sabato 30 agosto 2025

C’È ANCORA DOMANI

(di Paola Cortellesi, 2023)

A clamore depositatosi ormai da tempo e accantonata la naturale diffidenza che in genere mi pervade di fronte a fenomeni improvvisi acclamati pressoché ovunque e da chiunque, devo dire che, pur lontano dall’essere una pietra miliare del cinema (anche solo italiano), il film della Cortellesi mi è sembrato un ottimo esordio, pervaso da un acume che rispecchia quello che ci si poteva aspettare dall’attrice (e ora regista), una tra le professioniste più briose e intelligenti della televisione nostrana. Ciò che più conforta in questo C’è ancora domani, è la capacità di distinguersi, per stile e contenuti, dalla gran parte della produzione della nostra commedia, spesso (non sempre, per fortuna), prevedibile anche quando più o meno riuscita e divertente. Invece il film della Cortellesi, pur pervaso da qualche forzatura, da alcune ingenuità e da un impianto a tesi “didattico” e scopertissimo, riesce in più di un passaggio a stupire, mostra buone idee e uno sviluppo ben studiato, il tutto inserito all’interno di una produzione che sembra sapere esattamente come e dove andare a recuperare un proprio pubblico di riferimento, evitando ogni nicchia e puntando direttamente ai grandi numeri. Tutto sommato, tenendo conto che il cinema è pur sempre un’industria oltre che un’arte, questo è l’ennesimo indizio dell’intelligenza cui si accennava poc’anzi.


Roma, poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Delia (Paola Cortellesi) - madre di tre figli, due maschi ancora molto giovani e la più grande, Marcella (Romana Maggiora Vergano), già in età da fidanzamento - si prodiga per racimolare un poco di soldi da portare a casa barcamenandosi tra diversi lavori: riparazioni sartoriali, montaggio di ombrelli, somministrazioni di iniezioni a domicilio. A tutto questo si aggiungono le incombenze domestiche, la cura dei figli, le colazioni, i pranzi, le cene, l’assistenza al suocero incattivito; eppure tutto questo sembra non bastare mai a suo marito Ivano (Valerio Mastandrea), un uomo umorale, violento, che non perde occasione di umiliare la moglie pubblicamente e di riempirla di botte a ogni piè sospinto. Una tavoletta di cioccolata regalata dai soldati americani, un piatto rotto, qualsiasi cosa scatena l’ira del marito prepotente e profondamente ignorante. Delia incassa, sopporta, ma nella testa coltiva un pensiero fisso: il bene dei figli, almeno quello di Michela alla quale vorrebbe risparmiare la povertà e le brutture della vita che lei stessa conduce; così Delia “fa la cresta" ai soldi guadagnati, che ovviamente devono entrare “in casa”, per comprare l’abito da sposa alla figlia, ormai prossima al fidanzamento con Giulio (Francesco Centorame), figlio di benestanti proprietari di un bar pasticceria che gira molto bene. Tuttavia, pur nella miseria della sua vita, Delia può contare anche su qualche raggio di luce: l’amicizia sincera con Marisa (Emanuela Fanelli) e sulla presenza discreta del meccanico Nino (Vinicio Marchionni), innamorato di lei da tempo immemore. Saranno i comportamenti degli uomini che le stanno attorno e i continui rimproveri della figlia a convincere Delia che è giunto il tempo, finalmente, che qualcosa davvero cambi.



C’è ancora domani si apre con un formato in 4:3 (che cambierà dopo alcuni minuti) e con un bianco e nero espressivo, segni di stile che vogliono omaggiare (più che richiamare) il neorealismo italiano del dopoguerra, corrente che all’epoca viveva del contemporaneo, cosa che ovviamente non fa e non può fare il film della Cortellesi che ci riporta a un ambiente del secolo scorso, pur mettendo in tavola temi purtroppo ancora oggi dibattuti e irrisolti (la violenza maschile, la parità tra generi, il rispetto, i diritti acquisiti). Limiterei quindi le affinità di C’è ancora domani con quello che è stato forse il periodo più apprezzato e fecondo del nostro cinema al mero omaggio, pur se alcune caratteristiche del film possono senz’altro richiamarne i modelli. Al centro dell'opera il tema, didascalico e scoperto ma mai stucchevole, del patriarcato e della violenza maschile, così il film della Cortellesi diventa strumento utile per dibattiti, visioni scolastiche, propedeutica alla parità e al rispetto, tutte cose lodevoli realizzate anche con guizzi inventivi che, dal punto di vista meramente cinematografico, non è cosa da poco, soprattutto per un film capace di veicolare un messaggio e raggiungere una platea così ampia (e a posteriori soddisfatta). La violenza è stemperata, le soluzioni intriganti anche se non sempre riuscitissime (la storia dell’americano e del bar, insomma…), le situazioni colpiscono, non solo quelle che vedono protagonista il bruto Ivano, ma anche quelle inerenti la figura del più “gentile” Giulio, personaggio in nuce inquietante. Inoltre la Cortellesi, pur con qualche trucchetto spinto, riesce a ingannarci su un finale che si risolve con un’ode al senso civico ma che per la bistrattata Delia avremmo forse preferito diverso. Diversi i momenti divertenti, la Cortellesi in questo è maestra, bella rivelazione (almeno per chi scrive) la Romana Maggiora Vergano, inappuntabili gli intenti. Ne esce un film in equilibrio tra commedia e impegno che può accontentare davvero più o meno ogni tipo di pubblico.

domenica 24 agosto 2025

QUEER

(di Luca Guadagnino, 2024)

Chi segue da qualche tempo questo spazio sa bene (e se no lo imparerà oggi) che parlare di cinema non è nemmeno lontanamente il mestiere di chi scrive; quello che si fa qui, solamente per passione e senza remunerazione, è cercare di far innamorare qualcuno, fosse anche una sola persona, di qualcosa che si ritiene meritevole o, al contrario, tenere lettori ai quali ormai ci si è molto affezionati lontani da indigeste porcherie capaci di rovinar loro (come a noi) l’intera giornata. Per far tutto ciò si è (quasi) sempre tentato, magari non sempre riuscendoci, di darsi un contegno e di cercar di fare le cose con una certa serietà e con un certo impegno, il tutto adoperando gli strumenti a nostra disposizione (passione, conoscenza, voglia, costanza) che per ovvi motivi non possono essere gli stessi che stanno nella faretra del critico professionista. Si cerca quindi, in poche parole, di far le cose per benino, nel rispetto della settima arte, dei lettori e anche del film di turno o dell’autore del giorno. Ogni tanto però pare necessario dare una bella sterzata, ma mica per sempre, solo per una volta, per un momento, quando arriva l’occasione giusta e quando le condizioni lo richiedono o sono propizie. Allora si prendono la passione, la conoscenza, la buona creanza, la moderazione e tutte quelle cosine che anche voi conoscete per benino e le si butta tutte quante nel cesso. Ci si svuota anche la pancia e si tira lo sciacquone. Tutto questo per dire che? Tutto questo per dire che il Queer di Luca Guadagnino è una grandissima rottura di palle. E dire che Guadagnino, almeno in riferimento ai film di cui abbiamo parlato (Chiamami col tuo nome, Challengers, Suspiria), ci è sempre piaciuto. E dire, ancora, che il film pare sia piaciuto quasi a tutti (ai critici almeno, perché al botteghino ha floppato alla grande).

Queer è l’adattamento del romanzo breve Checca scritto da William S. Burroughs. Siamo negli anni Cinquanta a Città del Messico; Lee (Daniel Craig) è un americano espatriato. L’uomo, dal chiaro orientamento omosessuale e con qualche dipendenza dalle droghe, trascorre le sue giornate tra un bar e l’altro in cerca di incontri occasionali; nel giro è parecchio conosciuto e nel tempo si è costruito una cerchia di contatti all’interno dell’ambiente omosessuale locale. Un giorno, in uno di questi locali, Lee mette gli occhi su un giovane americano di poche parole, l’ex militare Eugene Allerton (Drew Starkey). Poco a poco riesce a instaurare con quest’ultimo una sorta di relazione amorosa a due velocità. Mentre Lee sembra molto preso dal giovane, questi si comporta nei suoi confronti in maniera più scostante, dimostrandosi a volte distaccato e spesso nemmeno convinto che gli uomini siano realmente il suo desiderio primario. Ciò nonostante Allerton, ancora nella fase iniziale della relazione, decide di accompagnare Lee in un viaggio in Sud America, un viaggio durante il quale Lee andrà alla ricerca di una fantomatica droga, lo yagè, la quale pare possa aprire le porte della percezione fino a donare doti telepatiche. L’esperienza sarà segnante per entrambi gli uomini, soprattutto per Allerton che deciderà infine cosa fare della sua relazione con il suo connazionale.

Ora, sono abbastanza convinto che William Burroughs non sia autore facile da adattare, per nulla. Ammetto di non aver letto il romanzo Checca dal quale Queer muove i passi, però di Burroughs tempo addietro lessi altro, esperienza che ora mi induce alla convinzione che l’autore non sia appunto semplice da trattare. Quindi, almeno su questo punto, onore al coraggio di Guadagnino che non si è scelto un compito semplice, poi sembra che questo film fosse un suo chiodo fisso ormai da anni. Il film non è esente da altri meriti; come detto da più parti abbiamo un Craig convincente e forse impegnato con quella che si può considerare la sua interpretazione migliore di sempre: né forzatamente rigida come richiesto dai suoi ruoli da duro, né sopra le righe in maniera idiota come in alcune sue prove pseudo comiche. Qui l’attore britannico sembra realmente stazzonato, stropicciato e sofferente, ossessionato come il ruolo richiede. Non male nemmeno il più algido Starkey, un’ottima coppia di protagonisti. Inoltre ci sono i temi, le dilanianti prove dell’animo e del corpo (meriti questi più attribuibili a Burroughs che non a Guadagnino credo): l’ossessione, la dipendenza, il rifiuto di riconoscere la propria natura, lo scavo nell’inconoscibile, tutte tematiche profonde, anche sporche, trattate da Guadagnino con troppa pulita maestria, come se avessero sopra una patina lussuosa a coprirne la loro profonda natura viscerale. Dubito che la Città del Messico intesa da Burroughs potesse essere così artificiosa e vivibile come quella presentata in Queer (l’idea di girare tutto a Cinecittà… mah!). Altra cosa… poi non so se è un problema mio, ma in tutto l’arco del film a me di questi due non è mai fregato nulla, non “li senti” mai, i temi sono tutti in testa, mai nel cuore, mai nella pancia, non colpiscono mai, nemmeno per un minuto (e non credo di essere uno spettatore insensibile, anzi). Poi per carità, Guadagnino è un ottimo regista e continua a dimostrarlo, alcune soluzioni visive sono eleganti e azzeccate, più d’una in realtà, ok, ma dietro di esse che cosa rimane? Va bene il discorso sull'ossessione, sulla difficoltà di riconoscere la propria omosessualità, sul desiderio non corrisposto, tutte cose che dovrebbero far male e anche parecchio. E allora tutto questo dolore dov'è? Non vorrei si fosse perso tra una scelta della cromia da usare e una ricostruzione dei luoghi, tra un effetto ben riuscito e un movimento di macchina, tra un virtuosismo e un'inquadratura indovinata. Magari Queer non è neanche un brutto film ed è solo un film che ha dimenticato di sporcarsi le mani. C'è da dire che per lo meno fa venir voglia di tornare a Burroughs...

martedì 19 agosto 2025

IL GUSTO DEL SAKÈ

(Sanma no aji di Yasujirō Ozu, 1962)

Yasujirō Ozu morì a causa di un cancro alla gola il 12 dicembre del 1963, lo stesso giorno della sua nascita risalente al 12 dicembre di sessant’anni prima. Il gusto del sakè, datato 1962, rimane così l’ultima opera di un grande maestro la cui filmografia a fine carriera conta poco meno di cinquanta pellicole di cui alcune andate purtroppo perdute in via definitiva. Anche per il suo ultimo lungometraggio vale quanto detto per molti dei film che l’hanno preceduto. Ozu continua a creare il suo universo fatto di shomingeki, ossia “film sulla gente comune”, adottando piccoli spostamenti progressivi, aggiunte minime e varianti su dinamiche e protagonisti. Si amplia così la costruzione di un discorso coeso sulla famiglia giapponese e sui cambiamenti, interni e in relazione alla società circostante, che questa subisce con il progredire dei tempi. La modernità e l’influenza della cultura occidentale introducono nuove sfide e nuovi modi di vivere la vita soprattutto da parte delle generazioni più giovani che non mancano di incidere e influire anche sui comportamenti di quelle precedenti. È un grande lavoro di osservazione e di lascito quello che Ozu registra riguardo il suo mondo, il suo Paese, i suoi tempi, un lascito che oggi possiamo fruire sia come mera opera cinematografica sia come testimonianza storica di una società giapponese che ormai non esiste più.


Shoehi Hirayama (Chishū Ryū) è un vedovo di mezza età che frequenta ancora un paio di amici delle scuole: Shin Horie (Ryuji Kita), altro vedovo che si è risposato con una donna molto più giovane di lui, e Shuzo Kawai (Nobuo Nakamura), incline allo scherzo e che serba un benevolo rancore per un loro vecchio professore, il signor Sakuma (Eijirō Tōno). Durante una cena alla quale i tre invitano anche il vecchio professore, questi si ubriaca fino a non riuscire più a reggersi in piedi; proprio per questo viene riaccompagnato a casa dai suoi ex alunni Hirayama e Kawai. Una volta ricondotto a casa l’uomo, i due amici scoprono come il loro vecchio professore non se la passi bene e come trascini nella sua vita poco felice anche la figlia Tomoko (Haruko Sugimura), costretta ad occuparsi del padre ubriacone e a sopportare una vita di sacrifici e solitudine. Hirayama, che vive anch’egli solo con la figlia Michiko (Shima Iwashita), inizia così a preoccuparsi per il futuro della ragazza e a pensare alle possibilità di matrimonio per la giovane la quale sembra avere una discreta simpatia per l’amico Miura (Teruo Yoshida), collega del primogenito di Hirayama, Koichi (Keiji Sada). Quest’ultimo è sposato e la sua figura di capofamiglia, in maniera discreta e affettuosa, inizia a esser messa in discussione dalla moglie Akiko (Mariko Okada) ben decisa a non lasciare troppa corda al marito e a ottenere per lei le sue piccole vittorie quotidiane.


Sono diversi i temi che si affastellano l’uno sull’altro ne Il gusto del sakè: Ozu riprende il rapporto padre/figlia in relazione alla solitudine della vecchiaia per i padri e il diritto alla felicità e all’indipendenza delle figlie, una dicotomia che viene sempre gestita attraverso personaggi che decidono di adottare scelte altruistiche, evitando di mettere al primo posto i propri desideri e il proprio benessere, fatto salvo per la figura di Sakuma che ha qui però funzione di esempio negativo e sprone per il protagonista interpretato da Chishū Ryū, vero e proprio attore feticcio per Ozu. Come in altri film della tarda filmografia di Ozu permane un tono lieve con inserti umoristici, riferimenti al sesso, battute goliardiche tra vecchi compagni di scuola, nel complesso il regista nipponico continua a promuovere un impianto classico a quei tempi ormai superato da nuovi registi emergenti e dall’avvento di quella che verrà identificata come la Nuberu bagu giapponese. E ancora emancipazione femminile e consumismo in ascesa, caratteristiche entrambe ben esemplificate dalla figura di Akiko, una giovane donna che mostra al marito chi “porta i pantaloni” in casa e che indulge anch’essa, forse in maniera meno futile del marito, in desideri materiali focalizzati sull’avvento di nuovi beni di consumo alla portata di tutti o quasi (una nuova borsetta, il frigorifero, l’aspirapolvere, etc…). Amarognolo il finale con un Hirayama brillo e ormai solo, la camera di Ozu indugia sulle stanze ormai vuote della casa di famiglia, Michiko non c’è più, di lì a poco purtroppo non ci sarà più nemmeno Yasujirō Ozu.

martedì 12 agosto 2025

QUO VADIS, AIDA?

(di Jasmila Žbanić, 2020)

Quo vadis, Aida? della regista bosniaca Jasmila Žbanić, è stato il primo film a raccontare il genocidio di Srebrenica durante il quale furono assassinati più di ottomila bosgnacchi, una minoranza bosniaca di religione musulmana. Nonostante il film sia uscito cinque anni fa e i fatti risalgano a quell’orribile 1995 diventato una ferita indelebile per le popolazioni della ex Jugoslavia, Quo vadis, Aida? resta, purtroppo, un film di drammatica attualità. È il resoconto di un eccidio recente che dialoga con le cronache odierne, mettendo a nudo l’incapacità degli esseri umani e dei governi di ricordare, di imparare e di migliorare loro (noi) stessi, continuando invece a ripetere la barbarie, a rinnovare l’odio e a promuovere tutto il peggio che la nostra specie è in grado di produrre, per poi magari vergognarsi di usare parole come GENOCIDIO (scriviamolo in maiuscolo, vedi mai…) o di ammettere la complicità dell’occidente nei più vili massacri che la Storia recente continua a presentarci. Proprio riguardo alla complicità dell’occidente nella stesura di alcune delle pagine più nere della Storia europea (e non solo), il film della Žbanić non teme di mostrare in maniera diretta e inequivocabile le colpe del contingente olandese di caschi blu dell’ONU che si rese complice, voltandosi dall’altra parte e aggrappandosi a flebili e indegni cavilli burocratici, della morte di migliaia di uomini e ragazzi innocenti, un atto vile mai troppo ricordato e condannato. La regista ha dichiarato di essersi ispirata, per imbastire il soggetto, alla vera storia del traduttore bosniaco Hasan Nuhanović, qui trasformato nella Aida Selmanagic protagonista della vicenda.

Durante la guerra nell’ex Jugoslavia del 1995 le truppe serbo-bosniache comandate dal generale Ratko “il macellaio” Mladić (Boris Isaković) conquistano la città di Srebrenica, provocando la fuga di moltissimi bosniaci di religione musulmana, una fetta di popolazione che troverà rifugio all’interno della base presidiata dal contingente olandese dei caschi blu dell’ONU sotto il comando del tenente colonnello Thom Karremans (Johan Heldenbergh). Tra loro c’è l’insegnante Aida Selmanagić (Jasna Đuričić) che lavora come interprete per l’ONU. Aida è una donna decisa ad aiutare la sua gente ma che trova, con il passare delle ore, sempre meno collaborazione da parte di un contingente ONU composto da ragazzi inesperti, soldati cavillosi e più legati ai manuali dei regolamenti che non all’umana pietà e da ufficiali che oscillano tra la codardia e un’ambigua tolleranza verso un esercito serbo che ostenta comportamenti disumani. Tra l’impotenza di Karremans che continua a chiedere un attacco aereo che non arriverà mai, e l’arroganza delle truppe serbe, Aida comincia a intravedere un destino nefasto per la gente di Srebrenica, inizia così la sua corsa disperata contro il tempo per tentare di mettere in salvo almeno il marito Nihad (Izudin Bajrović) e i suoi due figli Hamidja (Boris Ler) e Sejo (Dino Bajrović) mentre intorno a lei si consuma uno dei peggiori crimini di guerra del dopoguerra europeo.

Jasmila Žbanić costruisce un film di stampo classico che cerca, riuscendoci, di unire i fatti di cronaca (che ancora una volta testimoniano le brutture senza fondo di cui è capace l’uomo) al privato di una storia singola che in maniera naturale diviene subito collettiva. La macchina da presa aderisce ai volti, alle paure e soprattutto all’impotenza della protagonista - e di noi tutti - di fronte alla violenza e all’insensatezza della pulizia etnica. E in questo sguardo ravvicinato, nel movimento nervoso e incessante di Aida che corre senza mai trovare un approdo, si condensa tutta la potenza del film, un'opera straziante, politica, necessaria. La tragedia non viene mai spettacolarizzata, e proprio per questo assesta un colpo vivo, forte, pur senza mai mostrare la violenza di questa barbarie, una violenza che si intuisce nel fuoricampo, in quegli squarci di futuro che mostrano la vita spezzata dei sopravvissuti. La regista bosniaca mette al centro del film la sua protagonista, una donna forte e onnipresente, intorno a lei crea un ritmo serrato e un crescendo di tensione che ci fa penare per tutti i perseguitati (di cui già conosciamo il destino purtroppo) attraverso le sorti, quelle incerte per noi spettatori, della famiglia di Aida. Più che cinema alto alta testimonianza, memoria, cuore, denuncia, un insieme di forze vitali che sono valse al film diverse nomination in giro per l’Europa e la vittoria agli European Film Award dei premi come miglior film, miglior regia e miglior attrice protagonista alla splendida Jasna Đuričić.

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