mercoledì 29 novembre 2023

ANOTHER HAPPY DAY

(di Sam Levinson, 2011)

Sam Levinson è figlio d'arte, il papà Barry ha diretto pellicole celebri ricordate ancora oggi (Piramide di paura, Rain man - L'uomo della pioggia, Good morning Vietnam, Sleepers, etc...); negli ultimi anni sembra essere arrivato anche per Sam il momento giusto per ritagliarsi un posto sotto i riflettori. Il vero successo è arrivato con l'ideazione e la regia della serie con protagonisti adolescenti Euphoria di cui sono state finora prodotte due stagioni, tra le protagoniste c'è anche la lanciatissima Zendaya che sarà l'interprete femminile del secondo successo di Levinson, quel Malcolm & Marie che è stato spesso legato al cinema post pandemico pur non parlando mai apertamente della pandemia. Il film (Malcolm & Marie) denota un certo gusto tanto da far nascere un po' di curiosità su ciò che Levinson Jr. ha realizzato nel suo passato, si scopre così che già al suo esordio, questo Another happy day, Sam raccoglie un premio della critica al Sundance Festival, festival tutto sommato adatto a questo suo primo lungometraggio che lascia da parte ogni forzatura sulla forma per concentrarsi su due aspetti che si incastrano tra loro molto bene e garantiscono al film una buona riuscita e un'ottima tenuta: l'attenzione alla scrittura e una qualità di recitazione parecchio alta garantita da un cast che sfoggia un'alternanza di vecchie glorie espertissime e giovani talentuosi e promettenti. L'atto dell'andare un po' a cercarsi le prime cose del regista e informarsi è in questo caso necessario in quanto Another happy day, nonostante i premi e le buone critiche ricevute, è stato ignorato dalla distribuzione italiana e non ha trovato la sua via per arrivare in sala, uscendo qui da noi direttamente in home video, un destino tutto sommato non meritato.

Lynn (Ellen Barkin) è madre di quattro figli avuti da due matrimoni diversi; il suo attuale marito Lee (Jeffrey DeMunn) è padre di Elliot (Ezra Miller) e Ben (Daniel Yelsky). Il primo è un adolescente molto problematico, afflitto da crisi di ansia ha sviluppato in passato diverse dipendenze (droghe, alcool, farmaci) dalle quali sta cercando di venir fuori pur concedendosi di tanto in tanto il lusso di droghe adolescenziali (e non solo in realtà), il piccolo Ben, un po' strano invero, è in sospetto di una forma di lieve (?) autismo. I due ragazzi hanno due fratellastri figli del primo matrimonio della madre con Paul (Thomas Haden Church), un uomo violento che in passato ha scatenato dei traumi duraturi in Lynn e in sua figlia Alice (Kate Bosworth), una ragazza che soffre di frequenti episodi di autolesionismo. L'altro figlio, Dylan (Michael Nardelli), sembra essere l'unico equilibrato della progenie di Lynn ed è proprio in occasione del suo matrimonio che la famiglia intraprende un viaggio verso Anneapolis per i festeggiamenti che si preannunciano molto caldi. Qui Lynn ritrova le sue sorelle, un padre malato che sembra avviato verso la fine dei suoi giorni (George Kennedy) e una madre (Ellen Burstyn) che sembra non averle mai davvero voluto abbastanza bene. Ciliegina sulla torta la seconda moglie di Paul, Patty (Demi Moore), figa, perfida e stronzetta quanto basta per far saltare i già precarissimi (dis)equilibri.

In Another happy day ci sono tutti gli elementi per una commedia pungente, qualche passaggio in questo senso in effetti non manca, ma Levinson più che altro intinge la sua storia nel dramma, e che dramma. Gli elementi alla base del film non sono nuovi: famiglie disfunzionali, la riunione in occasione di una festa o di un evento, il deflagrare di situazioni tese da tempo, il confronto tra consanguinei, tutti tasselli noti che Levinson maneggia però con la giusta cura e con la capacità di andare a colpire dove e quando serve senza mai dare l'impressione di adoperare artifici o forzature. Il regista usa l'espediente delle riprese amatoriali di Elliot e Ben per movimentare di quando in quando la scena mantenendo per altro un'andatura equilibrata, il resto lo fanno interpreti ottimi, alcuni leggendari come George Kennedy (Piano... piano dolce Carlotta, Quella sporca dozzina, Nick mano fredda, I 4 figli di Katie Elder, etc...), altri sorprendenti come il giovane Ezra Miller che altrove e in seguito non brillerà (il suo Flash nella Justice League non convince). Ottimo il confronto tra le due Ellen (Barkin e Burstyn) e anche la Moore trova una parte giusta per lei. Le interazioni tra i vari personaggi sono ben gestite e sfociano nel dramma con una dolorosa naturalezza, il male che le famiglie riescono a farsi è visto ora con sguardo cinico ora con un tono più divertito ma più spesso con la serietà del dolore causato da rapporti impostati in modo sbagliato. Davvero niente male questo Another happy day per essere un esordio.

lunedì 27 novembre 2023

IL VENTO CHE ACCAREZZA L'ERBA

(The wind that shakes the barley di Ken Loach, 2006)

A più di dieci anni di distanza Loach torna a temi e messaggi simili a quelli già affrontati in uno dei suoi film più celebrati: Terra e libertà; con Il vento che accarezza l'erba (l'orzo in inglese) il regista di Nuneaton torna a raccontare la Storia, lo fa ancora una volta con una cronaca sentita e schierata, con il racconto di un popolo alla ricerca di libertà e condizioni di vita migliori. Se con Terra e libertà si assisteva alla lotta di giovani spagnoli (e non solo) contro il fascismo del regime di Francisco Franco qui si narra la vicenda di un gruppo di ragazzi arruolatisi nell'I.R.A. (Irish Republican Army) decisi a contrastare i soprusi e le angherie messe in atto dall'esercito occupante inglese nelle loro terre e a discapito dei loro conterranei, delle loro famiglie, dei loro amici. Questa volta Loach mette sotto l'obiettivo delle sue critiche il suo stesso Paese, quell'Inghilterra dalla mentalità coloniale e imperialista incapace di limitare la propria politica al suo solo territorio, alimentando ingerenze violente e crudeli da parte dei soldati del suo stesso esercito. In uno dei rari casi nel cinema del Nostro assistiamo a un film dove sono presenti attori di livello e non esordienti presi dalla strada o da scuole di recitazione. Cillian Murphy ha già alle spalle un Batman (Nolan) e titoli come Breakfast on Pluto, Ritorno a Cold Mountain, 28 giorni dopo, Mary Murphy esordì al cinema addirittura nel lontano 1951 mentre Liam Cunningham, che forse abbiamo imparato a conoscere meglio ne Il trono di spade e in Hunger di McQueen, aveva già lavorato con Mike Newell, Dario Argento, Alfonso Cuarón e Neil Marshall. È probabile che anche questo aspetto de Il vento che accarezza l'erba abbia permesso a Loach di vincere la Palma d'Oro al Festival di Cannes e portarsi a casa, oltre a quelli alla carriera, il premio più prestigioso della sua intera filmografia.

Siamo negli anni dopo la fine della prima guerra mondiale in Irlanda, Damien O'Donovan (Cillian Murphy) è un giovane medico in procinto di trasferirsi a Londra per esercitare la sua professione. Durante un'informale partita di cricket con gli amici uno di questi, in seguito a un controllo dell'esercito inglese, viene pestato a morte senza nessun valido motivo. Gli altri ragazzi della compagnia tentano di convincere Damien a restare in Irlanda e a unirsi all'I.R.A. come ha fatto già suo fratello Teddy (Pádraic Delaney) ma il giovane è risoluto nel voler lasciare il Paese. Una volta in stazione, pronto a partire, Damien assiste all'ennesimo sopruso perpetrato dagli inglesi nei confronti del macchinista del treno Dan (Liam Cunningham), decide così di rimanere a combattere per la libertà suo Paese. Assemblato un manipolo di combattenti i giovani irlandesi iniziano a mettere in atto operazioni volte a fermare gli occupanti inglesi; ovviamente queste operazioni comportano rischi, si uccide da ambo le parti, anche qualcuno del gruppo di Damien verrà ucciso, altri ancora saranno torturati. Dopo mesi di ostilità sembra arrivare il momento di una tregua e un accordo con gli inglesi, l'accordo è però poco più di una presa in giro per il popolo irlandese, i ragazzi dell'I.R.A. si divideranno tra pro e contro, inizierà così una guerra civile che farà gioco agli inglesi.

Guardando Il vento che accarezza l'erba, film sicuramente militante, sembra che a Ken Loach non interessi tanto mettere in luce i soprusi perpetrati dal suo stesso Paese nei confronti degli irlandesi, storia assodata e che conosciamo da tempo, l'impressione è invece, ancora una volta, come già avveniva in Terra e libertà, che il regista inglese punti il dito contro la tendenza delle resistenze, oggi affidate a istituzioni come i partiti della sinistra o ai sindacati, a fare il gioco degli oppressori, dividendo le proprie forze, annacquando gli ideali che dovrebbero invece tenere saldi e immutabili, quelli di libertà, giustizia e difesa degli ultimi, a favore di compromessi che da sempre fanno gioco ai ricchi e ai potenti e a chi deve conservare il potere di manipolare le genti per il proprio tornaconto. Ci sono nel film due battute che sanciscono per bene questi aspetti, una è una riflessione rivolta agli stessi resistenti che viene pronunciata dal macchinista Dan "È facile sapere contro cosa si combatte. Più difficile è sapere in cosa davvero si crede", l'altra esce dalla bocca dello stesso Damien critico nei confronti dell'istituzione ecclesiastica (che gli oppressi dovrebbe tenere in giusto conto) "Ancora una volta la Chiesa si schiera dalla parte dei ricchi". Il cinema di Loach è così, manicheo ma altrettanto giusto (perché quando ci si schiera dalla parte dei più deboli non si sbaglia mai), sottolinea ancora una volta come il divide et impera messo in pratica dai potenti con abile maestria funzioni sempre, mentre le "vittime" quasi mai trovano un'unità definitiva capace di dare una vera svolta alle loro esistenze. Formalmente Loach fa meglio che in Terra e libertà, forse c'è qui un budget maggiore in gioco, alcuni protagonisti sono veri professionisti del cinema, il sodale Laverty è ormai scafato e aduso alla collaborazione con l'amico Ken, eppure sembra che la forma continui a essere una delle ultime cose che interessano a Loach e in fondo, qui come altrove, va bene anche così.

venerdì 24 novembre 2023

CITY HALL

(di Frederick Wiseman, 2020)

In queste settimane in cui stiamo esplorando il "cinema del sociale" parlando di diversi lavori del regista inglese Ken Loach, non stona la presenza di questo City Hall di Frederick Wiseman, bostoniano di nascita e da sempre dedito all'arte del documentario tanto da esserne considerato oggi il suo maggior esponente. Nato negli anni 30, Wiseman ha alle spalle una carriera infinita e ricca di considerazione e riconoscimenti, City Hall per esempio è stato votato come miglior film del 2020 dai rinomati Cahiers du Cinéma, la più prestigiosa rivista di critica cinematografica francese sulla quale scrissero nomi come Truffaut, Tavernier, Rivette, Rohmer, Chabrol, Assayas, Carax e altri ancora. Eppure a prima vista il cinema di Loach e quello di Wiseman sembrano essere agli antipodi: il primo schieratissimo, politico in tutto ciò che gira e racconta, tanto da meritarsi il nomignolo di "Ken il rosso", il secondo (all'apparenza) neutrale e laterale alle materie che illustra e scandaglia, un narratore super partes che mai tenta di far pesare il suo giudizio o di manipolare e indirizzare i suoi spettatori. City Hall invece odora di film politico; nella struttura segue il modello che Wiseman ha in passato già adottato per ottimi documentari, film appassionanti come Ex-Libris o In Jackson Heights, narrando però la vita e le iniziative dell'organizzazione comunale di Boston, guidata dal sindaco democratico Marty Walsh (ora Ministro del Lavoro), Wiseman tratteggia una gestione politica in netta contrapposizione all'America trumpiana di quel periodo, pur non esponendosi e non emettendo mai apertamente giudizi e pareri (Wiseman non compare mai nel documentario, non intervista mai nessuno) il regista qui firma indubbiamente un film dal chiaro orientamento politico.

City Hall ricorda per molti versi ciò che il regista ha già fatto in passato in Ex-Libris mettendo al centro della sua narrazione un'istituzione e il suo funzionamento, il suo impatto sul territorio e la sua volontà di influire in maniera positiva sulla vita della gente che ruota intorno ai servizi messi in campo dall'istituzione stessa. In Ex-Libris era il sistema bibliotecario di New York, in City Hall più semplicemente viene illustrato il grande lavoro svolto dal Comune di una città importante (ma non così enorme se rimaniamo all'interno dell'area comunale) come Boston. Una differenza tra i due documentari (e anche tra City Hall e altri) però c'è ed è evidente: se in altre occasioni era difficile individuare un protagonista, una voce che svettava sulle altre, qui invece questa voce indubbiamente c'è e porta il timbro di quella del Sindaco Marty Walsh che viene fuori da queste quattro ore e mezza di girato come un uomo e un politico sinceramente partecipe e impegnato nel risolvere il maggior numero di problemi possibili che coinvolgono la popolazione di Boston, uno che si spende e va per strada, dalle associazioni, alle riunioni (non solo quelle istituzionali) e in tutte quelle manifestazioni dove è possibile far sentire la propria voce in maniera diretta, dove parlare con la gente e promuovere un'idea d'impegno civile e vita condivisa al fine di andare in una direzione magari non in tutto perfetta ma capace di migliorare nella pratica le condizioni di vita di molti. Figlio di immigrati irlandesi, ex alcolista, ex malato di cancro Walsh, insieme al suo staff, uno dei più multiculturali del Paese, porterà Boston ad avere uno dei tassi di disoccupazione più bassi di sempre e a costruire una città modello per l'intero Paese nonostante la politica avversa perseguita a Washington.

Non c'è solo il Sindaco in City Hall, Wiseman ci porta all'interno delle stanze decisionali, dove commissioni e organizzazioni discutono su come far funzionare al meglio servizi e iniziative volte a proteggere i cittadini dal fenomeno degli sfratti da parte dei grandi e piccoli proprietari, a rendere la ricchezza economica dell'area di Boston alla portata delle minoranze e dei vari ceppi di popolazione, a fornire servizi e spazi per comunità come quella dei veterani di guerra o come quella dei senza tetto. Si discute così sull'opportunità di ampliare i posti in alcune scuole dall'ottimo funzionamento, di come attività quali la rivendita di cannabis possano portare vantaggi o disagi agli abitanti dei quartieri più poveri, e ancora integrazione, parità dei salari, possibilità di lavoro per i piccoli imprenditori e così via. Le parti "parlate" sono inframmezzate da scorci su Boston, sulla sua architettura, sui suoi luoghi e i suoi mestieri: vigili del fuoco all'opera, operai stradali, raccolta dei rifiuti, polizia metropolitana, controllori del traffico. Torna ancora una volta la passione di Wiseman per il funzionamento delle istituzioni all'interno delle quali il regista ci accompagna come un Virgilio muto e invisibile ma questa volta ben consapevole di portarci in una direzione ben precisa.

sabato 18 novembre 2023

NON ESSERE CATTIVO

(di Claudio Caligari, 2015)

Claudio Caligari se n'è andato senza riuscire a realizzare tutto ciò che un regista come lui avrebbe potuto lasciare in eredità al cinema italiano: una carriera iniziata nella seconda metà degli anni 70 dello scorso secolo nel campo del documentario (ne gira sei in tre anni) dei quali già il primo è dedicato al problema della droga e delle dipendenze, tema poi ricorrente nel suo cinema. Il primo lungometraggio, Amore tossico, arriva qualche anno più tardi, nel 1983, seguito da L'odore della notte che arriva a distanza di ben quindici anni dal precedente. La presenza in L'odore della notte di attori divenuti di primo piano nel panorama nostrano, gente come Marco Giallini, Giorgio Tirabassi, Valerio Mastandrea, unita all'apprezzamento unanime della critica per entrambi i film girati da Caligari, non sono bastati a favorire un inserimento produttivo del regista all'interno del sistema cinema italiano, tanto che per riuscire a realizzare la sua terza (bellissima) opera Caligari dovrà aspettare il 2015, uno iato di ben diciassette anni dal film precedente, così, malato e portato via dal cancro, il regista se ne andrà prima della presentazione ufficiale del suo ultimo film alla Mostra del Cinema di Venezia. È un testamento di grande valore Non essere cattivo, un film che abbiamo oggi la possibilità di vedere anche grazie all'interessamento di Mastandrea per l'opera di Caligari, l'attore si è prodigato in prima persona per far conoscere e finanziare l'opera del regista, tanto da scrivere anche un appello sentito al grande Martin Scorsese, autore che lo stesso Caligari ammirava molto.

Ostia, anni 90. Cesare (Luca Marinelli) e Vittorio (Alessandro Borghi) sono due ragazzi di periferia, due borgatari cresciuti insieme in un mondo di miseria e vedute ristrette (nonostante il mare e l'orizzonte ampio). A Ostia di lavoro ce n'è poco e quando c'è non regala né soddisfazioni né molto denaro, così Cesare e Vittorio passano le giornate pieni di droghe e alcool tra piccoli furti, raggiri e momenti di svacco in compagnia di un gruppo nutrito di sfaccendati che ha come punto di ritrovo un baretto infimo vicino la spiaggia. Qui gravita anche Viviana (Silvia D'Amico) che costruirà una specie di rapporto con Cesare, mentre Vittorio troverà la sua strada insieme a Linda (Roberta Mattei). Le vite dei due giovani non sono semplici: Cesare vive con l'anziana madre (Elisabetta De Vito) e con la nipote malata Debora (Alice Clementi), figlia di una sorella morta di A.I.D.S., Vittorio, anche nel momento in cui tenta di farla finita con le droghe e inizia a lavorare nei cantieri, deve vedersela con la sensazione di non essere e non avere abbastanza per la sua Linda, una donna già madre e desiderosa di avere di più, un di più che Vittorio e le contingenze di un ambiente sterile, segnato e cattivo non possono e forse non potranno mai darle. Tra sogni, false speranze, slanci in avanti e ricadute i due ragazzi, diversi tra loro ma fratelli nell'animo, cercheranno di sopravvivere a una marginalità senza scampo né speranze.

Quando ancora era in vita Claudio Caligari non ha mai nascosto la su ammirazione per i temi "pasoliniani" che in Non essere cattivo riprende per quel che riguarda la vita degradata e vuota dei giovani di periferia, abbandonati da una casualità di nascita e dalla società all'interno di mura invisibili che li trattengono chiusi in un'esistenza ai margini. Nel film sono pochi in effetti gli spazi chiusi, i rari momenti che Cesare e Vittorio trascorrono a casa, per il resto i due giovani vivono all'aperto, di giorno come di notte, eppure sembra che le terre di Ostia, la spiaggia, i cantieri senza mura, il baretto, siano luoghi dai confini invalicabili e al di là dei quali non è possibile intravedere una vita diversa che non sia la droga, l'espediente del momento. Eppure almeno Vittorio ci prova sul serio a cambiare, c'è una scena nel film in cui, dopo i soliti bagordi, il ragazzo interpretato da un Borghi già molto intenso si guarda in uno specchio e si sputa in faccia. Da quel momento Vittorio torna nei cantieri, a cercare di cambiar vita, in maniera sincera, di guadagnarsi un'esistenza che però rischia di non essere mai abbastanza per le persone che si amano, perché ormai la società in cui si vive spinge a volere sempre di più, sempre altro, visione lucida e terribile da parte di un Caligari qui perfetto. I suoi protagonisti cercano di non essere cattivi, in fondo non lo sono, hanno moti d'amore, per le loro donne, uno per l'altro, per quella nipote malata, per quella madre anziana e stanca. È un mondo quello descritto da Caligari dove anche un gesto semplice e normale come guardare il mare può far nascere speranze alle quali è meglio non credere, tanto poi... eppure, forse, una speranza, una luce in fondo al tunnel ancora c'è, certo bisognerebbe riuscire a evadere da quella prigione senza mura. Caligari raccoglie un cast impressionante, un volto più indovinato dell'altro a partire da Marinelli e Borghi, due talenti allora ancora giovani e poi confermatesi come due dei migliori talenti emergenti del nostro cinema.

martedì 14 novembre 2023

IL MIO AMICO ERIC

(Looking for Eric di Ken Loach, 2009)

Con Il mio amico Eric il regista inglese Ken Loach trova un equilibrio invidiabile tra dramma, commedia, temi sociali e un tocco "sportivo" che a tanti appassionati di calcio non può aver fatto che un gran piacere. Quest'ultimo elemento è garantito dalla presenza nel film di Éric Cantona, calciatore marsigliese che trova il momento più alto della sua carriera proprio durante la sua militanza nel team inglese del Manchester United con il quale negli anni 90 Cantona vinse quattro campionati di Premier League (uno lo aveva già vinto con il Leeds) e due Coppe d'Inghilterra. Nonostante l'importante presenza calcistica di uno dei miti della storia recente del Manchester United Loach non segue gli schemi del film sportivo, Il mio amico Eric in effetti non lo è, qui Cantona diventa una sorta di coscienza e di consigliere del vero protagonista del film, un altro Eric, Eric Bishop per la precisione, un uomo con una vita piena di problemi che a un tratto cede, si spezza, e che per risalire la china ha bisogno di una spalla che si concretizzerà proprio con la presenza eterea di Cantona (un po' quello che era l'Humprey Bogart di Provaci ancora Sam per Woody Allen), il suo idolo, un punto di riferimento per Eric e per tutta la sua cricca di amici, tutti sostenitori dei colori del Manchester United.

Eric Bishop (Steve Evets) subisce un crollo nervoso mentre è alla guida della sua automobile fortunatamente senza che questo provochi danni seri per nessuno. L'uomo lavora per le poste inglesi, nutre una passione per il Manchester United che condivide con un numeroso gruppo di amici e conduce una vita parecchio difficile. Eric è separato dalla prima moglie Lily (Stephanie Bishop) con la quale ha avuto sua figlia Sam (Lucy-Jo Hudson) che ora ha regalato ai suoi genitori una splendida nipotina. Eric e Lily non si frequentano più da tempo ormai ma l'uomo ha continuato a pensare nel corso degli anni alla donna che a causa di paure giovanili aveva abbandonato con una figlia da crescere. Inoltre Eric è patrigno di due ragazzi di una seconda moglie eclissatasi, uno di questi, Ryan (Gerard Kearns), tiene un comportamento irrispettoso nei suoi confronti ed è invischiato con dei loschi figuri che mettono a repentaglio non solo il futuro del ragazzo ma anche la tranquillità dell'esistenza di Eric. In seguito alla crisi dell'amico e vista la duratura depressione di Eric, Meatball (John Henshaw), uno del gruppo dei sostenitori dello United, organizza una sorta di terapia di gruppo durante la quale Eric individua in Éric Cantona la persona che più ammira e che da quel momento comincerà ad apparirgli come una visione, un elemento incorporeo con la funzione di viatico o di traghettatore verso un'esistenza migliore e più serena.

Ne Il mio amico Eric è presente una delle pochissime occasioni di ammirare una star di primo piano in un film del "rosso" Ken Loach; l'intuizione felice è quella di non chiamare un attore di fama mondiale a recitare nel suo film ma una delle più grandi star del calcio, Éric Cantona, un campione che il regista inglese adopera al meglio tra recitazione schietta e sincera e immagini di repertorio con le migliori prodezze del giocatore all'epoca dello United. È proprio la presenza di Cantona il valore aggiunto di una commedia sociale ben calibrata dalla sceneggiatura del sodale abituale Paul Laverty che con Loach ha lavorato più e più volte, il francese è il giusto contraltare al mite Eric Bishop che dal campione sarà spronato a osare, rischiare e così a tornare a vivere, bella coppia di omonimi in una favola urbana e moderna a lieto fine. Il mio amico Eric racconta il riscatto di un uomo onesto nei confronti delle avversità presentategli dalla vita, dalle altre persone (anche quelle a lui più vicine) e soprattutto dai suoi errori di gioventù, è la convinzione, magari ingenua e fuori moda, di Loach sull'efficacia della forza del gruppo, dell'amicizia e della solidarietà qui ben rappresentata dal simpatico gruppo di bonari tifosi dello United che con Eric sostiene la squadra e che non avrà paura di sporcarsi le mani per aiutare un amico, uno di loro, uno del gruppo. È la trasposizione nella società, nella vita di tutti i giorni, di quell'"uniti si vince" sul quale anche le associazioni sindacali hanno ormai sputato su ma nel quale il nostro Ken ha ancora voglia di credere fortemente. Se Il mio amico Eric potrebbe non rientrare tra gli esiti più alti del cinema di Loach si piazza di certo tra i titoli più piacevoli della filmografia del regista inglese.

venerdì 10 novembre 2023

IL LAUREATO

(The graduate di Mike Nichols, 1967)

La seconda metà degli anni 60 del secolo scorso è passata alla Storia come un momento di cambiamento e rottura per gli Stati Uniti d'America che si avviavano alla "rivoluzione culturale" del '68 con alle spalle l'irremovibile (dalla memoria collettiva) tragedia dell'assassinio di John Fitzgerald Kennedy, episodio che segnò un'ideale perdita d'innocenza per gli U.S.A. e la fine del Sogno Americano. Diciamo "ideale" perché un Paese come gli Stati Uniti d'America in realtà l'innocenza non sa neanche dove stia di casa, non lo sapeva nei 60 e nemmeno l'ha mai saputo (vedi I cancelli del cielo di Michael Cimino), diciamo che ha sempre e solo fatto finta e, proprio nel 1968, a sancire il passaggio a un'altra (breve) epoca arriveranno a poca distanza l'una dall'altra anche le morti violente di Bobby Kennedy e del reverendo Martin Luther King. In questo scenario storico, denso di eventi e significati, anche il cinema e Hollywood andavano a rinnovarsi, un rinnovamento fisiologico dovuto all'umore dei tempi, alle nuove generazioni (di registi e autori ma anche di spettatori) e da situazioni contingenti come le crisi della Hollywood classica, quella dello Studio System e quella delle vecchie star, tutti fenomeni ai quali andava a unirsi la crescente popolarità della televisione nel dare uno scossone ai vecchi Studios della costa ovest. C'è un pubblico più impegnato formato da una popolazione giovane sempre più critica nei confronti della società, coinvolta sotto il punto di vista politico e che si trova e si troverà a convivere con vicende dolorose come quelle della guerra in Vietnam, affronterà  le paure generate dalla guerra fredda, lo scandalo Watergate, sarà protagonista di una crescente sensibilizzazione per la questione razziale riguardante i neri d'America e dovrà fare i conti con il trauma degli omicidi sopra citati e con quello di Malcolm X, promuoverà un mutamento dei costumi e andrà verso una liberalizzazione sessuale senza precedenti. Il cinema cambierà di conseguenza, seguirà la corrente dei tempi, sarà un mutamento sincero e rivoluzionario tanto che questo nuovo modo di fare cinema rientrerà sotto il nome di New Hollywood, a indicare una cesura netta con il passato.

Come per tutte le correnti, i movimenti, le tendenze, non è così facile dare un punto netto d'inizio e uno di chiusura, in genere si procede per convenzioni, per ipotesi, indicando poi oltre al corpo centrale della corrente in questione precursori e strascichi postumi. Per la New Hollywood è solito indicarne una possibile nascita con un paio di titoli, entrambi datati 1967: il primo è Gangster story di Arthur Penn mentre il secondo è proprio Il laureato di Mike Nichols, film che segnavano uno scarto con la vecchia Hollywood ormai incapace di leggere le istanze di una nuova realtà. Nel cinema entra e si avverte con prepotenza lo spaesamento di una generazione, protagonisti disorientati, l'uomo comune prende il posto dell'eroe, nuovi divi riportano la star a una dimensione più accessibile (Dustin Hoffman né è forse l'esempio più calzante e riconoscibile ma non di certo l'unico), i registi osano avventurarsi su strade diverse e poco battute, creano con budget risicati, destrutturano i generi, danno voce alle minoranze e aprono le porte a una nuova morale, raccontano la nuova società senza edulcorarla, filmano violenze e paranoie. È un bagno di realtà per l'America spesso ipocrita e perbenista costretta a guardarsi in faccia con onestà, il sogno si infrange, la realtà non ha sempre una fragranza profumata. Le nuove generazioni vogliono libertà, sono più indipendenti, più trasgressive, il cinema ha il compito di assecondarle e nutrirle.

Il laureato quindi. Nel 1967 Dustin Hoffman è al suo esordio ed esplode da subito come uno dei volti simbolo della New Hollywood (candidatura all'Oscar e vittoria ai Golden Globe), nel film è Benjamin Braddock, figlio di genitori benestanti che torna a casa per festeggiare la sua laurea. Mentre parenti e amici di famiglia si moltiplicano nella villa dei suoi genitori Benjamin non sembra essere né entusiasta né felice della sua situazione, si intravede in lui una preoccupazione per il futuro, un senso di disorientamento che non permette al ragazzo di tracciare una direzione chiara da seguire, Benjamin è in preda a un'insofferenza inconcludente. Durante la festa la signora Robinson (Anne Bancroft), moglie del socio in affari del padre di Benjamin, chiede al ragazzo di riportarla a casa sua dove la donna, decisamente più matura del giovane tenta di sedurlo. Riluttante Benjamin rifiuta le offerte della donna per poi cedervi nei giorni seguenti. La situazione si movimenta quando in scena entrerà anche la figlia della signora Robinson, Elaine (Katharine Ross), coetanea di Benjamin e fanciulla alla quale il Nostro si rivelerà essere parecchio interessato.

Il laureato di Mike Nichols è un film simbolo graziato da alcune sequenze memorabili. L'inizio con Hoffman fermo sul nastro trasportatore che lo muove come se il protagonista non avesse volontà è una dichiarazione d'intenti, le note di Simon & Garfunkel di The sound of silence anticipano il discorso sull'incomunicabilità che qui è sottolineata tra generazioni diverse. Benjamin e la signora Robinson non riescono a parlarsi, vanno a letto insieme ma non comunicano, non hanno nulla da condividere, è il chiaro segnale di un cambiamento di approccio alla vita delle nuove generazioni, forse più confuso, più inconcludente, smarrito (bellissimo sul finale lo sguardo di Elaine e Benjamin sul bus, quasi a dire "e ora che si fa?") ma anche più libero, sincero e spontaneo. Nichols è molto bravo a tradurre in immagini un senso di torpore proprio del protagonista (e di tanti spettatori suoi coetanei) usando la metafora della piscina, dell'ottundente immersione nell'acqua (il protagonista ci si butta anche con una muta da sub), calibra alla perfezione il tappeto sonoro grazie a una scelta di brani passati alla Storia e trova in Hoffman un vero simbolo di questa nuova epoca del cinema, un'epoca che durerà poco più di un decennio, frenata negli anni 80 dall'edonismo reaganiano, dall'avvento del cinema di consumo (a opera in primis di Spielberg che della New Hollywood è stato una delle firme), dal fallimento totale di film come I cancelli del cielo. Il laureato però, insieme ad altre pellicole, ha avuto il merito di aver aperto la strada a un decennio di grandissimo cinema che ci ha regalato alcune tra le migliori opere di registi come Scorsese, Coppola, Spielberg, Cimino, Polanski, Friedkin, Allen, Pollack e mille altri uniti insieme a creare un'epoca troppo breve ma altrettanto densa e forse irripetibile.

venerdì 3 novembre 2023

OPPENHEIMER

(di Christopher Nolan, 2023)

L'altra faccia del Barbenheimer. Con Oppenheimer Christopher Nolan rientra in un contesto visivo/narrativo più normalizzato rispetto ad alcune delle sue opere più recenti. A parte Dunkirk che era fatto di un'altra pasta, alcune dei film recenti più celebri di Nolan giocavano molto con la macchina cinema, con le teorie della fisica (o con altro) e con la sfida che il regista inglese pone a sé stesso nel portarle sullo schermo, pensiamo ad alcuni di quei film di Nolan che sono stati definiti "film cervello" come Inception o Tenet, in parte anche Interstellar, film di difficile interpretazione per una gran parte del pubblico e per i quali Nolan ha dato spesso l'impressione di uscire dal seminato, di aver fatto il passo più lungo della gamba o di aver sbracato totalmente nella gestione dell'equilibrio delle sue opere (rimane poi tutto da verificare se e quanto a Nolan interessi davvero mantenere quell'equilibro). In Oppenheimer invece la gestione della struttura narrativa da parte di Nolan sembra essere più docile e addomesticata, nonostante la pellicola in questione non sia comunque di facile assimilazione, questo per motivi differenti rispetto a quel che accadeva per i film sopra citati. Oppenheimer racconta la storia dell'omonimo fisico scomponendola in tre linee cronologiche divise però in due macro capitoli intersecati che Nolan battezza "fusione" e "fissione", uno girato a colori e uno in uno stiloso bianco e nero. La progressione del racconto su più linee temporali non da subito è chiarissima, inoltre l'accumulo di personaggi e nozioni, non solo fisiche ma anche relazionali tra i vari protagonisti, richiedono una concentrazione che diventa impegnativa se unita alla durata importante e alle poche divagazioni all'interno di una storia poggiata principalmente su dialoghi, idee, spiegazioni.

Il film inizia quando il suo protagonista, Robert Oppenheimer (Cillian Murphy) è alle prese con le fasi finali del suo dottorato; nel corso dei suoi studi il giovane fisico ha l'opportunità di incontrare e confrontarsi con altre menti brillanti del suo tempo, una su tutte il fisico danese Niels Bohr (Kenneth Branagh) il quale lo indirizzerà verso un percorso di studi da tenersi in Germania dove Oppenheimer incontrerà Isaac Rabi (David Krumholtz). Affascinato dalle teorie sulla fisica quantistica di Werner Heisenberg (Matthias Schweighöfer) Oppenheimer cerca di riportarle e approfondirle nel corso di studi di cui sarà insegnante presso l'Università della California (CalTech) dove formulerà interessanti ipotesi sulla struttura dei buchi neri. In seguito alla scoperta della fissione nucleare Oppenheimer fu tra i primi a ipotizzare l'applicazione della nuova reazione in campo bellico, verrà scelto dal generale Groves (Matt Damon) per dirigere a Los Alamos il Progetto Manhattan finalizzato alla costruzione di una bomba atomica volta a porre fine alla Seconda Guerra Mondiale. Nella comunità scientifica non mancano i dubbi su quanto lo sviluppo di un'arma così distruttiva possa essere opportuno, anche Oppenheimer ne avrà, soprattutto tenendo conto dell'ipotesi non del tutto negata dai calcoli scientifici, che una forza di tali proporzioni potesse distruggere l'intera atmosfera terrestre, ipotesi di cui il fisico parlò anche con Einstein (Tom Conti) e che comunque non dissuase Oppenheimer dal portare a termine quel compito che solo più tardi gli procurò più di un rimorso di coscienza. Proprio in seguito a ciò Oppenheimer iniziò a promuovere un'apertura verso la Russia al fine di limitare il rischio di utilizzo dell'atomica e una politica di flessione della corsa agli armamenti, cosa che non piacque ai vertici del Governo U.S.A. e che permise al Presidente della Commissione per l'Energia Atomica Lewis Strauss (Robert Downey Jr.) di togliersi qualche sassolino dalle scarpe e pareggiare qualche conto in sospeso con il celebre fisico.

È probabile che il mercato, una parte di critica, l'Academy, alcuni di quei fan detrattori delle ultime cose fatte da Nolan, vorranno far passare il messaggio che questo Oppenheimer sia un film decisamente migliore dei vari Tenet, Dunkirk o Interstellar, ma io mica sono proprio convinto che sia davvero così. Per quanto Nolan dica che Oppenheimer non sia un biopic (perché il biopic è noioso) Oppenheimer è un biopic, e no, non è noioso ma forse un po' "pesante" sì (termine che fa ribrezzo, lo so, ma che può dare un'idea della corposità dell'opera). Oppenheimer è un film denso, che lascia lo spazio al cinema più mainstream o spettacolare giusto in un paio di occasioni: la prima è la sequenza splendida relativa al test Trinity realizzata con un lavoro sulla tensione e soprattutto sul sonoro (e sulla mancanza di esso) da Oscar, il momento di maggior impatto, è proprio il caso di dirlo, di tutto il film. La seconda è la costruzione sul finale dell'esito ultimo di quella sorta di processo attraverso il quale si tenta di screditare la figura di Oppenheimer, questa soluzione è invece più banalotta e risaputa. Per tutto il resto della durata c'è la vita di Oppenheimer con tale densità di eventi e personaggi che il film in alcuni passaggi diventa frastornante come la bomba. È un buon film Oppenheimer, graziato anche da un cast spaventoso. Oltre a un Cillian Murphy in gran spolvero ci sono Emily Blunt, Matt Damon, Robert Downey Jr., Florence Pugh, Josh Hartnett, Casey Affleck, Benny Safdie, Rami Malek, Kenneth Branagh, Matthew Modine, Gary Oldman e un cesto d'altra gente, va da sé che dal punto di vista della recitazione non si può chiedere altro. Ben realizzato, interessante come approfondimento sulla vita del fisico americano, forse un film meno "nolaniano" di altri.

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