mercoledì 27 aprile 2022

RIFKIN'S FESTIVAL

(di Woody Allen, 2020)

Anche con quello che non è il Woody Allen migliore alla fine si riesce comunque a divertirsi parecchio; è questo il caso di Rifkin's festival, ultima opera in ordine di tempo del regista newyorkese, non una delle più memorabili ma un film che a ogni modo intrattiene bene e offre parecchi spunti di riflessione, non privo di un'aura malinconica in sottotraccia, soprattutto se pensiamo al transfert in atto tra regista e contenuto del film, alter ego compreso (questa volta affidato a Wallace Shawn), in una narrazione dove traspaiono la lunga storia di Allen, i suoi gusti (soprattutto quelli cinefili) e l'inevitabile vecchiaia comprensiva di acciacchi e rimpianti per ciò che non c'è più ma che l'Allen uomo continua probabilmente a cercare. Allen si lascia alle spalle le polemiche che circondano il suo privato, si allontana da New York e torna a girare in Spagna ottenendo un risultato decisamente migliore rispetto al precedente film girato in terra iberica, quel Vicky Cristina Barcelona non troppo convincente: i protagonisti sono qui coinvolti in una ronde di relazioni, platoniche e non, che danno vita a legami caratterizzati da grandi differenze d'età, un Allen indubbiamente sprezzante del pericolo vista l'aria che tirava per il regista all'epoca dell'uscita del film proprio su questo argomento.


Siamo a San Sebastián durante il Festival Internazionale del Cinema. Mort Rifkin (Wallace Shawn) è un ex professore che in passato ha insegnato cinema, è un appassionato molto critico e amante dei grandi classici europei del cinema d'autore; l'uomo, ormai anzianotto, è a San Sebastián con la moglie Sue (Gina Gershon) più giovane di lui di parecchi anni, lei cura i rapporti con la stampa per conto di Philippe (Louis Garrel), giovane regista in ascesa che è riuscito a crearsi una certa fama di artista impegnato, in realtà è un uomo un po' spocchioso che coltiva l'etichetta di regista engagé creata su poco o nulla (ma con la pretesa di porre fine alla questione palestinese con il suo prossimo film). Tra attacchi di gelosia per l'idolatria smodata che la moglie prova per Philippe e crisi di ipocondria varia dovute a piccoli disturbi, Mort verrà indirizzato da un conoscente dal dottor Jo Rojas (Elena Anaya) che, con sua grande sorpresa, l'uomo scoprirà essere una giovane e bellissima dottoressa in piena crisi matrimoniale. La gelosia così lascia il posto alla fantasia, Mort tenta di avvicinarsi alla dottoressa Rojas incantandola con la comune passione per New York, con storie di cinema, il tutto inframezzato dalle fantasie del protagonista che nella sua mente rivive in prima persona quelle che sono state per lui le scene fondamentali di un'ideale percorso cinematografico immortale (in scacco anche alla Morte qui personificata da Christoph Waltz). Purtroppo gli anni sono passati, la gioventù non ritorna, il tempo è un avversario più spietato della morte stessa.

Sebbene lungo la visione del film l'impressione che tutto viaggi su binari già posati da tempo immemore non manchi di affacciarsi alla mente dello spettatore, non si può non riconoscere ad Allen quella voglia inesauribile di cinema che spinge il regista ormai ottantaseienne a sfornare film a getto continuo trovando spesso esiti affatto disprezzabili come nel caso di questo Rifkin's Festival. Ancora una volta abbiamo un alter ego nei classici panni di quello che era il personaggio alleniano di sempre, questa volta interpretato da Wallace Shawn, un po' più giovane di Allen, fisico pasciuto ma che ben si accorda a riproporre fisime e ipocondrie tanto note quanto amate dai vecchi fan. Spicca in Rifkin's festival una vena malinconica: l'età avanza, le grandi domande sono ancora senza risposta (e queste non arriveranno), le cose che donavano sale alla vita sono ormai fuori portata: ci si invaghisce ma non si conclude, si viene accantonati, per fortuna c'è sempre il cinema ma anche questo è un cinema del passato, in bianco e nero, fatto di ricordi, in bianco e nero anch'essi e che prendono vita in 4/3, il protagonista è un uomo sorpassato che vive in un mondo che per molti versi appartiene ormai ad altri, anche la sua chiusura intellettuale non aiuta e la cruda realtà dei fatti è incontrovertibile, la vecchiaia è arrivata. Allen ne approfitta per omaggiare i registi che ama, ne riprende scene fondamentali, addirittura vezzi di regia guardando al Godard di Fino all'ultimo respiro e poi ancora a Bergman con Il settimo sigillo e Persona, a Fellini, a Welles con Quarto potere, al Truffaut di Jules e Jim e a diversi altri ancora, tutto in modo divertito e divertente; forse tutto già visto ma proprio non si può chiedere di più a un regista che nel corso degli anni ci ha davvero regalato tanto.

lunedì 25 aprile 2022

PARIA DEI CIELI

(Pebble in the sky di Isaac Asimov, 1950)

Premetto che mi accosto a quest'opera di Asimov più o meno da profano, la mia conoscenza sull'opera dell'autore si limita a qualche lettura di gioventù e alla produzione gialla dello scrittore che negli anni 70 si divertì nel creare il Club dei Vedovi Neri, un gruppo di benestanti borghesi dediti a svelare piccoli misteri dove la chiave dell'enigma di turno viene immancabilmente trovata dal brillante maggiordomo del club, l'impareggiabile Henry Jackson. L'occasione di rimettere mano a uno scritto di Asimov si presenta con la seconda uscita della collana varata da Mondadori per festeggiare i 70 anni di Urania, va da sé che la presenza di Isaac Asimov, come quella di altri nomi celebri della fantascienza, non poteva mancare. La scelta del romanzo da presentare da parte del curatore Franco Forte cade su Paria dei cieli, primo romanzo scritto da Asimov per il Ciclo dell'Impero anche se cronologicamente posteriore negli eventi a quelli degli altri due capitoli della trilogia (Il tiranno dei mondi e Le correnti dello spazio). La scelta è coerente e apprezzabile, tanto più che il romanzo non mostra palesi collegamenti ad altre opere se non per un'ambientazione che sarà poi comune a molti libri del maestro russo della fantascienza, bene quindi la decisione di partire dal capitolo che vide per primo la pubblicazione. Peccato la mancanza di qualche editoriale o di qualche approfondimento sull'autore o almeno sul Ciclo dell'Impero, c'è da dire comunque che la lettura del romanzo risulta molto agevole e non necessita di spiegazioni di sorta. Presente solo un'interessante postilla dello stesso Asimov, redatta nel 1982 in occasione di una posteriore edizione di Paria dei cieli, dove l'autore precisa che al momento della stesura del romanzo, di pochi anni posteriore alle immani tragedie di Hiroshima e Nagasaki, ancora non c'era una vasta conoscenza sugli effetti delle radiazioni, da qui l'ipotesi di una convivenza della razza umana con un ambiente a costante presenza radioattiva.

Joseph Schwarz è un sarto di Chicago di origini europee che si sta godendo il giusto riposo dopo essere andato in pensione in seguito a una vita di lavoro. Schwarz è anche un uomo che si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato; durante una passeggiata, a causa di un'esperimento sfuggito al controllo in un vicino laboratorio di fisica, l'uomo si trova sbalzato migliaia di anni nel futuro, su una Terra dove si parla una lingua diversa e dove l'umanità ha colonizzato l'intero universo: è l'epoca dell'Impero Galattico, un'era dove la Terra, pianeta radioattivo in molte sue zone a causa di una guerra nucleare, è considerata un vero paria dei cieli, la popolazione terrestre viene vista come la feccia dell'Impero, un miscuglio di riottosità e arretratezza ancora legato a tradizioni ancestrali portate avanti dalla Società degli Anziani, tra queste la più disumana è il limite massimo di vita fissato al raggiungimento dei sessant'anni di età. Schwarz non è l'unico visitatore della Terra, l'archeologo siriano Bel Arvardan (originario di Sirio non della Siria) giunge sul pianeta per studiare una teoria che indica proprio la Terra come origine della razza umana. Entrambi gli uomini, insieme allo scienziato Shekt, luminare che ha sviluppato un macchinario per implementare le capacità di apprendimento della mente umana, e a sua figlia Pola, verranno coinvolti in un complotto che vede la Terra ergersi come seria minaccia al resto dell'Impero al fine di riappropriarsi della propria centralità nell'economia di un universo che tratta il pianeta e i suoi abitanti con profondo razzismo e disprezzo.

Nonostante Paria dei cieli faccia parte di un'ideale trilogia dell'Impero e che questi romanzi siano poi collocati un un progetto di un'universo più ampio (il Ciclo della Fondazione), il libro rimane godibilissimo e leggibile anche se preso come opera singola. L'ambientazione è tutta terrestre, all'Impero ci sono solo riferimenti ma l'azione si svolge tutta sulla Terra. Asimov inserisce nel breve romanzo parecchi temi interessanti, da quelli più prettamente fantascientifici (il viaggio nel tempo, la colonizzazione dell'universo, l'implementazione delle capacità mentali) a quelli più universali e terreni (il razzismo sopra a tutto ma anche la minaccia atomica e, perché no, l'amore capace di aprire gli occhi e non solo i cuori). Sono presenti piccolissime parentesi scientifiche che offrono pillole di sapere senza appesantire il testo che rimane un'avventura abbastanza classica, impreziosita in alcuni passaggi da una sorta di gioco degli equivoci che a tratti diventa anche divertente nel fraintendimento del ruolo di alcuni personaggi. I nodi focali sono rappresentati da alcuni difetti che la nostra razza non riesce a lasciarsi alle spalle: il razzismo che ci accompagna da sempre e a periodi alterni torna alla ribalta nelle cronache e la minaccia atomica tornata purtroppo in auge nell'ultimo periodo. Nel futuro mondo ipotetico di Asimov non ci sono razze aliene, è l'uomo ad aver colonizzato l'universo grazie al suo ingegno, nella nostra realtà è più probabile che qualche altra razza da qualche parte esista ma che ci eviti accuratamente perché ci schifa, non ci sarebbe da stupirsene, ed ecco i paria dei cieli. Scherzi a parte una buona lettura, veloce, dinamica, con un piglio di base da avventura classica, una buona introduzione per i neofiti al lavoro di Asimov.

sabato 23 aprile 2022

LA COSA

(The thing di John Carpenter, 1982)

A tutto il 1982 John Carpenter aveva diretto già cinque film almeno quattro dei quali con il tempo si ritaglieranno un piccolo posto nell'empireo dei cult movies; di Distretto 13 - Le brigate della morte e di Halloween abbiamo parlato da poco, a questi si aggiungono anche Fog e il mitico 1997: Fuga da New York, film che insieme ad altri titoli, I guerrieri della notte di Walter Hill per esempio, ha segnato una generazione dando vita anche al memorabile personaggio di Jena Plissken, da qui il sodalizio tra il regista e l'allora giovane ma già carismatico Kurt Russell che proprio con La cosa torna a essere il protagonista principale della nuova fatica di Carpenter. Sono diversi i film del regista a essersi ritagliati uno zoccolo duro di appassionati solo nel corso degli anni dopo aver ricevuto critiche poco lusinghiere al momento dell'uscita in sala, poi il lavoro di passaparola e l'ampio utilizzo dell'home video che proprio negli anni 80 prendeva piede hanno fatto il resto incoronando diversi film col titolo appunto di cult movie, La cosa rientra a pieno titolo in questa categoria essendo stato in principio sia un flop commerciale che film poco apprezzato dalla critica. Nonostante l'aura di culto che La cosa si è creato nel corso degli anni il film rimane meno interessante di molti dei suoi predecessori, di base è un buon thriller poggiato sui generi della fantascienza ma soprattutto dell'horror, riguadagna interesse proprio negli ultimi anni per il discorso sociale, sviluppato nei rapporti tra personaggi, ben adattabile alla situazione in cui versa l'umanità da qualche anno a questa parte, magari non bello come altri esiti di Carpenter ma capace di tornare attuale, e questo qualcosa vorrà pur dire.

Base antartica U.S. Outpost 31. Mentre il personale della spedizione statunitense si rilassa all'interno della struttura un elicottero inizia a sorvolare la stazione scientifica; il veicolo è di proprietà dell'equipe norvegese di stanza a qualche chilometro dagli americani, i due uomini a bordo inseguono per le lande ghiacciate un esemplare di husky tentando di abbatterlo a fucilate. Nell'inseguire il cane, una volta a terra, uno dei due norvegesi distrugge per errore l'elicottero uccidendo il suo compagno, nel tentativo forsennato e ripetuto di terminare il cane ferisce inoltre uno degli americani usciti dalla stazione per vedere cosa stesse accadendo. All'apparenza impazzito, il norvegese viene abbattuto dal comandante Garry (Donald Moffat). Per capire qualcosa della strana faccenda il pilota MacReady (Kurt Russell) e il dottor Copper (Richard Dysart) si recano all'accampamento norvegese trovandolo completamente bruciato, tra i resti del sito trovano un corpo deforme carbonizzato. Tornati alla base il dottor Blair (Wilford Brimley) esegue un'autopsia sul corpo trovandoci all'interno organi perfettamente normali. Poco dopo l'husky, per sicurezza rinchiuso insieme agli altri cani della spedizione scientifica, si rivela essere posseduto da un'entità capace di mutare la fisionomia dei corpi e di saltare da un ospite all'altro rendendo impossibile, o molto difficile, la sua identificazione da parte dei membri della base. Per i membri della spedizione americana si aprirà una corsa contro il tempo per individuare l'essere alieno mentre il clima di sospetto e diffidenza per l'altro cresce sempre di più.

Sono due gli elementi che rendono un film come La cosa interessante ancora oggi: il primo è l'uso di effetti speciali che nonostante gli anni sul groppone si fanno ben apprezzare a dispetto del passare del tempo; i corpi che si piegano e si deformano oltre le possibilità del naturale fanno ancora il loro sporco lavoro, all'epoca queste soluzioni visive erano senza dubbio eccezionali, furono un po' eclissate dall'uscita di E.T. - L'extraterrestre di Spielberg che, visto il successo del film, monopolizzò l'attenzione anche sul versante effetti speciali (oscar a Rambaldi); il secondo è la riflessione sociale, l'elemento esterno che porta scompiglio e fa nascere all'interno di una comunità la diffidenza per l'altro, quello che fino a poco prima era visto come un amico ora è un pericolo, potenziale portatore di malattia e morte. Una dinamica che torna in auge come metafora del Covid, abbiamo sotto gli occhi una società prontissima a gridare all'untore in maniera indegna, esseri umani pronti a spararsi addosso uno con l'altro, come accade nel film di Carpenter, nei comportamenti estremi della finzione possiamo leggere le nostre peggiori tendenze: il sospetto, l'accusa, l'emarginazione del nostro prossimo, senza volerlo il film di Carpenter ci parla del nostro oggi. Buona la regia che si gioca su queste fascinose lande innevate e all'interno della claustrofobica stazione scientifica, la struttura e la sceneggiatura del racconto sono molto classiche, non sempre entusiasmanti e, nonostante le successive rivalutazioni del film, io continuo a pensare che comunque Carpenter abbia fatto di meglio. Da recuperare ma senza approcciarsi all'opera con aspettative troppo elevate.

giovedì 21 aprile 2022

TRUE DETECTIVE - STAGIONE 2

(di Nic Pizzolatto, 2015)

Tanto è stata osannata da critica e pubblico la prima (bellissima) stagione di True detective quanto criticata e poco apprezzata questa seconda che rispetto alla precedente si presenta in effetti con un bello scarto da ciò che gli spettatori avrebbero potuto aspettarsi dalla testa e dalla penna di Nic Pizzolatto. Ma se non ci fosse stato ad aprire le danze quel viaggio incredibile verso Carcosa, avremmo disprezzato poi così tanto questa immersione nel corrotto mondo della città di Vinci? Probabilmente no. Intendiamoci, non è che questa seconda stagione sia priva di difetti, anzi, ne ha diversi e nell'economia globale degli otto episodi questi a più riprese vengono fuori, pesano e si fanno sentire, nel complesso però non mi sento di condannare una narrazione che presenta comunque diversi motivi di interesse ed è stata confezionata con grande professionalità, fermo restando l'indubbia distanza dall'esordio che vide protagonisti Harrelson e McConaughey qui rimasti in veste di produttori esecutivi. Se l'anno precedente si era imbastita una narrazione fatta di omicidi seriali, sentori arcani, ricostruzione precisissima, qui si affonda nella corruzione e nel noir e come spesso accade con questo genere, e lo sottolineo venendo fuori da poco dalla lettura di Questa tempesta di Ellroy, uno che può a pieno diritto essere considerato il re del noir, le trame e le sottotrame sono talmente ingarbugliate che non è affatto improbabile perdere il filo della narrazione e a tratti subire una sensazione di smarrimento e di perdita di lucidità, sensazione che non manca di emergere anche durante la visione di questa stagione di True detective.

Vinci (ispirata alla reale Vernon) è una città del distretto di Los Angeles: scarsa popolazione, un mare ininterrotto di acciaio, asfalto, industrie e una corruzione a livelli tra i più alti di tutti gli Stati Uniti. In questo territorio disastrato si incrociano le giurisdizioni della polizia cittadina, di quella della Contea di Los Angeles e quella della polizia di Stato. Nel passato del detective Ray Velcoro (Colin Farrell) c'è qualcosa di oscuro, una soffiata da parte di un imprenditore legato a tutto ciò che a Vinci c'è di illecito, Frank Semyon (Vince Vaughn), consegna a Ray il nome dello stupratore di sua moglie. Nel presente Frank sta per chiudere un grosso affare legato alla linea dell'alta velocità; il suo socio e consigliere della città Ben Caspere però non si presenta a un incontro fondamentale per la chiusura dei contratti, verrà trovato morto dall'agente della stradale Paul Woodrugh (Taylor Kitsch), un reduce di guerra tormentato e ingiustamente accusato di molestie sessuali da un'attricetta di Hollywood. In contemporanea in città si trova anche la polizia della Contea che nella persona del detective Antigone Bezzerides (Rachel McAdams) sta indagando su un giro di prostituzione. Al momento dell'omicidio di Caspere si presenta un problema giurisdizionale, verrà così creata una task force che coinvolgerà i vari dipartimenti e che vedrà collaborare Velcoro (in odore di corruzione), la difficile Bezzerides e Woodrugh, ognuno dei loro diretti superiori ha scopi reconditi precisi che vanno ben oltre l'indagine di omicidio avvenuto in una città dove i problemi sono molto più profondi e i personaggi chiamati in causa, a partire dal sindaco Chessani (Ritchie Coster), tutt'altro che puliti.

Come accennavamo sopra, inutile cercare di raccapezzarsi proprio su tutte le svolte di trama e sugli intrecci di corruzione in una città che vive in pratica solo di quello; rispetto alla prima stagione raddoppiano i personaggi su cui focalizzarsi, tre detective, uno più incasinato dell'altro, e un criminale che a conti fatti sembra essere il più presente a sé stesso, un po' perché il suo passato viene solo frettolosamente accennato, un po' perché è l'unico che goda di un appoggio reale, quello dell'amata Jordan (Kelly Reilly). È quindi lecita un po' di confusione da parte degli spettatori (meno lecita quella generata dalla sceneggiatura), l'amalgama si diluisce in parte anche a causa della direzione a molte mani dei vari episodi mentre l'esordio di True detective era invece stato diretto in toto dallo stesso (talentuoso) regista. Nulla da dire sulla realizzazione, le puntate sono ben girate ma senza quell'inventiva che garantiva Cary Joji Fukunaga, in alcuni passaggi si guarda in maniera sfacciata ad alcuni maestri (Lynch in più di un passaggio) senza però trovarne mai il senso o l'efficacia, il difetto più marcato e la frequente perdita di ritmo: se con Rust e Marty si rimaneva incollati allo schermo senza soste qui può capitare di distrarsi più facilmente, non sempre la narrazione gira in maniera fluida e lungo il corso delle otto puntate si avvertono diverse battute d'arresto. La location, pur non essendo intrigante come le paludi della Louisiana, ha un suo fascino infernale con l'incubo di quelle autostrade d'asfalto infinite a incrociarsi sopra, sotto, a destra e a sinistra, con anelli, raccordi e svincoli che conducono a una devastazione industriale quasi post apocalittica. Ben scritti i personaggi, fin troppo problematici, pur non essendo interpretati da attori che di solito incontrano il mio favore devo ammettere che le prove del cast sono tutte davvero buone, alla fine ci si affeziona anche a questi nuovi protagonisti, compreso quel delinquente di Vince Vaughn. Nel complesso non male, qualche difetto ma anche molti punti di interesse, paga più che altro il confronto con l'illustre predecessore ma alla fine anche da questa seconda stagione non si esce delusi, probabilmente un po' troppo bistrattata. Da rivalutare.

lunedì 18 aprile 2022

QUESTA TEMPESTA

(This storm di James Ellroy, 2019)

Questa tempesta è il secondo capitolo della seconda quadrilogia losangelina ideata da James Ellroy, siamo di fronte a un libro (e più in generale a un corpo d'opera) poco adatto al lettore occasionale, quello creato nel corso di una carriera ormai lunga quarant'anni è un affresco corale che senza soluzione di continuità lascia confluire l'inventiva dello scrittore di L.A. tra i meandri più oscuri della storia americana. Romanzo dopo romanzo molti dei protagonisti scritti da Ellroy tornano e incrociano le loro strade uno con l'altro e con numerosi personaggi reali presi di peso dal mondo dello spettacolo americano, dalla politica, dal corpo di polizia di Los Angeles, andando a creare scenari spesso intricatissimi e di decifrazione non immediata, basti pensare al fatto che in coda all'edizione di Questa tempesta edita da Einaudi è presente un'appendice denominata dramatis personae che riassume l'elenco dei protagonisti, è un'appendice di sei pagine dove si contano ben novantuno personaggi che a vario titolo fanno la loro comparsa nel corso del corposo romanzo (844 pp.). Questi protagonisti, alcuni fondamentali, altri molto importanti, altri ancora necessari, altri poco più che comparse, sono per la gran parte nomi noti ai fan di Ellroy, sconsigliato quindi entrare per la prima volta nel mondo dello scrittore da questa porta, l'ideale sarebbe ripercorrerne le opere in ordine cronologico d'uscita o per lo meno approcciare questo mondo iniziando con Perfidia, primo capitolo di questa tetralogia che rispetto all'L.A. Quartet e all'American Underworld Trilogy è ambientata in un'epoca precedente, nella fattispecie siamo nei primi mesi del 1942, subito dopo l'attacco di Pearl Harbor. Quindi solo per amanti delle narrazioni corali estreme, i personaggi sono tantissimi e anche per chi (come chi scrive) ha letto tutti i capitoli precedenti della bibliografia dell'autore a volte non è facile raccapezzarsi tra i mille rimandi, cucire insieme le tappe della vita dei protagonisti disseminate nel tempo e far quadrare il cerchio di una narrazione più che intricata, almeno fino a che giungerà il momento di tirare i fili avvicinandosi al finale.

Questa tempesta, questo disastro devastante. La storia, la guerra, creano opportunità in mezzo al disastro devastante che è la vita, che è la società americana, che è una nazione fondata sulla violenza, su losche complicità, sulla vanità, su desideri perversi, sul vizio, sull'incuranza nel calpestare l'altro per i propri scopi e poi corrompere, occultare, compartimentare, ricattare, eliminare, tradire, sfruttare, rinnegare. Non so se la definizione di Joyce Carol Oates che indica Ellroy come il Dostoevskij americano possa essere calzante, indubbiamente Ellroy è tra i re del noir, forse è IL re del noir, e forse ancora Ellroy è addirittura oltre il noir; la narrazione di Ellroy è più nera del nero, è immersa in un marciume dove le speranze sono flebilissime, dove i personaggi che sembrano avere un rimasuglio di umanità sono comunque corrotti, feriti o sporcati da decisioni prese, da errori passati, da voltafaccia repentini, mossi da opportunismi o da passioni smodate, qui immersi nella tempesta che segue l'attacco di Pearl Harbor, in un momento storico dove nasce la caccia al giapponese, campi di internamento su suolo americano vengono creati in fretta e furia, i diritti cancellati, le ideologie implodono per collidere in nuove opportunità grette e malate: rossi e neri, nazisti e comunisti, sinarchisti, accomunati da ossessioni e visioni distorte. È una tempesta vera quella riporta alla luce un cadavere bruciato e sepolto da tempo, la linea di indagine confluirà in una vecchia e irrisolta storia concernente una rapina al treno, neanche fossimo nel vecchio west, una rapina durante la quale sparì un ingente quantitativo d'oro, in parallelo due poliziotti corrotti dell'L.A.P.D. vengono uccisi in una casa di piacere ambigua in compagnia di un messicano sconosciuto. A seguire la pista dell'oro e a cercare una chiusura al caso degli agenti morti, una chiusura solo se possibile veritiera e pulita, ci sono il giapponese della scientifica Hideo Ashida che porta in giro una faccia che in quel preciso momento storico attira odio e disprezzo da tutte le parti, il corrottissimo Dudley Smith, irlandese senza scrupoli deciso a sfruttare la guerra con un traffico di clandestini (e altro) tra Messico e California, i componenti di una strana fazione sospettati di far parte della Quinta Colonna ma con una serie intricata di relazioni e segreti da nascondere (o da portare alla luce), la rossa e decisa Kay Lake direttamente dalle pagine di Perfidia, i sinarchisti messicani, la giovane e bella Joan Conville reclutata da Bill Parker nel Dipartimento di Polizia di Los Angeles e proveniente dalla marina militare, e c'è anche Elmer Jackson, poliziotto al quale le manovre di Dudley Smith non piacciono molto, ma non pensiate che lui sia uno stinco di santo. I destini di questi e tantissimi altri personaggi sono destinati a incrociarsi e in qualche modo a convivere con la Storia, in una tela torbida di intrighi nella quale è difficilissimo districarsi.

È un libro ostico Questa tempesta, anche per chi già conosce l'opera di Ellroy, figuriamoci per chi non è addentro alle dinamiche dello scrittore e non ha nessuna infarinatura sui personaggi e sugli eventi trattati dallo stesso. Oltre alla necessaria conoscenza di base, almeno del precedente Perfidia, il lettore che approcciasse per la prima volta un romanzo di Ellroy si troverebbe a dover fare i conti con uno stile di scrittura che ha sì trovato un suo perfetto equilibrio ma che potrebbe ad ogni modo risultare difficile da digerire per un novizio. Per chi è già aduso agli scritti dell'autore losangelino l'impressione è che la prosa dello scrittore in Questa tempesta sia a un punto di cesellatura ottimale che non snatura il suo stile personale, essenziale, febbricitante, secco e tagliente, spesso difficile per chi non lo ha ancora assimilato a dovere, ma che viene qui aiutato da capitoli tutto sommato brevi e da alcuni momenti di riassunto dove si tirano un po' i fili della narrazione. Il difficile viene proprio dal contenuto, dalla moltitudine esagerata di personaggi ed eventi, dalla fatica che si fa a seguire le varie diramazioni degli stessi e a collocarne all'interno i molti protagonisti secondari. Se si è il classico lettore che pretende di unire tutti i puntini, conoscere tutto di tutti senza soprassedere su qualche dimenticanza (della propria memoria, non di Ellroy) e su qualche fraintendimento qua e là qui c'è davvero da impazzire, piuttosto leggete altro. Bisogna entrare nel mood e farsi trascinare da questa tempesta, da questo disastro devastante, allora e solo allora ci si potrà godere il viaggio. Detto questo rimane il fatto di come Questa tempesta non si collochi tra i migliori esiti di Ellroy, probabilmente un approccio più chiarificativo in diversi passaggi avrebbe giovato alla narrazione che a tratti, pur amando e conoscendo lo scrittore, si fa effettivamente pesante, anche nella mole di battute un taglio probabilmente da molto pubblico non sarebbe stato malvisto, anzi. Quindi a conti fatti vale la pena? Domanda inutile, perché se siete fan di Ellroy il libro dovrete leggerlo per forza, altrimenti il prossimo potrebbe essere un vero incubo da seguire, è un mondo in continuo fermento ed espansione quello di Ellroy, con Questa tempesta faticherete, probabilmente più che con altri suoi scritti, ma Ellroy è così, non è facile, prendere o lasciare, non è uno che si legge per passare un po' di tempo.

sabato 16 aprile 2022

SUCKER PUNCH

(di Zack Snyder, 2011)

Senza tanti giri di parole uno dei film più brutti e più stupidi che mi sia capitato di vedere negli ultimi anni, con un pizzico di pretenziosità come condimento, un buon esempio di come non si dovrebbero sprecare risorse al cinema. E dire che Zack Snyder non aveva nemmeno iniziato male: il suo L'alba dei morti viventi con i suoi zombi agili e veloci era parecchio divertente, era riuscito a mettere mano al materiale di Alan Moore creando con Watchmen un adattamento ovviamente non all'altezza dell'opera d'origine ma per lo meno con una sua dignità, poi il crollo con i lavori per DC Comics e l'animazione di Ga'Hoole, tutti prodotti a mio parere che tendono a sfociare nella noia pur presentando qualche buono spunto qua e là. Nel corso degli anni Snyder si crea anche una sorta di marchio d'autore legato essenzialmente alle sue scelte stilistiche ed estetiche (francamente discutibili) e che si ripropongono anche in questo Sucker punch che, senza volerne svilire l'arte, ha tutte le caratteristiche di uno sparatutto videoludico. Ora i premi per i film peggiori ci sono, sono i Razzie Awards, e Sucker Punch non l'ha vinto (sono andato a controllare), mi chiedo cosa possano essere stati i film vincitori che concorrevano quell'anno nelle varie categorie.

La giovane Babydoll (la ragazza pare non avere un nome, la interpreta Emily Browning) è in balia del patrigno (Gerard Plunkett) che ambisce all'eredità dell'ex moglie deceduta la quale però lascia tutti i suoi averi alle due figlie, una uccisa poi dallo stesso patrigno e l'altra, Babydoll appunto, fatta rinchiudere in attesa di una bella lobotomia alla Lennox House, un istituto parecchio ambiguo. Durante la sua permanenza Babydoll cade in una sorta di mondo onirico dove l'istituto diventa una casa di appuntamenti gestita dal crudele Blue (Oscar Isaac) dove belle giovinette vengono addestrate all'arte della danza da Madam Gorski (Carla Gugino) al fine di incantare facoltosi clienti. Babydoll è destinata alle cure del Giocatore al quale sarà ceduta nel giro di cinque giorni, in questo tempo nel mondo onirico creato da Babydoll (?), la ragazza e alcune sue compagne di prigionia dovranno rintracciare alcuni oggetti che permetteranno loro la fuga dalla struttura, resta da vedere chi di loro riuscirà a guadagnarsi la libertà, a costo di quali sacrifici, e quali e quante prove dovranno sostenere per farlo prima di essere di nuovo finalmente libere. Insieme a questa inaspettata leader a tentare la fuga ci saranno Sweet Pea (Abbie Cornish), Rocket (Jena Malone), Blondie (Vanessa Hudgens) e Amber (Jamie Chung).

Troppo di tutto e tutto troppo noioso, la voglia di premere il tasto stop del player si manifesta non oltre i primi venti minuti del film, dopo un'ora si è maledetto Zack Snyder almeno dieci volte. Il film ha la struttura a quadri di un videogioco, alcune dinamiche sono prive di senso, l'intera sceneggiatura (ho davvero usato la parola sceneggiatura?) sembra una mera scusa per inanellare sequenze di combattimento immerse in un'estetica digitale che mortifica l'occhio dopo quindici minuti di effetti continui e senza sosta (e senza scopo), indubbiamente le cinque protagoniste sono delle belle ragazze, agghindate per colpire l'occhio e piacere al pubblico ma che emanano in questo contesto la sensualità di una scatola da scarpe, anche Oscar Isaac riesce a farsi protagonista di una prova incolore e dimenticabile. I siparietti videoludici che dovrebbero essere il pezzo forte del film sono i momenti migliori per fare una capatina in bagno senza mettere in pausa il film (tanto sono interessanti), in più si adduce anche una lettura psicologica su quanto le donne debbano lottare per barcamenarsi in questo mondo, per carità, tema nobile ma che qui dentro sembra davvero campato per aria. Semplicemente brutto. Non pago di pescare da questo e da quell'altro immaginario, Snyder riesce anche ad adoperare male dei grandi pezzi musicali, orrore nell'orrore. Vogliamo fare un videogioco? Benissimo, allora facciamo un videogioco, il cinema è un'altra cosa.

giovedì 14 aprile 2022

FREAKS OUT

(di Gabriele Mainetti, 2021)

Il cinema italiano ha bisogno di gente come Gabriele Mainetti, un ambizioso (nel senso più positivo del termine) innamorato della settima arte che non si lascia imbrigliare dalla difficoltà del "fare cose" in un sistema Italia dove molto probabilmente si recuperano fondi e ci si muove in maniera più macchinosa che in altre parti del mondo e dove è comunque difficile tirar su una produzione multimilionaria per scommettere su un genere nuovo o comunque da noi poco battuto e, prima dell'arrivo di Mainetti, lambito anche con scarsi risultati. Invece Mainetti tira dritto e cerca di ricreare quella Hollywood sul Tevere che per noi spettatori dello stivale altro non può essere se non un sogno, un'idea di cinema che sembra non appartenerci ma che in fondo, il regista ce l'ha mostrato già due volte, è tutto sommato possibile. Tutto sta nel fare quel che fanno con risorse decisamente più ampie i colossi d'oltreoceano, Disney con il brand Marvel per esempio o la Warner con quello DC, credendoci e mantenendo un'idea di identità nazionale, una sensibilità nostrana molto forte, capace di rendere almeno per il pubblico italiano i personaggi di questi film molto più umani, reali e vicini di quello che potrebbero sembrare sulla carta (carta intesa come "idea alla base" e non come fumetto, anche se vedere i Freaks o Jeeg Robot su tavola sarebbe curioso e interessante). L'approccio di Mainetti ha davvero pochi eguali in Italia (per alcuni versi qualche sortita di Garrone) ma anche in Europa non ci sono molti esempi di produzioni simili, l'unico nome che al volo viene alla mente è quello di Luc Besson, unica "superpotenza" europea con l'ardire di rivaleggiare con gli americani sul loro stesso terreno (animazione, action movies, fantascienza con un certo dispendio di risorse). Per tutta una serie di ragioni il cinema di Mainetti sarebbe da supportare a prescindere, che poi quelli del regista romano siano anche degli ottimi film è tutto grasso che cola, peccato il flop in sala di questo Freaks out che ha pagato l'onda lunga della pandemia incassando (secondo i dati disponibili) circa due milioni e mezzo di euro sui tredici spesi per la realizzazione, ma siamo convinti che Mainetti non si lascerà turbare da questo.

Roma, seconda guerra mondiale. In un clima di terrore e incertezza nel futuro il circo Mezzapiotta dell'ebreo Israel (Giorgio Tirabassi) riesce a donare al suo pubblico un senso di meraviglia altrimenti minacciato dalla realtà incombente, qualche brivido, molte risate e tanta emozione. A esibirsi ci sono il colosso forzuto coperto di peli Fulvio (Claudio Santamaria), l'albino e puzzolente Cencio (Pietro Castellitto), capace di comandare gli insetti, il nano magnetico Mario (Giancarlo Martini) e la giovane e innocente Matilde (Aurora Giovinazzo), una conduttrice d'elettricità incapace di governare pienamente il suo "dono". Mentre il conflitto diventa sempre più cruento e i rastrellamenti nazisti sempre più frequenti Israel pianifica un trasferimento in America per i suoi freaks, Fulvio però non è d'accordo e vorrebbe unirsi al Berlin Zircus, un circo lussuoso e prestigioso fondato dal nazista Franz (Franz Rogowski), un sublime pianista, sei dita per mano, dotato anche del potere della preveggenza, ossessionato dai fenomeni mutati in una delle sue visioni preconizza il suicidio di Hitler e vede la salvezza del Reich a opera di quattro freaks superumani. Le strade di Israel, di Matilde e degli altri tre componenti della compagnia si separano, torneranno a unirsi solo in un momento di grandissimo pericolo per tutti, in loro aiuto una stramba banda di partigiani mutilati. Il finale sarà letteralmente esplosivo.

Con Freaks out Mainetti riesce ad aggiungere ai risultati già ottimi ottenuti con il precedente Lo chiamavano Jeeg Robot anche quel senso di genuina meraviglia che sanno far nascere le favole nel cuore dei bambini, succede nelle sequenze iniziali durante l'esibizione degli artisti del circo Mezzapiotta, purtroppo il tutto dura poco, irrompe presto la guerra. Si barcamena bene tra fantastico e storico (virato al grottesco) Mainetti, aiutato dalla sceneggiatura scritta con Guaglianone, l'impianto è ovviamente fantastico e come già accadeva con il film precedente si legge la passione per il racconto supereroico, se il riferimento citato a chiare lettere è ai Fantastici 4, per spirito i nostri personaggi sono molto vicini agli X-Men, un gruppo di diversi con difficoltà a integrarsi nella società e con dei doni che sono visti da alcuni di loro come vere e proprie maledizioni, il parallelo più facile è quello tra Matilde e Rogue, entrambi personaggi con difficoltà nelle relazioni a causa dei loro pericolosi poteri e con un passato di tragedia alle spalle (ma sul finale si guarda a un'altra X-eroina). Grande intuizione anche per i cattivi, sia lo zingaro di Marinelli in Lo chiamavano Jeeg Robot che il Franz di Freaks out trovano due interpreti ottimi e tengono bene la scena donando al racconto una nemesi di peso, caratteristica fondamentale nel genere e spesso fallita anche nei film dei grossi calibri di Marvel e DC Comics. Inoltre Mainetti è meno pudico dei colleghi d'oltreoceano, e quindi le brutalità della guerra, il sesso tra mostri, le scene più truci ma anche tanta delicatezza e un principio di poesia popolare che qui in mezzo non stona. Difficile immaginare come il regista possa ancora rilanciare la sua splendida idea di cinema, sperando che nessuno gli metta i bastoni tra le ruote visti gli ultimi incassi, noi possiamo solo sostenerlo: daje Gabriele, nun mollà!

sabato 9 aprile 2022

UNRELATED

(di Joanna Hogg, 2007)

Quello di Joanna Hogg è un nome pressoché sconosciuto al grande pubblico italiano; la regista, sceneggiatrice e produttrice britannica arriva al suo esordio cinematografico nel lungo solo nel 2007 con questo Unrelated dopo parecchi anni di lavoro per la televisione inglese. Proveniente dalla società bene d'albione (andò a scuola con Lady Diana e Tilda Swinton) in questo suo esordio la Hogg mette in scena proprio alcune famiglie benestanti inglesi in vacanza in Italia, in un casolare nelle campagne toscane nei dintorni di Siena. Unrelated è un film a bassissimo budget, girato in maniera molto naturale e senza artifici di sorta, riprese consequenziali, ordine cronologico e costruzione delle scenografie e scelta dei costumi molto spartana, adesa il più possibile al reale proprio per la necessità di rientrare nei costi, sembra addirittura che il cast, nel quale spicca un giovanissimo Tom Hiddleston al suo esordio, alloggiasse proprio nel casolare dove il film veniva girato per evitare di sforare il budget a disposizione. Nonostante l'incombenza del fare di necessità virtù, il film raccoglie critiche più che positive e ottiene il premio Fipresci della critica al Festival del cinema di Londra.

Anna (Kathryn Worth) è stata invitata dalla sua amica di vecchia data Verena (Mary Roscoe) a passare qualche settimana di vacanza nel casolare in Toscana che la donna e la sua famiglia hanno affittato per l'estate. Qui, oltre alla sua amica, Anna troverà il secondo marito di lei, Charlie (Michael Hadley), suo cugino George (David Rintoul) con suo figlio Oakley (Tom Hiddleston), i due figli di Verena, Jack (Henry Lloyd-Hughes) e Badge (Emma Hiddleston, sorella di Tom), e Archie (Harry Kershaw), il figlio nato dal primo matrimonio di Charlie. Passa poco tempo prima di scoprire che Anna ha accettato questo periodo di vacanza per stare un po' lontana dal compagno Alex (che sentiamo solo a telefono) con il quale è evidente che la donna abbia dei problemi. Nel corso della vacanza Anna si sente sempre più in sintonia con il gruppo di ragazzi, inizia a uscire con loro allontanandosi un po' da Verena e dagli altri adulti; assecondando queste dinamiche Anna si sente sempre più attratta dall'esuberante Oakley, carismatico cuore del gruppo di giovani, iniziando poco a poco a flirtare discretamente con lui. Sarà un incidente, per fortuna senza grosse conseguenze per nessuno, a scombinare un po' gli equilibri e incrinare il rapporto di Anna sia con il gruppo di giovani che con quello dei suoi coetanei.

Racconto intimo inserito in una narrazione naturale, senza scossoni, che presenta situazioni quotidiane: serate a bordo piscina, pomeriggi nel verde delle colline, una visita a Siena, giochi di società, un po' d'alcool, cene, colazioni; nel mezzo di tutto questo il rapporto in crisi tra la protagonista Anna e il lontano Alex. Durante questa vacanza Anna ha modo di riscoprirsi come donna lontana dal focolare domestico (che non vediamo mai) e per un periodo libera da quelli che intuiamo essere vincoli un po' opprimenti, portatori di scontento e infelicità, tensioni, tutte cose che scopriremo poi legate a una ragione specifica. Quello che la Hogg ci mostra è una donna che si libera nella lontananza dal suo quotidiano e riprende vita, sentendosi dentro di lei più giovane di quel che le convenzioni e la sua situazione affettiva la costringono a essere, più entusiasta, esuberante e pronta a lasciarsi travolgere (con garbo) da emozioni che pensava ormai sepolte, belle, appaganti e che nella vita di tutti i giorni considerava probabilmente accantonate per sempre e abbandonate. Quelli ritratti dalla regista sono momenti, passaggi con i quali tutti possono trovarsi a dover fare i conti, chiusi magari in rapporti abitudinari dove le emozioni intense latitano si trova sfogo, spesso in maniera platonica, intima, anche inespressa, nell'attrazione o nell'amore per qualcun altro. La regia è molto semplice, lineare, alterna i bei panorami toscani a qualche interno e alcune riprese notturne. Spiccano nel cast Kathryn Worth, interprete di una buona prova, e un esuberante Tom Hiddleston già talentuoso ben prima di vestire i panni del Loki di casa Marvel (anche perché qui panni spesso ne indossa pochi). Unrelated non è un film capace di esaltare, è cinema lieve, ben curato nei rapporti tra i protagonisti e nei sentimenti, che esplora momenti di crisi (anche nel rapporto tra Oakley e il padre) e che come spesso succede nella realtà, alla fine chiude senza grandi stravolgimenti, tanto da sembrare nulla più che la descrizione di un attimo.

giovedì 7 aprile 2022

HAMBURGER HILL: COLLINA 937

(Hamburger Hill di John Irvin, 1987)

Il cinema sulla guerra del Vietnam ha prodotto tantissimo, sia in maniera diretta con i film ambientati in toto o almeno in parte al fronte, sia in modo indiretto occupandosi delle proteste e dello sdegno dell'opinione pubblica dell'epoca (da poco abbiamo parlato di Ciao America! di De Palma per dirne uno). Il problema di Hamburger Hill, film più che dignitoso, è quello di inserirsi all'interno di un gruppo nutrito nel quale spiccano diversi capolavori e numerosi film di livello, venendone schiacciato in maniera quasi inevitabile. Per i più smemorati, ma anche solo per il piacere di farlo, ricordiamo che il film di Irvin è stato preceduto da opere come Un mercoledì da leoni di Milius, Il cacciatore di Cimino, Apocalypse now di Coppola, Rambo e Fratelli nella notte di Kotcheff, Platoon di Stone, Full metal jacket di Kubrick, Good morning Vietnam di Levinson ed è stato poi seguito da De Palma con Vittime di guerra, da Tsui Hark con A better tomorrow III e ancora Stone con Nato il quattro Luglio, dallo splendido e durissimo Bullet in the head di John Woo e chissà da quanti altri ancora. Capite che emergere qua in mezzo diventa veramente dura per tutti, ciò nonostante, soprattutto di questi tempi dove ricordare la brutalità e la mancanza di senso di ogni conflitto armato è doveroso, Hamburger Hill vale la visione per la capacità di Irvin d'indagare i personaggi, quei ragazzi catapultati nella mischia, e tirarne fuori gli aspetti più intimi, nonostante il film si svolga nel mezzo dell'azione e nell'inferno delle giungle del Vietnam (in realtà sono quelle delle Filippine dove è stato girato il film).

Episodio storico. 1969, Vietnam del Sud ai confini con il Laos. L'esercito americano sta da tempo tentando di conquistare la valle di A Shau, un nome che per la 101ª divisione aviotrasportata del sergente Franz (Dylan McDermott) fa ancora accapponare la pelle. Sono state diverse le operazioni tenutesi in questa zona, ai veterani della divisione e alle nuove reclute toccherà tornare su quelle alture per tentare di conquistare la vetta 937, posizione strategica e ben difesa dall'esercito nordvietnamita, all'apparenza fondamentale per i capoccia che dirigono le manovre con il sedere bene al caldo. Prima del trasporto nella valle e dell'assalto alla cima i componenti della divisione hanno tempo di conoscersi meglio tra di loro, di scambiarsi le proprie opinioni sulla sporca guerra, di tornare con la mente a casa, alle loro famiglie, alle donne che (forse) li aspettano, nascono poi contrasti e amicizie, si affronta la questione razziale sottoposta con continuità al gruppo dal medico di colore Doc (Cortney B. Vance), supportato da Washburn (Don Cheadle) e da Motown (Michael Boatman), si familiarizza con la popolazione locale, soprattutto con le belle vietnamite che fanno la professione più vecchia del mondo. Poi arriva l'ordine, la missione prende forma e sarà un'insensata macelleria dove molti dei corpi straziati di questi giovanissimi ragazzi rimarranno a terra donando poi alla collina 937 il triste nome di Hamburger Hill.

È un buon film Hamburger Hill, non fa sconti su quanto atroce sia la guerra, è diretto e, seppur molto riflessivo nella prima parte, quando si entra nel vivo dell'azione Irvin non fa sconti: insensatezza degli ordini, disorganizzazione, fuoco amico, strazio dei corpi, tutto l'orrore legato a giovani vite gettate nel cesso per niente, per interessi e decisioni prese da vili burattinai, tutte cose che purtroppo continuiamo a vedere ancora oggi. Un po' retorica, magari anche comprensibile ma poco condivisibile, la tirata sul sacrificio dei soldati, giovani eroi morti per il proprio Paese. A questa visione è ora di dire basta se si vuole pensare a un mondo di pace, che non si può costruire con gli eserciti, con le armi, con gli eroi e con i 2% di Pil. Queste non sono soluzioni, sono vergogne. Molto buona la regia di Irvin che crea un'ottimo rapporto tra camera e luoghi: i paesaggi sono magnifici, l'immersione negli stessi dei membri del cast riesce a donare interesse sia alle riprese dei momenti più pacati, con i tanti dialoghi tra i componenti della squadra, sia a quelle dinamiche dell'attacco alla collina, postazione che nella realtà si rivelò inutile e presto abbandonata dall'esercito americano, dopo che la sua conquista valse la vita di più di settanta soldati e altri quattrocento feriti. Ottima scelta del cast che vanta qualche nome noto ma nessuna star (Cheadle all'epoca non era famoso come oggi), ben giostrate le dinamiche tra i vari caratteri dei numerosi ragazzi in scena, colonna sonora da sottolineare con Otis Redding, The Spencer Davis Group, Percy Sledge, gli Animals e parecchi altri nome di valore. Certo, film miglior sul 'Nam ne abbiamo visti, parecchi anche, ma ciò non toglie meriti a un film che riesce a stare con una sua dignità all'interno di un segmento davvero molto ingombrante.

martedì 5 aprile 2022

THE MYTH OF THE AMERICAN SLEEPOVER

(di David Robert Mitchell, 2010)

Il titolo riassume per bene il contenuto del film e l'aura di "mito" che si porta dietro, non solo per i giovani americani ma anche per tanti consumatori di cultura pop proveniente da oltreoceano cresciuti a teen movie e serie tv per adolescenti. The myth of the american sleepover non è altro che "il mito del pigiama party americano", né più né meno, dove questo è metafora di tutto un discorso sulla fine dell'adolescenza, sul passaggio a un'età (non ancora) adulta, sulle grandi aspettative ma anche sui rimpianti che l'atto del crescere può far nascere nei giovani ragazzi che, ognuno secondo la propria indole, affronteranno il momento delicato e importante in maniera diversa e peculiare. Se questo genere di film, molto codificato, rimanda alla mente episodi goliardici e alla ricerca di un passaggio all'età adulta che i giovani di ambo i sessi cercano usualmente di sublimare attraverso l'atto sessuale, la perdita della verginità e il raggiungimento di una maturità da esibire e che possa portare anche una maggior sicurezza nelle prove a venire che il mondo presenterà a questi giovani uomini e donne in divenire, nel film di David Robert Mitchell, regista che arriverà al successo con il successivo It follows, pur rimanendo i temi e i desideri di fondo pressoché inalterati, si affronta il tema con una delicatezza quasi malinconica e un piglio autoriale, da cinema indie, che rende il racconto, pur semplice e non rivoluzionario, decisamente interessante e in una certa misura toccante, soprattutto nelle ingenuità di alcuni dei suoi (bei) protagonisti.

Un placido sobborgo di un qualsiasi paesotto americano: casette a schiera, vialetti d'ingresso, prati ben curati. Per molti ragazzi si avvicina il momento di andare al college, qualcuno dei loro fratelli (o sorelle) maggiori attraversa già momenti di spaesamento, sente il macigno del dubbio incombere sul percorso verso l'età adulta. Per la maggior parte di questi giovani c'è il desiderio di crescita, d'avventura, di conoscenza dell'altro. Claudia (Amanda Bauer), nuova della zona, viene invitata da Jeanelle (Shayla Curran) a un pigiama party al quale parteciperanno molte ragazze della scuola, sarà l'occasione per Claudia di conoscere un po' le sue future compagne e magari farsi qualche amica. Nel frattempo Rob (Marlon Morton), mentre fa la spesa al supermercato, viene folgorato nella corsia dei prodotti per il corpo da una bella e bionda ragazza sconosciuta (Amy Seimetz). Maggie (Claire Sloma) invece sembra decisa a divertirsi prima di iniziare il college, in piscina adocchia Steven (Douglas Diedritch), lo incontrerà nuovamente la sera, a una festa privata alla quale andrà insieme all'amica Beth (Annette DeNoyer) disertando il pigiama party di Jeanelle. Lo stesso giorno torna a casa Scott (Brett Jacobsen), dopo aver rotto con la sua ragazza rientra da Chicago intenzionato a lasciare il college; preso da un moto di nostalgia chiede alla sorella Jen (Mary Wardell) come rintracciare le gemelle Abbey (Nikita e Jade Ramsey), intraprenderà uno sconclusionato viaggio per inseguire una strana fantasia. Arriva la sera, le ragazze si ritrovano al party, Rob cerca la sua sconosciuta per tutto il paese, Scott è alla ricerca delle gemelle in un campus fuori città, Maggie riesce a conoscere un po' meglio Steven. Per tutti sarà un momento da ricordare, utile per ripartire con una nuova consapevolezza o solo con qualche conoscenza in più.

L'esordio nel lungo di David Robert Mitchell è uno dei tanti film che si svolgono lungo l'arco di una sola notte, il regista costruisce una vicenda (più vicende) che potremmo aver visto un migliaio di volte al cinema e in tv ma ce la descrive con un affetto sincero per i suoi personaggi, per quell'età di passaggio, evitando le battutacce triviali e connotando il tutto senza per forza andare verso la deriva sessuale a senso unico, i ragazzi e le ragazze ritratti da Mitchell portano con loro speranze e delusioni, aspettative, dubbi, momenti di crisi, fantasie e rimpianti, amori nascosti, slanci al futuro e vecchi ricordi. È un film tutto sommato riflessivo questo The myth of the american sleepover, mito che viene più che altro sfatato se lo si immagina fatto di esperienze selvagge e accoppiamenti scriteriati, la narrazione si concentra più sull'animo e sui sentimenti dei giovani protagonisti, alcuni palesi allo spettatore anche se abilmente inespressi dai protagonisti, altri che verranno fuori pian piano, altri ancora in bilico verso chissà quale futuro. Un coming of age collettivo, la struttura è decisamente corale ma ognuno dei protagonisti seguiti dalla camera di Mitchell trova il giusto spazio, riesce a ben emergere nell'arco di questa notte da un'oretta e mezza, lasciando un piccolissimo segno che non rimarrà di certo a imperitura memoria ma che non si mancherà di apprezzare. Un bel tassello nel mosaico dei film sull'adolescenza che propone un momento di normalità che per ognuno di quei ragazzi, a quell'età, acquista un'importanza particolare e che, cambierà o meno qualcosa, servirà a lanciarli verso un'altra fase della vita che si prospetta (da spettatori un po' più anziani lo speriamo) rosea per tutti loro.

domenica 3 aprile 2022

ARGO

(di Ben Affleck, 2012)

Dopo l'ottimo The Town con Argo Ben Affleck si conferma una delle voci più interessanti tra quei registi relativamente giovani che guardano come modello al cinema classico (con un occhio particolare a quello dei seventies) riuscendo a confezionare opere che non presentano mai un sentore di vecchio ma che rimangono in equilibrio perfetto tra passato e presente, nel fare questo Affleck si trova in buona compagnia, pensiamo per esempio ai film "classici" di James Gray (I padroni della notte, Two lovers, etc...). Oltre che nell'approccio qui si torna al passato anche nella materia, con Argo si ricostruisce un episodio storico risalente al 1979 e che si protrasse per circa due anni, evento poi descritto nel libro Master of Disguise: My Secret Life in the CIA di Tony Mendez, un ex agente C.I.A. nel film interpretato dallo stesso Affleck. Il regista, aiutato anche dalla sceneggiatura solida e precisa di Chris Terrio, riesce a far convivere la drammaticità della vicenda narrata, il gusto hollywoodiano dello spettacolo costruendo una tensione crescente sul finale infiocchettata per lo spettatore (ricamando sugli eventi reali) e tecniche di ripresa decisamente dinamiche che aprono il film in maniera concitata. Il risultato finale è un altro prodotto confezionato in maniera impeccabile che conferma il talento del nostro dietro la macchina da presa, e se l'Oscar per la miglior regia non arriva Argo si porta comunque a casa tre riconoscimenti per il miglior film, per la miglior sceneggiatura e per il montaggio.

Nel 1979 a Teheran è in corso la rivoluzione islamica atta a deporre Mohammad Reza Pahlavi, ultimo scià di Persia e promotore di un governo autocratico e repressivo e già in passato aiutato a mantenere il potere dalla C.I.A. e dagli Stati Uniti. Quando allo scià viene concesso asilo politico negli States i manifestanti prendono d'assalto l'ambasciata statunitense tenendo in ostaggio più di cinquanta membri dello staff; sei di questi, riusciti a scappare prima dell'irruzione degli iraniani sciiti fedeli all'ayatollah Khomeyni, trovano in segreto rifugio in casa dell'ambasciatore canadese Ken Taylor (Victor Garber). Al corrente della notizia il governo U.S.A. cerca un modo per trarre in salvo i sei fuggitivi prima che gli iraniani vengano a conoscenza della loro fuga e li identifichino, per organizzare un'operazione di estrazione viene contattato l'agente C.I.A. Tony Mendez (Ben Affleck) che, dopo aver scartato alcune idee poco fattibili presentate dall'intelligence, inizia a elaborare un piano per far passare i sei membri dell'ambasciata per una troupe cinematografica canadese in Iran alla ricerca di location esotiche per la realizzazione di un film di fantascienza sulla scia del ben più famoso Star Wars; il titolo del film fittizio è proprio Argo.

Cinema di ricostruzione, interessante nel tema e sapientemente maneggiato nei fatti (il riferimento è alla sequenza finale) in modo da offrire allo spettatore un intrattenimento teso e coinvolgente divulgando anche un episodio da molti dimenticato o totalmente sconosciuto dandone anche una lettura politica. Affleck dimostra grande talento nel ruolo da regista; la prima sequenza con l'aumentare delle tensioni e conseguente assalto all'ambasciata è un manuale perfetto su come costruire una situazione deflagrante, gran montaggio e ritmi serratissimi, tensione che si riproporrà sulle sequenze alternate di un finale in cui si trattiene il fiato fino all'ultimo e costruito ad hoc per il cinema (i fatti in realtà andarono un po' più lisci di come narrati nel film). Nella parte centrale Affleck alterna lo stile caro al cinema impegnato dei settanta a toni da commedia grazie a tutto l'apparato messo in moto per la costruzione del finto film di fantascienza. In questo è aiutato dalla coppia di veterani composta da Alan Arkin e John Goodman che interpretano un produttore e un esperto di make up a Hollywood che si prodigheranno per far decollare Argo in modo che a un eventuale controllo risulti un film realmente in produzione, su questo aspetto il film si alleggerisce e trova toni divertiti. Intelligente Affleck a costruirsi un ruolo da protagonista dimesso, ben centrato anche nella sua veste attoriale, recita di sguardi senza mai andare fuori dal personaggio dimostrando consapevolezza sulle sue capacità non proprio da prima donna. Cinema solido come si faceva una volta, ricostruzione d'epoca e costumi perfetta, tutto ben studiato, tocca riconoscerne i meriti e dare a Ben quel che è di Ben.

sabato 2 aprile 2022

GHOSTBUSTERS: LEGACY

(Ghostbusters: Afterlife di Jason Reitman, 2021)

A guardare Ghostbusters: Legacy sembra davvero che la realizzazione di questo film sia stata prima di tutto una questione d'affetto (oltre che di soldi, è pur sempre un'industria milionaria il cinema). Affetto vero; il sapore più appetibile che l'ultima opera di Reitman figlio lascia sul palato è quello di un amore sincero, misto a più di un pizzico di dolore, per qualcosa, ma soprattutto qualcuno, che purtroppo non c'è più. Prendiamo in esame i due titoli, quello originale e quello scelto per l'Italia; entrambi sono azzeccati, questa volta non mi sento di criticare la scelta dei traduttori. Il nostro Legacy pone al centro il passaggio generazionale che può riportare in vita un brand e ammantare di nostalgia il film a uso e consumo dei vecchi fan mettendo al centro il concetto di eredità (legacy appunto), il passaggio di testimone, sia figurato che materiale (i protagonisti ereditano effettivamente dal nonno) ma anche attoriale con una nuova generazione pronta a vestire le iconiche tute (con un bel cortocircuito con il Mike di Stranger Things), pronta a riportare in vita la mitica Ecto-1 e a prendere in mano gli zaini protonici; l'originale Afterlife invece ci parla soprattutto dello scomparso Harold Ramis. L'attore e regista è stato anche sceneggiatore dei primi due episodi di Ghostbusters usciti negli anni 80, ha collaborato in più occasioni con Ivan Reitman, papà di Jason e regista dei primi due storici episodi, Ramis era inoltre molto legato a Bill Murray che nella saga interpreta Peter Venkman, una sorta di grande famiglia, nel film questi legami traspaiono e l'unione affettiva tra i vari elementi funge da collante per questo nuovo capitolo, una sorta di sequel che disconosce un po' il Ghostbusters al femminile del 2016 e rende la visione assolutamente piacevole e sul finale anche in una certa misura commovente.

Callie (Carrie Coon) è una madre single che cresce i suoi due figli, Trevor (Finn Wolfhard) e Phoebe (Mckenna Grace), senza l'aiuto di nessuno. La famiglia non se la passa troppo bene dal punto di vista economico tanto che lo sfratto non tarda ad arrivare. Fortunatamente, o forse no, arriva proprio nello stesso periodo la notizia che il defunto padre di Callie, che aveva abbandonato la famiglia quando la figlia era ancora piccola, ha lasciato a lei in eredità la sua scalcagnata fattoria situata fuori il paesino di Summerville. Trasferitisi forzatamente nella loro nuova abitazione i due ragazzi tentano di ambientarsi. La più giovane Phoebe, una nerd studiosa e con difficoltà a socializzare, incontra l'altrettanto strambo Podcast (Logan Kim), un ragazzino simpatico con il pallino di registrare qualsiasi cosa per il suo podcast, la ragazza frequenta le lezioni sui generis del professor Gary Grooberson (Paul Rudd), un sismologo molto interessato a delle strane e inspiegabili scosse che sembrano arrivare dal sottosuolo di Summerville. Trevor dal canto suo fa in fretta ad ambientarsi nel giro di adolescenti locali, trova un lavoretto estivo e coltiva una forte simpatia per la bella Lucky (Celeste O'Connor), inizia anche a rimettere a punto quella strana auto bianca abbandonata nella rimessa della fattoria. Nel frattempo Phoebe inizia a farsi un'idea precisa di chi fosse suo nonno e di cosa siano tutte quelle straordinarie apparecchiature nascoste negli anfratti della sua nuova casa, quando i movimenti sotto Summerville esploderanno in tutta la loro ectoplasmatica potenza, al gruppo di ragazzini non resterà che cercare di capire come arginare il problema, infilare in spalla gli zaini protonici, mettere in strada la Ecto-1 e aprire i flussi, magari cercando di non incrociarli.

È bello questo nuovo capitolo dedicato al brand dei Ghostbusters, come lo stesso Jason Reitman ha dichiarato in qualche intervista, il regista ci ha riversato tutto l'amore per i personaggi che suo padre aveva portato sullo schermo negli anni 80, e non è solo una questione di famiglia, dei vari legami abbiamo già detto, Dan Aykroyd è anche produttore, tutti quelli che potevano del cast storico hanno partecipato, è proprio una questione di passione, quella che un ragazzino che all'epoca del primo film aveva sette anni riporta ora dietro la telecamera in questo nuovo capitolo, questo miscuglio di sentimenti positivi si sente in maniera forte e ha il suo peso nella buona riuscita di tutta l'operazione. Questo nuovo film segue il suo corso, si volta pagina ma con un rispetto enorme per il lavoro dei predecessori, sono tantissimi i riferimenti al passato eppure questi riescono a non sembrare mai forzati, come legami di sangue naturali, riescono a entrare nel cuore dei vecchi fan ma sapranno anche ritagliarsi un nuovo pubblico, più giovane, il film è infatti adatto a tutte le età e trova dei protagonisti perfetti per il rilancio, soprattutto nella bravissima Mckenna Grace. Ci si sposta da New York agli stati del Midwest ma la minaccia da fronteggiare è egualmente pericolosa e sarà altra fonte di gioia per i fan, il cambio di prospettiva dona nuova linfa agli scenari, vedere la Ecto-1 correre solitaria in mezzo a un campo di grano è altra cosa da vederla circondata da folle oceaniche di newyorkesi. Ben realizzati gli effetti visivi e anche la regia di Reitman è ben dosata tra passaggi più riflessivi e spinte dinamiche sulle sequenze più movimentate; da non perdere le scene dopo i titoli di coda. Ghostbusters: Legacy è un ritorno a tutti gli effetti e anche una consolazione, perché se vi capitasse di vedere qualcosa di strano nel vostro vicinato, ora sapete (di nuovo) chi chiamare.

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