tempo “ammazzano” la fruibilità di un’opera che molto probabilmente è comunque meglio approcciare nella sua versione menomata da 108 minuti. Ma quali sono gli elementi che hanno reso Rapacità uno dei titoli significativi nella Storia del cinema muto e non solo? Iniziamo col dire che Greed è uno dei primi film ad alto budget della Hollywood che fu; questo permise a von Stroheim di girare quasi tutte le scene in esterni, cosa all’epoca altamente inusuale (in studio era più facile avere tutto sotto controllo) e che diede al film, insieme ad altri particolari, uno spirito naturalista che molto si avvicinava all’opera letteraria di Frank Norris. A questo proposito vale la pena ricordare i patimenti del cast che fu costretto a recitare in condizioni proibitive nella Death Valley, uno degli ambienti più ostili al mondo, cosa che provocò tanto di malori e corse in ospedale. Sappiamo inoltre come il capitale e il denaro in generale saranno un tema portante non solo al cinema ma anche per lo sviluppo futuro dell’intera società americana; von Stroheim mette qui in (cattiva) luce quella fame dell’oro che porterà l’uomo alle peggiori brutture e a calpestare tutto ciò che c’è di nobile nella vita: amicizia, amore, fiducia, solidarietà. Lo fa con una forza non comune (per l’epoca), senza risparmiare al pubblico scene forti e personaggi capaci di tirar fuori al momento opportuno tutto il loro peggio. Da sottolineare anche l’uso reiterato di elementi simbolici da parte del regista; emblematica la sequenza del matrimonio tra Trina e McTeague dove, in profondità di campo, fuori dalla finestra della stanza dove si svolge la cerimonia, passa un corteo funebre, come a predire lo sviluppo infausto di quel matrimonio (del matrimonio?), un vero colpo di genio, di molto superiore anche al didascalico inserimento di braccia quasi scheletriche atte a ravanare nell’oro, un’immagine più sfacciata e diretta, efficace ma con meno eleganza di quella sopra descritta. Altro ottimo esempio è quello che coinvolge Marcus, il gatto, gli uccellini… ma non sveliamo troppo a giovamento di chi volesse dare un’occasione al film. Stroheim, inoltre, non disdegna di mostrarci tutta la sporcizia, la miseria, il sudore alle quali sono soggette le classi più disagiate, situazione in questo caso autoinflitta dalla loro stessa rapacità (“avarizia” forse sarebbe stato un termine migliore). Rimane, nella versione da quattro ore, il dubbio sulla reale funzione di due sottotrame praticamente sparite nel rimaneggiamento da parte di MGM, forse quella di mostrare, per quella dedicata ai due anziani coinquilini, almeno uno spiraglio di luce in tanta bruttura. Onesto e diretto, forse fin troppo per quei tempi, von Stroheim si vide scempiare il suo capo d’opera, del quale purtroppo ancor oggi non ci è dato poterne ammirare una versione vicina alla reale volontà del regista. Chissà se in qualche magazzino, in qualche polverosa soffitta, in un anfratto maledetto… chissà, magari un giorno...

lunedì 17 novembre 2025

NOSFERATU IL VAMPIRO

(Nosferatu, eine Symphonie des Grauens di Friedrich Wilhelm Murnau, 1922)

Seppur con alcune differenze, il plot di Nosferatu il vampiro, film del 1922 di Friedrich Wilhelm Murnau, riprende in maniera molto diretta il Dracula di Bram Stoker. Nonostante alcune modifiche nella trama, soprattutto nel finale e nell’assenza di un personaggio assimilabile al Van Helsing letterario, Murnau e la produzione decisero di non pagare i diritti d’autore alla vedova Stoker. Quest’ultima intentò causa per vedersi riconosciuti i suddetti, vincendola come era prevedibile. All’epoca venne quindi ordinata la totale distruzione di tutte le copie del film di Murnau, operazione fortunatamente non del tutto riuscita. Alla strage di pellicole sopravvissero alcune copie (almeno una delle quali, si dice, nascosta dallo stesso Murnau) che riemersero in anni successivi, permettendoci oggi di poter ammirare uno dei capisaldi dell’espressionismo tedesco e dell’horror dell’epoca del cinema muto. In seguito all’esito della causa con la vedova Stoker la Prana Film, casa di produzione di Nosferatu, dovette dichiarare fallimento dopo aver prodotto quest’unico film: che c’entrasse l’influsso malefico del Conte Orlok? Scherzi a parte, non mancano alcune leggende intorno al Nosferatu di Murnau, la più curiosa delle quali riguarda il fatto che il nome dell’attore protagonista, Max Schreck, suoni simile a qualcosa come “Massimo Spavento”! Tra controversie legali, fallimenti e leggende, Nosferatu si porta dietro un alone di mistero che va ben oltre il personaggio di Orlok. E forse è anche per questo che il film, anche oggi, continua a esercitare un fascino così sinistro.

Il giovane agente immobiliare Thomas Hutter (Gustav von Wangenheim) viene inviato nella remota regione dei Carpazi per concludere la vendita di una casa al misterioso conte Orlok (Max Schreck), interessato a trasferirsi nella città di Wisborg. Durante il viaggio Hutter avverte un crescente senso di inquietudine, alimentato dai timori degli abitanti del luogo che sembrano conoscere sin troppo bene la sinistra reputazione di Orlok. Giunto al castello, il giovane scopre lentamente la natura vampirica del conte, il quale, per sopravvivere, si nutre del sangue dei vivi. Al castello di Orlok, il vampiro ha l’occasione di vedere una fotografia della bella moglie del giovane Hutter; l’attrazione verso la fanciulla è subitanea e convince l’essere a partire in tempi rapidi per la Germania. Il conte parte quindi per Wisborg, portando con sé bare piene di terra e un’oscura epidemia che inizia a diffondersi nella città tedesca. In qualche modo Ellen (Greta Schroder), la moglie di Hutter, studiando un testo sulla natura dei vampiri, intuisce di essere l’unica in grado di fermare il conte. La resa dei conti tra il vampiro e la giovane si rivelerà drammatica e decisiva.

Pur senza esibire le estreme deformazioni scenografiche presentate da un film come Il gabinetto del Dottor Caligari di Robert Wiene, Nosferatu il vampiro si ritaglia un posto d’onore tra i migliori esiti della corrente espressionista del cinema tedesco degli anni Venti. Nonostante non faccia uso di sequenze particolarmente “truculente”, almeno per gli standard odierni, il film di Murnau è certamente ascrivibile anche al filone dell’horror che sempre più estimatori raccoglierà con il passare dei decenni. È fuor di dubbio come la figura di Orlok, nell’interpretazione di Schreck, rimanga come una delle più inquietanti nella storia del cinema, sia a causa della sua presenza fisica, sia per il bagaglio metaforico che quel determinato vampiro si porta dietro. La figura di Orlok è in effetti quanto di più inquieto il cinema dell’epoca avrebbe potuto produrre: una figura allampanata, quasi scheletrica, ricurva, pallida, artigli lunghi e arcuati, sguardo allucinato, tratti innaturali, movimenti lenti che permettono al pubblico di contemplare l’orrore di un ignoto mostruoso ma, forse, partorito dall’infinita fantasia della natura stessa. Inserendo nel film diversi accenni a strani prodotti della flora e della fauna Murnau vuole forse collocare, per accostamento, anche Nosferatu all’interno di un creato bizzarro espungendone ogni volontario afflato di malvagità, come se il vampiro semplicemente fosse, e nell’essere portasse con sé, involontariamente, morte e distruzione (i topi, la peste, i cadaveri). Alcune letture critiche del film accostano l’inquietudine suscitata dal vampiro a quella provata dal pubblico tedesco per un futuro incerto in un momento storico molto delicato, così come l’orrore e la morte vennero legate a quelli prodotti dalle conseguenze della Prima Guerra Mondiale. La visione è pessimistica, a dimostrarlo il fatto che il vampiro qui non trova una vera opposizione, seppur mutuato dal Dracula di Bram Stoker non c’è qui l’equivalente di un Van Helsing a sbarrare la strada a un male che appare dilagante e inarginabile. Solo la figura femminile, votata al sacrificio e salvifica, sarà in grado di fermare l’orrore. Sotto il punto di vista formale Murnau usa molto le riprese in esterno, vivacizza il girato adoperando l’uso del negativo, dell’accelerazione, del chiaroscuro in un magnifico gioco di luci e ombre, riprende il mostro da angolazioni suggestive, stranianti, scelte estetiche che imprimeranno Nosferatu a imperitura memoria nell’inconscio collettivo.

giovedì 13 novembre 2025

IL GABINETTO DEL DOTTOR CALIGARI

(Das cabinet des Dr. Caligari di Robert Wiene, 1920)

Il gabinetto del Dr. Caligari di Robert Wiene è probabilmente il film più rappresentativo dell’espressionismo tedesco, corrente cinematografica sviluppatasi intorno agli anni Venti del Novecento. L’espressionismo nasce nelle arti figurative (e all’epoca dell’uscita de Il gabinetto del Dr. Caligari il cinema non era considerato propriamente un’arte) come risposta al naturalismo e all’impressionismo. In pittura si passa così da un’adesione fedele al reale, al tentativo di far emergere ciò che sotto quella realtà si cela; per far ciò scenografi, costumisti, direttori della fotografia e registi si affidano a uno stile distorto, inquietante, spigoloso e deformato della realtà, reso attraverso scenografie, costumi e luci che riflettono un mondo interiore più che uno meramente oggettivo. Per rendere al meglio le profonde emozioni dell’animo umano al cinema, si guarda alla pittura e si cerca di riportare gli esperimenti visivi di artisti come Kirchner ed Heckel su pellicola: per far questo si rende necessario lavorare in studio e creare ex novo paesaggi che nella realtà non trovano un diretto corrispettivo. Proprio per questo, parlando della realizzazione de Il gabinetto del Dr. Caligari, non è inusuale che venga rimarcato più il lavoro degli scenografi Warm, Reimann e Röhrig piuttosto che quello dello stesso regista Robert Wiene. Siamo in un momento storico in cui le difficoltà economiche della Germania, dovute a un’inflazione altissima, paradossalmente favoriscono l’industria cinematografica tedesca, che riesce a esportare i suoi film e a produrre con costi bassi anche scenografie complesse e “costruite” come quelle adottate per Il gabinetto del Dr. Caligari. L’incubo proposto dal film di Wiene trova ampio riscontro in un pubblico angosciato e deluso, figlio di un durissimo dopoguerra e segnato da un profondo pessimismo per un futuro incerto. Naturale, quindi, che le vicende malate di Caligari e del suo sonnambulo Cesare facciano presa su una platea ampia e predisposta.

Il gabinetto del Dr. Caligari è diviso in sei atti, sei segmenti raccontati dal giovane Francis (Friedrich Fehér) attraverso un lungo flashback che dura quasi quanto l’intero film. Nel 1830, in occasione della fiera di Holstenwall, giunge in paese la strana figura del Dottor Caligari (Werner Krauss), un inquietante imbonitore accompagnato dal sonnambulo Cesare (Conrad Veidt), un uomo capace di predire il futuro la cui prima predizione sarà quella di una morte imminente che puntualmente e in maniera violenta, si verificherà. Subito sospettato del delitto, Cesare verrà scagionato dallo stesso Caligari che lo tiene sempre sotto controllo in stato di sonno all’interno di una cassa da morto. Mentre i delitti aumentano e iniziano si accumulano l’uno sull’altro, i sospetti si indirizzano altrove; la situazione si sbloccherà con l’ingresso della bella Jane (Lil Dagover) che riuscirà a toccare il cuore del sonnambulo Cesare. Sul finale di questa strana vicenda non mancheranno poi i colpi di scena.

Per lo spettatore moderno, abituato a narrazioni colme di tonitruanti effetti speciali, ammirare le scenografie artigianali create per Il gabinetto del Dr. Caligari è una vera gioia per gli occhi. Con questo film Robert Wiene e il suo gruppo di lavoro gettano le basi per quello che sarà, se non proprio il cinema horror, almeno quello dell’inquieto. La trama, già solida e all’epoca rimarchevole e ficcante, porta in sé germi che verranno poi riutilizzati a più riprese da moltissimo cinema a venire. Il ribaltamento di prospettiva e l’ambiguità di fondo che il film presenta a un pubblico messo di fronte a un’arte ancora giovane sono elementi oggi noti, ma che all’epoca devono aver creato un certo turbamento. L’impianto scenografico gioca con la bidimensionalità e con la deformazione delle architetture e dei paesaggi, aumentando la tensione e l’angoscia già veicolata dai personaggi e dalla recitazione allucinata dei protagonisti, truccati e agghindati in modo da dare sempre un’impressione di estraneità al normale quotidiano. A completare l’impianto visivo vi è l’utilizzo di luci e ombre che aumentano il senso del perturbante, aggiungendosi ai chiaroscuri già applicati a molti elementi scenografici. L’attenzione maniacale e ammirevole dedicata al profilmico (cioè ciò che sta davanti alla macchina da presa) consegna il film alla storia del cinema e lo rende un capolavoro non solo dell’espressionismo tedesco ma dell’intero periodo del cinema muto.

sabato 8 novembre 2025

LENNY

(di Bob Fosse, 1974)

Leonard Alfred Schneider, in arte Lenny Bruce, è stato un cabarettista e comico statunitense di origini ebraiche, attivo negli ultimi anni Cinquanta e nei primi Sessanta del secolo scorso. Lenny Bruce, che attraversò anche un periodo di notevole notorietà, è passato alla storia della comicità per la sua verve irriverente, sboccata e senza pudori, capace, con uscite al vetriolo, di mettere a nudo le ipocrisie di un’America ancora bigotta nella forma, incapace di parlare onestamente dei costumi e delle abitudini nella sostanza praticate dalla maggior parte dei suoi abitanti. L’uomo dietro al comico ebbe il coraggio di sfidare le convenzioni morali e culturali di un Paese perbenista anche a costo della sua stessa libertà. La battaglia di Bruce — di Lenny come titola il film del regista Bob Fosse — perseguì un ideale non violento di libertà d’espressione che gli attirò gli strali del sistema giudiziario statunitense, deciso a perseguitarlo e condannarlo in virtù di una visione morale retrograda e passatista, una visione che di lì a poco sarebbe stata completamente superata, aprendo la strada a una comicità più libera e colorita rispetto a quella consentita all’epoca. La figura di Lenny Bruce ben si sposa con l’indole non troppo conformista di Bob Fosse, anch’egli cresciuto sul palcoscenico ben prima che dietro la macchina da presa Da regista teatrale Fosse sfoggia uno stile moderno e sensuale che in qualche modo trasferisce anche in Lenny; la scelta di Dustin Hoffman come protagonista, all’epoca uno dei maggiori interpreti della New Hollywood, è solo l’ultimo tassello per la buona riuscita di questo amaro biopic.

All’inizio della sua carriera Lenny Bruce (Dustin Hoffman) è un cabarettista alla ricerca del suo posto nel mondo della comicità. Alternando il ruolo di presentatore a quello di comico Lenny gira per locali di poco conto, in uno di questi conosce la bella e sensuale spogliarellista Honey (Valerie Perrine). Dopo una breve frequentazione i due convolano a nozze cercando di barcamenarsi per riuscire a vivere; nel frattempo la comicità di Bruce si sviluppa con una tendenza che la morale dell’epoca non può che vedere come volgare ed eccessiva. In realtà l’intento di Lenny non è mai quello di cercare la battutaccia o l’uscita a effetto fine a sé stessa, il comico cerca con i suoi monologhi di condannare apertamente l’ipocrisia perbenista di una società che reprime, anche in maniera pericolosa a suo dire, la libertà di parola e l’onestà intellettuale del cittadino. Lanciato verso un successo sempre più grande Lenny, insieme a Honey, si lascia trascinare in un vortice di vizi che segnerà la sua vita, portandolo al divorzio e a una serie di problemi ai quali si aggiungerà un sistema giudiziario sempre pronto alla facile condanna. La carriera di Lenny Bruce si spegnerà pian piano fino ad arrivare a un tragico finale.

Bob Fosse parte dal teatro, adatta una pièce di Julian Barry, qui presente anche in veste di sceneggiatore, e affida la ricostruzione della vita di Lenny Bruce alle voci della moglie Honey, di mamma Sally (Jan Miner) e del suo amico e agente Artie Silver (Stanley Beck). Siamo in piena New Hollywood e Fosse gira un film che risulta modernissimo ancora oggi; Lenny è uno dei tanti esempi che stanno lì a testimoniare come il cinema classico hollywoodiano, pur non finito, fosse stato sorpassato a destra da nuovi temi, nuove forme, nuovi personaggi e nuovi modi di recitare. La struttura temporale non è lineare, il bianco e nero dei locali fumosi, magnificamente fotografati da Bruce Surtees, si sposa al meglio al vivace montaggio adottato da Fosse che, in particolare nelle sequenze iniziali, si erge a cifra stilistica e conduce il film fino al suo finale donandogli un ritmo invidiabile. Perfetta l’accoppiata Hoffman/Perrine che mette a disposizione del film e dello spettatore una prova attoriale di gran levatura, tra decisione e sensualità, contro il finto sdegno di un Paese trincerato dietro la sua stessa ipocrisia. Deciso il finale che sottolinea come, anche nel momento della dipartita, le autorità mostrarono scarsissimo rispetto per un uomo che non aveva mai fatto del male se non a sé stesso. Le molte candidature all’Oscar, coronate dalla mancanza totale di vittorie, dimostrano come nel 1974 la figura di Lenny Bruce fosse probabilmente ancora troppo scomoda per un establishment sempre troppo conservatore.

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