(Sanma no aji di Yasujirō Ozu, 1962)
Yasujirō Ozu morì a causa di un cancro alla gola il 12 dicembre del 1963, lo stesso giorno della sua nascita risalente al 12 dicembre di sessant’anni prima. Il gusto del sakè, datato 1962, rimane così l’ultima opera di un grande maestro la cui filmografia a fine carriera conta poco meno di cinquanta pellicole di cui alcune andate purtroppo perdute in via definitiva. Anche per il suo ultimo lungometraggio vale quanto detto per molti dei film che l’hanno preceduto. Ozu continua a creare il suo universo fatto di shomingeki, ossia “film sulla gente comune”, adottando piccoli spostamenti progressivi, aggiunte minime e varianti su dinamiche e protagonisti. Si amplia così la costruzione di un discorso coeso sulla famiglia giapponese e sui cambiamenti, interni e in relazione alla società circostante, che questa subisce con il progredire dei tempi. La modernità e l’influenza della cultura occidentale introducono nuove sfide e nuovi modi di vivere la vita soprattutto da parte delle generazioni più giovani che non mancano di incidere e influire anche sui comportamenti di quelle precedenti. È un grande lavoro di osservazione e di lascito quello che Ozu registra riguardo il suo mondo, il suo Paese, i suoi tempi, un lascito che oggi possiamo fruire sia come mera opera cinematografica sia come testimonianza storica di una società giapponese che ormai non esiste più.
Sono diversi i temi che si affastellano l’uno sull’altro ne Il gusto del sakè: Ozu riprende il rapporto padre/figlia in relazione alla solitudine della vecchiaia per i padri e il diritto alla felicità e all’indipendenza delle figlie, una dicotomia che viene sempre gestita attraverso personaggi che decidono di adottare scelte altruistiche, evitando di mettere al primo posto i propri desideri e il proprio benessere, fatto salvo per la figura di Sakuma che ha qui però funzione di esempio negativo e sprone per il protagonista interpretato da Chishū Ryū, vero e proprio attore feticcio per Ozu. Come in altri film della tarda filmografia di Ozu permane un tono lieve con inserti umoristici, riferimenti al sesso, battute goliardiche tra vecchi compagni di scuola, nel complesso il regista nipponico continua a promuovere un impianto classico a quei tempi ormai superato da nuovi registi emergenti e dall’avvento di quella che verrà identificata come la Nuberu bagu giapponese. E ancora emancipazione femminile e consumismo in ascesa, caratteristiche entrambe ben esemplificate dalla figura di Akiko, una giovane donna che mostra al marito chi “porta i pantaloni” in casa e che indulge anch’essa, forse in maniera meno futile del marito, in desideri materiali focalizzati sull’avvento di nuovi beni di consumo alla portata di tutti o quasi (una nuova borsetta, il frigorifero, l’aspirapolvere, etc…). Amarognolo il finale con un Hirayama brillo e ormai solo, la camera di Ozu indugia sulle stanze ormai vuote della casa di famiglia, Michiko non c’è più, di lì a poco purtroppo non ci sarà più nemmeno Yasujirō Ozu.




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