domenica 14 dicembre 2025

LA PASSIONE DI GIOVANNA D’ARCO

(La passion de Jean D’Arc di Carl Theodor Dreyer, 1928)

Nel momento in cui arriva a dirigere La passione di Giovanna d’Arco, il regista danese Carl Theodor Dreyer ha già alle spalle poco meno di una decina di film all’attivo. Prodotto dalla francese Société Generale de Films, La passione di Giovanna d’Arco è una produzione internazionale in più di un senso: capitali francesi, regista danese, scenografo tedesco (Hermann Warm già artefice delle scenografie de Il gabinetto del Dottor Caligari), direttore della fotografia ungherese, ma soprattutto un’idea di messa in scena che va oltre gli stilemi nazionali dell’epoca (espressionismo tedesco, impressionismo francese, scuola del montaggio russo) per aderire a quello che nei tardi anni Venti dello scorso secolo viene definito “stile internazionale”, una sorta di contaminazione tra le avanguardie storiche provenienti dai vari Paesi sopra citati. La capacità di spesa della SGF è alta (andrà in crisi poco dopo per vicende legate al Napoleone di Abel Gance); per girare il film di Dreyer viene ricostruito un set che riproduce fedelmente molte parti del castello di Rouen dove si svolsero processo e rogo di Giovanna d’Arco. Un lavoro mastodontico che servirà solamente agli attori, calati in un contesto credibile e quindi portati a una maggiore immedesimazione all’interno di un set ricostruito con minuzia che il pubblico su schermo non vedrà praticamente mai. Carl Theodor Dreyer decide infatti di girare il film facendo ampio uso di riprese strettissime sui volti, primi piani iperrealistici sostenuti dall’uso delle pellicole pancromatiche che garantiscono un’ottima definizione e permettono di cogliere ogni sfumatura dei volti e delle interpretazioni degli attori senza che questi si dovessero sottoporre a lunghe sessioni di trucco. Del castello si vedono alcune stanze, muri, pavimenti, lasciando fuori campo tutto ciò che può essere stato l’impianto spettacolare costruito da Warm per il film. La struttura narrativa si basa sugli atti processuali della vicenda mettendo al centro del racconto il lato umano, il sopruso nei confronti di una ragazza giovanissima tiranneggiata e umiliata da uomini adulti, spietati e poco illuminati, ansiosi di perpetrare le peggiori nefandezze nel nome del Signore e della Chiesa.

Tutto ciò che riguarda la guerra tra Francia e Inghilterra, la missione di Giovanna d’Arco (Renée Falconetti), le visioni di San Michele Arcangelo, il campo di battaglia, viene lasciato da Dreyer fuori dalla sua narrazione. Il film è incentrato sul processo della pulzella d’Orleans dal momento in cui viene portata di fronte al vescovo di Beauvais Pierre Cauchon (Eugène Silvain) fino alla sua condanna al rogo tra lo sdegno dei paesani che invano tentano di salvarla e di impedire l’attuazione della decisione presa dal clero. Le varie fasi della storia vedono Giovanna sottoposta ad interrogatorio, minacciata, portata alla camera delle torture dove perderà i sensi. Umiliata nella negazione dell’eucaristia, Giovanna cede all’abiura, abiura subito ritrattata dopo il pentimento e il taglio dei capelli, una decisione che la fa condannare a morte senza possibilità di appello e che la porterà verso il tragico epilogo del rogo finale.

Considerato uno dei capolavori del cinema muto, La passione di Giovanna d’Arco affastella diversi segnali di stile che non per nulla sono rimasti a imperitura memoria anche nei manuali di storia del cinema. Innanzitutto paga la scelta di lavorare sui primissimi piani, soluzione per l’epoca innovativa, ancor più felice se si pensa all’interpretazione intensa di una Renée Falconetti protagonista assoluta che accetterà anche un ignobile taglio di capelli pur di contribuire alla riuscita di un film che valorizza grazie a una gamma espressiva di assoluto valore. A corredo anche un parterre di volti crudeli e truci degli ecclesiastici ai quali fa da contrappunto il solo volto del confessore gentile interpretato da Antonin Artaud, colui che formulò il manifesto del “Teatro della crudeltà”. Dreyer ricorre anche a stilemi propri dell’espressionismo tedesco che si intravedono in alcune costruzioni scenografiche, così come alla fascinazione per le macchine dei russi, ben esemplificata nella sequenza durante la quale vengono mostrati i vari strumenti di tortura che porteranno la giovane alla perdita dei sensi. La sofferenza e l’ingiustizia emergono senza bisogno di troppo contesto, in un film senza parole i volti riescono a parlare in maniera chiara e forte, merito di un regista capace di dirigere attori, ottimi, in modo da veicolare attraverso loro e verso gli spettatori un’ampia gamma di sentimenti che hanno consegnato questo film all’elenco degli indimenticabili.

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