domenica 28 aprile 2019

IN FONDO ALLA NOTTE

(Les eaux mortes di Hugues Pagan, 1986)

La Francia è la patria europea del noir, o del polar come chiamano i francesi alcune declinazioni del genere, del noir nel suo aspetto più crudo e antispettacolare possibile. I suoi protagonisti, come il Jacques Cavallier di In fondo alla notte, sono uomini di poche parole, concreti, allo stesso tempo duri e capaci di delicatezza, collocati in un ambiente dove spesso sono ancora in vigore codici d'onore che sanno d'antico, in contrapposizione alla brutalità delle nuove generazioni, differenze d'approccio riscontrabili da ambo i lati della barricata, nel milieu criminale come tra i flics. In mezzo a questo mare plumbeo galleggia, trascinato dalla corrente, l'uomo stropicciato e sbattuto che Hugues Pagan mette al centro della sua storia. Cavallier è un ex sbirro con una vicenda oscura alle spalle e un vissuto non troppo docile, riciclatosi come giornalista per una testata di quart'ordine che gli permette di pagare le bollette, le spese per mantenere casa e auto e tirare avanti in una tranquilla routine, che poi è tutto ciò che il non più giovanissimo Cavallier chiede. Poi, un giorno, la sua vecchia vita torna a trovarlo. Prima un versamento sul suo conto corrente, un importo di trentamila franchi di cui non si conosce l'origine, poi il ritorno di una vecchia fiamma, invecchiata e sbattuta dalla vita proprio come Cavallier, poi ancora il fantasma del vecchio compagno Chess e anche l'inevitabile e non voluto ritorno all'azione. In mezzo a diverse cose spiacevoli, come ogni noir che si rispetti richiede, c'è lei, la donna, Anita, all'apparenza semplice, timida ma capace di trasformarsi nella donna che ogni uomo vorrebbe, figuriamoci un vecchietto sgualcito come ormai Cavallier si reputa. Nel giro di pochissimo tempo Cavallier si trova coinvolto in una vicenda poco chiara, tra somme di denaro di dubbia provenienza, loschi figuri alle calcagna, la polizia che lo sospetta d'essere invischiato in una torbida storia di cui quasi nessuno, Cavallier in primis e lettore di seguito, capisce molto. Come in tanti classici del noir, dell'hard boiled americano, da Il grande sonno di Chandler in avanti, anche in questo In fondo alla notte non è difficile di tanto in tanto perdere il filo, smarrirsi tra le congetture, non perché la trama sia particolarmente intricata, non lo è, quanto per una sensazione di nebulosità, di un approccio fumoso alla narrazione tipico di molte storie appartenenti al genere; quasi un fumo metanarrativo, lo stesso in cui si muovono la polizia e finanche Cavallier, un fumo che rispecchia quello in cui viene in parte immerso il lettore. Il romanzo è abbastanza rapido da leggere, dedicandocisi con un certo impegno si può in pochi giorni vedere il termine delle disavventure del protagonista, riuscendo a navigare meglio tra gli avvenimenti affrontandoli con ritmo più serrato. Pagan è un erede degno dei maestri del genere, linguaggio diretto, secco, unito alla capacità di creare descrizioni evocative ed efficaci, mette in scena un parterre di personaggi vissuti, insieme al protagonista e alla sua donna anche lo stanco direttore del giornale, il vecchio Tellier, l'ispettore Fabre, più tutti gli esponenti della mala, vecchia e nuova, che per la maggior parte del tempo rimangono dietro le quinte ma fanno sentire la loro presenza. E alla fine del noir, magari proprio in fondo alla notte, un sogno. Indubbiamente un libro per gli amanti del genere, uno di quelli da non lasciarsi scappare.

giovedì 25 aprile 2019

AVENGERS: ENDGAME

(di Anthony e Joe Russo, 2019)

Con Avengers: Endgame si conclude quella che è stata definita la fase tre del progetto Marvel Cinematic Universe. In realtà ci sarà ancora una coda con l'imminente Spider-Man: far from home ma credo che il succo non cambierà di molto. La vera novità è che con Endgame, oltre al senso di continuità che i Marvel Studios hanno sapientemente creato ad arte ormai da tempo, si avverte forte una sensazione di chiusura, un sapore da "fine di un ciclo", un ciclo che si rigenera continuamente, film dopo film, da ormai ben undici anni. Il Marvel Cinematic Universe non morirà certo qui, anzi, sembra essere più vivo che mai e proprio Endgame probabilmente diventerà uno dei maggiori incassi della storia del Cinema in assoluto, per i fan non c'è quindi nulla da temere. Se non altro però qualcosa dovrà cambiare. Se tra corsi e ricorsi gli eroi Marvel che vivono tra le pagine dei fumetti hanno occasione di evolvere, mutare, anche morire, per poi ritornare forti di nuove idee e nuove incarnazioni grazie all'apporto di autori sempre diversi, così non sarà per le loro versioni cinematografiche. Perché a parte qualche cambio di rotta avvenuto nei primissimi film targati Marvel Studios (il primo Hulk ad esempio era interpretato da Edward Norton), i vari personaggi, soprattutto quelli di primo piano, sono legati ormai indissolubilmente agli attori che li interpretano, attori che invecchieranno o che semplicemente a un certo punto avranno voglia di dedicarsi ad altro. Non sarà così facile sostituirli. Ve lo immaginate un Iron Man interpretato da qualcuno che non sia Robert Downey Jr.? Un Cap senza il volto di Chris Evans, una Vedova Nera senza il broncio della Johansson? Sinceramente io no, e probabilmente questo cruccio gira da diverso tempo anche nelle teste pensanti di casa Disney. Senza entrare nei risvolti della trama di Endgame, cosa che non necessita fare per portare avanti due o tre riflessioni scatenate dal film, per diversi aspetti con la conclusione di questo lungo capitolo la sensazione che prevale è proprio quella di un futuro incerto, di un cambiamento che dovrà portare i Marvel Studios a guardare sempre più a progetti nuovi, a personaggi minori dalle potenzialità tutte da scoprire (in produzione Shang-Chi e The Eternals, alzi la mano -astenersi Marvel nerds - chi li conosce) e affidarsi meno ai grossi calibri che prima o poi non potranno più contare sui volti che finora li hanno caratterizzati. Constatazione che sarà triste per qualcuno, ma così è; a dimostrarlo il fatto che al momento per la fase quattro non ci siano in produzione nuovi capitoli per Iron Man, Thor, Capitan America o Hulk, quelli che sono i pilastri della famiglia dei Vendicatori, mentre sembra ancora lontana la possibilità di inserimento nel Marvel Cinematic Universe dei personaggi da poco ritornati all'ovile (causa acquisizione diritti cinematografici) come i Fantastici Quattro o tutto il parco characters legato agli X-Men, un potenziale pressoché sterminato ma non così semplice da gestire. L'assetto generale della Marvel al cinema potrebbe quindi cambiare nei prossimi anni con la possibilità di riservare moltissime sorprese ma anche con il rischio di perdere un poco il focus su ciò che finora ha attirato in sala milioni di fan.


Sul film in sé non c'è troppo da dire se non per fare alcune osservazioni: come era più che lecito supporre uno degli scopi di Endgame era quello di andare a riparare la situazione drammatica venutasi a creare sul finale di Infinity War, almeno in larga parte, e aprire nuovi scenari, alcuni realmente interessanti come dimostrano le battute finali del film. Compito assolto in maniera egregia dai fratelli Russo, tra i migliori direttori Marvel, che confezionano tre ore e passa di film che scivolano via senza pesantezza alcuna. Qualche difetto è presente, deludente la chiusura della gestione Thanos, tirata via in fretta per dedicarsi poi ad altro, non male la costruzione dei momenti più epici e di quelli ironici, ancora una volta plauso a Chris Hemsworth, un debosciato davvero con i fiocchi, sarebbe un perfetto Lebowski dei nostri tempi. Nel complesso il dittico funziona bene, infarcito forse da troppi scontri e da troppi minuti ma capace di non annoiare, vista la durata eterna non è cosa da poco. Agganciandoci a questo l'uscita di Endgame offre lo spunto per un'altra riflessione: l'esperienza del Cinema al cinema (e non solo) e come essa stia cambiando negli anni. Qui entriamo un poco nel personale, ma in fondo ogni passione, Cinema compreso, per ognuno di noi lo è.


Digressione. Sempre più spesso è possibile assistere al cinema non solo a un film ma a veri e propri eventi. Si moltiplicano le uscite che hanno una tenitura in sala di un solo giorno, legate magari ad anniversari importanti, così come è sempre più facile trovare eventi come quello messo in piedi per l'uscita di Endgame con una maratona degli ultimi due film degli Avengers destinata a concludersi alle 03.00 del mattino passate (per la cronaca... si, ce l'abbiamo fatta in scioltezza ); altri prodotti ancora fanno un passaggio veloce in sala per atterrare subito dopo su Netflix o simili, poi ci sono i concerti nei multiplex, tutta la nuova corrente dedicata ai musei e all'arte su grande schermo e così via, insomma il cinema (inteso come luogo fisico) non è più il cinema di una volta. È in atto un cambiamento forse inevitabile, che tende a contrastare l'uso sempre più massivo, soprattutto da parte delle nuove generazioni, delle piattaforme streaming che mettono a disposizione contenuti per migliaia di ore rendendo l'azione dell'uscire di casa per andare al cinema sempre meno sentita e necessaria. Allora ben vengano anche queste occasioni, che sicuramente non sono pane per i denti del vero cinefilo, ma si rivelano spesso momenti divertenti per tornare in sala, un modo per recuperare su grande schermo film cult magari mai visti al cinema per questioni anagrafiche, e la via per gli esercenti di far cassa in attesa che questa crisi della sala trovi il modo di venir superata. Personalmente ho assistito alla Maratona Avengers e posso dire che non mi capitava di vedere una sala così gremita da anni (e parliamo di una sala enorme), solitamente a questi eventi c'è una maggiore dose di euforia, c'è quel sapore di esperienza realmente condivisa, per carità, c'è anche più rumore di fondo ma ci sono anche occasioni di divertimento che esulano dalla mera visione dell'opera. È questo il modo di fruizione per cui il Cinema è stato concepito? Sicuramente no, però questo c'è ai giorni nostri ed è con ogni probabilità uno dei modi per tenere in piedi la baracca. Il rovescio della medaglia, ed è un rovescio pesantissimo, è che rischiamo di perderci nelle sale il Cinema d'autore, quello di contenuto, quello che magari presenta un'idea nuova, anche valida, e che esula da franchise, sequel, dalle grandi saghe e dai grossi imperi dell'intrattenimento (si, ho proprio detto Disney, avete capito bene). Probabilmente il Cinema, quello veramente interessante, capace in qualche modo di arricchirti, ce lo guarderemo a casa sul divano e ammetto di essere il primo a seguire questa nuova tendenza. Poi c'è ancora da dire che tutte queste riflessioni scaturiscono dalla visione di Endgame, e allora dove sta la ragione?

lunedì 22 aprile 2019

TUTTO PUÒ ACCADERE A BROADWAY

(She's funny that way di Peter Bogdanovich, 2014)

Commedia molto divertente che coniuga al meglio il Cinema al mondo del teatro, un impianto strutturale che più classico non si può innaffiato da una freschezza moderna che rende Tutto può accadere a Broadway un film piacevolissimo, da godersi in tutto relax, con impennate sparse dove si ride di gusto. Bogdanovich è da sempre un nostalgico, un amante della Hollywood che fu, della commedia di classe degli anni d'oro dell'industria cinematografica americana, passione che viene fuori con brio nell'approccio alla direzione, di storia e di attori, in questa sua recente commedia.

New York è protagonista della storia insieme ai suoi interpreti, una New York dove tutti si incontrano più volte, si pestano i piedi l'uno con l'altro, dove gli attori di questa ronde vivace e frizzante si trovano a fronteggiare situazioni imbarazzanti, equivoci e altro ancora, una New York che sembra un paese di provincia per quanto risulta difficile ai protagonisti evitarsi, non imbattersi in momenti difficili da gestire o compromettenti. Tutto nasce dalle voglie di Arnold Albertson (Owen Wilson), regista teatrale di una certa fama, un uomo gentile con la passione per le giovani escort. Proprio una di queste è il fulcro della vicenda: Izzy Patterson (Imogen Poots), proveniente da una famiglia povera, è una ragazza adorabile con il pallino per la recitazione, un'arte nella quale la giovane dimostra di avere dei numeri. È proprio Izzy la voce narrante della storia, attrice ormai sulla cresta dell'onda, ci racconta in flashback i giorni della sua ascesa. Dopo aver passato una notte con Arnold, questi le offre un'ingente somma di denaro per darle modo di realizzare i suoi sogni (cosa che scopriremo essere un'abitudine per il regista). Peccato che Arnold sia sposato con l'attrice Delta Simmons (Kathryn Hahn) da diversi anni, la stessa è oggetto del desiderio di Seth Gilbert (Rhys Ifans) attore con fama di donnaiolo e amico di Arnold, nonché protagonista insieme a Delta della nuova commedia che sarà diretta da Arnold stesso. Ai provini dell'opera teatrale in allestimento si presenterà proprio Izzy, cosa che creerà al regista non poco imbarazzo, la ragazza farà involontariamente innamorare di sé lo sceneggiatore Joshua Fleet (Will Forte), attualmente fidanzato con la psicologa nevrotica Jane (Jennifer Aniston) che tra i suoi pazienti ha il giudice Pendergast (Austin Pendleton), un uomo ormai in là con l'età guarda caso innamorato proprio di una giovane escort. Come è intuibile gli elementi per creare situazioni divertenti ed esplosive ci sono tutti e l'esperto Bogdanovich sa come maneggiarli al meglio.


Tutto può accadere a Broadway è una commedia di classe, rielabora stilemi già noti per i quali il regista non manca di palesare il suo amore grazie anche alla scena finale, ma tiene un ritmo sempre alto come da Cinema dei nostri tempi, riserva qualche bella sorpresa, sia nello sviluppo che nell'apparizione di volti inaspettati (no, non vi dirò quali), e alla fine garantisce il giusto divertimento, che poi è quello che a una commedia si chiede. Se poi pensiamo che due nomi come Noah Baumbach e addirittura Wes Anderson si sono presi la briga di produrre questo film, beh... un po' di curiosità dovrebbe nascere in tutti. Che siate fan della screwball comedy del secolo scorso, dei film eleganti della vecchia Hollywood o anche dei più riusciti lavori di Woody Allen, qui potreste trovare pane per i vostri denti e un'oretta e mezza da passare col sorriso stampato sulle labbra. Direi che vale la pena tentare.

mercoledì 17 aprile 2019

PELHAM 123 - OSTAGGI IN METROPOLITANA

(The taking of Pelham 123 di Tony Scott, 2009)

La morte non risparmia nessuno. Nell'estate del 2012 Tony Scott si toglie la vita; verremo a sapere in seguito che la causa dietro il gesto finale del regista era una malattia al cervello in fase avanzata. Il lavoro di Tony Scott è rimasto per troppo tempo all'ombra di quello dell'ingombrante fratello Ridley, entrambi registi provenienti dalla pubblicità (con un percorso artistico per Tony), i due fratelli sono stati più volte tacciati di anteporre immagini patinate e artifici di costruzione al contenuto delle loro opere. Eppure Ridley consegna alla storia del Cinema film fondamentali come Alien e Blade Runner, grandi successi commerciali come Il gladiatore, film solidi quali The martian - Sopravvissuto o il sottostimato American gangsters fino ad arrivare ai piccoli cult: Legend, I duellanti, Black rain. Insomma, non poi così male per un pubblicitario convertito. Il Cinema di Tony, fatto salvo alcune eccezioni, è più diretto e muscolare, anche lui pone un'attenzione tutta particolare all'estetica dei suoi lavori, a volte forzando la mano in direzioni che avendo a disposizione più libertà magari non avrebbe intrapreso, non riuscendo forse mai a mettere d'accordo veramente pubblico, critica e incassi. Non c'è un Alien nella carriera di Tony, non c'è un Blade Runner, anche se i successi, soprattutto in ambito commerciale non sono mancati. Pensiamo a quella che è forse l'opera più celebre di Tony Scott: Top Gun, un film generazionale che ha segnato l'infanzia di ragazze e ragazzi negli Ottanta, che ha influenzato la moda, che ha lanciato Tom Cruise nell'Olimpo degli attori (quelli fighi) e che lascia una sequela di immagini per l'epoca mozzafiato. Un successo indiscutibile che analizzato nei contenuti poco ci lascia, se non un amore nostalgico comunque incancellabile. Non sono mancate le opere di nicchia (e insuccessi al botteghino) come Miriam si sveglia a mezzanotte né tanto meno i risvegli autoriali osannati dalla critica, come il film Una vita al massimo, prima sceneggiatura firmata da un certo Quentin Tarantino. Ma è nel cinema action che Tony si esprime al meglio e con più frequenza: L'ultimo boyscout, l'ottimo Nemico pubblico, l'apprezzabile Spy game, il Man on fire con Denzel Washington. Pelham 123 è proprio uno degli ultimi capitoli di questo filone diretto da Tony Scott, terza trasposizione del libro Il colpo della metropolitana di John Godey. Pelham è il classico esempio di come si dovrebbe costruire un buon thriller d'azione: personaggi delineati in pochi tratti, un'ottima messa in scena che nella fattispecie pesca nell'ampio bagaglio di Scott, quello più cool, per realizzare un film visivamente dinamico, moderno e coinvolgente, ottima direzione d'attori (gran duello tra Washington e Travolta) e una trama avvolgente che non lascia spazio a cadute di ritmo, né nelle sequenze d'azione, né nei momenti più statici caratterizzati dai magnifici dialoghi tra i due protagonisti.


Walter Garber è un controllore del traffico della centrale operativa della metropolitana di New York; esperienza decennale, ruolo da responsabile, momentaneamente di ritorno a un compito più esecutivo. Durante il suo turno di controllo, un gruppo di persone armate, sotto il comando di Bernard Ryder (John Travolta), sequestra un convoglio della linea Pelham 123. Prima dell'arrivo del negoziatore della polizia, il detective Camonetti (John Turturro), sarà proprio Garber ad avere i primi contatti con il terrorista che in in maniera del tutto particolare inizierà a provare una certa fiducia nell'uomo, andando a creare con lo stesso un filo empatico e rifiutandosi di parlare con altre persone. Ryder lascia intendere di reputarsi una vittima della società, uno di quegli uomini che in seguito a un errore sono stati rovinati dalle istituzioni; come risarcimento chiede alla città di New York, nella figura del sindaco (James Gandolfini), dieci milioni di dollari da consegnare entro un'ora, pena l'uccisione di un ostaggio per ogni minuto di ritardo. E Ryder dimostra di fare sul serio.


Film solidissimo, calibrato alla perfezione, che alterna momenti più tesi e adrenalinici a una serie di sequenze di confronto e dialogo altrettanto coinvolgenti. I protagonisti, tutti di peso, da Washington a Travolta fino ad arrivare a Turturro e Gandolfini, offrono prove impeccabili. La tensione sale, il countdown temporale in questo aiuta, lo stile di Tony Scott esplode quando dagli ambienti claustrofobici sotterranei si passa agli squarci della New York di superficie: riprese dinamiche, molto moderne, vive, anche laccate se vogliamo ma di sicura efficacia. Il piano dietro all'assalto alla metro, neanche fosse una moderna diligenza, si delinea e si chiarisce pian piano, tutti contribuiscono a dipanare una matassa che ancora una volta finirà per mettere in evidenza la banalità (interessata) del male. Film molto riuscito che fa venir voglia di andare a recuperare la prima trasposizione del libro, quel Il colpo della metropolitana diretto da Joseph Sargent nel lontano 1974. Non è detto che non lo si faccia.

sabato 13 aprile 2019

L'ISOLA DEI CANI

(Isle of dog di Wes Anderson, 2018)

Con L'isola dei cani Wes Anderson si conferma un regista talentuoso con una visione; il suo occhio da sempre incline ai dettagli e alla costruzione della scena, florilegio di particolari, minuzie e arredi mai fini a sé stessi, gli permette di ottenere il risultato migliore possibile anche quando si lancia nel campo dell'animazione a passo uno, come già accadeva qualche anno addietro con Fantastic Mr. Fox, prima incursione di Anderson nel pianeta della stop motion. Il mondo ricreato da Anderson per L'isola dei cani suscita meraviglia grazie a quelli che all'apparenza sembrano elementi poveri: plastilina, colore, cotone e tessuti in movimento capaci di ricreare la vita, una vita squallida in totale contrapposizione al talento investito per ricrearla. Quella che viene nel film denominata Isola dei cani è in realtà Trash Island, un'isola adibita a discarica dal governo giapponese. Il sindaco della metropoli Megasaki, tal Kobayashi, in seguito a un'influenza canina che rischia di attecchire anche tra la popolazione umana, emana una direttiva che impone l'allontanamento di tutti i cani (per i quali Kobayashi non prova probabilmente tutta questa simpatia) per motivi sanitari, questi vengono deportati uno a uno su Trash Island iniziando proprio con quello che potremmo definire il "cane zero", il piccolo Spots, animale domestico della famiglia Kobayashi. Questa decisione spingerà proprio il nipotino adottivo di Kobayashi, il piccolo Atari, a rubare un maneggevole aviogetto che gli permetterà di rovinare sull'isola dei cani allo scopo di ritrovare il suo amato Spots. Qui incontrerà una banda di ex cani da salotto comandati dal randagio (ma sarà davvero tale?) Chief che, dopo molte peripezie, aiuterà il ragazzino nella ricerca del suo cagnolino. I cani vogliono tornare alle loro vite precedenti, Kobayashi consolida il suo potere sull'allontanamento dei cani e sulla paura nei loro confronti, il Professor Watanabe trova una cura all'influenza canina ma viene ignorato e messo a tacere. L'isola dei cani è un film politico.


Se manca (o è solo parzialmente lambito) quello che è il tema più dibattuto delle vecchie pellicole del regista, la famiglia disfunzionale e le sue declinazioni, si afferma qui una visione politica molto attuale del mondo occidentale che Anderson, con astuzia o forse solo per diletto, ambienta nell'estremo oriente, in Giappone, assecondando quella sua passione per il viaggio e i luoghi lontani dai propri. Gioca anche sul linguaggio il regista, creando ancor più scarto e straniamento tra una narrazione che riporta all'occidente e un ambiente a noi molto lontano. Gli umani giapponesi parlano nella loro lingua, non ci sono sottotitoli ma solo alcune descrizioni, i loro discorsi si possono dedurre dal contesto, a spiegare la situazione ci sono i cani, tutti anglofoni e doppiati da un cast di voci da pelle d'oca, un cast che impiegato in un film live action avrebbe lasciato tutti a bocca aperta. Giusto per citare qualcuno: Brian Cranston, Scarlett Johansson, Edward Norton, Frances Mcdormand, Harvey Kietel, Ken Watanabe, Liev Schreiber, Bill Murray (non poteva mancare), Jeff Goldblum, Anjelica Huston, Yoko Ono e Tilda Swinton. C'è spazio per i sentimenti, del bambino per il cane, del burbero per la donna che gli illumina la vita, di chi vuole trovare la soluzione pacifica, poi c'è l'indottrinamento delle masse tramite la paura, la creazione a tavolino del pericolo che arriva da lontano, tattiche abusate che sedimentano nell'ignoranza e che vediamo attecchire ogni giorno nella nostra quotidianità. C'è forma, c'è contenuto. Anderson sembra uscirne ancora una volta vittorioso, però... però si difetta un poco nel ritmo, manca quel divertimento stralunato e genuino che Anderson ha saputo regalarci tante volte, si sorride, non ci sono grossi intoppi, eppure la fluidità che aveva Fantastic Mr. Fox sembra mancare, così come a tratti l'attenzione dello spettatore rischia di perdersi, ne esce un film realizzato ottimamente, mai vacuo ma a tratti poco elettrizzante. Si sconsiglia la visione alla fine di una giornata stancante. Per i fan di Anderson comunque una tappa obbligata.

martedì 9 aprile 2019

TUTTO PUÒ CAMBIARE

(Begin again di John Carney, 2013)

John Carney è partito dal dramma con November afternoon, eppure sarà più facile che ne sentiate parlare, da qualcuno anche con una nota di scetticismo, come di un regista incline al sentimentalismo e lontano dall'essere originale. Può anche darsi che un fondo di verità in queste affermazioni ci sia, anzi diciamo pure che c'è di sicuro, però le sue opere, almeno quelle intrise di musica come Once e questo Tutto può cambiare, funzionano maledettamente bene. Nulla di male allora se un film non porta in sé una rivoluzione, se il tasso di romanticismo (mai melenso) è alto, se il fulcro della narrazione sono sempre musica e sentimenti; in fondo non sono aspetti fondamentali anche in molte vite reali? (quelle più fortunate almeno, in altre c'è molto di più e molto di peggio).

Dopo il successo di Once, vicenda romantica pluripremiata che vive di musica nell'Irlanda di Dublino, Carney ripete la formula con qualche soldo in più a disposizione, attori noti, New York come cornice (e che cornice) e una maggiore coralità: ne esce questo Tutto può cambiare che se paga dazio in termini di novità non manca di centrare il bersaglio nei cuori meno aridi e cinici. Sul piano musicale si perde un po' il confronto con il predecessore, la colonna sonora originale qui non è all'altezza di quella di Once che vinse anche l'Oscar nella categoria miglior canzone, l'intensità di Glen Hansard e Markéta Irglova non è nemmeno lontanamente paragonabile alle prove meno interessanti di Keira Knightley né tantomeno a quelle di Adam Levine che sebbene sia il leader dei Maroon 5 non è di certo il meglio di ciò che la scena musicale mondiale ha da offrire, anzi. Ad ogni modo i brani scritti per il film assecondano bene la storia di Carney, sono sempre piacevoli e contribuiscono a rendere la musica ancora una volta la vera protagonista, ma qui più che altrove è il connubio con le immagini, con le intuizioni (anche ruffiane se vogliamo) di Carney a donare vivacità e ottimi momenti alla pellicola. La scelta del regista di costruire la prima parte del film con flashback concatenati, cosa anche questa non certo nuova, permette di aggiungere livelli e sovrastrutture a scene all'apparenza semplici. Molto riuscita per esempio la sequenza in cui Gretta (Keira Knightley), in un momento di depressione, si esibisce su un palco di un piccolo club con una sua canzone, una versione povera e acustica di un pezzo scarno e diretto che il pubblico per lo più ignora, ma non Dan (Mark Ruffalo), uomo di musica accidentalmente ubriaco, che seguendo quelle poche semplici note immagina nella sua testa uno splendido arrangiamento, mentre Gretta suona da sola nella testa di Dan la musica esplode in tutta la sua dirompente bellezza, una forza incontenibile che cambierà le sorti di diverse vite nelle quali ogni giorno tutto può cambiare.


Se la prova della Knightley non lascia particolari segni (personalmente continuo a non trovare nulla di interessante in questa attrice) ma ben si amalgama all'incedere del film, Mark Ruffalo si rivela invece attore ben più interessante e sorprendente qui che non nelle sue trasformazioni nell'Incredibile Hulk, un uomo stropicciato, ferito, sconfitto ma alimentato da una passione non ancora domata e sopita. Il cast di contorno è di tutto rispetto, oltre ad Adam Levine c'è il conduttore James Corden che con la musica da sempre va a braccetto (vedere Carpool Karaoke per capire), ci sono i rapper Mos Def e Cee Lo Green e le attrici Hailee Steinfeld e Catherine Keener. Si lascia apprezzare una storia che, pur rientrando in pieno nei canoni della commedia romantica, non ne segue pedissequamente gli schemi: i due protagonisti vivono una rinascita grazie al loro incontro, fortuito, all'inizio conflittuale come vuole la regola, ma non destinato ad unire due cuori che hanno segnato strade e prospettive divergenti, inoltre la coralità della vicenda con l'ex (Levine) di Gretta, il suo amico Steve (Corden), la figlia (Steinfeld) e la moglie (Keener) di Dan, restituisce al film un certo dinamismo che non guasta, incorniciato in una New York splendida che è location della vicenda ma anche vero palco per tutte le esibizioni musicali del progetto che accompagnerà un pezzo della vita di Dan e Gretta.

Tutto può cambiare è una bella storia, semplice, sentimentale, nulla più, nulla meno. È costruita con diverse scene emozionanti che sanno quali corde andare a toccare ed è accompagnata da una bella colonna sonora, magari non indimenticabile ma che rende piacevole ogni singola sequenza. Forse è tutta roba già vista, ma di quella che non mi stancherei di rivedere, cosa che probabilmente accadrà durante la visione di Sing street, l'ultimo film del regista John Carney.

martedì 2 aprile 2019

TRANSFORMERS

(di Michael Bay, 2007)

Michael Bay è un marchio di fabbrica. Il regista, uno dei più redditizi e pagati al mondo, è un certificato di garanzia per chi ama il Cinema muscolare, action, fracassone e anche un po' ignorante, condito di ottimi effetti speciali e di trovate a effetto, e in questo, diciamolo subito, non c'è nulla di male. Scordiamoci il Cinema d'essai che Bay probabilmente non sa nemmeno cosa sia (o meglio, lo sa e non gli interessa, non è con quello che si fanno i soldi a palate), Bay è sinonimo di intrattenimento puro, film pop-corn, blockbuster all'ennesima potenza, chiamatelo come volete, Bay è l'intuizione che ebbe Spielberg decenni fa con la sua visione di un Cinema di intrattenimento per platee vaste fatto con qualità, però con una visione alterata e meno riguardi per la qualità. Se ti rivolgi a un marchio di fabbrica sai più o meno cosa aspettarti, sai che l'occhio vuole la sua parte e che qui l'avrà, poi incroci le dita e speri che sceneggiatura, dialoghi, situazioni non sconfinino troppo nel ridicolo, insomma, a livello di contenuti ti aspetti almeno il minimo sindacale, a volte ottieni di più, a volte molto meno. Con il primo atto della saga dei Transformers in fin dei conti non è andata così male. Non me l'aspettavo, vidi per caso qualche anno fa il quarto capitolo (L'era dell'estinzione), un prodotto degno d'esser dimenticato quarantacinque secondi dopo il termine della visione (se non prima), un film insipido e ridicolo nel quale si salva solo il comparto tecnico. Questo Transformers invece si rivela perlomeno onesto, ci offre un'origin story semplice ma accettabile, l'incontro tra Autobot e Decepticon con la razza umana e tutta l'inevitabile sequela action che sarà il corpo del film insieme alla storia sentimentale, a onor del vero più simpatica e divertente che melensa, tra i due protagonisti Sam Witwicky (Shia LaBeouf) e Mikhaela Barnes (Megan Fox).


Sul piano visivo, fondamentale per quel che riguarda questo tipo di film, non c'è nulla da obbiettare, l'unica pecca si riscontra nell'aspetto nostalgico che il film inevitabilmente crea negli spettatori appartenenti a quelle generazioni che hanno ben in mente le serie animate dei Transformers o addirittura le prime serie di giocattoli del marchio Hasbro arrivate qui in Italia. Se diversi personaggi presi di peso da quegli anni sono presenti nel film, la loro ricostruzione digitale e ipertecnologica li rende purtroppo, salvo qualche eccezione, anonimi e irriconoscibili, sensazione acuita dalla scelta di mantenere i nomi originali dei personaggi (Optimus Prime per noi era Commander, Bumblebee era il piccolo Maggiolino, Jazz lo ricordiamo come Tigre e così via...). Quest'ultimo è un'aspetto da non sottovalutare e che in qualche spettatore avrà contribuito ad alimentare un po' d'indifferenza nei confronti di questi personaggi. Infatti, più che dallo scontro tra Autobot e Decepticon, ci si lascia prendere in misura maggiore dalle sventure del giovane Sam, quello che a una prima occhiata potrebbe sembrare un perdente intraprendente, uno che si prodiga per tirar su due soldi per comprare la sua prima auto e che tenterà di conquistare (o perlomeno farsi notare da) l'apparentemente inarrivabile Mikhaela, una ragazza che riserverà ben più di una sorpresa. Dello scontro tra Optimus Prime e Megatron (che non ho visto trasformarsi in pistola, delusione massima) poco ce ne importa, ci godiamo comunque tutte le sequenze action che sono realizzate con una certa maestria, così come apprezziamo le trasformazioni dei robottoni, sempre se ci riserviamo una bella dose di sospensione d'incredulità sul cambio di proporzioni tra auto e robot e se ignoriamo l'aspetto anonimo e poco accattivante dei protagonisti meccanici (decisamente meglio quello della Fox).

Alla fine il film intrattiene, lo si dimentica in fretta ma solo dopo che comunque ha assolto al suo compito, quello di farci passare un paio d'ore spensierate tra fracasso, patatine, coca cola e un pizzico di nostalgia non completamente appagata. La critica (pur non esaltandolo, e come potrebbe?) bolla questo primo capitolo come il più riuscito della serie; in serate svogliate un'occhiata al secondo capitolo la si potrebbe anche dare, avendo in mente però la tragedia che è stata il quarto, un poco di timore resta. Magari con una buona scorta di birra...

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