mercoledì 27 aprile 2022

RIFKIN'S FESTIVAL

(di Woody Allen, 2020)

Anche con quello che non è il Woody Allen migliore alla fine si riesce comunque a divertirsi parecchio; è questo il caso di Rifkin's festival, ultima opera in ordine di tempo del regista newyorkese, non una delle più memorabili ma un film che a ogni modo intrattiene bene e offre parecchi spunti di riflessione, non privo di un'aura malinconica in sottotraccia, soprattutto se pensiamo al transfert in atto tra regista e contenuto del film, alter ego compreso (questa volta affidato a Wallace Shawn), in una narrazione dove traspaiono la lunga storia di Allen, i suoi gusti (soprattutto quelli cinefili) e l'inevitabile vecchiaia comprensiva di acciacchi e rimpianti per ciò che non c'è più ma che l'Allen uomo continua probabilmente a cercare. Allen si lascia alle spalle le polemiche che circondano il suo privato, si allontana da New York e torna a girare in Spagna ottenendo un risultato decisamente migliore rispetto al precedente film girato in terra iberica, quel Vicky Cristina Barcelona non troppo convincente: i protagonisti sono qui coinvolti in una ronde di relazioni, platoniche e non, che danno vita a legami caratterizzati da grandi differenze d'età, un Allen indubbiamente sprezzante del pericolo vista l'aria che tirava per il regista all'epoca dell'uscita del film proprio su questo argomento.


Siamo a San Sebastián durante il Festival Internazionale del Cinema. Mort Rifkin (Wallace Shawn) è un ex professore che in passato ha insegnato cinema, è un appassionato molto critico e amante dei grandi classici europei del cinema d'autore; l'uomo, ormai anzianotto, è a San Sebastián con la moglie Sue (Gina Gershon) più giovane di lui di parecchi anni, lei cura i rapporti con la stampa per conto di Philippe (Louis Garrel), giovane regista in ascesa che è riuscito a crearsi una certa fama di artista impegnato, in realtà è un uomo un po' spocchioso che coltiva l'etichetta di regista engagé creata su poco o nulla (ma con la pretesa di porre fine alla questione palestinese con il suo prossimo film). Tra attacchi di gelosia per l'idolatria smodata che la moglie prova per Philippe e crisi di ipocondria varia dovute a piccoli disturbi, Mort verrà indirizzato da un conoscente dal dottor Jo Rojas (Elena Anaya) che, con sua grande sorpresa, l'uomo scoprirà essere una giovane e bellissima dottoressa in piena crisi matrimoniale. La gelosia così lascia il posto alla fantasia, Mort tenta di avvicinarsi alla dottoressa Rojas incantandola con la comune passione per New York, con storie di cinema, il tutto inframezzato dalle fantasie del protagonista che nella sua mente rivive in prima persona quelle che sono state per lui le scene fondamentali di un'ideale percorso cinematografico immortale (in scacco anche alla Morte qui personificata da Christoph Waltz). Purtroppo gli anni sono passati, la gioventù non ritorna, il tempo è un avversario più spietato della morte stessa.

Sebbene lungo la visione del film l'impressione che tutto viaggi su binari già posati da tempo immemore non manchi di affacciarsi alla mente dello spettatore, non si può non riconoscere ad Allen quella voglia inesauribile di cinema che spinge il regista ormai ottantaseienne a sfornare film a getto continuo trovando spesso esiti affatto disprezzabili come nel caso di questo Rifkin's Festival. Ancora una volta abbiamo un alter ego nei classici panni di quello che era il personaggio alleniano di sempre, questa volta interpretato da Wallace Shawn, un po' più giovane di Allen, fisico pasciuto ma che ben si accorda a riproporre fisime e ipocondrie tanto note quanto amate dai vecchi fan. Spicca in Rifkin's festival una vena malinconica: l'età avanza, le grandi domande sono ancora senza risposta (e queste non arriveranno), le cose che donavano sale alla vita sono ormai fuori portata: ci si invaghisce ma non si conclude, si viene accantonati, per fortuna c'è sempre il cinema ma anche questo è un cinema del passato, in bianco e nero, fatto di ricordi, in bianco e nero anch'essi e che prendono vita in 4/3, il protagonista è un uomo sorpassato che vive in un mondo che per molti versi appartiene ormai ad altri, anche la sua chiusura intellettuale non aiuta e la cruda realtà dei fatti è incontrovertibile, la vecchiaia è arrivata. Allen ne approfitta per omaggiare i registi che ama, ne riprende scene fondamentali, addirittura vezzi di regia guardando al Godard di Fino all'ultimo respiro e poi ancora a Bergman con Il settimo sigillo e Persona, a Fellini, a Welles con Quarto potere, al Truffaut di Jules e Jim e a diversi altri ancora, tutto in modo divertito e divertente; forse tutto già visto ma proprio non si può chiedere di più a un regista che nel corso degli anni ci ha davvero regalato tanto.

8 commenti:

  1. E' sempre il solito Woody, a cui però stavolta gli è mancato il guizzo.

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  2. Solo un saluto, amico mio compagno storico di blog.
    Un abbraccio!

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  3. Credo sia anche illogico aspettarsi qualcosa di rivoluzionario da Allen, dopo ottanta film. Però mi ha dato la sensazione di quando rivedi un amico dopo molto tempo :)

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    1. Assolutamente d'accordo, è la stessa sensazione che provo anche io con gli ultimi Allen.

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  4. Se Allen ti piace, penso che ogni suo film sia immancabile e ripaghi sempre la visione al cinema.

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    1. Si infatti per male che vada alla fine hai passato un'oretta e mezza (o due) in modo piacevole.

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