domenica 31 maggio 2020

IL TRADITORE

(di Marco Bellocchio, 2019)

Con Il traditore Marco Bellocchio torna a raccontare la storia e la cronaca del nostro Paese come già fatto in passato con opere apprezzate quali Buongiorno notte, Vincere o Bella addormentata. Ottima messa in scena per un film al quale nulla manca per vantare un respiro internazionale, approccio che, come è già stato fatto notare in più sedi, si nota fin dalle prime battute grazie alla sequenza della festa che richiama grandi film come Il Padrino (uno dei film "di mafia" per eccellenza) o il nostrano Il Gattopardo, anche se personalmente mi è tornata in mente più che altro la scena del ricevimento girata da Michael Cimino ne Il cacciatore, praticamente parliamo di storia del Cinema. Se Bellocchio non si inserirà con la stessa forza accanto agli illustri predecessori (ma questo solo il tempo potrà dircelo) quantomeno non sfigura nella rappresentazione di una vicenda che, magari senza la stessa potenza di quelle sopra citate, si inserisce tra i migliori prodotti del nostro Cinema contemporaneo. C'è un velo di ambiguità nella storia de Il traditore, così come c'è sempre stato attorno alla figura di Masino Buscetta (al secolo Tommaso), quello che viene considerato il primo pentito di mafia, perché in fondo nessuno può ancora dire in totale certezza quanto è stato detto di veritiero e soprattutto quanto è stato taciuto dal personaggio in questione, non tra le persone più integerrime e oneste sulle quali riporre la propria fiducia. Su Buscetta sembra riporre almeno una certa dose di questa fiducia il giudice Falcone (Fausto Russo Alesi) che imbastirà accuse e dossier che infliggeranno duri colpi all'organizzazione mafiosa anche grazie alle rivelazioni fatte al magistrato dal pentito.


La narrazione del regista prende il via nel momento in cui Buscetta (Pierfrancesco Favino) decide di allontanarsi da Cosa Nostra e di trasferirsi in Brasile insieme alla sua ultima moglie Maria Cristina (Maria Fernanda Candido), lasciando a Palermo i figli avuti da precedenti matrimoni in un momento in cui gli affari legati al contrabbando e al traffico di droga sono gestiti per mezzo di una delicata alleanza tra la cosca palermitana (Buscetta, Calò, Inzerrillo, Badalamenti, Contorno) e quella della nuova mafia corleonese guidata da Totò Riina (Nicola Calì). L'avventura sudamericana di Buscetta è destinata però a finire il 23 ottobre 1983 quando viene arrestato dalle autorità brasiliane che concederanno in seguito l'estradizione dell'uomo verso le carceri italiane, da qui nascerà la collaborazione con lo Stato da parte di un uomo che non si dichiara mai "pentito" ma che decide di far pagare alla nuova mafia corleonese, che Buscetta legato alla vecchia "Cosa nostra" non riconosce, l'affronto subito a causa del tradimento di Pippo Calò (Fabrizio Ferracane) che, passato ai corleonesi, gli fa uccidere i figli Benedetto e Antonio (Gabriele e Paride Cicirello).


Allora chi è per Bellocchio il traditore? Masino Buscetta che volge le spalle all'organizzazione rompendo un muro di omertà, o quel Pippo Calò, vero avversario di Buscetta nei dibattimenti, che ha tradito un'amicizia di lungo corso macchiandosi di crimini infami? Quello che conta, come è mostrato dal regista in diverse scene emblematiche, è l'ennesima e sempre necessaria riflessione su quella che, al di là degli atti concreti, dei morti, degli attentati, è una propensione di parte della popolazione italiana (e il riferimento non è al sud o alla Sicilia) alla connivenza con ogni tipo di disonestà, all'utilitarismo personale prima che al bene comune, una mentalità che fa gioco alle mafie (usando una generalizzazione) e per la quale lo Stato stesso è mafia, non solo per le collusioni tra politica e criminalità organizzata di cui anche nel film si parla, lo Stato Italiano è mafia nell'assenza, nei territori ma anche in tante situazioni sociali e di disagio, è mafia nella noncuranza, nell'abbandono, nell'indifferenza e nel non interesse per chi viene emarginato, lasciato indietro e abbandonato è che nella mafia trova in maniera assurda un'ancora di salvezza. "La mafia è lavoro", manifestano alcuni cittadini, e purtroppo spesso è così, l'organizzazione criminale arriva nei luoghi e alle persone a cui lo Stato ha voltato le spalle. Soprattutto per riflettere su temi sempre attuali come questo Il traditore è un film necessario, sarà anche retorica ma purtroppo, ad oggi, così è.


Lasciati da parte i contenuti a eccellere è anche il contenitore, il film offre belle immagini, concede qualche sprazzo al moderno (il contatore a scandire le vittime di mafia) in un impianto in realtà molto classico, coinvolgente struttura da biopic dove forse l'unico appunto si può fare al tratteggio di un protagonista apparentemente addolcito rispetto all'uomo che realmente è stato, non dimentichiamo che si sta parlando di un assassino e trafficante di droga che può contare diverse vittime sulla coscienza, ne Il traditore la sua figura non risulta mai così respingente, anzi, grazie anche alla superba interpretazione di Favino si finisce per simpatizzare con un uomo la cui collaborazione con la giustizia non ne cancella il passato. Conoscendo un minimo il regista mi sento di ipotizzare che non fosse questa l'intenzione di Bellocchio nel raccontarne la figura. Molto riuscita anche nei segmenti processuali quest'opera che si eleva al di sopra della media della nostra produzione; da poco premiato come miglior film italiano ai David di Donatello Il traditore è uno dei film da recuperare della scorsa stagione, non solo in riferimento alla cinematografia dello stivale.

venerdì 29 maggio 2020

OCEAN'S 13

(di Steven Soderbergh, 2007)

Il terzo capitolo della saga dedicata alla banda di Danny Ocean (George Clooney) mette da parte le strutture un po' più complesse e l'eccessivo glamour dell'episodio precedente (non che qui non ce ne sia, intendiamoci) per tornare all'origine e guardare a Ocean's eleven, film che diede il via al brand rifacendo Colpo grosso diretto da Lewis Milestone nel lontano 1960. Il ritorno alle origini funziona, quando Soderbergh torna al suo cast d'eccezione non ci si aspetta altro che puro divertimento e attori in palla, interpreti sul set più per divertimento che non per soldi, anche perché se la produzione avesse dovuto pagare gli attori con i loro cachet abituali probabilmente questa serie di film non si sarebbe mai potuta realizzare. Oltre alla squadra già rodata qui ci sono almeno tre nuovi ingressi di peso: a dare una mano alla banda di Ocean, seppur non in maniera continuativa, troviamo il pianificatore Roman Nagel interpretato da Eddie Izzard, il ruolo di principale antagonista che era di Andy Garcia, ancora presente, va a un cinico e avido Al Pacino, proprietario di alcuni tra gli hotel più lussuosi sulla piazza (si torna a Vegas) assistito dal suo braccio destro, l'affascinante Abigail Sponder (Ellen Barkin). Heist movie classicissimo, non ci si sposta di una virgola dal canovaccio che ci si aspetta, non si deve perdere nemmeno troppo tempo per la formazione della squadra perché è già nota, introdotto Izzard Soderbergh ci catapulta nello studio dell'ambizioso piano ideato dal gruppo per mettere in ginocchio Willie Bank (Al Pacino).


Nonostante sia nel giro delle truffe da una vita il buon vecchio Reuben (Elliott Gould) non ha ancora imparato a diffidare degli squali di Las Vegas; entrato in società con Willie Bank per la costruzione di quello che dovrà diventare il più prestigioso hotel con casinò della città, viene da questi truffato e minacciato e lasciato praticamente in mutande, al contraccolpo emotivo segue infarto e successiva lungodegenza. Ma Reuben è uno della banda, e la banda non sta con le mani in mano quando uno di loro viene colpito. E allora tornano tutti in pista per trascinare Bank nel fango, far fallire l'inaugurazione del suo casinò, mandare in rovina il suo proprietario, impedire che vinca l'ennesimo premio "cinque diamanti" per il miglior albergo e, perché no?, magari far sparire un po' dei vecchi premi vinti da Bank in occasioni precedenti. Quindi tutti in pista, Danny (Clooney), Rusty (Brad Pitt), Linus (Matt Damon), Bernie (Frank Catton), Virgil (Casey Affleck), Livingston (Eddie Jamison), Scott (Turk Malloy), il vecchio Saul (Carl Reiner), Busher (Don Cheadle) e Yen (Shaobo Quin) con l'aiuto di Roman Nagel.


La trama è giocata tutta sulla costruzione delle varie fregature che i ragazzi metteranno in atto ai danni di Bank, il piano è dettagliato e tutti i suoi risvolti sono spiegati e giustificati in maniera cedibile, ciò nonostante Ocean's thirteen mantiene per tutta la sua durata un bel ritmo e la giusta verve ironica che permette al film di risultare molto piacevole e divertente mantenendo la promessa fatta allo spettatore che da questo film sa già cosa aspettarsi. Soderbergh si esibisce ormai in maniera anche scolastica con i suoi split screen, con le sovrapposizioni d'immagini e con l'illuminazione scintillante e lussuosa di Peter Andrews (che poi è sempre lo stesso Soderbergh sotto falso nome, quello del padre). Marginale la presenza femminile ma ci si rifarà con il successivo Ocean's 8 di Gary Ross con una banda di sole donne.

Film promosso, al terzo episodio non arrivare con il fiato corto non era facile, Soderbergh ci riesce grazie a un cast strepitoso che è sempre piacevole guardare in azione e soprattutto evitando qualsiasi tipo di sottotesto, puro intrattenimento ma di quello realizzato con tutti i crismi del caso.

mercoledì 27 maggio 2020

IN THE MOOD FOR LOVE

(Huāyàng niánhuá di Wong Kar-wai, 2000)

L'amore nella sua essenza inesplosa, fuoco ardente che brucia sotto le ceneri, trattenuto e allo stesso tempo potente, capace di colmare lo spirito eppure così doloroso. In the mood for love è un bellissimo melò, pienamente appagante, narrato da un Wong Kar-wai pre-occidente con uno stile intimo ed elegante, un film capace di fare innamorare lo spettatore dei suoi protagonisti, di un'immagine, della pioggia, di un colore, di un particolare, di un gesto, di un incontro, di una melodia. A rendere In the mood for love un grande film ci sono innanzi tutto le scelte stilistiche del regista cinese che imprimono nella memoria particolari destinati a rimanere indelebili: quella sosta sotto la pioggia scrosciante, la ripresa ravvicinata di quel lampione, la strada in quel piccolo scorcio d'angolo ai piedi delle scale, quel corridoio stretto con le tende rosse ondeggianti al ritmo del vento; e sotto quella pioggia, illuminati da quel lampione, sul ciglio di quelle scale, accanto alle tende rosse, cosa si agita nel petto della signora Chan (Maggie Cheung) e del signor Chow (Tony Leung Chiu-Wai)? La vicenda è storicamente contestualizzata, più che altro per dare un'idea del tempo (in una fase di passaggio per Hong Kong) in contrapposizione a un'amore cristallizzato, che esula dal passare dei giorni, allo spettatore l'incedere temporale qui non interessa, ci si perde, ci si ferma nella storia della signora Chan e del signor Chow.


Ad ogni modo siamo nei primi anni 60 ad Hong Kong. Per pura casualità la famiglia Chan e la famiglia Chow si trasferiscono lo stesso giorno nello stesso condominio, stanze adiacenti in appartamenti coabitati da altre persone che faranno da sfondo di costume alla vicenda. Su-Li Zen Chan è una donna molto bella, sposata con un uomo d'affari in perenne trasferta di lavoro, Mo-wan Chow è un giornalista, la moglie fa il turno di notte come receptionist in un albergo. Gli incontri tra i due sono quelli del buon vicinato: il saluto in corridoio, il piccolo favore tra vicini, lo scambio di poche parole di cortesia. Evidente in tutti i sensi la mancanza dei coniugi, poco presenti nelle vite di Su-Lin e Mo-wan e assenti anche sullo schermo, per acuire il senso di mancanza, di lontananza anche psicologica, i coniugi dei due protagonisti sono sempre inquadrati di sfuggita da Wong Kar-wai, ne vediamo le spalle, i piedi, un'apparizione fugace qua e là ma sono presenze quasi incorporee che per lo spettatore non hanno volto. Da queste assenze ripetute, dal dubbio che instillano i continui viaggi d'affari, i doppi turni in albergo, nasce il sospetto del tradimento che poco alla volta prenderà corpo nella mente di Sun-Lin e Mo-wan i quali si troveranno ad affrontare la stessa solitudine iniziando poco a poco, giorno dopo giorno, ad alleviarla insieme.


Quello tra i due protagonisti è un amore struggente, intimo e represso, che trova l'ostacolo delle convenzioni sociali, lo scoglio del voler essere migliori dei loro coniugi, di non recitare il ruolo di traditori, e mentre il tempo passa (e noi non ce ne accorgiamo) il dolore di questo amore tenuto al guinzaglio macera i cuori pur donando luce alle giornate, come capita per gli amori inespressi. Lo sguardo della camera di Wong Kar-wai è magnifico, indulge sui particolari a più riprese, sui luoghi raccolti, spesso condivisi, sui riti quotidiani che fanno breccia nell'affetto che da spettatori si prova per Su-Li e Mo-wan divenendo parte di una storia emozionante, la forma conta tantissimo, l'incedere elegante della signora Chan nei suoi splendidi abiti stretti (i cheongsam), accompagnata dalla superba partitura musicale di Shigeru Umebayashi e Michael Galasso, rimane vivido anche dopo i titoli di coda. Il regista tornerà al melò anche in lingua inglese con il romantico My blueberry nights, altro film riuscito sebbene questo In the mood for love resti insuperato.

Il tempo e le occasioni non tornano, un amore segreto può essere custodito anche per sempre.

lunedì 25 maggio 2020

GIMME DANGER

(di Jim Jarmusch, 2016)

In Gimme danger non bisogna cercare l'approccio enciclopedico, quello di Jim Jarmusch verso i The Stooges è più un piccolo atto d'amore che non una ricostruzione filologica, un'ennesima dimostrazione d'affetto del regista nei confronti della band e del suo leader Iggy Pop con il quale Jarmusch collaborò in precedenza già in due occasioni, il frontman degli Stooges compare infatti nelle vesti di attore in Coffee and cigarettes e in Dead man e tornerà a prestare il suo volto al regista anche ne I morti non muoiono. Gimme danger non vuole essere un resoconto completo della carriera dei The Stooges, sembra più che Jarmusch voglia regalare a Iggy e Scott Asheton, storico batterista del gruppo, la possibilità di raccontarsi, di infilare qualche aneddoto, di ripercorrere un po' di cuore, in maniera spontanea, gli anni che hanno portato, con il ritardo che ci è voluto, gli Stooges a essere considerati dei precursori, anche poco capiti ai tempi, di un'ondata di musica, attitudine e cultura ancora di là da venire. Si parte da quella che sembra la fine per il gruppo, quello che sarà effettivamente il capolinea, seppur temporaneo, di una band troppo fuori dagli schemi per essere veramente apprezzata, pur avendo diversi sostenitori e ammiratori, i tre dischi fino ad allora registrati dalla band, The Stooges, Fun house e Raw power, non vendono a sufficienza, gli Stooges vengono scaricati dalla loro casa discografica. I problemi legati agli eccessi e alle droghe, non solo da parte di Iggy, fanno il resto. Proprio su quest'ultimo aspetto Jarmusch si rivela molto indulgente con la band, se il comportamento quantomeno scalmanato e poco urbano dei nostri, mescolato ai problemi con le droghe, furono indubbiamente tra le caratteristiche distintive del gruppo, in Gimme danger questo aspetto viene affrontato solo parzialmente, ovviamente lo si coglie tra le righe, la materia è nota e se proprio non si è a digiuno nel campo non è necessaria l'imbeccata di Jarmusch per tirare i contorni alle figure di Iggy Pop e soci, si preferisce però dare un'impostazione più nostalgica al tutto, un flusso di parole, suoni e immagini sull'onda dei ricordi.


A parlare non è mai l'Iguana, l'interlocutore dello spettatore è sempre James Osterberg Jr., il ragazzo del Michigan ora diventato quello che in Gimme danger sembra un simpatico signore di mezza età in splendida forma (che in realtà al momento dell'uscita del film ha settant'anni, anno più, anno meno). James è affabile, educato, divertente, spesso sentimentale, sembra avere poco di quell'irriverenza ribelle che scatena sul palco ormai da una vita, quello che James racconta è principalmente un percorso di passione, d'amicizia, di libertà e anticonformismo molto naturale, nato per predisposizione più che per rifiuto, James racconta più volte con sincero trasporto il bel rapporto con i genitori, l'affetto che questi avevano per un figlio che li faceva impazzire con la sua batteria (vivevano tutti in una roulotte) e soprattutto l'amore fraterno per gli amici, i fratelli Ron e Scott Asheton, dimostrando anche una vera ammirazione per loro, soprattutto per il primo già venuto a mancare al momento della registrazione di questo documentario (nonostante tra tutti fosse il meno vizioso). Questo approccio libero, fuori dagli schemi, porterà il gruppo a suonare e ad esibirsi senza compromessi, anticipando i tempi e pagando la loro avversione a tutto ciò che suonasse "commerciale" con scarse vendite e una carriera incerta, il successo arriverà solo più tardi per la band, con l'esplosione del movimento punk.


Jarmusch ha un approccio alla materia molto "stiloso" e ironico, la mano del regista si vede nel montaggio e nella scelta delle contrapposizioni in immagini alle parole di James e di Scott, le dichiarazioni dei protagonisti sono molto spesso supportate da estratti di trasmissioni televisive americane anni 50 e 60, di cui è facile pensare Jarmusch sia un intenditore, così come da scene di film delle stesse epoche, il tutto dona ritmo e spirito agli interventi dei protagonisti che raccontano a ruota libera, senza interlocutore, inframmezzati da immagini live d'epoca, vecchie dichiarazioni e appunto filmati scelti dal regista che fanno da contrappunto al contesto di cui si sta discutendo al momento. Quello che ne esce è un ricordo affettuoso di anni passati, narrati dai primi protagonisti ma anche da chi arrivò più tardi a collaborare con Iggy Pop la cui carriera solista è lasciata da parte, anche il rapporto con David Bowie, produttore di Raw Power, viene qui più che altro accennato, perché Gimme danger è un film sugli Stooges e solo loro, dei loro fan, del loro pubblico, non di Iggy Pop ma di James Osterberg. Probabilmente per i cultori qui non ci sono novità rilevanti, c'è qualche immagine inedita magari, l'impianto dell'opera in questo senso sarà più utile per i profani, però c'è un affetto sincero e un lavoro di un regista che probabilmente a questa band vuole bene davvero.

giovedì 21 maggio 2020

LA FAVORITA

(The favourite di Yorgos Lanthimos, 2018)

Il mio primo incontro con il Cinema di Yorgos Lanthimos, già fattosi apprezzare con The lobster e con Il sacrificio del cervo sacro, è stato davvero molto soddisfacente. Con  La favorita Lanthimos si immerge nel period drama asciugandolo però di tutte le rigidità del caso e riportando la narrazione in costume a un approccio più moderno e moderatamente audace, costruendo un film al femminile (gli uomini sono poco più che orpelli, poco utili anche per il sesso) che pennella tre bellissimi ruoli capaci di far risplendere Rachel Weisz, Emma Stone e Olivia Colman vincitrice dell'Oscar come miglior protagonista.

Siamo agli inizi del 1700, l'Inghilterra retta dalla Regina Anna di Stuart (Olivia Colman) è impegnata in una dura guerra con la Francia sui cui territori John Churchill (Mark Gatiss) conduce l'esercito inglese in attesa di poter dare il colpo di grazia ai rivali. Le decisioni più importanti sulla guerra non è realmente la Regina a prenderle bensì Lady Marlborough (Rachel Weisz) fidata consigliera della Regina e responsabile delle finanze della casata reale, nonché moglie di John Churchill. Lady Marlborough è una donna ambiziosa che concupisce la Regina Anna blandendola, adulandola, curandola (la Regina soffre di una brutta forma di gotta), infilandosi nel suo letto, sotto le sue gonne, titillandole le parti intime e solleticandone l'amor proprio. Pur se manipolatrice e profittatrice, Lady Marlborough non manca di nutrire un affetto apparentemente sincero per la Regina anche se sedimentato in dinamiche d'opportunità e ambizione, tra le due la donna forte non è di certo Anna che dal canto suo recita la parte dell'inconsapevole, cosa che a conti fatti è più una posizione di comodo, dettata da un bisogno d'amore, che non la reale natura della regnante. A mutare gli equilibri tra le due donne e quelli di corte arriva, letteralmente coperta di merda, la bella Abigail Masham (Emma Stone), cugina di Lady Marlborough, caduta in disgrazia fin da quando il padre la perse al gioco. Abigail si introduce a corte come sguattera, ma con grande furbizia e arrivismo riuscirà a ingraziarsi prima la cugina e poi la Regina mettendosi nel mezzo a un rapporto ormai consolidato scardinandone ogni certezza.


Lanthimos dirige quella che è più che altro una commedia dai toni grotteschi, dove non manca un approccio molto terreno alla materia, le tre splendide figure di donna sono spesso immerse nel fango, nel vomito, lacerate da malattia e contusioni, non lesinano attenzioni carnali alla Regina ed essa alla sue favorite, il tutto giostrato con un'equilibrio che non fa mai scadere il film nel triviale, anzi, la scelta di girare per lo più negli interni di Hatfield House e di avvalersi dei costumi di Sandy Powell ammanta il film di un'eleganza viva e carnale. Originale la scelta del regista di fare un uso pressoché continuo del grandangolo per aumentare e distorcere le dimensioni degli spazi, scelta stilistica che insieme ad altre trovate (il lancio della frutta marcia al nobile nudo ad esempio) e a un uso peculiare di suoni e musiche, carica il senso di grottesco della vicenda che non manca però di mostrare scampoli di dolore reale, afflizione e patimento. Le tre attrici sono superbe, tre ruoli meravigliosi per i quali si fa fatica a individuare una vera protagonista, nemmeno Nicholas Hoult, unico ruolo maschile di interesse, può avvicinarsi lontanamente alla bravura di Weisz, Stone e Colman.


La favorita è un film tutto da gustare, riporta alla sensibilità moderna un genere, il film in costume, che non tutti amano affrontare creando un prodotto degno di essere usato come modello per quello che il Cinema al femminile può essere, bastano volontà, buone idee e delle brave attrici, e queste non mancano di certo.

martedì 19 maggio 2020

INTERSTELLAR

(di Christopher Nolan, 2014)

Devo ammettere che mi riesce difficile esprimere un giudizio netto su Interstellar fermo restando come la visione di un film di Nolan si confermi una volta di più un'ottima esperienza visiva. In Interstellar Nolan ripropone le caratteristiche che più ci hanno fatto apprezzare il suo Cinema: un'attenzione maniacale per le immagini, studio delle inquadrature e regia inappuntabile, tutti elementi che donano valore aggiunto a quanto proposto: Nolan lavora molto bene e meglio che in passato (o in futuro se pensiamo a Dunkirk) sul piano emotivo andando a toccare corde profonde, ancora una volta scrive una sceneggiatura (insieme al fratello Jonathan) che vorrebbe essere una costruzione perfetta in cui i vari tasselli, con l'avanzare del film, si incastrano in maniera precisa tra di loro, crea almeno in parte quello che viene ormai definito "film cervello" di cui Nolan è tra i massimi esponenti. Purtroppo è proprio sotto questo aspetto, evidente nella parte finale di Interstellar, che il regista perde colpi chiudendo l'opera con una tesi che a mio parere va a inficiare in buona parte quanto di buono fatto dal punto di vista tecnico ed emozionale per almeno due terzi del lavoro. Con questo non voglio dire che il cerchio non si chiuda, il problema è proprio questo, forse sarebbe stato meglio non chiuderlo questo cerchio, lasciare un alone di mistero o un finale più aperto a questa struttura circolare. Da un certo punto in avanti l'impressione è che si sia cercata un'idea per far tornare il tutto, un'idea non tanto poco credibile ma semplicemente molto, molto deludente e che a conti fatti avrebbe potuto essere sostituita con un'altra qualsiasi soluzione. Sembra quasi che si arrivi a un punto della vicenda in cui si dice "ok, da adesso vale tutto e questa è la mia soluzione" e la soluzione scelta da Nolan fa un po' cascare le braccia, ma qui si rientra nel campo imponderabile della soggettività, a qualcuno il finale che (come un po' tutto il film) vuole andare oltre il 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, in maniera un po' pretenziosa forse, sarà anche piaciuto, De gustibus non disputandum est. Peccato.


Peccato, perché prima che Nolan perdesse la trebisonda in sviluppi quantomeno opinabili Interstellar aveva le carte in regola per essere considerato un grande film. Intanto c'è una visione del futuro per taluni versi originale, per una volta il progresso e la tecnologia sono visti come una salvezza possibile e non come la mera causa di un disastro del quale poco ci è dato sapere, è questa una visione che si discosta dalla corrente di pensiero imperante nelle proiezioni future, pur non avendo lo stesso ottimismo del regista nei confronti del ruolo che il "progresso" avrà sulla nostra società ammetto di aver apprezzato moltissimo incipit e primo svolgimento del film.

Futuro prossimo. Una piaga sta distruggendo le fonti di sostentamento alimentare della Terra, resiste solo il mais, la razza umana è a corto di cibo e attanagliata da continue ed enormi tempeste di sabbia (almeno nell'America rurale, del resto del mondo non ci è dato sapere). Proprio per questo la quasi totalità della popolazione deve dedicarsi all'agricoltura, c'è un disperato bisogno di cibo, per evitare che una parte degli uomini coltivi ambizioni diverse da quelle di base viene effettuato un revisionismo storico in modo da demolire presso le nuove generazioni attività considerate inutili come ad esempio la ricerca spaziale. Ma proprio nello spazio potrebbe trovarsi una possibilità di salvezza per una razza umana destinata all'estinzione. Joseph Cooper (Matthew McConaughey) è un ex pilota della NASA ora costretto a fare l'agricoltore, vedovo e padre di due figli, la piccola Murphy (Mackenzie Foy) e l'adolescente Tom (Timothée Chalamet) che Joseph cresce con l'aiuto del suocero Donald (John Lithgow). La piccola Murphy tenta di convincere il padre come nella sua stanza ci sia una sorta di fantasma che sta cercando di comunicare con lei, da cosa nasce cosa e da lì nascerà una nuova speranza per gli abitanti della Terra.


Come si accennava prima il film è bellissimo per almeno due terzi e sotto più d'un punto di vista, Nolan costruisce una rapporto padre/figlia semplicemente meraviglioso e commovente, un saliscendi d'amore, astio, tradimento, fiducia, rifiuto in un'altalena di sentimenti portata in scena splendidamente da McConaughey ma soprattutto dalla giovane Foy prima e da Jessica Chastain poi, tutto il lato emotivo è descritto molto bene, altra coppia padre figlia su cui soffermarsi è quella composta dal Professor Brand (Michael Caine) e sua figlia Amelia (Anne Hathaway), rispettivamente l'ideatore del progetto che potrebbe far rinascere l'umanità e la compagna di viaggio di Cooper. Poi c'è il cast, oltre ai nomi già citati Matt Damon, Casey Affleck ed Ellen Burstyn. Bellissimo il lavoro tecnico con pochissime cadute di tono (la superficie di saturno sembra un mobile Ikea) ma soprattutto una bella storia, con le sue scoperte, i suoi intoppi, le sue emozioni, le sue rivelazioni e tutte le pieghe di trama capaci di appassionare uno spettatore. Poi quel pasticciaccio brutto a tagliare le gambe. Davvero peccato, poteva essere uno di quei film del cuore, e invece...

domenica 17 maggio 2020

VIVERE E MORIRE A LOS ANGELES

(To live and die in L.A. di William Friedkin, 1985)

Facciamo un salto indietro al Cinema degli anni 80 con questo splendido noir metropolitano girato da William Friedkin. Il regista aveva già lasciato la sua impronta indelebile sulla storia del poliziesco una quindicina d'anni prima con un altro grandissimo film per il quale Friedkin vinse anche l'Oscar alla regia, parliamo del celebre Il braccio violento delle legge con protagonista uno strepitoso Gene Hackman. Se già con il precedente film il regista statunitense diede una visione personalissima al genere mostrando una violenza nei metodi applicati dalla legge brutale e spietata, anche con Vivere e morire a Los Angeles Friedkin sigla un'opera altrettanto fondamentale, andando a eliminare le distanze tra i due lati della barricata anche dal punto di vista morale, non solo nei metodi con il quale perseguire la legge, ma anche su come questa venga scavalcata dalle forze dell'ordine per ottenere lo scopo perseguito, passaggio importante per capire molti successivi noir più brutali e moderni. Le immagini di Friedkin ci portano indietro di diversi decenni sulle strade di una Los Angeles periferica e imbruttita dove il bisogno del dollaro, chiave di lettura ormai unica di un sogno americano in frantumi, viene perseguito con mezzi al di fuori della legge.


Richard Chance (William Petersen) è un agente federale dell'USSS, un'agenzia che si occupa principalmente di contrastare la circolazione di denaro falso. Chase si mette sulle tracce di un noto falsario, Eric Masters (Willem Dafoe), dopo che il suo partner perde la vita proprio durante un'indagine sullo stesso uomo. Ad accompagnarlo in quella che presto diventerà una questione molto personale ci sarà il nuovo compagno John Vukovich (John Pankow), un tipo meno incline di lui a infrangere le regole. Ma prendere Masters non si rivelerà affatto facile, il falsario è uno che sa come sparire e che non si fa scrupoli per uscire da situazioni potenzialmente difficili, Chance potrà contare solo sulle soffiate dell'informatrice Ruth (Darlanne Fluegel) e sull'aiuto involontario del delinquente Cody (John Turturro).


Tutti gli elementi del film sono valorizzati al meglio in modo da donare peso a una sceneggiatura capace di coinvolgere sempre e affondare colpi al momento giusto, e questo nel corso del film accade più volte. Molto riuscita la visione di una L.A. che non sembra per nulla una città degli angeli, anzi, riflette invece l'inferno della suburbia più povera e lontana dal lusso e dall'edonismo ormai valori portanti del decennio. Per la realizzazione del film sembra che Friedkin abbia mantenuto un approccio alle riprese, seppur studiato, molto sbrigativo, in modo da acuire il senso del reale da parte del cast instradato a non creare troppe sovrastrutture ma bensì a lavorare in maniera spontanea. Impossibile seppur scontato non parlare della magnifica scena di inseguimento, prima nella zona di carico e scarico dei magazzini di L.A., tra camion, muletti, operai e un caos infinito, poi in contromano su una delle grandi vie di scorrimento losangeline, con tanto di trucchetto alla Hitchcock per massimizzarne la resa, espediente che qui non svelo per non togliere gusto a chi non avesse ancora visto il film. Molto particolareggiate le sequenze sulla falsificazione del denaro che aprono il film, pare si sia fatto ricorso a veri falsari per la consulenza tecnica. Plauso anche ai protagonisti, un William Petersen sparito troppo presto dal giro che conta, farà ancora Manhunter di importante (altro film da recuperare di quegli anni), tornerà poi protagonista solo più avanti con il ruolo di Gil Grissom in C.S.I., peccato, in qualche poliziesco in più negli 80 non ci sarebbe stato male, Dafoe gigante anche qui, ma lui è un incontestabile, la cosa non crea meraviglia, belle presenze anche nel cast di contorno, un'ottimo Turturro e nei ruoli femminili le brave Darlanne Fluegell e Debra Feuer, viste poi più in televisione che al cinema. Da segnalare anche l'ottimo accompagnamento musicale affidato ai Wang Chung, perfetto per immergersi nell'atmosfera di quegli anni.

Un poliziesco teso e pessimista, cinico e poco consolatorio che presenta una caratterizzazione dei personaggi molto curata, passaggio obbligato per apprezzare il cinema d'azione degli anni 80, film che meriterebbe una fama maggiore di quella che già detiene.

venerdì 15 maggio 2020

LO ZIO BOONMEE CHE SI RICORDA LE VITE PRECEDENTI

(Lung Bunmi Raluek Chat di Apichatpong Weerasethakul, 2010)

Il film di Apichatpong Weerasethakul (vi sfido a pronunciare il suo nome ad alta voce per tre volte di fila) è un'opera che facilmente potrebbe dividere il pubblico, la critica invece l'ha osannato quasi all'unanimità, si sono sprecati giudizi entusiastici che danno forza alla vittoria dello Zio Boonmee al Festival di Cannes 2010 dove il film si portò a casa l'ambita Palma d'Oro. La mia impressione è che questo sia un film buono per chi vuole vedere questo film. Cerco di spiegarmi. Weerasethakul ci parla di reincarnazione, vita dopo la morte, c'è un approccio metafisico in Zio Boonmee, e probabilmente per cogliere appieno ciò che il regista propone forse (e sottolineo forse, ma forse anche no) bisogna avere una conoscenza almeno di base delle culture orientali, qui siamo in Thailandia, ma alcuni elementi come la vicinanza con gli spiriti dei morti sono comuni alla tradizione di molti paesi. Quindi, se cercate un film che tratti questi argomenti allora siete capitati nel posto giusto, in quest'ottica Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti si potrebbe considerare un film riuscito (forse). L'altra ipotesi è che in questo film Weerasethakul abbia messo alcune idee (non tantissime) in bella forma ottenendo reazioni di giubilo e mandando in solluchero buona parte della critica, ma di fronte a un pubblico non direttamente interessato a questo specifico argomento il film potrebbe causare attacchi di noia acuta o addirittura sofferenza fisica nel caso di spettatori poco abituati a un Cinema con ritmi molto diversi da quelli imperanti nel Cinema occidentale. La visione del film e le reazioni che ai tempi della sua uscita questi ha provocato mi hanno ricordato il più recente caso del Roma di Alfonso Cuarón che almeno dal punto di vista formale ed esecutivo a questo Zio Boonmee dà diversi punti di scarto.


La prima sequenza ci introduce molto bene al mood che respireremo durante il film: un bufalo si muove seguito dalla camera nel verde crepuscolare della natura thailandese. In una casa di campagna sta lo Zio Boonmee (Thanapat Saisaymar), proprietario di una tenuta agricola e malato terminale, con lui un giovane esule dal Laos che gli fa da infermiere (Samud Kugasang), sua cognata Jen (Jenjira Pongpas) che è venuta a trovarlo dalla città e il di lei figlio Thong (Sakda Kaewbuadee). Boonmee si prepara ad andarsene, vuole garantire un minimo di futuro alla sua tenuta, mentre chiacchiera con la sua compagnia appare il fantasma della sua defunta moglie Huay (Natthakarn Aphaiwong) che introduce in maniera naturale l'argomento della vicinanza con gli spiriti, la possibilità di comunicare con loro. Al piccolo gruppo si unirà presto Boonsong (Jeerasak Kulhong), figlio di Boonmee scomparso da tempo e ora trasformatosi in una creatura pelosa dagli occhi rossi (anch'esso spirito?). L'incontro tra questi esseri è molto naturale a simboleggiare la continuazione di un'esistenza dopo la morte, che potrebbe essere fantasmatica, diversa da quella che è la nostra concezione o di trasformazione in creature altre, un bufalo per esempio? Di fronte alla morte prossima, lo zio Boonmee sogna, forse ricorda le vite precedenti.


Il consiglio è quello di approcciare questo film se realmente si è interessati a questi argomenti che comunque qui non hanno una vera e propria trattazione, in questo caso il film potrà colpire lo spettatore dotato di un'ipersensibilità che io sinceramente non posseggo. Per gli altri la visione è sconsigliata, nonostante dal punto di vista formale non manchino delle belle sequenze, come quella del sogno della Principessa (Wallapa Mongkolprasert) e del pesce gatto ad esempio che presenta delle riprese subacquee riuscite ed evocative, o come quelle su una natura verde e rigogliosa, il film non ha nessun tipo di struttura, non che questo debba decisamente essere un male, ma non vive particolarmente né di atmosfere, né di contenuti (se non all'acqua di rose) né di grandissime maestrie tecniche. A mio parere Lo Zio Bonmee che ricorda le vite precedenti è un film sopravvalutato e in larga parte noioso, dove i ritmi sono lenti, cosa che andrebbe anche bene, ma in modo eccessivo. Il classico film che giustifica chi accusa alcune giurie festivaliere di propendere talvolta per opere inutilmente ermetiche.


giovedì 14 maggio 2020

LA MORTE CI SFIDA

(Dead in the west di Joe R. Lansdale, 1984)

Come lo stesso Lansdale ammette nell'introduzione a La morte ci sfida, "questo non è un libro di grandi riflessioni". Questo è uno dei primissimi romanzi scritti dallo scrittore texano, concepito nei primi anni 80 ben prima del ciclo di Hap & Leonard, della trilogia del Drive-In e dei maggiori successi del nostro, nelle intenzioni di Lansdale c'era quella di creare un'opera di intrattenimento puro, che richiamasse il piacere di guardare un vecchio film dell'orrore, magari in bianco e nero, un filmaccio di serie B o anche il piacere di leggere un bel fumetto (cita Jonah Hex) o un racconto pulp. È in questo contesto che si colloca La morte ci sfida pubblicato per la prima volta a puntate proprio su una rivista pulp (Eldritch Tales) e poi edito in volume qualche anno più tardi, nel 1986. Per l'ambientazione della sua storia Lansdale sceglie di affidarsi all'horror western, Mud Creek è infatti la classica cittadina del vecchio west: lo stallaggio, un hotel dove fermarsi a dormire, la stazione della diligenza, l'ufficio dello sceriffo, la banca, il saloon. E l'orrore che aspetta, proprio oltre il confine.

Tutto comincia in una notte con una Luna velata di nuvole, la diligenza condotta da Bill Nolan diretta a Mud Creek non arriverà mai a destinazione, quello che entrerà in città, se così vogliamo chiamare il piccolo insediamento, sarà qualcosa di completamente diverso e decisamente più oscuro di Bill Nolan, nonostante questi non fosse proprio un campione di buone maniere. Nello stesso momento, avvolto da un'aura di predestinazione, giunge a Mud Creek anche il reverendo Jebidiah Mercer, un soldato di Dio più svelto con la sua Colt Navy calibro .36 che non con i versetti della Bibbia. Il reverendo porta con sé un passato che lo carica di sensi di colpa e di incubi che non lo fanno dormire la notte, in quegli incubi Jebidiah vede anche un oscuro presagio, un confronto imminente con qualcosa di malvagio che sembra destinato a trovare corpo proprio lì, a Mud Creek, nel Texas orientale. Fortunatamente per lui (o forse no), il reverendo non sarà solo a contrastare il male incombente dall'antro della morte, con lui il dottore del paese, la sua bellissima figlia Abby e il piccolo David, il figlio dello stalliere al quale il reverendo si affezionerà ben presto.

Nonostante lo stesso Lansdale, nell'introduzione di cui sopra, prometta sangue, "quelle che sua mamma chiamava parolacce" e assenza di tagli censori a limitare la violenza, il testo non si rivela così eccessivo, soprattutto se letto oggi ad anni dalla sua prima edizione, lo stile di scrittura e la forma del racconto sono lineari e canonici, La morte ci sfida centra però l'obiettivo che si era prefissato, quello di intrattenere il lettore piacevolmente senza richieste di riflessione. Il libro è scorrevolissimo, con un minimo di dedizione si legge in pochi giorni, la mistura tra l'anima western, colta in pieno dall'autore texano, e il lato orrorifico si amalgama più che bene e come spesso avviene è più la preparazione all'inferno che sta per scatenarsi che non l'evento stesso a tenere desta l'attenzione del lettore. Jebidiah Mercer è un personaggio interessante, e tornerà almeno in un altro romanzo di Lansdale, i comprimari sono spesso "caratteri" tipici del west americano, a dare pepe alla storia una vecchia maledizione che arriva dal passato recentissimo della cittadina. Gli eventi si susseguono veloci, il libro è breve e il ritmo tiene, i capitoli corti tirano sempre al successivo come fanno le noccioline una con l'altra. Alla fine vi sarete gustati il viaggio tra le case di Mud Creek, certo non vi rimarrà molto dalla lettura ma su questo l'autore è chiaro fin da subito. Ci sono elementi in La morte ci sfida che sono validi sia portati nel campo del western che in quello dell'horror, pensiamo alla struttura dell'assedio ad esempio, alla minaccia che arriva da fuori, al gruppo composto da elementi molto differenti tra loro e via discorrendo, tutto molto classico e funzionale.

Mancano le trovate più fantasiose e l'approfondimento dei caratteri sui quali Lansdale crescerà con le opere successive, nell'ottica della letteratura di intrattenimento La morte ci sfida fa il suo sporco dovere, nulla più ci è stato promesso, nulla più è lecito chiedere.

mercoledì 13 maggio 2020

PARASITE

(기생충 Gisaengchung di Bong Joon-ho, 2019)

L'ultimo film di Bong Joon-ho è in qualche modo già entrato nella storia del Cinema essendo stato il primo film in lingua non inglese a vincere l'Oscar come miglior film, la categoria più prestigiosa tra i premi assegnati dall'Academy Award, inoltre Parasite si aggiudica anche il premio per le altre tre categorie più importanti che un'opera si possa portare a casa al di là delle interpretazioni, ovvero miglior film internazionale (quasi inconcepibile fino all'anno scorso poterli vincere entrambi), miglior sceneggiatura originale e miglior regia. Senza tener conto che il film arriva alla premiazione degli Oscar con la Palma d'oro del Festival di Cannes 2019, il Golden Globe per il miglior film straniero, i BAFTA per il miglior film straniero e per la migliore sceneggiatura ai quali si sono poi aggiunti il César e il David di Donatello sempre come miglior film straniero. Ora è pur vero che molto spesso i premi lasciano il tempo che trovano, però, come si dice, così tanti indizi dovranno pur fare una prova! Esaminando gli altri candidati al premio principale dell'Academy si evince anche come quest'anno la concorrenza fosse particolarmente agguerrita, in lizza oltre al film sud coreano niente meno che il Joker di Phillips, Quentin Tarantino con C'era una volta a... Hollywood, The Irishman di Scorsese e ancora Piccole donne, Jo Jo Rabbit, 1917, Storia di un matrimonio e Le Mans '66 - La grande sfida, film e nomi non da poco. Ciò nonostante la cascata di premi per Parasite si rivela più che giustificata per un film che riesce a coniugare in maniera perfetta la sua origine sud coreana con un respiro internazionale che rende l'opera accessibile al pubblico di ogni latitudine, cosa che Bong Joon-ho aveva già dimostrato di saper fare in altre occasioni. Anche in questo sta la chiave di un apprezzamento generalizzato dell'opera, anche presso parte di quel pubblico che solitamente guarda al Cinema d'oriente come qualcosa di troppo lontano dalla nostra sensibilità, soprattutto per ritmi, scansione dei dialoghi, metodi narrativi, Parasite salta l'ostacolo offrendo un prodotto di contenuto in una forma apprezzabile davvero da tutti.


Come già in altri suoi film - Snowpiercer per esempio - il regista si occupa di disparità tra classi sociali, affrontando qui l'argomento in maniera sottile (senza tralasciare le deflagrazioni del caso). Parasite presenta un incedere piano, l'innalzamento sociale della famiglia Kim avviene per progressive occasioni e piccoli inganni, successivi e concatenati, e che preparano in maniera convincente e divertente il corpo dell'opera. La famiglia Kim vive in un quartiere povero di Seul in un appartamento interrato piccolo e disordinato, il padre Ki-taek (Song Kang-ho) è disoccupato da tempo, insieme alla moglie Chung-sook (Chang Hyae-jin) si arrangia piegando cartoni per una pizzeria d'asporto, il figlio Ki-woo (Choi Woo-shik) e sua sorella Ki-jung (Park So-dam) sono studenti liceali. Un giorno un amico di Ki-woo gli procura una raccomandazione presso una famiglia molto facoltosa, la famiglia Park, in qualità di insegnante di inglese per la figlia adolescente Da-hye (Jung Ziso), per ottenere il posto e convincere la madre della ragazza, la svampita signora Choi Yeon-kyo (Cho Yeo-jeong), Ki-woo dovrà semplicemente fingere di essere uno studente universitario. Ottenuto l'impiego, con una serie di inganni e strategie illecite, il ragazzo e la sua famiglia riusciranno a sostituire la servitù della famiglia Park insediandosi pian piano nella loro lussuosissima casa, ottenendo così non uno ma ben quattro lavori retribuiti, migliorando di parecchio la loro condizione economica. Ma l'intoppo ovviamente è dietro l'angolo... (o nello scantinato se preferite).


Parasite vive di un equilibrio perfetto di elementi, ha un tono lieve e accostabile alla commedia più intelligente nella prima parte, punti di tensione, passaggi grotteschi e spunti di denuncia e riflessione, tutto in un amalgama che avvince lo spettatore dalla prima all'ultima sequenza. Il parallelo tra la vita sovraffollata in casa Kim si contrappone agli enormi spazi vuoti dell'abitazione moderna e splendida dei Park scandendo tematiche e dinamiche care a Bong Joon-ho, esteticamente perfetto e senza sbavature il film è un crescendo moderato che prepara la deflagrazione finale, la quale non arriva improvvisa ma graduale, grazie a una meticolosa preparazione che dona al film un'armonia rara. La metafora della casa, più che giocarsi sui livelli come da più parti si è detto (i Kim stanno sotto il livello della strada dove pisciano impunemente gli ubriachi mentre i Park hanno una casa su più piani) sembra guardare allo spazio vitale a disposizione del singolo che per le classi più povere è sempre più ristretto, proprio come le risorse, ciò nonostante tra i Kim sono forse più sinceri gli affetti e non mancano intelligenza e scaltrezza. Interessante vedere come il contrasto non è aperto se non quando viene inasprito, anche inconsapevolmente, da punte di disprezzo che gli "arrivati" difficilmente lesinano nei confronti degli altri, magari esternandolo con educazione nel privato, non di meno le differenze restano e in qualche modo si crea la polveriera pronta ad esplodere.

Parasite non ha davvero punti deboli, è uno di quei film che non lascia spazio a riserve, se quest'anno non ci è arrivato il Joker, se è mancato qualcosina anche a Tarantino, per Parasite possiamo spendere la fatidica parola. Capolavoro.

lunedì 11 maggio 2020

JOHN WICK

(di Chad Stahelski, 2014)

Il regista di John Wick, Chad Stahelski, è uno stuntman, una controfigura d'esperienza che inizia la sua carriera già negli anni 90 con Point Break di Kathryne Bigelow dove per la prima volta lavora con Keanu Reeves, protagonista della trilogia che vede il passaggio di Stahelski dietro la macchina da presa. La confidenza con il lato più action del Cinema si vede da subito, Stahelski pensa le scene assecondando quella che è la sua propensione più naturale, trova in Reeves un compagno abituato al genere e alle interpretazioni dinamiche, ne esce un prodotto calibrato alla perfezione sulle inclinazioni di entrambi e questo si percepisce, nonostante un approccio tamarrissimo alla materia, il film non fa una piega e riesce nell'intento di divertire il suo pubblico riuscendo in qualche modo a emergere dal calderone del cinema d'azione.

La trama ha qualcosa di geniale nella sua semplicità. John Wick (Keanu Reeves) perde la sua amatissima moglie a causa di una malattia. Distrutto dal dolore l'uomo trova sfogo nella velocità della sua Mustang del '69 (splendido esemplare del genio dell'industria automobilistica statunitense) e nell'affetto per il suo piccolo cagnolino, ultimo regalo ricevuto dalla moglie. Durante una sosta carburante John incontra un terzetto di delinquentelli russi che vorrebbero comprargli l'auto, auto che ovviamente non è in vendita. Segue piccolo alterco. Nottetempo la squadra di impavidi farabutti irrompe in casa di John cogliendolo di sorpresa, non paghi di averlo pestato per benino e di avergli rubato l'auto, i malviventi capitanati dal giovane Yosef (Alfie Allen, il Theon Greyjoy de Il trono di spade) gli ammazzano pure il cane. I tre non si rendono conto di aver pisciato leggermente fuori dal vaso, perché nella sua vita precedente John Wick era il sicario di cui avere paura, "lui non è esattamente l'uomo nero. Lui è quello che mandi ad uccidere l'uomo nero"! Fatto sta che per vendicare il cane e riprendersi l'auto John mette in atto una di quelle carneficine come poche se ne ricordano portate a termine da un solo uomo (per giunta in giacca e cravatta).


Divertimento allo stato puro, con John Wick Stahelski coglie nel segno grazie anche a un attore che, pur non essendo tra i migliori sulla piazza, si porta dietro un alone iconico capace di quadruplicare e più il budget investito nel film (e parliamo di decine di milioni di dollari). La produzione si gioca bene le sue carte anche con l'utilizzo della colonna sonora martellante che funge da ottimo accompagnamento alle sequenze d'azione, nessuna difficoltà per il regista a imbastire delle coreografie dinamiche che donano al film un ritmo indiavolato, ben calibrata la scelta dei comprimari, nel mondo della malavita e dei killer prezzolati d'alto livello non potevano mancare infatti un professionista di grande esperienza (Willem Dafoe), il boss della mala russa padre di quel giovincello sconsiderato da cui tutto ha inizio (Michael Nyqvist), carrettate di tirapiedi buoni come carne da cannone e ovviamente la femme fatale (Adrianne Palicki) da cui è meglio stare alla larga. Bella l'intuizione dell'Hotel Continental, una sorta di porto franco dove le liti tra killer non possono avere luogo, un'organizzazione inflessibile e che non tollera sgarri gestita dall'elegante Winston (Ian McShane).

Alla fine del film viene voglia di rivederlo in azione questo John Wick, infatti i sequel non si sono fatti attendere troppo. Speriamo solo che nel movimentare la vita al protagonista non debba andarci di mezzo un altro cane e che la mala newyorkese trovi altri volontari da dare in pasto a questa elegante e inarrestabile macchina di morte, roba che neanche Keyser Söze...

venerdì 8 maggio 2020

TEPEPA

(di Giulio Petroni, 1969)

Si può dire che il film di Petroni non goda del credito che meriterebbe all'interno del filone spaghetti western, sottogenere a cui siamo soliti associare Leone, qualche Corbucci e diverse altre opere sparse; con Tepepa Giulio Petroni sigla uno degli esiti più interessanti del filone proponendo un film al passo coi tempi, fortissimi infatti sono gli odori rivoluzionari di un'opera che cade a pennello e arriva subito dopo i movimenti di protesta del '68; qualche fonte accredita l'uscita del film proprio a quell'anno anche se più diffusa sembra la datazione al 1969. A innalzare il valore di questa pellicola dal mare di prodotti simili,  senza dubbio ci sono la partecipazione di Orson Welles nei panni del colonnello Cascorro, uno di quei personaggi negativi di gran levatura e consapevoli del loro ruolo, e soprattutto la costruzione del magnifico personaggio di Jesus Maria Moran detto Tepepa, un peone che ha un piglio epico, rivoluzionario, ambiguo e in parte, anche lui, marcio, un protagonista che Tomas Milian fa suo con gran maestria e che è reso al meglio dalla cadenza dell'attore, un italiano colorato dalle venature cubane proprie di Milian. L'ottanta percento della buona riuscita del film, valido sotto molti aspetti, è attribuibile proprio allo splendido personaggio cucito addosso a Tomas Milian, un povero idealista illuso, sostenitore della rivoluzione messicana di Pancho Villa, anch'esso condottiero con il cuore ai suoi amati peones e la testa a Madero, quello che sembra essere il Presidente giusto per ottenere un cambio di registro: mica la Luna, un po' di terra per i contadini, un po' di dignità in più e meno fame per i più poveri. Per quanto il confronto sia con un gigante come Orson Welles, qui impegnato si dice per motivi alimentari e che comunque offre una prova di tutto rispetto, è proprio Tepepa a rimanere nel cuore e a ritagliarsi un posto tra i personaggi da ricordare nel genere western (terzomondista o meno). Tra i due attori però c'è anche John Steiner, il Dottore.


La rivoluzione non è finita come doveva, il Presidente Madero non ha mantenuto le promesse fatte al popolo del Messico, il rivoluzionario Tepepa (Tomas Milian) che ha contribuito a portare Madero al potere è ora nelle carceri di Stato in attesa che il colonnello Cascorro (Orson Welles) dia l'ordine di eseguire la sua condanna a morte. Ci penserà il dottore, Henry Price (John Steiner) a trarlo in salvo con la sua auto elegante che chiude il quadro all'aspetto da damerino inglese che il dottore si porta addosso. Ma perché darsi tanta pena per uno straccione messicano? Semplice, il dottore vuole la soddisfazione di mandare al creatore Tepepa con le sue stesse mani, tenterà di farlo più volte nonostante il tempo e la frequentazione facciano nascere anche una sorta di simpatia per quel rivoluzionario che ha a cuore i suoi simili ma capace allo stesso tempo di macchiarsi di biechi misfatti, uno dei quali, proveniente dal passato, il dottore non può proprio perdonare.


Sono diversi gli aspetti per cui vale la pena dare un'occasione a Tepepa oltre alla magnifica presenza di un Tomas Milian perfetto e quella lercia e sudaticcia di un Welles che sembra quasi predestinato al male, uno su tutti la colonna sonora di Ennio Morricone che in principio appare leggera, semplice ma che si arricchisce con il passare dei minuti lasciando un bellissimo ricordo. C'è poi il discorso morale sugli opportunismi e sulle crudeltà del potere che oggi come allora continuano a manovrare le masse per i loro scopi, che le rivoluzioni "non sono un pranzo di gala" lo sappiamo tutti, ma non per questo fa meno male vederne raccontata l'inutilità, dopo ettolitri di sangue e sudore versato. C'è il tradimento, c'è il perdono, c'è l'odio e c'è l'amore, Petroni costruisce un film che ha un bell'equilibrio, avvincente e con dei contenuti, gli si rimproverano solo un paio di sequenze dagli esiti sinceramente improbabili, peccato veniale tutto sommato perdonabile. Si apprezza anche la complessità del personaggio di Paquito (Luciano Casamonica), un giovane simpatizzate di Tepepa che avrà un ruolo più grande di quel che spetterebbe a un ragazzino della sua età.

Gran bel western, non c'è che dire, la visione di film come questo fa rimpiangere il fatto che salvo rare eccezioni il genere sia oggi poco frequentato, ma si sa, tutto torna prima o poi.

mercoledì 6 maggio 2020

FRANCOFONIA

(di Aleksandr Sokurov, 2015)

Con Francofonia Aleksandr Sokurov crea una sorta di pastiche cinematografico che mischia diverse forme e stili al centro dei quali c'è la conservazione dell'arte occidentale. Il perno su cui ruota la narrazione, documentaristica ma non solo, è il museo del Louvre di Parigi. Francofonia, datato 2015, esce in anni in cui molta arte antica orientale veniva distrutta, cancellata dalle organizzazioni islamiche fondamentaliste; questo documentario non convenzionale ci ricorda come l'arte sia bene supremo da preservare in quanto parte fondante di un'identità, nazionale o sovranazionale che sia, da conservare in quanto memoria e ovviamente in quanto bellezza, cosa di cui soprattutto al giorno d'oggi c'è grandissimo bisogno.

Il fuoco dell'opera sta negli anni dell'occupazione tedesca in Francia durante la Seconda Guerra Mondiale: Parigi viene dichiarata città aperta e il Governo francese accetta più o meno supinamente l'invasione tedesca, Sokurov a tal proposito non manca l'accenno a qualche commento critico. Il dominio tedesco in cambio della salvaguardia della città e condizioni di vita clementi rispetto a quelle subite da altri paesi, e qui il regista torna alla sua madre Russia, con le immagini dei patimenti del popolo sovietico durante la guerra, sorte diversa rispetto a quella toccata ai francesi che vissero una sorta di pace amara nella parte nordoccidentale del Paese, e il comando del generale francese Pétain nel sud, in quello che divenne storicamente noto come Governo di Vichy.

All'epoca il Louvre era curato da Jacques Jaujard (Louis-Do de Lencquesaing), ovviamente il curatore aveva dato disposizione di trasferire le preziose opere del museo al di fuori di Parigi, in alcuni castelli francesi dove sarebbero state al sicuro dai bombardamenti. Ora a supervisionare tutto ciò che riguardava le opere del Louvre arriva il Conte tedesco Franziskus Wolff-Metternich (Benjamin Utzerath) che non poteva non entrare in contrasto con il "collega" francese. Nelle riprese d'epoca Sokurov tiene uno stile del tutto particolare, con immagini invecchiate ricostruisce l'atmosfera dell'epoca seguendo alcuni personaggi che si muovono però a contatto con la Parigi odierna, quasi a sottolineare l'unione delle epoche segnata proprio dall'arte, così passato e presente si mescolano, lo fanno anche la nascita del Louvre e il ben più recente ampliamento con l'arrivo della famosa Piramide, anche le opere che si possono ammirare provengono dalle epoche più disparate.


Come si diceva questa è un'opera di amalgama di cose diverse, così c'è una linea narrativa più moderna, attuale, lo stesso Sokurov in collegamento via web con un amico che è Capitano di una nave, un cargo in piena tempesta, in procinto d'affondare, in balia delle onde e della forza inarrestabile del mare, una cargo che trasporta container zeppi di inestimabili opere d'arte dal destino segnato. È un segmento angosciante, pensate alla situazione, e se le più meravigliose opere dell'uomo fossero in pericolo? Tutto riconduce alla situazione terribile che si viveva in quegli anni (l'altro ieri praticamente), per l'arte e non solo.

Non manca il lato più farsesco, con dei simboli ben noti, un Napoleone (Vincent Nemeth) spaesato e vanaglorioso che passeggia tra le sale del Louvre, una Marianna (Johanna Korthals Altes) che continua a ripetere Liberté, Égalité, Fraternité, frattanto i rapporti tra i due curatori evolvono, fortunatamente anche il tedesco è un uomo d'arte, il suo intervento impedirà che le opere custodite in Francia finiscano nelle mani dei vertici nazisti.

Un elogio alla cultura e all'arte che oggi è possibile vedere gratuitamente grazie alla bella iniziativa di Raiplay che mette a disposizione diversi materiali provenienti dal catalogo della trasmissione Fuori orario, un vero tesoro di Cinema altro grazie al quale si potrà fruire di questa e altre opere utili per seguire percorsi di visione originali e diversi, un'iniziativa che ci auguriamo possa travalicare i tempi pandemici e rimanere disponibile anche in futuro.

domenica 3 maggio 2020

VERDI COLLINE D'AFRICA

(Green hills of Africa di Ernest Hemingway, 1935)

Verdi colline d'Africa nasce come una sorta di sfida che Hemingway pose a sé stesso, oltre a essere una cronaca del periodo trascorso dallo scrittore in Africa orientale, siamo tra il '33 e il '34 con Hemingway impegnato in battute di caccia grossa, il libro è il tentativo di vedere  "se il profilo di una regione e l'esempio di un mese di vita descritti con fedeltà possano competere con un'opera di fantasia", parole queste che lo stesso scrittore mise come avvertenza in principio del suo libro. L'esito di questo esperimento fu accolto dalla critica dell'epoca con molta freddezza se non addirittura con recensioni avverse che demolivano oltre al contenuto considerato di scarso interesse, anche lo stile dell'autore in precedenza elogiato come uno dei più significativi esempi di scrittura della moderna generazione di narratori americani. In realtà dietro questa acredine, assodato col tempo che il libro è tutt'altro che disprezzabile, si celava un po' l'avversione che per vari motivi la figura dell'Ernest Hemingway uomo si era creata nel corso degli anni precedenti l'uscita di Verdi colline d'Africa. Intanto in diversi suoi scritti, come accade anche in questo, Hemingway non risparmiava commenti a volte tutt'altro che lusinghieri su colleghi scrittori, anche apprezzati dai critici, passando un po' per arrogante e inimicandosi parte dell'ambiente letterario americano, la stessa figura del critico non fu trattata dallo scrittore propriamente con i guanti di velluto, Hemingway non aveva peli sulla lingua, cosa che probabilmente gli valse critiche talvolta più severe di quel che l'effettivo valore dell'opera, pur non essendo collocabile al suo apice produttivo, meritasse. Inoltre il "disimpegno" di Hemingway, che negli anni successivi alla Grande Depressione si sollazzava tra vita mondana, party, uscite di pesca e safari in Africa, non era proprio benvisto dai critici più vicini alla sinistra, mentre la parte avversa non apprezzò alcuni dei contenuti presenti in Addio alle armi. Insomma, Hemingway se ne infischiava e procedeva per la sua strada.

Ammetto che qualche dubbio sul reale interesse che un libro come questo potesse suscitare lo nutrivo anche io, in fin dei conti non ho simpatia per la caccia, non sono particolarmente attratto dal continente nero e nemmeno dal tipo di narrazione cronachistica che mi si parava di fronte; nell'ottica di approfondire i grandi autori della letteratura americana mi sono comunque approcciato alla lettura di Verdi colline d'Africa. A lettura ultimata si può dire come la piccola scommessa di Hemingway sia stata vinta, il libro presenta più di un passaggio appassionante e tra questi ci sono proprio le descrizioni delle battute di caccia, vive anche di altri momenti più brevi ma egualmente sfiziosi dove Hemingway si concede delle digressioni riportando le sue conversazioni a tema letterario avute con la moglie Pauline Pfeiffer (o P.V.M. o Povera Vecchia Mamma o Mama per gli indigeni) e con il compagno d'avventura Jackson Phillips o con il cacciatore austriaco Kandinsky. In più il libro ha un discreto valore naturalistico, almeno per i meno esperti in materia, suscita la curiosità di andare a informarsi sulle zone più lussureggianti per vegetazione di quella parte d'Africa che sta tra la Tanzania e il Kenya o su cosa sia di preciso un kudù o come si presenti la razza delle antilopi nere. La narrazione si concentra sulla mera cronaca delle giornate di caccia con la ridda di sentimenti che da essa scaturiscono: la gioia nell'abitare seppur temporaneamente un paese meraviglioso, ancora non contaminato dall'uomo, tema caro allo scrittore che vede nell'America un paese ormai corrotto dall'opera dei suoi abitanti, la frustrazione per tutte le giornate storte e le occasioni mancate, l'invidia e il malumore di fronte alle splendide prede conquistate da altri cacciatori, in particolare Karl, peraltro ottimo uomo e amico di Hemingway, la soddisfazione per le proprie vittorie, la fatica e un certo senso d'onore verso le prede: cacciare solo maschi adulti, uccidere al primo colpo evitando di far soffrire l'animale, nutrirsi della carne di ciò che si è cacciato. Interessanti anche le descrizioni degli indigeni, con opinioni che variano dalla grande ammirazioni per i nobili guerrieri masai fino al disprezzo per qualche cialtrone locale ormai troppo abituato all'uomo bianco.

Seppure la scrittura di Hemingway in Verdi colline d'Africa non eguagli la potenza che lo stesso esprimeva ad esempio in Addio alle armi, che peraltro trattava di ben altre tematiche, si può dire che il libro fu ingiustamente bistrattato dalla critica, rimane un'ottimo romanzo di viaggio, un diario appassionante di situazioni che pur non avendo un interesse universale hanno la capacità di catturare l'attenzione e avvincere il lettore, in fondo proprio la buona riuscita della sua scrittura, la ricerca su forma e linguaggio, è sempre stata uno dei crucci di Hemingway che da questo punto di vista, anche in quest'occasione, non si può dire che abbia sbagliato il colpo.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...