mercoledì 28 febbraio 2024

UPSTREAM COLOR

(di Shane Carruth, 2013)

Ci è già capitato in passato di affermare come per film particolarmente enigmatici o che semplicemente richiedano allo spettatore uno sforzo interpretativo più consistente del normale, sia tutto sommato semplice sposare una linea di lettura e andare poi a cercare nell'opera elementi che possano corroborarla o quantomeno renderla (per quanto possibile) un minimo credibile. Nulla di male in questo, è fuori di dubbio come molti critici o anche semplici amanti del cinema si dilettino nella maniera più onesta e appassionata a questa pratica che può facilmente rivelarsi stimolante e finanche divertente. Upstream color, secondo lungometraggio del regista statunitense Shane Carruth, si presta in toto all'essere sviscerato dall'intelletto dello spettatore più volenteroso alla ricerca di un recondito significato dell'opera, cosa tra l'altro impossibile da trovare se non nel campo delle ipotesi o delle speculazioni, le certezze non abitano da queste parti (e a sentire chi ha visionato anche l'esordio Primer non abitano nemmeno in casa Carruth). Film ermetico quindi che apre il fianco a dibattiti senza fornire risposta alcuna; genio dell'autore? Volontà di confondere le acque? Approccio "arty"? Supercazzola per immagini (e poche parole)? Ai posteri, o anche a voi amati lettori, l'ardua sentenza!

Kris (Amy Seimetz) è una donna con una vita all'apparenza normale; una sera viene aggredita da uno sconosciuto (Thiago Martins) che la costringe a ingoiare una larva coltivata e trattata dallo stesso e da un team di suoi giovani collaboratori. Questa larva entra nell'organismo di Kris inducendole un forte stato ipnotico che la porta a trovarsi alla completa mercé del suo aggressore che pian piano riesce a portarle via l'intera sua vita: tutti i suoi risparmi, la casa, alla fine anche il lavoro e la possibilità di mantenersi da sola. Quando l'insolito criminale sembra aver sfruttato appieno Kris questa, sempre attraverso il parassita che ora le abita il corpo, viene attratta da un altro uomo misterioso che potremmo chiamare l'uomo dei maiali (Andrew Sensenig), all'apparenza non chiaramente intenzionato a far del male alla donna, infatti questi la libera dalla larva trasferendola in un maialino; Kris è ora libera, senza più nulla al mondo ma, forse, con qualche tipo di legame residuo con quel suino. Poi arriva Jeff (lo stesso regista Shane Carruth), un uomo che sembra aver subito esperienze simili a quelle di Kris, si conoscono in metro, la loro unione potrà diventare un'amplificarsi del trauma o, se i due si dimostreranno forti e fortunati, magari una cura per entrambi.

Carruth, tramite l'utilizzo di immagini e sequenze suggestive e avvolgenti, costruisce una (non) storia dalla difficile interpretazione. Da due situazioni di crisi, una sola ben esplicitata allo spettatore (quella di Kris) si arriva a quella che potrebbe essere vista o come una storia d'amore difficile e screziata di follia o come una cura, un sostegno da trovare (l'uno) nell'altro per affrontare e sconfiggere le difficoltà e le minacce poste dal mondo esterno, possibile metafora della società moderna in cui ci troviamo a vivere. Ma, sempre rimanendo nel campo delle elucubrazioni, anche una ritrovata libertà (Kris si libera dal verme) può essere solo apparente e qualcun altro per noi continua a tirare i fili del gioco (Kris è ancora in qualche modo legata al maiale e all'uomo dei maiali). E pure quando il male evidente può sembrare sconfitto, siamo poi proprio sicuri che i processi che stanno sopra di noi siano effettivamente debellati? (è finita davvero la minaccia del controllo esterno? Tema di grande attualità). Sono parecchie le tesi che possono accostarsi al film di Carruths: controllo, elaborazione del trauma, guarigione tramite relazione, caso e insondabilità degli eventi; ad ogni modo il film è godibile, forse profondo, forse solo paraculo, di certo affascinante, ben diretto e studiato. Vi piace interrogarvi su strutture poco limpide e significati reconditi? Upstream color è il film che fa per voi.

lunedì 26 febbraio 2024

DOLORES CLAIBORNE

(di Stephen King, 1993)

"Che cosa vuole una donna?"
Sigmund Freud

"R-E-S-P-E-C-T, scopri che cos'è per me."
Aretha Franklin

Anno 1993, decenni prima che il ruolo della donna finisse sotto i riflettori del dibattito pubblico, anche per quel che riguarda l'ambito della cultura (pop e non), Stephen King scriveva questo romanzo per sola voce femminile nel quale venivano sottolineate le difficoltà che dovevano affrontare le donne in un'America ancora rurale e operaia e non troppo scolarizzata, prendendo in esame un arco temporale che nei ricordi della protagonista Dolores Claiborne abbraccia un periodo che va più o meno dagli anni 50 fino alla contemporaneità d'uscita del romanzo, gli anni Novanta dello scorso secolo. Il "Re del brivido" non è nuovo nel mettere sotto accusa una società americana dove disparità e ingiustizie sono all'ordine del giorno e diffuse in tutti gli Stati del Paese, in questo caso al centro della narrazione c'è proprio la difficile condizione dell'essere donna in un mondo profondamente maschilista. All'epoca dell'uscita di questo romanzo il periodo d'oro del Re, quello durante il quale King non sbagliava un colpo (o quasi), era forse giunto al termine, ma anche nel decennio dei Novanta non è difficile trovare all'interno della bibliografia dell'autore di Bangor opere valide come questa che comunque si attestava tra gli scritti ben riusciti del Re trovandosi in buona compagnia: si ricordano infatti nello stesso decennio almeno Cose preziose, Quattro dopo mezzanotte, Cuori in Atlantide e Il miglio verde, tutte opere più che meritorie.

Little Tall Island nel Maine è una piccola comunità isolana, è in questa località che vive ed è cresciuta Dolores Claiborne, una donna che oggi ha passato la sessantina e che continua a occuparsi della sua datrice di lavoro, l'anziana Vera Donovan non più completamente autosufficiente. Quando Vera muore a causa di un incidente domestico le autorità locali sospettano qualcosa riguardo Dolores, così la donna si troverà a dover rilasciare una corposa dichiarazione lungo la quale dovrà ripercorrere il pluriennale rapporto che la lega e l'ha legata a Vera Donovan, nel far questo verrà rivangato anche il passato della famiglia di Dolores, il rapporto con un marito difficile, Joe St. George, e le circostanze, già sviscerate in altre occasioni, riguardo la sua morte accidentale, il legame dei due figli maschi con il padre e le vicende legate all'unica figlia femmina di Dolores, Selena St. George. Testimoni di questa fluviale confessione sono il capo della polizia di Little Tall Andy Bissette, l'agente Frank Proulx e la giovane stenografa Nancy Bannister.

Oltre a essere un ottimo romanzo con Dolores Claiborne Stephen King realizza anche un pregevole esercizio di stile che rende questo scritto un'opera originale all'interno della bibliografia del Re. Sono almeno due gli elementi che caratterizzano questo Dolores Claiborne: il primo consta nel fatto che l'intero libro si presenta come un unico flusso di coscienza della protagonista; è lei infatti che prende la parola fin dalla prima pagina del romanzo e ci accompagna raccontandoci la sua storia fino all'ultimo punto dell'ultima pagina. Nel mezzo non ci sono interruzioni, non ci sono stacchi, non ci sono capitoli, solo un unico flusso ininterrotto di ricordi che accompagna il lettore e lo spinge a rimanere sul libro fino alla sua naturale conclusione. Anche quando Dolores è impegnata in brevissimi scambi con i tre ascoltatori (agenti e stenografa) noi sentiamo solo le sue parole e al limite deduciamo gli interventi degli altri personaggi, ma anche queste situazioni sono molto limitate nell'economia del racconto. Altro elemento che conferma la grandezza di King (e qui c'è anche la mediazione del traduttore, Tullio Dobner per l'edizione in mio possesso) è lo stile di scrittura adottato dall'autore che con un linguaggio in parte sgrammaticato rende al meglio la condizione sociale e culturale di una donna semplice cresciuta con la fatica e non con i libri, il tutto rende la narrazione di Dolores ancor più credibile e avvincente. Sono pochi gli sprazzi concessi al sovrannaturale, giusto qualche piccola allusione, per il resto quella di Dolores Claiborne è una storia drammatica e concreta, fatta di soprusi, rapporti difficili, amore, coraggio e decisioni dure da prendere. Ancora una volta King dimostra di essere un ottimo scrittore indipendentemente dai generi, cosa che nonostante il successo planetario di vendite forse continua a non essergli riconosciuta al pari dei suoi meriti.

venerdì 23 febbraio 2024

I PREDATORI

(di Pietro Castellitto, 2020)

È un bell'esordio quello di Pietro Castellitto, film che ha diviso la platea tra chi ci ha visto un'opera prima fresca e vivace seppur nelle sue fondamenta non originalissima e chi l'ha bollata come un'accozzaglia di sequenze slegate o come un film ingiustamente premiato, anche a causa di un linguaggio poco comprensibile, problema che, pur non vantando origini romane, io non ho riscontrato. Forse un poco di verità trova spazio al di là di entrambi i lati della barricata, il fatto poi che il film divida e abbia fatto discutere è di per sé già un motivo d'interesse e sintomo di una volontà di discostarsi dalla media della nostra commedia, cosa che non può che esser vista con un certo favore. Il film in effetti non poggia su basi nuove, al centro c'è il contrasto tra una famiglia della borghesia benestante romana e una proletaria e fascistella con qualche aggancio criminale. Come in diversi hanno avuto modo di ricordare, l'accostamento più facile da fare per questo I predatori è quello con il più celebre Ferie d'Agosto di Paolo Virzì datato 1996, qui le due famiglie erano rappresentate da Silvio Orlando ed Ennio Fantastichini, tra l'altro con qualche punto in comune tra i due film (l'armeria). Ciò in cui I predatori si discosta dal suo predecessore sta nel fatto che i contatti tra i componenti dei due nuclei familiari, i Pavone (i borghesi) e i Vismara (i coatti), si riducono a pochi brevi (seppur importanti) momenti, il confronto non è mai diretto tra protagonisti ma sta più nella penna di Castellitto e nell'occhio e nella sensibilità dello spettatore, scelta che differenzia questa narrazione da altre e punto a favore della causa del Nostro simpatico figlio d'arte (Pietro è figlio di Sergio). Un'altra verità indubbia è che il film denoti una struttura (volutamente) slegata, fatta di tranches, momenti, suggestioni che vanno a costruire in maniera libera personaggi e comportamenti più che una storia, che comunque pur se strampalata c'è e non è poi difficile da seguire.

Federico Pavone (Pietro Castellitto) è cresciuto in una famiglia ricca della buona borghesia romana: il padre Pierpaolo (Massimo Popolizio) è uno stimato medico, la madre Ludovica è una regista affermata non troppo tenera con i suoi collaboratori. Claudio Vismara (Giorgio Montanini) è invece il proprietario di un'armeria, tipo un po' ignorante e sempre alle prese con i soldi e le spese in continuo aumento, è sposato e ha un figlio giovane già appassionato di armi. Quando l'anziana madre di Claudio, la signora Ines (Marzia Ubaldi) viene investita dopo essere stata truffata da un losco giovane (Vinicio Marchioni), sarà proprio Pierpaolo a salvarla; il lambirsi di queste esistenze porterà a una serie di eventi che coinvolgeranno le frustrazioni di Federico nei confronti del suo professore universitario (Nando Paone) che lo ha escluso dal progetto di riesumare il corpo di Friedrich Nice (!), la coppia di amici dei Pavone composta dal primario Bruno (Dario Cassini) e da sua moglie Gaia (Anita Caprioli) e il malavitoso Flavio Vismara (Antonio Geraldi), zio di Claudio.

Non si capisce bene se Castellitto con I predatori volesse ergersi a voce anti borghese, anti fascista, anti "radical chic" o anti commedia "troppo italiana" per dirla con La Rochelle, oppure se al giovane di tutto ciò non gliene fotta una beneamata minchia e nelle sue intenzioni prospettasse solo quella di creare una commedia diversa, libera, capace di scompigliare un poco le carte pur senza iniziare una rivoluzione, l'idea di divertirsi e divertire (e ci riesce parecchio bene) usando i toni del grottesco e a tratti dell'esagerazione mettendo in campo fin da questo esordio una capacità di dirigere, macchina e attori, tutto sommato da non sottovalutare e da tenere d'occhio per il prossimo futuro. Da queste parti si tende ad abbracciare la seconda ipotesi, più genuina, simpatica e anche più accogliente, adatta a un corpo attoriale comico, quello appunto di Pietro, capace di imbroccare al primo colpo momenti e tempi comici, situazione e quadro generale che, seppur slabbrato nei contorni e (solo) apparentemente senza direzione, alla fine funziona, intrattiene e ci fa ridere parecchio. Magari un po' fuori fuoco (che poi è pure il suo bello), I predatori mi sembra una bella opera prima che finalmente non puzza di muffa già dal principio, poi se proprio si deve ritoccare qualcosa c'è tutto il tempo per farlo, magari se ne riparlerà in merito al successivo Enea.

mercoledì 14 febbraio 2024

SORELLE MAI

(di Marco Bellocchio, 2010)

Sono diverse le forme che nel tempo ha adottato il cinema del regista di Bobbio Marco Bellocchio; alle numerose opere nelle quali è la dimensione intima e familiare a ricoprire la parte del leone nella narrazione e nella messa in scena del regista, si alternano film dal respiro più ampio, capaci di guardare anche a un mercato internazionale e di raccontare l'Italia e la sua (la nostra) Storia uscendo dalle vicende della provincia emiliana, dalla dimensione privata, per abbracciare il pubblico e il condiviso, ne sono esempi molto riusciti i premiati Buongiorno notte del 2003, Vincere del 2009 oppure Il traditore del 2019. Sorelle mai appartiene alla prima categoria ed è un'ampliamento di un precedente lavoro di Bellocchio dal titolo Sorelle, un mediometraggio di poco più di un'ora che conteneva già alcuni dei frammenti riutilizzati poi in questo Sorelle mai, film più lungo (105 minuti) e composto da sei sezioni girate in anni diversi. Il progetto originario, Sorelle appunto, è stato realizzato all'interno del progetto "Farecinema - Incontro con gli autori", iniziativa creata proprio da Bellocchio a Bobbio, paese dove il regista è cresciuto, poi ampliatasi anno dopo anno e trasformatasi in una vera e propria manifestazione dedicata al cinema, il Bobbio Film Festival. Il film del 2006 era stato realizzato con l'aiuto degli studenti di Farecinema e, cosa non nuova per Bellocchio, mettendo in scena diversi componenti della famiglia del regista che si prestano qui in qualità di attori.

A Bobbio, nella casa di famiglia, zia Mariuccia (Maria Luisa Bellocchio) e zia Letizia (Letizia Bellocchio) badano alla piccola pronipote Elena (Elena Bellocchio). La bambina è figlia di Sara (Donatella Finocchiaro), nipote delle due anziane signore, una giovane madre che nonostante i ripetuti insuccessi non riesce ad abbandonare il sogno di fare l'attrice, cosa che la porta a dover stare a Milano in una situazione molto precaria che non le consente di crescere in prima persona sua figlia, bambina che ama moltissimo e che torna a trovare al paese ogni qualvolta se ne presenti l'occasione. Il fratello Giorgio (Piergiorgio Bellocchio) patisce questa situazione convinto che la sorella Sara, alla quale è molto legato, stia trascurando la piccola Elena. Gli averi della famiglia, come i gioielli, la casa, finanche la cappella di famiglia al cimitero, sono curati con serietà e dedizione dall'amico Gianni (Gianni Schicchi Gabrieli), è a lui che Giorgio si rivolgerà quando, fidanzato con una creatrice di gioielli, avrà desiderio di aprire una sua attività orafa; finirà per fare l'attore. Nel frattempo gli anni passano, Elena cresce, le cose si muovono, ma l'attrazione verso Bobbio, verso quella provincia all'apparenza ferma e immutabile continua a farsi sentire, soprattutto per Giorgio che sente la sua vita girare a vuoto.

Per Sorelle mai Bellocchio torna a Bobbio a girare nella casa del suo esordio, il più duro e problematico I pugni in tasca datato 1965, qui riprende dinamiche familiari non semplici seppur meno tragiche di quelle narrate nel suo primo film. Sei spezzoni girati in anni diversi lungo i quali si possono ammirare la maturazione dei personaggi e degli attori, soprattutto quella della piccola Elena Bellocchio diventata pian piano giovane adolescente. Oltre ai problemi che, piccoli e grandi, affliggono la serenità di molte famiglie, tra i quali desideri infranti, lontananze, immaturità, delusioni, guai economici, Bellocchio (e collaboratori) pone sotto la lente un'inspiegabile attrazione verso le proprie radici, verso le origini che richiamano forte anche quando la vita sembra volersi e doversi sviluppare altrove, lontano da Bobbio, dalla zona di Piacenza, lontano dall'Emilia. È una narrazione piana quella che si trova in Sorelle mai eppure mai noiosa, le vicende della famiglia si dipanano con un ritmo naturale ben ripreso in video dalla naturalezza delle immagini, mai laccate o troppo rielaborate, ci sono diversi passaggi dall'effetto un poco sfocato o sgranato, con un equilibrio precario nell'illuminazione, elementi che donano una patina di veridicità a un film che si accosta più alla vita che al cinema. Senza grandi uscite a effetto Bellocchio imbastisce un altro valido tassello di una filmografia eclettica capace di dirci qualcosa andando a pescare da materiale il più disparato tra quello a disposizione nel bagaglio di un regista colto e capace, cosa deducibile anche da opere come queste magari considerate minori nel corpo d'opera di uno dei maestri del cinema italiano contemporaneo.

lunedì 12 febbraio 2024

LOKI - STAGIONE 2

Dopo lo sperpero di idee sulla carta potenzialmente buone messo in atto con Secret Invasion, a distanza di qualche mese la sezione televisiva del Marvel Cinematic Universe prova a risalire la china con questa seconda stagione dedicata al Loki interpretato dall'attore inglese Tom Hiddleston. Prima di addentrarci nel racconto di ciò che si è potuto ammirare in questa seconda annata tengo a precisare che arrivo da un ricordo non troppo lusinghiero di una prima stagione che non mi aveva entusiasmato pur mostrando qua e là alcuni elementi di interesse (opinione personale, ovvio). Ci eravamo lasciati con l'arrivo di Colui che rimane (Jonathan Majors) e con l'espansione del multiverso, concetto di difficile gestione, frammentatosi in un'infinità di linee temporali alternative in seguito agli eventi messi in moto da Sylvie (Sophia Di Martino) in chiusura di prima stagione. Per porre rimedio ad alcune disastrose conseguenze poste in essere dalle azioni di Sylvie (una delle tante versioni alternative di Loki stesso), tra le quali figura anche il rischio di distruzione completa della stessa TVA (Time Variance Authority), Loki dovrà convincere Mobius (Owen Wilson) e gli altri alleati su cui può contare all'interno dell'agenzia dell'urgenza di fermare Sylvie e ripristinare così la stabilità del telaio temporale che garantisce alle realtà alternative di non collassare una sull'altra. Prima di fare questo Loki dovrà trovare il modo di stabilizzare la sua condizione fisica, a inizio stagione infatti troviamo un protagonista affetto da un'involontaria disgregazione che lo porta a saltare da un tempo all'altro e da un luogo all'altro senza nessun controllo. Per portare a termine le varie missioni necessarie a impedire il caos più totale i protagonisti già noti (Loki, Mobius, B-15, Casey) potranno contare sull'esperto della linea temporale Ouroboros detto O.B. (Ke Huy Quan) e su una versione proveniente dall'epoca vittoriana dello stesso Colui che rimane, l'inventore Victor Timely (sempre Jonathan Majors).

Detta così sembra un gran casino, è questo il rischio più grande dell'andare a impelagarsi con la gestione di un multiverso che forse è in parte il motivo per cui diverse opere recenti del Marvel Cinematic Universe hanno fatto storcere più di un naso. In realtà (sempre parere personale) questa seconda stagione di Loki si dimostra tutto sommato abbastanza semplice da seguire e anche meglio riuscita della precedente, forse meno sperimentale o innovativa ma più concreta e centrata andando a lavorare bene sulla coralità dei personaggi (non in egual misura su tutti) e donando un percorso coerente di redenzione al protagonista che forse potrebbe trovare qui la sua ultima partecipazione all'interno del MCU (pare che Hiddleston voglia dedicarsi ad altro). Il rimpianto maggiore si può ricondurre alla scelta in casa Marvel di abbandonare le caratteristiche di base del personaggio classico, il "dio dell'inganno" è ormai divenuto un bravo ragazzo intento a salvare il futuro di tutti quanti con una propensione all'eroismo propria (forse) di qualche incarnazione cartacea più moderna di Loki. Per il resto, al netto di qualche passaggio a vuoto, questa seconda stagione risulta sempre godibile, per Majors si trova uno spazio più ampio nel quale l'attore può gigioneggiare con la dovuta maestria e affiancare il talento Hiddleston che si conferma un Loki tagliato a misura; viste le recenti vicissitudini legali che hanno coinvolto Majors è però probabile che non rivedremo a breve il personaggio di Kang (o Colui che rimane o Victor Timely) o quantomeno non lo rivedremo con lo stesso volto. Indovinato l'inserimento del personaggio di O.B. interpretato da Ke Huy Quan, l'attore vietnamita può finalmente dedicarsi seriamente alla costruzione di "tracobetti" utili a salvare la giornata come desiderava fare fin dai tempi dei Goonies, inoltre il nome del suo personaggio, Ouroboros, è emblematico di tutta la questione temporale dipanatasi nell'arco delle sei puntate e che si spera vada a chiudersi con la quadratura del cerchio (l'Oroboro è il serpente che si mangia la coda, simbolo di circolarità). Visivamente ben realizzata, la stagione sfoggia un'estetica in bilico tra retrò e fantascienza molto azzeccata con sfoggio di alcune trovate esteticamente davvero funzionali, i fan dei fumetti di Thor non potranno non apprezzare il nuovo status quo pensato per Loki con la simbologia realizzata nelle ultime sequenze della stagione.

Stagione quindi più che godibile fermo restando la necessità di non stare a far le pulci su ogni minimo passaggio: il multiverso è il caos e le soluzioni trovate dalla TVA per non mandare l'esistenza di tutti in vacca sono piuttosto fantasiose, i superpignoli potrebbero anche trovar qualcosa che potrebbe non collimare nello sviluppo di questo caos, siamo pur sempre nei confini del fantastico e se si prende la serie per l'intrattenimento che è questa alla fine riesce a risultare tutto sommato ben costruita e abbastanza divertente. Si è lavorato bene su qualche personaggio (Loki, Mobius), un po' meno su altri poco sfruttati (Renslayer ad esempio), qualche momento di stanca c'è ma ci si risolleva con un bellissimo finale che in effetti potrebbe chiudere in maniera perfetta il ciclo di Loki all'interno del Marvel Cinematic Universe, se rivedremo il personaggio solo il futuro potrà dircelo. O forse il passato. O forse una linea temporale alternativa. O forse...

martedì 6 febbraio 2024

LIBERTÀ

(Freedom di Jonathan Franzen, 2010)

Libertà all'interno della bibliografia di Jonathan Franzen segue l'osannato Le correzioni (vincitore del National Book Award) e giunge alla pubblicazione ben otto anni dopo il precedente romanzo; nel tempo intercorso tra le due uscite Franzen si è dedicato alla stesura di qualche racconto e alla scrittura di un libro di memorie uscito nel 2006 (Zona disagio). L'attesa è stata lunga ma di certo ne è valsa la pena, i lettori che hanno imparato ad amare lo scrittore statunitense grazie alle vicende private della famiglia Lambert narrate ne Le correzioni non faranno difficoltà a innamorarsi anche di questo Libertà, romanzo nel quale Franzen torna ancora una volta su dinamiche familiari immerse nella contemporaneità del momento e calate nella realtà statunitense dei nostri anni, dando così in pasto al lettore sì un ottimo romanzo familiare ma anche un resoconto tra le righe dello "stato dell'Unione" e di quello dei suoi appartenenti. La connessione tra vicende private e vita pubblica, nello specifico anche politica, si evince in maniera forte in un possibile parallelo tra i due romanzi: ne Le correzioni l'ultimogenito dei Lambert, Chip, figura in parte problematica e inconcludente, trova a un certo punto la sua strada al seguito di un alto papavero lituano che lo porterà nel suo Paese per mettere a punto un affare poco pulito con il quale ingannare investitori statunitensi e accumulare soldi nel giro di pochissimo tempo nascondendosi dietro un'ufficialità solo all'apparenza rispettabile. Anche il trampolino di lancio di Joey, figlio maschio dei Berglund, la famiglia protagonista di Libertà, si muove in bilico tra politica, finanza sporca e territori di guerra, con un traffico di forniture militari difettate, anche qui una potenziale scorciatoia per arrivare al soldo facile e veloce. È proprio questo incastro naturale e perfetto tra il microcosmo familiare e le macro situazioni che rispecchiano l'andamento di un Paese e di un epoca a rendere i romanzi di Franzen (almeno questi due) così riusciti e imprescindibili per un amante della buona letteratura, senza tralasciare il fatto che quando l'autore si addentra nelle pieghe dei rapporti interpersonali, tra parenti, tra amanti, tra genitori e figli, tra amici, riesce sempre a delineare dinamiche di grandissimo interesse con una profondità mai banale e non così facile da trovare in giro.

Libertà è uno di quei romanzi per i quali si soffre una volta girata l'ultima pagina; questa può sembrare un'affermazione un po' retorica e anche un poco scontata ma abbandonare Walter, Patty, Richard, Joey, Connie, Lalitha e gli altri, dopo un viaggio di più di seicento pagine, dispiace un poco. Il livello di dettaglio con il quale Franzen tratteggia i suoi protagonisti li rende tutti quanti vivi e rotondi e la discesa tra le pieghe dei sentimenti che questi provano l'uno per l'altro, in un senso o nell'altro, è la dimostrazione della caratura di un autore di altissimo livello capace di cogliere sfumature e dinamiche così intime e personali che sembrerebbe quasi impossibile tradurle al meglio in parole per poi poterle riversare sulla pagina bianca. Franzen ce la fa, questo talento insieme alla capacità dello scrittore dell'Illinois di costruire un quadro d'insieme sentito, partecipato e allo stesso tempo dotato di grande lucidità, ne fa un narratore perfetto per ergersi a cantore tanto dell'animo umano quanto dell'ambiente in cui questo si trova a coltivarsi, a crescere, a prosperare o a deperire, un po' come può accadere all'ambiente, pallino verde di Walter, che può essere influenzato in positivo o in negativo a seconda dei comportamenti di chi gli vive sopra e intorno. Le interconnessioni fanno gli uomini e le donne, i rapporti con padri e madri lasciano segni indelebili che veicolano, a volte pregiudicano, l'intero andamento di vite all'interno delle quali trovare la via personale, se si è fortunati quella giusta, diventa spesso un'impresa tutt'altro che semplice. C'è in Libertà una ricchezza di rapporti complessi che trasuda vita da ogni pagina, certo, c'è anche qualche passaggio più dispersivo qua e là, soprattutto nel momento in cui Walter e Lalitha si addentrano nella missione green di salvaguardia nei confronti della dendroica cerulea, uccellino passeriforme che vive nelle foreste decidue del Nord America orientale, Franzen è meticoloso in tutte le sue descrizioni, non solo quelle sociali o dell'animo ma anche in quelle ecologiche, indubbiamente per molti di più difficile digestione.

C'è in Franzen una meravigliosa capacità di esprimersi, di tirar fuori le cose, di raccontare uomini, di raccontare donne, di raccontare genitori, figli, stati d'animo, ansie, paure, senso del dovere, amore per ciò che è giusto, tentativi di distacco, fedeltà e tradimenti, amicizia e rancore, desiderio, amore, fastidio e tutto ciò che ancora rimane, alla fine è quasi impossibile non innamorarsi di uno che scrive così e dei suoi romanzi.

sabato 3 febbraio 2024

THE GUITAR MONGOLOID

(Gitarrmongot di Ruben Östlund, 2004)

Torniamo a stretto giro al cinema scandinavo dopo aver da poco parlato dell'ottimo Sick of myself del norvegese Kristoffer Borgli; questa volta ci spostiamo in Svezia per occuparci del film d'esordio dell'oggi molto apprezzato Ruben Östlund, regista originario di Göteborg e che ambienta questo suo primo lungometraggio nella fittizia Jöteborg, versione alternativa della sua città natale. Le reazioni a questo The guitar mongoloid sono state da subito contrastanti, la fama del regista e l'apprezzamento che molta critica oggi gli tributa è arrivato solo col tempo grazie soprattutto alle opere successive siglate dal regista svedese, a oggi sullo scaffale della cameretta di Östlund brillano già due Palme d'Oro (The square e Triangle of sadness), un premio della giuria nella sezione Un Certain Regard di Cannes (Forza maggiore) e un David di Donatello (The Square). Anche per questo The guitar mongoloid, sul quale la critica si è mostrata più divisa, è comunque valso al regista qualche riconoscimento come ad esempio il premio FIPRESCI al Festival di Mosca del 2005. Esordio non semplice e anti narrativo questo The guitar mongoloid che può essere visto come un collage di suggestioni atipiche e laterali che compongono una sinfonia storta di una cittadina abitata da gente che adotta comportamenti strani e gente "normale" che sembra non accorgersi o non curarsi degli appartenenti alla prima categoria.

Il film inizia con una serie di immagini televisive che pian piano si sfocano, presentano disturbi, sul tetto di un condominio un ragazzino si diverte a cambiare l'orientamento di tutte le parabole impedendo la ricezione del segnale ai condomini, un comportamento reiterato di disturbo assolutamente immotivato. Seppur ripreso da lontano il fatto che il ragazzo porti una camicia a scacchi rossi e neri e che porti sulle spalle la custodia di una chitarra lascia presupporre che lo spettatore si trovi di fronte alle prime imprese del "guitar mongoloid" a cui il titolo fa riferimento e che troveremo più volte nel corso del film. Stacco, si passa a una signora affetta apparentemente da qualche disturbo comportamentale che in maniera ossessiva continua a girare una chiave nella toppa della porta di casa affermando più e più volte "questa è l'ultima volta". Il film procede poi di questo passo con stacchi continui su personaggi diversi: due idioti un po' brilli in uno scantinato passano il tempo... beh, facendo gli idioti. Un gruppo di giovani ragazzi si prodigano nel trovare nuovi modi per accanirsi sulle biciclette che capitano loro a tiro vandalizzandole. Il chitarrista di cui sopra intrattiene uno strano rapporto con quello che sembra a tutti gli effetti essere per lui una sorta di figura paterna, altrettanto fulminata quanto lui. Tre ragazzi tentano una roulette russa casalinga con esiti per fortuna non sanguinosi. Episodi con questi e con altri protagonisti si alternano e costruiscono l'ossatura di questo The guitar mongoloid.

Guardando The guitar mongoloid mi è venuto alla mente il Trash humpers di Harmony Korine, film dalla struttura simile (ma non uguale) che comunque non può esser stato riferimento per Östlund in quanto successivo a questo. C'è da dire che la differenza tra le due pellicole risiede nel fatto che Östlund quanto meno qui non cerca di provocare o disturbare lo spettatore, almeno questa è stata la mia percezione, in alcune sequenze il regista riesce anche a farci sorridere, caratteristiche queste che mi hanno fatto preferire The guitar mongoloid a Trash humpers. Nel complesso tutto ciò non è sufficiente per poter consigliare la visione di un film molto slegato che nelle intenzioni, forse, questo è molto difficile da affermare con certezza, vuole mostrarci il degrado e la mancanza di prospettive di una parte di cittadinanza in una fittizia città svedese, o forse l'indifferenza verso queste persone da parte della restante fetta di popolazione che qui assume una funzione del tutto spettatoriale. Detto questo e prendendo per buona la volontà del regista nel trasmetterci qualcosa, non rimane poi molto di interessante nella costruzione del film. Mezzi poveri, camera quasi sempre fissa, nessuna sceneggiatura di stampo narrativo, qualche momento un po' più apprezzabile e una bella sequenza finale perfettamente riuscita con un minimo sforzo. The guitar mongoloid presenta un quadro al quale non viene affibbiato un giudizio, una visione straniante di una società altra in un film indipendente consigliato solo agli appassionati di questo tipo di cinema. Per gli altri la noia potrebbe sopraggiungere dopo poche sequenze.

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