mercoledì 31 gennaio 2024

KILLERS OF THE FLOWER MOON

(di Martin Scorsese, 2023)

Il cinema ci ha mostrato in più occasioni come le fondamenta degli Stati Uniti d'America e del loro glorioso sistema del capitale siano imbevute di violenza e sangue; lo stesso Scorsese ce ne ha lasciato testimonianza con alcune opere che tornano alla gioventù della nazione (Gangs of New York) e con altre che ne esplorano le derive violente e criminose più moderne (Casinò, Quei bravi ragazzi, Mean streets); Scorsese non è stato di certo l'unico ad affrontare l'argomento, opere monumentali hanno detto la loro a questo riguardo, prendiamone una per tutte come esempio approfittandone per citare ancora una volta il fluviale I cancelli del cielo di Michael Cimino, film incompreso che distrusse la reputazione di un grande regista solo in seguito rivalutata insieme a quella del film. Con Killers of the flower moon Scorsese torna a battere su quel chiodo dando giustizia a un fatto sottaciuto della storia americana e rendendo onore e giusta considerazione alla popolazione Osage dell'Oklahoma che subì da parte dei bianchi una sottile, viscida e premeditata decimazione volta a sottrarre loro il controllo delle loro terre e relative ricchezze aumentate a dismisura dopo la scoperta nel territorio Osage di grandi quantità di petrolio, allora come oggi fonte di sconfinata prosperità. La base di partenza è il saggio dello scrittore David Grann dal titolo Gli assassini della terra rossa, adattato poi dalla sceneggiatura dello stesso regista e di Eric Roth, immancabile l'apporto musicale di Robbie Robertson, collaboratore ormai storico di Scorsese e scomparso purtroppo proprio lo scorso anno.

A Fairfax in Oklahoma il reduce Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio) torna a casa dopo aver combattuto durante la Prima Guerra Mondiale; il giovane trova ospitalità presso lo zio William Hale (Robert De Niro), uomo molto influente nella zona e, almeno di facciata, amico del popolo Osage. Questi indiani d'America sono i proprietari di molte terre nella zona di Fairfax, terre nelle quali in tempi recenti sono stati scoperti numerosi giacimenti di petrolio che hanno portato gli Osage ad arricchirsi e a provocare le invidie e le mire di molti uomini bianchi. Burkhart inizia a lavorare come autista, le automobili vanno diffondendosi e non sono più così rare nella contea di Osage; grazie al suo lavoro l'uomo conosce Mollie Kyle (Lily Gladstone), una donna Osage appartenente a una famiglia ora molto ricca. Lo zio Hale caldeggia un'unione tra il nipote e Mollie, l'idea che il patrimonio indiano inizi a fluire verso le casse della sua famiglia solletica l'avidità dell'anziano profittatore; dal canto suo Burkhart è un vizioso al quale i soldi non fanno certo schifo, inoltre prova in effetti un'attrazione in qualche modo reale per la donna indiana, così i presupposti per una relazione duratura ci sono tutti. Nel frattempo diversi appartenenti al popolo Osage trovano la morte: strani casi di "consunzione", incidenti, morti violente. La supremazia bianca, qui puramente economica, cerca la sua strada a discapito di un popolo fin troppo ingenuo che dovrà subire l'asservimento al dio denaro dell'avido e subdolo uomo bianco.

Se The irishman poteva essere considerato una sorta di tramonto su quell'epica criminale che a più riprese Scorsese aveva portato al cinema (regalandoci tra l'altro dei veri capolavori), Killers of the flower moon potrebbe esserne l'alba o almeno manifestarsi come uno dei tasselli fondativi di un modo di fare e pensare criminale e violento che troverà terreno fertile nella costruzione dei moderni States. La sopraffazione, la violenza, l'avidità, il vizio (del gioco) sono elementi già ben presenti in questo Killers of the flower moon (ambientato prima di molte altre pellicole del Nostro), tutte caratteristiche che porteranno poi l'America e il cinema di Scorsese a essere ciò che oggi ben conosciamo; se i temi sono gli stessi trattati in più opere dal regista newyorkese, quest'ultimo film è però asciugato da quell'epica criminale che ammantava alcuni degli esiti più celebri e riusciti di Scorsese. Il film è denso, antispettacolare, corposo, costruito in maniera studiata e forte scena dopo scena, non ci sono aperture e deviazioni dalla tragedia del possesso a tutti i costi, del "tutto questo deve essere mio, deve essere nostro", la visione per una parte di pubblico potrebbe finanche risultare un poco faticosa (e la durata non aiuta). Ne esce un film di certo più potente che agile, più significativo che brillante, in questo caso il cinema di Scorsese sembra essere pensato "a tema", ci illustra un pezzo di storia poco noto e tramite quello, ancora una volta, ci porta a notare le macchie di sangue che bagnano la sua terra (intesa come Paese), ci ricorda il sacrificio degli innocenti sull'altare del dio denaro e la forza dei prepotenti. Il personaggio interpretato da De Niro è una delle più detestabili incarnazioni di quel "manifest destiny" del quale agli americani è da sempre piaciuto riempirsi la bocca, un concetto traviato e asservito alle logiche del capitale e dell'avidità, Di Caprio rappresenta un tipo di male diverso, vizioso e manipolabile, debole e altrettanto nocivo. Si salvano gli oppressi che trovano in Lily Gladstone un'ottima rappresentante probabilmente lanciata verso l'Oscar. Scorsese mette da parte lo spettacolo, non è più tempo di "divertirsi", forse è ora di cominciare a riflettere.

domenica 28 gennaio 2024

SICK OF MYSELF

(Syk pike di Kristoffer Borgli, 2022)

Del regista norvegese Kristoffer Borgli si è parlato ultimamente a proposito della sua ultima opera, quel Dream Scenario - Hai mai sognato quest'uomo? che vede protagonista l'inossidabile Nicolas Cage, l'uomo del titolo che in maniera inspiegabile inizia a comparire nei sogni di diverse persone. Il nome di Borgli però, nonostante non sia ancora conosciuto alle masse, aveva iniziato già a circolare l'anno precedente proprio grazie a questa sua opera seconda, Sick of myself, presentata nel 2022 sia all'interno della sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes sia nella programmazione del Torino Horror Festival dello stesso anno. In realtà Sick of myself non si può considerare un vero e proprio film dell'orrore nonostante presenti alcuni passaggi accostabili al body horror, per il resto la struttura narrativa del film è distante dal genere e assume i contorni di un dramma grottesco con punte anche divertenti (sebbene non ci sia nulla da ridere nel film di Borgli). Sembra essere viva la scena del cinema norvegese che oltre alle opere di Borgli vanta altri nomi di sicuro interesse come Joachim Trier (Oslo, 31. August, Thelma, La persona peggiore del mondo) del quale abbiamo già parlato in un paio di occasioni.

Thomas (Eirik Sæther) e Signe (Kristine Kujath Thorp) sono una giovane coppia di Oslo, lui artista e creatore d'installazioni moderne ricavate da oggetti che ruba in giro, lei cameriera in un bar del centro. Entrambi i giovani sono narcisisti patologici sempre alla ricerca di attenzioni e desiderosi di porsi al centro della scena in qualsiasi situazione, anche in quelle più assurde come in occasione dei vari furtarelli organizzati da Thomas. Signe si sente già un poco messa da parte da Thomas quando questi si dedica alla sua arte o ne parla con altre persone, la situazione si esaspera quando lui inizia a ricevere attenzioni dalla critica e dalla stampa e ottiene di conseguenza, in una certa misura, riconoscimento, lodi e fama mediatica. Signe non riesce ad accettare questo squilibrio e il fatto di scivolare così in secondo piano durante gli eventi ufficiali legati al lavoro di Thomas o anche solo nelle serate fra amici la fa impazzire; la ragazza inizia così a inventarsi storie di sana pianta o a ingigantire eventi in modo da tornare quantomeno a un livello di attenzione paritario se non addirittura surclassare quella che Thomas ora catalizza con la sua arte. Per ottenere risultati e porsi finalmente sotto i riflettori e al centro della scena Signe non esiterà ad adottare comportamenti pericolosi fino a mettere in gioco in maniera seria la propria salute fisica e mentale (quest'ultima non troppo equilibrata fin da principio), fino ad arrivare ad assumere farmaci pericolosi che le sfigureranno volto e fisico.

Borgli mette in scena uno dei mali patologici che affliggono la società odierna e soprattutto le nuove generazioni, quello legato alla ricerca costante di visibilità e attenzione, ci racconta inoltre una dinamica di relazione dove nessuno dei due componenti la coppia ricerca davvero la felicità dell'altro, entrambi così presi dal loro ego da non vedere altro che la propria "realizzazione" agli occhi del mondo. Se per Thomas, in modo egocentrico e vanesio, questa affermazione la si cerca tramite la propria arte, per Signe, che non possiede nessuna base solida per mettersi in mostra, si opta in prima battuta per l'esagerazione delle proprie imprese (il "salvataggio" della donna morsicata da un cane), in seguito sull'esasperazione di difficoltà inesistenti, unica strada percorribile per Signe che la porterà a rovinarsi con le sue stesse mani, incapace di porre limiti e buon senso di fronte a un desiderio di attenzione irrazionale e assurdo. Borgli gestisce tutto con grande intelligenza non disdegnando di lanciare frecciate a quell'industria mediatica sempre pronta a sfruttare notizie e fenomeni basati sul nulla, sull'assoluto vuoto riempito solo dalla voglia di farsi notare, qui ce n'è sia per i media e i giornali sia per il mondo dell'arte e della moda. Ottimi i due interpreti principali, in particolar modo la Kristine Kujat Thorp che cesella con naturalezza un personaggio odioso e respingente capace allo stesso tempo di attrarci nella vicenda narrata senza mai prestare il fianco a momenti di stanca. La storia di Thomas e (soprattutto) Signe ci viene narrata da Borgli attraverso piccoli salti temporali che ne delineano i momenti salienti, si arriva spesso al grottesco nel comportamento narciso di due persone che rispecchiano una categoria di cui è pieno il mondo. Purtroppo loro sono così sembra dirci Borgli, la società in qualche modo li asseconda, ma noi, a conti fatti, stiamo anche lì a guardarli e ad ascoltarli.

venerdì 26 gennaio 2024

IL PRIGIONIERO DI AMSTERDAM

(Foreign correspondent di Alfred Hitchcock, 1940)

In maniera un po' colpevole si è forse parlato troppo poco del cinema del maestro Alfred Hitchcock da queste parti; le opere del regista inglese sono ovviamente arcinote, sono state proposte nel corso degli anni numerose volte anche dalla tv generalista alla quale, in questo caso, si può sollevare una sola obiezione: quella di aver messo in programma più o meno sempre gli stessi titoli (per carità, tutti capisaldi di gran valore). Nella divulgazione delle opere di Hitchcock al grande pubblico viene in genere trascurato completamente (o quasi) il suo periodo inglese che va dagli esordi nei primi anni 20 fino alla fine del decennio successivo, è infatti nel 1940 con la direzione di Rebecca - La prima moglie che si apre il periodo hollywoodiano del re del mistero. Di tutto ciò che Hitchcock girò in precedenza sono pochi i titoli che si possono trovare negli archivi dei vecchi passaggi televisivi (forse La signora scompare o Il club dei 39). Discorso diverso per i film realizzati dal regista negli U.S.A., i titoli si moltiplicano ma anche qui sono più o meno sempre gli stessi, rinfranca almeno una certa abbondanza: dal Rebecca - La prima moglie già citato il discorso si amplia a Io ti salverò, a Notorius, Il caso Paradine, Nodo alla gola, Io confesso, Il delitto perfetto, La finestra sul cortile, Caccia al ladro, L'uomo che sapeva troppo, La donna che visse due volte, Intrigo internazionale, Psycho, Gli uccelli, Marnie, Il sipario strappato, Frenzy, forse un po' meno visibilità hanno avuto Paura in palcoscenico, La congiura degli innocenti, Complotto di famiglia e Topaz. Nell'elenco si evince come siano più d'una le pietre miliari della storia del cinema firmate da Sir Hitchcock, oggi grazie alle piattaforme è possibile recuperare anche qualcosa che negli anni passati era stato un poco trascurato come questo Il prigioniero di Amsterdam, film comunque appartenente al periodo americano.

Il direttore del New York Morning Globe sta cercando un reporter capace di raccontare i primi venti di guerra provenienti dall'Europa (siamo nel 1939) in maniera più libera e meno ingessata di come stanno facendo al momento i suoi corrispondenti. La soluzione sembra essere l'indisciplinato ma dinamico Johnny Jones (Joel McCrea) pronto a partire per Londra su due piedi. Giunto sul posto Jones prende contatto con un'associazione pacifista nelle persone del presidente Fisher (Herbert Marshall) e di sua figlia Carol (Laraine Day), questi hanno organizzato un incontro in onore di un diplomatico olandese, l'anziano Van Meer (Albert Bassermann) che Jones tenta di intervistare senza molto successo. Trasferitosi ad Amsterdam a caccia dell'intervista di cui sopra Jones assiste all'omicidio del diplomatico, ucciso in pubblico in pieno giorno. Sul luogo ci sono anche i Fisher, insieme a Carol e al collega giornalista Scott Ffolliot (George Sanders) Jones si lancia all'inseguimento dell'assassino venendo trascinato in un'avventura dai risvolti imprevisti e decisamente movimentati.

Il prigioniero di Amsterdam rientra in quel novero di film di Hitchcock considerati "minori". Pur presentando la pellicola parecchi punti di interesse, questa catalogazione che potrebbe in parte sminuirne il valore può essere in effetti ricondotta ad almeno due caratteristiche dell'opera stessa: la prima è quella di presentare un cast in ottima forma ma privo di quei nomi di richiamo che spessissimo abbiamo potuto ammirare nel cinema di Hitchcock: se ci limitiamo a pensare ad altre pellicole legate al filone dello spionaggio (o simili, al quale anche questo film appartiene) la presenza di un Paul Newman (Il sipario strappato), di un Cary Grant (Intrigo internazionale) o di uno James Stewart (L'uomo che sapeva troppo) avrebbero di certo innalzato le quotazioni de Il prigioniero di Amsterdam. La seconda caratteristica che potrebbe essere percepita come un difetto è la gestione della tensione che si concentra in alcune riuscitissime sequenze ma che nell'economia complessiva del film si disperde un poco, fermo restando una valore complessivo dell'opera sempre più che sufficiente. Se lo sviluppo degli eventi non è tra i più elettrizzanti tra quelli proposti dal maestro inglese la realizzazione di alcune sequenze è semplicemente magistrale. Pensiamo a esempio alla sequenza all'interno del mulino costruita da Hitchcock giocando sulla verticalità delle inquadrature (sua caratteristica ricorrente), sul dislivello che si viene a creare tra i vari protagonisti e sul rapporto tra suspense e spazi angusti. Tornano altezza e vertigine ("vertigo" in inglese, vorrà pure dire qualcosa) sulla torre della cattedrale, qui la tensione sale e scende proprio come fa l'ascensore che porta i turisti in cima al campanile, la sensazione di pericolo è tangibile, piccolo gioiello la sequenza dell'incidente aereo con un uso dei mezzi tecnici che per il 1940 era cosa d'alta scuola. Propaganda bellica a favore dell'interventismo neanche troppo nascosta a chiudere il tutto. Magari non tra i migliori dieci di Hitchcock, a ogni modo Il prigioniero di Amsterdam non merita l'oblio. Recuperatelo!

Ovviamente c'è anche Hitch!

martedì 23 gennaio 2024

IT FELT LIKE LOVE

(di Eliza Hittman, 2013)

It felt like love è il film del 2013 con il quale la regista di Brooklyn Eliza Hittman inizia a farsi conoscere nei giri che contano, primo suo lungometraggio arrivato dopo una serie di corti con i quali la Hittman aveva raccolto già qualche riconoscimento; con It felt like love l'autrice torna al Sundance Film Festival, manifestazione destinata a portarle fortuna, è infatti qui che vince il premio per la regia con il successivo lungometraggio (Beach rats), poi un po' di serialità in televisione e infine il film che ha fatto conoscere la Hittman anche qui da noi e che le è valso sia l'Orso d'argento che il gran premio della giuria al Festival di Berlino: Mai raramente a volte sempre. Il cinema della Hittman è molto vicino agli adolescenti, al loro mondo e alle loro scoperte, It felt like love fin dal titolo coglie i movimenti interiori e gli slanci verso l'esterno di una giovanissima ragazzina alla ricerca della sua sessualità e di una sua identità in un'età di passaggio già di suo spesso molto complicata e qui resa ancor più difficile dalla mancanza di una delle due figure genitoriali di riferimento. Sono temi sui quali la regista tornerà a più riprese e sui quali la Hittman getta una luce e uno sguardo decisamente interessanti, già ben identificabili in questa riuscita opera prima.

Lila (Gina Piersanti) ha quattordici anni e vive a Brooklyn con suo padre (Kevin Anthony Ryan), la ragazzina è legata alla sua amica Chiara (Giovanna Salimeni), più grande di lei e con la quale frequenta un corso di danza. Lina vede Chiara e i suoi comportamenti come un modello da emulare, l'amica non solo è più grande di lei ma vanta anche un rapporto molto più aperto con la sua sessualità, ha già avuto rapporti con dei ragazzi e frequenta ora il giovane Patrick (Jesse Cordasco), con i due Lina esce spesso trovandosi terzo incomodo nei momenti in cui Chiara e Patrick si lasciano andare a effusioni amorose. Lina così, un po' per desiderio, un po' per sentirsi e farsi vedere più grande e più matura di quel che è in realtà, mente, racconta storie su sue presunte esperienze, cerca di mostrarsi più emancipata di quel che la sua giovane età richiede e consente, un comportamento che potrebbe portare anche a qualche rischio e a un approccio sbagliato con l'altro sesso. Quando sulla spiaggia Lila conosce Sammy (Ronen Rubinstein), anch'egli più grande di lei, tenta di attirare le sue attenzioni andandolo spesso a trovare nella sala giochi dove lavora e frequentando feste e serate con gli amici del ragazzo. I desideri e l'approccio all'altro sesso tra maschi e femmine (non si può ancora parlare di uomini e donne) sono però parecchio differenti.

Eliza Hittman trova in Gina Piersanti una bellissima protagonista, un volto intenso e profondo che non può far altro che raccontare innocenza, anche quando le sue labbra narrano qualcosa di diverso. È un cinema interiore quello della Hittman che affronta di petto la sessualità femminile andando un poco a ribaltare gli stereotipi a cui siamo da tempo abituati ma confermando anche alcuni aspetti che, c'è poco da star lì a discutere, vivono pari pari nella nostra realtà quotidiana. Il desiderio di conoscenza di Lisa, la voglia di bruciare le tappe nei rapporti con i ragazzi, è forse dato dalla perdita di un legame fondamentale come quello con la madre, la percezione che l'approccio all'altro sesso da parte di Lisa sia un poco forzato quanto prematuro aleggia per tutto il film, la Hittman lascia aperti all'interpretazione diversi passaggi, sottolinea molto bene i momenti nei quali la protagonista sembra forzare sé stessa e alcune situazioni (i discorsi con il piccolo Nate) e presenta un universo femminile in caccia ma che in fin dei conti rischia ancora una volta di incarnare il ruolo di preda di fronte a un universo maschile poco sensibile e rispettoso. La camera della regista stringe tantissimo sui corpi, si avvicina alla pelle scoperta, ai volti giovani, soprattutto quello della protagonista, non si cela dietro a falsi pudori e imbarazzi pur senza mai scadere nella volgarità. Ci sono già molto stile, scelte consapevoli e un'andamento da film indipendente non necessariamente accostabile a tanto indie già visto. Essenziale nella forma ma molto ben studiato, non definitivo nella costruzione dei protagonisti (come conviene alla loro età), It felt like love è la voce, magari ancora in divenire, di un discorso che promette di potersi fare parecchio interessante.

venerdì 19 gennaio 2024

MALARAZZA

(di Samuel Marolla, 2009)

Recupero d'annata di un ottimo episodio all'interno di una collana da edicola che è durata poco più d'un momento; il Malarazza di Samuel Marolla, scrittore nostrano non dedito solo alla letteratura e sconosciuto ai più, si è rivelata una lettura sorprendente, sinceramente non mi aspettavo che nel panorama del racconto breve a tema horror italiano potesse esserci qualcosa capace di rivelarsi così stuzzicante pur senza essere rivoluzionario né troppo innovativo. La collana a cui si fa riferimento poco sopra è la linea Epix pubblicata da Mondadori, un'iniziativa che si andava ad affacciare nel panorama delle edicole alla fine del primo decennio del nuovo millennio affiancando pubblicazioni arcinote come i classicissimi Urania o Il giallo Mondadori. Poco più di una dozzina di titoli all'attivo con la missione di andare a pubblicare scritti vicini all'horror e alle varie declinazioni del fantastico tralasciando ovviamente la fantascienza già appannaggio della collana madre Urania. L'ottava uscita del lotto propone proprio il Malarazza di Marolla, autore che vanta esperienze anche nel mondo del fumetto con in curriculum alcune sceneggiature per le collane Dampyr e Zagor di casa Bonelli e varie sortite nel campo dei giochi di ruolo; oggi purtroppo Marolla risulta un poco sparito dagli scaffali di edicole e librerie.

Malarazza è una raccolta di tredici racconti di ambientazione italiana, le influenze sono le più disparate e Marolla è bravo nel tenere, tra alti e bassi, comunque sempre desta l'attenzione del lettore il quale viene catturato fin dal primo racconto che porta il titolo di "La Carne", succoso antipasto (è proprio il caso di dirlo) che predispone al meglio chi si appresta ad affrontare la lettura dell'intera antologia. Con "La pista ciclabile" arriva la prima vera chicca del libro con la quale Marolla esibisce un'ottima capacità di creare atmosfere e soprattutto immagini inquiete, lo stile di scrittura, che a tratti mi ha ricordato in qualche modo quello di Ammaniti, è evocativo, immaginifico il giusto, divertente quando serve ma capace anche di metterti addosso la giusta strizza nei passaggi salienti, il riferimento è soprattutto al racconto "Sono tornate", magari non sempre originalissimo ma orchestrato alla perfezione e dotato di quella sana tendenza a istigare disagio, pieno di quella verve in grado di non lasciare il lettore mai del tutto rilassato, un racconto con due protagoniste, due agghiaccianti gemelline, che torneranno a tormentarvi anche a libro chiuso, a  parer di chi scrive la carta migliore del mazzo. È innegabile come alcuni episodi essendo brevissimi lascino magari meno il segno di altri, la qualità media è però davvero alta, cosa che di per sé per un'antologia non è così scontata e che quindi diventa pregio non da poco. Il racconto "Tè nero", che mostra una vena visionaria non banale, è stato pubblicato in diverse raccolte a tema horror e ha fruttato a Marolla diverse menzioni, è qui tra le ultime cartucce sparate nel libro (penultimo racconto), nel mezzo altri episodi interessanti che non mancano di intrattenere a dovere. Malarazza uscì in un'edizione molto economica e, a differenza di altri titoli della stessa collana, esibiva anche una copertina riuscita che era un bel sunto dei contenuti che si potevano trovare nel libro, un'iniziativa che con i tempi che corrono oggi forse non sarebbe più possibile tentare.

mercoledì 17 gennaio 2024

NON CONOSCO IL TUO NOME

(The unnamed di Joshua Ferris, 2010)

Opera seconda questo Non conosco il tuo nome per Joshua Ferris, autore che si era affacciato nel circuito delle librerie quattro anni prima con l'ottimo E poi siamo arrivati alla fine, esordio folgorante che in un mix di commedia e momenti più tesi e introspettivi inquadrava un gruppo di persone, tutti colleghi di lavoro, alle prese con le conseguenze della crisi e con la chiusura dello studio nel quale tutti loro sono impiegati e dal quale dipendono economicamente. Non conosco il tuo nome mantiene le aspettative (alte) che si erano create in attesa del nuovo lavoro di questo autore relativamente giovane (36 anni all'epoca dell'uscita del libro), si perdono i toni della commedia, Ferris ci accompagna in un viaggio segnato dalla malattia, una malattia inclassificabile e che non segna precedenti, un viaggio lungo il quale avremo modo di vivere insieme al protagonista Tim le conseguenze che la malattia riversa sul fisico e sulla mente di questo giovane uomo ma anche, e forse soprattutto, quanto questo accanirsi del destino sull'uomo provochi danni nelle relazioni che questi ha con la moglie Jane e con la figlia Becky, rapporto quest'ultimo già difficile di suo vista l'età di passaggio della ragazza. È una sorpresa questo Non conosco il tuo nome e allo stesso tempo la conferma del talento di uno scrittore fresco da tenere d'occhio con il dovuto interesse, combinazione che quando si presenta non può far altro che far piacere.

Tim è un giovane avvocato di successo e di bell'aspetto, socio di un prestigioso studio legale di Manhattan e molto apprezzato dai veterani dello studio stesso. Tim è sposato con la bella Jane, un'agente immobiliare che vende case in quartieri in voga di New York, sua figlia Becky sta attraversando l'età dell'adolescenza in bilico tra un'attrazione di troppo per il cibo e una passione per la musica estrema e per la chitarra. Condurrebbe una bella vita Tim se non fosse per quella malattia sconosciuta e inspiegabile che porta il giovane avvocato a camminare e camminare senza sosta; incapace di controllare le sue gambe Tim deve andare, deve mettere un passo dopo l'altro verso nessuna meta, verso un luogo che di volta in volta né lui né le sue gambe possono prevedere, con ogni condizione climatica, a qualsiasi ora del giorno, qualsiasi cosa Tim stia facendo, quando parte l'impulso Tim va e deve andare fino al momento di stramazzare al suolo per la stanchezza, fino a quando quelle maledette gambe non reggono più e finalmente, solo allora, Tim si potrà addormentare. Si potrà addormentare ovunque si trovi: al freddo con il rischio di assideramento, tra i barboni, in quartieri degradati facile preda di malintenzionati, nei boschi, starà a Jane andarlo a recuperare appena passate quelle crisi che hanno una forza incontrollabile, non arginabile e imprevedibile. Alla lunga questa strana condizione di cui i medici non sanno capacitarsi minerà i rapporti dell'uomo con la sua famiglia, con i colleghi, con la sua vita.

Qual è la fonte di questa malattia? È psicologica? È fisica? Ferris si destreggia bene tra le due ipotesi che angosciano il protagonista che in cuor suo, è facile intuirlo, prega di non esser diventato del tutto matto. Non c'è risposta, non c'è causa apparente, rimane allora solo l'ipotesi della metafora, può essere che questa malattia impossibile da veder arrivare possa essere un significante tradotto in parole di un concetto che è semplicemente ogni singolo (e rilevante) imprevisto che la vita ci può presentare? un imprevisto di portata tale da mettere in dubbio un'esistenza per come fino a quel momento era stata concepita. Le cose succedono, magari ci sconvolgono, così, senza nessun motivo, eppure tocca continuare a vivere, "shit happens but life goes on" per dirla con Forrest Gump. È facile ipotizzare come il titolo Non conosco il tuo nome possa far riferimento a questa incomprensibile smania di camminare, una cosa che col tempo si può arrivare ad accettare, l'estensione al "non ne conosco le cause" un po' meno, in questo Ferris è bravo a ritagliarsi tutto il tempo necessario per cercare di farci capire cosa passi nella testa del protagonista nei momenti di crisi, descrive in maniera perfetta il pericolo di sprofondare nella follia che a un certo punto Tim si trova ad affrontare, ci regala alcuni dialoghi e momenti molto sentiti e toccanti ma soprattutto lavora molto bene sui due personaggi comprimari che diventano forse più interessanti dello stesso protagonista: Jane di fronte a una prova d'amore quasi insostenibile all'interno di un rapporto che, involontariamente, le sta comunque rovinando la vita, Becky alle prese con un processo di maturazione che nel corso del romanzo le farà cambiare la prospettiva sulla luce che la malattia ha gettato sul padre. Non è facile cambiare registro tra un primo romanzo di successo e il suo successore andando a segno entrambe le volte, a parer mio Joshua Ferris ce l'ha fatta.

lunedì 15 gennaio 2024

THE TERRORIZERS

(di Edward Yang, 1986)

Siamo nel 1986 quando Edward Yang, regista scomparso a causa di una malattia nel 2007, dirige questo The terrorizers, a due anni di distanza dall'ottimo Taipei story. Siamo ormai in piena New Wave del cinema taiwanese, una corrente che proprio Edward Yang, insieme ad altri registi, contribuì a inaugurare nel 1982 con il film collettivo In our time e della quale il regista divenne uno dei due esponenti di punta insieme al più noto Hou Hsiao-hsien. The terrorizers è l'emblema perfetto di come un cinema fino a pochi anni prima controllato da una sorta di censura di regime sia riuscito non solo a ottenere maggiori libertà nella proposta di stili e contenuti ma finanche a diventare modernissimo (o addirittura post-moderno) nel tempo di un battito di ciglia. Del cinema di Taiwan abbiamo già parlato in maniera più ampia in occasione dei pezzi su Cute girl, The green, green grass of home e I ragazzi di Feng Kuei, tutti di Hou Hsiao-hsien, e in quello su Taipei story dello stesso Yang, non staremo quindi a riassumere di nuovo le vicende che portarono alla nascita della New Wave, limitandoci qui a sottolineare come questo nuovo cinema poté finalmente affrontare temi non solo maturi ma anche scomodi per una società in forte cambiamento (fenomeno comune a molti paesi asiatici) a causa di un'apertura a modelli occidentali basati sul capitale e sul libero commercio capaci di creare nuove possibilità di sviluppo ma anche di destrutturare certezze e causare spaesamento e confusione nelle generazioni più giovani incapaci (o in forte difficoltà) nel trovare una loro via in una società sempre più mobile e confusa, uno spaesamento che traspare in maniera perfetta dalla visione di questo film con il quale Edward Yang riesce a far traballare ogni certezza anche nell'esperienza di visione dello spettatore.

In una Taipei moderna e mutata dall'avvento del boom economico un giovanissimo fotografo (Jiaquing Huang) cattura l'immagine di una delinquente in erba (An Wang) fuggita dal luogo di un crimine, la giovane diverrà per il ragazzo una sorta di ossessione che scatenerà il risentimento della sua attuale compagna, Huang Chia-ching, una studentessa amante dei libri e della cultura. Zhou Yufeng (Cora Miao) e Li Lizhong (Lee Li-chun) sono sposati e rinchiusi all'interno di un matrimonio che sta pian piano appassendo: l'uomo, obnubilato dalle nuove possibilità di carriera e guadagno, cercherà con mezzi poco leciti di ottenere una promozione immeritata all'interno dell'ospedale in cui lavora, la donna è una scrittrice frustrata in piena crisi che non riesce a terminare il suo nuovo romanzo e che sta pensando di cambiare lavoro andando a impiegarsi alle dipendenze di un suo ex amante (Chin Shih-chieh). Li è inoltre amico di Gu (Ku Pao-ming), un poliziotto che sta indagando sul caso in cui è coinvolta la ragazza delle foto. In qualche modo le esistenze di questi personaggi si lambiranno in una Taipei che sembra non offrire né conforto né calore.

Quello di The terrorizers, più ancora che in Taipei story, è un cinema della confusione e dell'inafferrabile. In un periodo di mutamenti, di perdita di direzione e di valori da parte non solo dei più giovani, le storie messe in scena da Edward Yang rispecchiano il sentire del Paese, nelle mere vicende narrate ma anche nella struttura che il regista concepisce per le stesse. Non è presente infatti nessun legame forte tra le varie linee narrative di questo film, alcuni contatti tra le stesse sembrano non avere un nesso di causalità (pensiamo alla telefonata della ragazza in fuga a Zhou) bensì di casualità, anche l'incontro tra il giovane fotografo e la ragazza che lui poco a poco idealizza e che ritrae con una serie di fotografie bellissime è poco più di un'illusione, magari concreta, in carne e ossa, comunque evanescente. Lo stesso mosaico di fotografie che nella sua stanza ricrea il volto della giovane donna sembra sgretolarsi in seguito a un semplice alito di vento, è forse la metafora di un disgregamento della realtà per come finora la si era riconosciuta, come se il presente non reggesse e i protagonisti non vedessero più il loro futuro con lucidità, proprio come se avessero del fumo negli occhi (e in sottofondo passa Smoke gets in your eyes dei Platters). The terrorizers è così, un film da godere sequenza dopo sequenza, immerso in una realtà urbana a tratti respingente ma anche molto affascinante; a differenza di quanto mostrato nei primi film di Hou Hsiao-hsien che nutriva una nostalgia per la campagna in contrapposizione alle difficoltà della vita cittadina, per Yang c'è solo la metropoli, Taipei, scenario perfetto dove inscenare lo smarrimento dei nuovi sistemi. Ottimo il dipinto della città e dell'urbanizzazione da parte di Yang che tra suoni e immagini ci descrive un mondo di cemento dal quale sembra difficile trovare una via d'uscita e nel quale sembra impossibile anche solo trovare una via.

giovedì 11 gennaio 2024

CRIMEN PERFECTO - FINCHÉ MORTE NON LI SEPARI

(Crimen ferpecto di Álex de la Iglesia, 2004)

Non è la prima volta che il regista spagnolo Álex de la Iglesia, classe 1965, si dedica con il suo cinema a una commedia grottesca dai toni a tratti allucinati volta a mettere in ridicolo (forse più che a criticare) la società moderna in cui ci troviamo a vivere e i suoi prodotti, non tanto intesi come prodotti materiali quanto piuttosto come derive umane viziate e deragliate a causa dei deliri consumistici, di immagine e di possesso/successo imposti da una capitalismo sempre più invadente e idiota. Già in passato de la Iglesia aveva tratteggiato diversi tipi umani in preda alle voglie suscitate dalla fame di denaro e ricchezza in commedie come La comunidad - Intrigo all'ultimo piano per esempio, in qualche modo Crimen perfecto (che in originale in realtà è ferpecto per un gioco di parole che si coglierà solo guardando il film) ne è una sorta di prosecuzione del discorso, film caratterizzati da una vicinanza di temi e dalla stessa voglia di colpire il pubblico con del sano divertimento, esagerato, a tratti demente, provocatorio e quasi surreale. Per mettere in scena questa deriva dei costumi molto occidentale il regista di Bilbao sceglie di affidarsi ad attori non di primissimo piano come fatto in passato (ne La comunidad protagonista era Carmen Maura) ma non di meno indovina un cast capace di calcare la mano quando serve con il giusto trasporto per donare al film un'andatura ritmata e parecchio divertente.

Rafael (Guillermo Toledo) è un uomo ancora giovane con delle mire in mente ben precise: donne, vestiti eleganti, una bella automobile, soldi, un posto di prestigio nel suo micromondo lavorativo, una casa lussuosa e via di questo passo. Per ottenere questi risultati Rafael si dà da fare nel grande magazzino di Madrid in cui lavora, Yoyo, un qualcosa di simile alla nostra Rinascente, e sgomita per ottenere il posto di "responsabile del piano", posizione che si dovrà contendere con l'esperto don Antonio (Luis Varela), una vera istituzione del mestiere, un signore in odore di omosessualità e dallo stampo un poco antico. Rafael intrattiene o ha intrattenuto relazioni con tutte le commesse più belle del suo reparto, si cimenta in reiterati amplessi nei camerini con la disinibita Roxanne (Kira Miró) e scatena le invidie e i malumori della bruttina Lourdes (Mónica Cervera) che Rafael, uomo di gusto, non ha mai tenuto in nessuna considerazione. Quando arriva il momento della resa dei conti e la direzione preferirà don Antonio a Rafael questi inizia a rosicare e penare, maltrattato dallo stesso don Antonio che ora è il suo nuovo capo, durante un alterco Rafael accidentalmente uccide l'uomo. Da qui nascerà l'esigenza di far sparire il cadavere e l'unico aiuto per Rafael arriverà proprio da quella Lourdes che lui ha finora sempre ignorato. Ma, come la società del capitale insegna, nulla è senza prezzo e il costo di un aiuto simile potrà rivelarsi molto alto da pagare.

Commedia nera che sottolinea in maniera divertente vizi e malcostumi odierni esasperati dalla società dell'immagine e del benessere materiale, de la Iglesia gestisce il tutto con una buona dose di cattiveria e altrettanto umorismo compiendo un'ottimo lavoro sulla direzione degli attori sempre vibranti e capaci di mantenere il ritmo serrato per l'intera durata della pellicola (103 minuti). Il film è vivace tra voci fuori campo, attori che parlano in macchina, trovate surreali (il ritornante don Antonio) e quant'altro, i personaggi sono dei veri stronzi, Rafael manipola le clienti per raggiungere i suoi scopi, Lourdes mostra una dose di cattiveria da competizione, don Antonio non si fa scrupolo nel vessare il suo collega rivale non appena ne ha la possibilità e così via, alcune sequenze sono spassose senza riserve come quella della cena con la famiglia di Lourdes (che ha una sorellina più insopportabile di lei), si gioca con le citazioni a partire dal titolo "hitchcockiano" (ma anche Bunuel e altro) mettendo in scena la "rivincita delle brutte", l'annebbiamento da capitale, le idiosincrasie per la coppia chiusa e tutta una serie di brutture non così lontane da alcune reali dinamiche del mondo del lavoro. Magari Crimen perfecto (o meglio ferpecto) non sarà la commedia del secolo però diverte, ha gusto e cattiveria sufficienti a spingere lo spettatore alla ricerca di altre opere del regista spagnolo.

lunedì 8 gennaio 2024

LE CONSEGUENZE DELL'AMORE

(di Paolo Sorrentino, 2004)

All'epoca dell'uscita nelle sale de Le conseguenze dell'amore Paolo Sorrentino non era ancora il regista affermato che oggi tutto il mondo conosce, era un giovane alla sua opera seconda, il vero exploit di fama e riconoscimento arriverà infatti in maniera definitiva solo quattro anni più tardi con l'uscita de Il divo, siamo nel 2008 e quell'anno si distinse anche Matteo Garrone con Gomorra, i film dei due registi vennero salutati come un risveglio dello stato di salute del cinema italiano: se la profezia (ottimistica) non siamo certi si sia pienamente avverata c'è da dire che almeno Garrone e Sorrentino, insieme a qualche altro nome, hanno comunque mantenuto le aspettative e continuano a regalarci ancora oggi opere di grande interesse e spessore. Tornando a noi, all'epoca di questo film Sorrentino non era ancora il regista portatore di quegli sprazzi visionari, di quelle accortezze quasi barocche, di quella ricchezza nella messa in scena che tutti gli riconoscono e che in molti amano, era però già un regista, un autore, con una visione ben precisa di cinema, con un'idea da perseguire non solo nella narrazione ma anche nella realizzazione tecnica del film, comparto nel quale fin da subito Sorrentino si dimostra dotato di grande talento. È un Sorrentino più glaciale quello de Le conseguenze dell'amore, all'apparenza più essenziale, minimale, ma in realtà già ricco anche se meno esplosivo, più trattenuto, una scelta di stile che si rivede nei tratti e nelle espressioni dell'enorme (in senso figurato) Toni Servillo.

Titta Di Girolamo (Toni Servillo) è un uomo di mezza età molto serio che da numerosi anni vive in una piccola camera di un'albergo in Svizzera in prossimità del lago di Lugano. È un abitudinario Titta, per sua stessa ammissione un uomo privo di fantasia il cui unico sprazzo d'originalità appartiene a quel nome peculiare che si porta appresso; le sue giornate sono oziose: sedute interminabili a uno dei tavolini del bar dell'albergo a guardare oltre le vetrate la vita che scorre (quella degli altri, comunque scarsa), partite a carte all'infantile Asso piglia tutto con la coppia di ricchi decaduti e ormai in miseria composta da Carlo (Raffaele Pisu), che si è giocato tutta la sua fortuna perdendola, e Isabella (Angela Goodwin); una volta alla settimana un'uscita verso una banca per effettuare un deposito di somme sempre ingenti. Abiti eleganti, una bella macchina, la vita di un morto, un ex famiglia, moglie e figli che di lui non ne vogliono sapere, un fratello (Adriano Giannini) che in fondo gli vuole bene ma che lui ignora così come ignora la bella barista Sofia (Olivia Magnani) che invece a Titta sembra interessarsi parecchio. In questa routine che si ripete immutabile da anni alcuni accadimenti scombussolano il tran tran dell'uomo che andrà incontro a un precipitarsi di eventi ai quali dover far fronte.

Sorrentino apre il suo film con una figura maschile immobile in avanzamento su un nastro trasportatore, una scena lunga che potrebbe riportare alla mente il Dustin Hoffman de Il Laureato, emblema della confusione giovanile di fine anni 60 (ma anche per questo incipit probabilmente Sorrentino ha in mente la Pam Grier di Jackie Brown); ne Le conseguenze dell'amore l'apertura vede in campo un semplice figurante, il Nostro protagonista invece è uomo di mezza età, la giovinezza è ormai alle spalle e la confusione barattata con il vuoto, con un'imposta impossibilità di vivere, necessaria per mantenere un pericolosissimo status quo in potenza incrinabile solamente dalle conseguenze dell'amore. Titta Di Girolamo è appena un riflesso di un uomo, non per nulla sono molte le superfici riflettenti, i vetri, gli specchi attraverso i quali Sorrentino ce lo mostra, un uomo la cui fissità espressiva e di abitudini è il riflesso della morte stessa, è il riflesso di un'anima alla quale è stata succhiata la vita, condizione espressa in maniera magnifica dalla (mancanza di) espressività di un Toni Servillo impareggiabile. È un abitudinario Titta, lo abbiamo già detto, il versamento in banca, l'eroina una volta la settimana, quegli appunti per un futuro che non verrà mai nei quali si auto ammonisce intimandosi di porre attenzione a queste conseguenze dell'amore, saranno proprio loro, veicolate da Sofia (interpretata dalla nipote della Magnani), a dare la svolta a (non) vita e film. Il protagonista parla poco e bene, i vuoti sono spesso riempiti dalle eleganti scelte di Sorrentino in campo musicale (il regista mastica e parecchio), alcuni passaggi, senza troppo svelare, potrebbero sembrare fuori posto o come di routine, il film gode però di una costruzione pazzesca e millimetrica da parte di un regista non ancora esploso come lo conosciamo oggi (e non parliamo di fama ma anche di mestiere) ma già in grado di calibrare in maniera perfetta ogni movimento di macchina. Non a caso una delle nostre voci più note e apprezzate.

sabato 6 gennaio 2024

WONKA

(di Paul King, 2023)

Il Wonka di Paul King si colloca come prequel del film La fabbrica di cioccolato, quello interpretato da Gene Wilder nel 1971, a questo si riallaccia apertamente riprendendone alcuni temi musicali e alcune caratteristiche visive, ignora invece la versione burtoniana del romanzo di Roald Dahl cosi come ne aggira in larga parte la vena più cattivella e cinica che sempre ha caratterizzato le opere dello scrittore gallese. Il Wonka di King, regista dei due lungometraggi dedicati all'orsetto britannico Paddington, è il film perfetto da proporre durante le feste natalizie, un prodotto ben confezionato e calibrato su misura per la visione inclusiva, un'esperienza che facilmente potrà mettere d'accordo i vari componenti delle famiglie, grandi e piccini, lo fa magari tradendo un poco l'attitudine di Dahl e quella che il personaggio di Willy Wonka dovrebbe portarsi dietro, però lo fa anche con stile all'interno di una produzione di buona qualità che riesce facilmente a centrare il bersaglio e l'obiettivo che ci si era prefissati (famiglie, ragazzi, feste appunto...). Se si approccia questa nuova avventura al cioccolato senza pregiudizi né riserve non sarà difficile apprezzare il lavoro svolto da King che punta su una favola musicale buonista con un protagonista lineare e positivo che trova in Timothée Chalamet un ottimo Willy Wonka da giovane; il ragazzo, oltre a essere bravo, mette in campo un'attitudine naturale per il ruolo che lo rende, almeno nell'aspetto e nelle movenze (magari meno nella scrittura, ma questa non è colpa sua), una perfetta e credibile controparte giovanile del Wonka che già tutti conosciamo.

Il giovane Willy Wonka (Timothée Chalamet), una sorta di illusionista gioviale e analfabeta, nutre il sogno di aprire un negozio di cioccolata nella più lussuosa galleria commerciale della città, la Gallerie Gourmet. Il suo arrivo in città, da subito stupefacente, non è visto di buon occhio dalla triade del cioccolato formata da Slughworth (Paterson Joseph), Protnose (Matt Lucas) e Fickelgruber (Mathew Baynton) che farà di tutto per non lasciar spazio a questo potenziale concorrente capace di creare delle vere delizie al cioccolato. I tre cioccolatai non saranno però gli unici a creare problemi per Wonka: essendosi appena trasferito al giovane occorre un posto dove passare la notte; non solo analfabeta ma anche ingenuo e amichevole Wonka si lascia ingannare dall'accoppiata di "albergatori" la cui mente, la signora Scrubbit (Olivia Colman), con un contratto truffaldino costringerà il ragazzo alle sue dipendenze per gli anni a venire. Nella lavanderia della pensione Scrubbit, il giovane Willy avrà modo di conoscere altre persone come lui incastrate dalla padrona di casa tra le quali ci sono la piccola orfana Noodle (Calah Lane) e l'operoso e maturo Abacus Crunch (Jim Carter). Nonostante la reclusione Wonka non si dà per vinto e con l'aiuto di Noodle cercherà in ogni modo di realizzare il suo dolce sogno al quale è legato il ricordo della madre defunta (Sally Hawkins).

Il Wonka di Paul King più che l'incarnazione giovanile del Wonka di Wilder sembra piuttosto una giovane Mary Poppins al maschile: il cappello di Chalamet richiama la celebre borsa di Julie Andrews così come alcune movenze e in generale le atmosfere e lo spirito dell'intero film ricordano la brillante governante inglese. A proposito di inglese... King mette in campo un parterre britannico di attori che riporta a tantissima fiction inglese degli ultimi anni: Olivia Colman (The Crown), Sally Hawkins (i due Paddington), Matt Lucas (Doctor Who), Rowan Atkinson (Mr. Bean), Jim Carter (l'indimenticabile Carson di Downton Abbey) per finire con Hugh Grant che (suo malgrado, pare) interpreta il ruolo del fin qui unico Umpa Lumpa, esserino dalla faccia arancione come nel film del '71. Il protagonista Chalamet, lui non britannico, è un giovane Wonka perfetto, a suo completo agio con le movenze teatrali del personaggio, col canto (?) e con il ballo (numeri non troppo complessi, per carità), l'impressione è che la visione in lingua originale qui sia d'obbligo per apprezzare al meglio il lavoro degli attori. Paul King dirige con mano abile, regia vivace e mai noiosa, la camera ferma al meglio ciò che la scenografia, a tratti fantasiosa, a tratti dickensiana propone, confezionando uno spettacolo per famiglie con un ottimo equilibrio tra impatto visivo (non troppo estremo), narrazione e inserti musicali. Guardato in concomitanza con il Natale Wonka ci chiede di non cedere al malaffare, di coltivare i sogni e la solidarietà, di voler bene alle altre persone e che alla fine di tutto non è nemmeno tanto importante il cioccolato in sé, lo è invece con chi lo si condivide. Lacrimuccia, titoli di coda.

giovedì 4 gennaio 2024

IL RAGAZZO E L'AIRONE

(Kimi-tachi wa dō ikiru ka di Hayao Miyazaki, 2023)

Esce già il primo di gennaio quello che è senza dubbio uno dei film più attesi dell'anno e che, ne siamo certi, a dodici mesi da oggi sarà uno di quelli che verranno inseriti nelle classifiche dei migliori film del 2024. Ancora non v'è certezza sul fatto che questo sarà a tutti gli effetti l'ultimo lascito del conclamato maestro dell'animazione giapponese (e tradizionale) Hayao Miyazaki, cosa probabile vista l'età del Nostro, Il ragazzo e l'airone potrebbe quindi venir considerato il testamento di Miyazaki (lo fu già Si alza il vento) e forse per la tipologia di opera alla quale ci troviamo di fronte questo potrebbe risultare molto appropriato. Se con Si alza il vento Miyazaki faceva i conti con l'ambiguità dell'eredità paterna e con l'ambivalenza della passione dello stesso Miyazaki, noto pacifista, per gli aerei militari, grandi esempi di ingegneria e dell'acume tecnico umano ma anche macchine latrici di morte, Il ragazzo e l'airone sembra una summa degli elementi che nel corso degli anni hanno caratterizzato il cinema del regista giapponese, un film difficile da leggere quanto semplice da amare, carico di simbolismi, bizzarrie, creature fantastiche e ruoli dall'interpretazione non scontata e per niente immediata. Un testamento si diceva che ha il sapore però della rinascita, per il protagonista Mahito Maki ma che in generale coinvolge tutte le riflessioni che l'alternarsi e il sovrapporsi dei mondi immaginifici qui creati da Miyazaki sono capaci di far (ri)nascere e suscitare, riflessioni affascinanti e avvolgenti (sui significati, sul cinema del maestro) quanto difficili (o impossibili) da dirimere con certezza.

Seconda Guerra Mondiale, durante un bombardamento viene distrutto l'ospedale dove lavora la madre di Mahito, nulla possono il tentativo di intervento dei pompieri o del marito per salvare la donna, Mahito diviene così un giovane orfano afflitto dal dolore. Qualche tempo più tardi il padre del ragazzo sposa la bella sorella della moglie, Natsuko, la famiglia si trasferisce così in una grande residenza in campagna vicina alla fabbrica di componenti militari dove l'uomo lavorerà. Qui Natsuko cerca di farsi accettare come "nuova mamma" da Mahito che, ancora sofferente per la perdita della madre, si dimostra educatamente ostile alla nuova situazione familiare. Un giorno, girovagando nei pressi della sua nuova casa immersa nel verde, Mahito incappa in una vecchia torre nascosta tra i boschi e ne è subito attratto. Purtroppo l'entrata è interdetta e le vecchie donne di servizio della casa tentano di dissuadere il ragazzo dall'idea di entrare nella torre. In più uno strano airone cinerino dal piumaggio bianco e azzurro inizia a tormentare il ragazzo facendogli intuire la possibilità di poter incontrare di nuovo la sua madre defunta. L'incontro tra questi elementi condurrà Mahito (e non solo lui) in un'avventura dove i confini del reale si slabbreranno in favore di una molteplicità di universi, di tempi, di realtà che condurranno il ragazzo (e non solo lui) verso una nuova fase della sua vita.

La storia che principia con la tragedia della guerra, il padre del protagonista che dirige una fabbrica dove si producono le calottine degli aeroplani militari, sono elementi che danno a Il ragazzo e l'airone un senso di continuità con il precedente film di Miyazaki, Si alza il vento, così come lo fanno alcune frasi che sembrano parlare tra loro; questo lungometraggio è in parte ispirato al romanzo di Genzaburo Yoshino E voi come vivrete?, titolo che mostra una certa assonanza con il verso di Paul Valery presente nel precedente lungometraggio: Le vent se leve, il faut tenter de vivre! In generale è tutta la struttura del film che sembra avere legami con il cinema passato di Miyazaki, i riferimenti sono molteplici, l'eroe è però qui un  ragazzo (fatto singolare, Miyazaki predilige le figure femminili), forse per questo sembra esserci una componente più distruttiva nella sua figura rispetto ad altre passate (le ferite autoinflitte, lo sprezzo del pericolo senza tentennamenti), come già accennato è difficile capire se nella testa di Miyazaki ci fosse l'idea di un addio (artistico?) o quella di una costruzione articolata e complessa, finanche onirica (Internazionale accosta addirittura Lynch a quest'opera) di una possibile rinascita tutta da elaborare, quel che è certo è che da questo lavoro emerge una cifra immaginifica con pochi rivali che per fascino può ricordare a ragione opere come La città incantata o Laputa - Il castello nel cielo. Tra spunti autobiografici, segni di stile ricorrenti (il cibo, i panorami mozzafiato, le creaturine fantastiche e simpatiche, qui i Warawara, le intriganti vecchine) e momenti di forte commozione (già dall'incipit) qui l'unica certezza è che tutto è mutevole, complesso, come lo sono i ruoli dei vari personaggi, in realtà diverse, in tempi diversi, in situazioni diverse. Per quel che riguarda la forma sembra che Miyazaki abbia lavorato su due livelli, uno sui fondali che sembrano dipinti, fermi, realistici, una sorta di rappresentazione della Storia, del reale, un altro invece dove si muovono con un'animazione più vivace i protagonisti che appunto hanno necessità di mutare, di evolvere in qualcos'altro e che quindi non possono appartenere a quell'animazione più statica e definita ma devono avere la possibilità di essere inglobati in mondi nuovi (come Mahito nelle viscere del pesce) e cangianti. Ennesimo capolavoro? Forse ce lo dirà il tempo, Il ragazzo e l'airone necessita di essere elaborato, la percezione dello stesso può darsi sia anch'essa una cosa mutevole, è molto facile che sia così, quindi perché pronunciarsi ora con un giudizio che non lascerebbe possibilità al cambiamento?

lunedì 1 gennaio 2024

FIRMA AWARDS 2023 - FUMETTI

Per quel che riguarda la categoria FUMETTI, assente ormai da diversi anni da queste parti, ho deciso di non stilare nessuna classifica ma di lasciare giusto qualche segnalazione per chi avesse voglia di recuperare qualche fumetto da leggere. Non ci sarà quasi nulla di nuovo per il semplice fatto che, un po' per questione di gusti e affinità (in parole povere perché sto diventando vecchio), un po' perché non approvo minimamente le politiche prezzi e formati adottate da alcune case editrici (per il fumetto americano siamo praticamente in monopolio, lascio a voi i nomi), ho abbandonato quasi del tutto le produzioni recenti e i miei acquisti si concentrano su qualche ristampa (prezzi cari anche qui purtroppo) e sui recuperi effettuati in fiere, in qualche mercatino dell'usato o in fumetterie che trattano anche cose vecchie. Certo, qualche eccezione c'è anche ma il grosso si concentra su fumetti prodotti negli anni passati o, in caso contrario, sulla possibilità di leggere qualcosa in digitale, soluzione che permette qualche lettura più moderna senza dover accendere un mutuo per affrontarla.

Detto questo ecco qualche suggerimento sparso da mediare ovviamente con i vostri gusti e le vostre inclinazioni di lettura.

Una delle ultime cose che ho letto in ordine di tempo sono i due volumi che qui da noi la Lion dedicò a Lono, uno dei personaggi principali della serie 100 bullets edita dall'etichetta Vertigo, scritta da Brian Azzarello e disegnata splendidamente da Eduardo Risso (un grande maestro moderno). Tornano le atmosfere criminose della serie madre con uno dei suoi protagonisti più violenti che tenta in qualche modo di redimersi, ma la violenza, soprattutto in certi contesti, ti rimane appiccicata addosso. Chi ha amato la serie madre amerà anche Lono, per gli altri il consiglio è tentare di recuperare anche 100 bullets.


Nella seconda metà degli anni 90 la Image Comics, casa editrice nata dalla volontà di sette disegnatori transfughi dalla Marvel di veder riconosciuti i diritti e gli introiti generati delle loro creazioni, subiva la crisi del mercato, una crisi nata anche (non solo ovviamente) grazie ad alcune scelte sbagliate operate dagli stessi fondatori di Image. Per far fronte al calo costante di vendite il membro meno prestigioso e noto di Image (ma uno di quelli con in testa il fumetto prima di altre cose come soldi, cinema, pupazzi, cartoni animati), Jim Valentino, spinge affinché la Image abbracci generi narrativi diversi affrancandosi dai soli super eroi ormai in crisi e tendendo una mano a tutti quegli autori che ancora facevano fumetto indipendente, dando loro la possibilità di pubblicare cose diverse dai soliti "mutandoni". Per dare il buon esempio Valentino mette da parte la sua creatura Shadowhawk per concentrarsi su una miniserie di sei numeri in bianco e nero lontanissima dallo stile ipertrofico proposto da Image, narrando le vicende (autobiografiche) di un adolescente della provincia americana con difficoltà nel fare amicizie e nel trovare il suo posto nel mondo, timido, amante dei fumetti e con una situazione familiare non semplice. Ne esce A touch of silver, una serie che avremmo letto volentieri al posto, che so, di una delle millemila cacate prodotte da Liefeld in quegli anni. Invece la si può trovare solo in lingua originale, a parte sviste clamorose non mi risulta ci sia traduzione italiana.


Prosegue la sua (speriamo) inarrestabile cavalcata Super Eroi Classic, una ristampa cronologica e per quanto possibile omogenea che in un formato più grande del classico comic book ripropone le storie di tutte le serie più importanti di casa Marvel partendo dalle prime storie degli anni 60; SEC è un allegato settimanale della Gazzetta, il più longevo di sempre a questo punto essendo arrivato all'uscita n. 354 (che vede l'esordio della serie dedicata a Warlock). Dopo un periodo di crisi e l'annuncio della sua chiusura la collana è stata resuscitata grazie all'interessamento e al sostegno di un gruppo nutrito di fan che, insieme ai ragazzi di RCS e al curatore Fabio Licari, hanno permesso a questo sogno di tanti bambini degli anni 70 di poter continuare la sua corsa e coprire con le ristampe tutto il periodo della mitica Editoriale Corno che tanti lettori ricordano ancora con immutato affetto. Lunga vita a SEC.


Vale sempre la pena di tornare di tanto in tanto (ma anche spesso se ci riuscite) alle atmosfere impareggiabili garantite dalle serie del Mignolaverse. Per chi non conoscesse il termine esso identifica le serie ambientate nell'universo di Hellboy, personaggio creato dal genio di Mike Mignola (da qui il nome) che tra storie brevi e miniserie più corpose (le più interessanti a mio avviso) vanno a comporre un mix di folklore, magia, horror, esoterismo e mazzate che non delude mai. Oltre alla più nota delle sue creature, Hellboy appunto, sono diverse le serie meritorie d'esser lette, in diversi passaggi alcune sono anche più convincenti di quella di Hellboy stesso, tra quelle storiche da provare le avventure del B.P.R.D. (Bureau for Paranormal Research and Defense), le avventure a solo dell'anfibio Abe Sapien e quelle dell'eroe dal passato Lobster Johnson. Imprescindibile per tutti gli amanti del fumetto seriale e non.


Negli anni 80 l'universo Marvel rischiò di essere cancellato o quantomeno azzerato per poi ripartire da capo; l'idea era dell'editor Jim Shooter intenzionato a portare alla Casa delle idee nuovo pubblico, quello magari intimorito dall'ormai ventennale fardello di continuity che i personaggi Marvel si portavano sulle spalle. Ovviamente le alte sfere gli diedero del matto, permisero però a Shooter di lanciare delle nuove serie ambientate in un nuovo universo dove fino ad allora nessun super essere aveva mai fatto capolino. Nasce così il New Universe con una manciata di titoli, i più fortunati dei quali sopravvissero circa tre anni, altri decisamente meno. Tra questi il migliore, pubblicato anche in Italia da Play Press e ancora reperibile frequentando bancarelle e mercatini o magari le vendite online, fu a mio avviso la serie dedicata ai D.P.7., un gruppo di uomini e donne che, in seguito ad un evento chiamato Evento Bianco, ottengono super poteri, nessuno di loro ha però intenzione di fare l'eroe, lo scopo di questi personaggi è la semplice sopravvivenza in un mondo ormai fuori controllo. Lo scenario è quindi più interessante e credibile rispetto a quello delle serie di tanti eroi in costume, D.P.7. è scritta molto bene da Gruenwald e soprattutto gode di un'uniformità stilistica garantita da Paul Ryan che accompagna la serie per tutta la sua durata (32 numeri + 1 Annual).


Ottima maxiserie (12 episodi) ambientata nel mondo D.C. Comics, Far sector vede come protagonista l'ultima delle Lanterne Verdi, una giovane ragazza di colore di nome Sojourner Mullein qui alla sua prima apparizione. La sua creatrice, nonché nota scrittrice di fantascienza, è N. K. Jemisin, della quale ho avuto modo di leggere quest'anno il primo capitolo della saga della Terra spezzata, La quinta stagione, libro parecchio avvincente. La Jemisin porta a termine con Far Sector un ottimo lavoro riuscendo a creare in questi dodici episodi un piccolo mondo, una società dove vigono leggi, usi e costumi molto diversi da quelli terrestri, la descrizione dei quali rende la costruzione di Far Sector estremamente coerente e appassionante, ottima anche questa nuova Lanterna della quale resta ancora molto da scoprire. Una serie di fantascienza tra le migliori lette negli ultimi anni, il volume italiano è stato editato al prezzo di circa trenta euro, è pur vero che gli episodi sono dodici, però...



Non leggiamo molti manga da queste parti, io ne leggo pochi, mia figlia invece legge poco fumetto in generale (preferisce i libri), però quando le capita di leggerne qualcuno opta per le opere che arrivano dall'est del globo. Quest'anno è nata la casa editrice Toshokan, branca orientale della If Edizioni che solitamente ristampa serie classiche del panorama italiano; questa etichetta ci ha permesso di affrontare la lettura di diversi volumi unici, uscite non seriali che non richiedono una fidelizzazione a lungo termine, e almeno una miniserie corta, tra queste segnaliamo almeno il bel volume Estate infinita della vietnamita Hoang Truc Lam, un racconto familiare sulle aspettative che i genitori hanno (e impongono) per i figli, storia con protagonisti un ragazzo e una ragazza (Phuong e Phuong) che portano lo stesso nome. Ma la lettura più interessante è stata sicuramente il manga Our little sister di Akimi Yoshida dal quale Hirokazu Kore'eda ha tratto il bel film Little sister. Storia di tre sorelle che a un certo punto della loro vita ne accolgono una quarta (e più giovane) fino ad allora vissuta con la nuova famiglia creata dal loro padre comune dopo la separazione dalla madre, narrazione molto delicata immersa nel quotidiano che offre moltissimi spunti per conoscere e ammirare spaccati di vita, tradizioni, arte culinaria del Paese del Sol Levante.


Parlando poco sopra di A touch of silver di Valentino ho sparato sulla croce rossa, ovvero sulle serie edite dagli Extreme Studios di Rob Liefeld. Bisogna ammettere però che quest'ultimo almeno una cosa buona l'ha fatta (non di suo pugno), portò in Image, sulle pagine della serie agonizzante Supreme, il grande Alan Moore. Il bardo di Northampton, dopo essersi sincerato di poter realmente fare quel che voleva con il personaggio di Liefeld, costruisce una serie scritta con intelligenza e amore sconfinato e che diventa fin da subito una rivisitazione di Superman, considerato il primo super eroe del fumetto, una rilettura del mito ma più in generale un omaggio al fumetto classico che riuscì a incantare frotte di giovani con mondi di fantasia magari ingenui ma di una purezza sconfinata. Lettura ancora in corso, non mi pronuncio quindi su potenziali sviluppi ancora da affrontare.


Rimaniamo in Image ma torniamo ai giorni nostri con una produzione contemporanea a opera di Chris Condon e Jacob Phillips. Con That Texas blood siamo in un paesino di provincia di uno degli stati più grandi degli U.S.A., il Texas del titolo ovviamente, e seguiamo le giornate interessanti di un anziano sceriffo che porta il nome di Joe Bob Coates. Il Texas sembra essere una terra che attira la violenza, anche nei confini di un paesotto sperduto, i casi che si troverà ad affrontare lo sceriffo si dipanano tra passato (quando Joe Bob era un agente alle prime armi) e il presente con personaggi che tornano in paese dopo anni di assenza, con avventure vissute anni addietro e rinarrate dallo stesso protagonista, con storie che coinvolgono il crimine locale, sette di invasati o serial killer. Un'ottima serie dalle belle atmosfere tradotta in Italia da Editoriale Cosmo in un volume dal prezzo forse spropositato. In alternativa c'è la lingua originale.



Per rimanere in casa Cosmo ci sarebbe da tenere d'occhio le sue collane da edicola che ristampano  molto materiale in gran parte (ma non solo) proveniente dalle historietas argentine. Pubblicazioni  con personaggi e autori a rotazione, prezzi altini per essere ristampe da edicola in formato popolare, però volumetti solitamente abbastanza corposi con parecchio materiale da leggere, si segnalano le serie I grandi maestri e I grandi maestri della historieta che ha preso il posto di Cosmo Serie Oro che nella sua ultima incarnazione era dedicata al western (da recuperare almeno il francese Marshall Bass).


Torniamo in Texas o almeno da quelle parti. Se vi fate un giro nelle varie fiere del fumetto, nei mercatini, nei negozi dell'usato, non farete troppa difficoltà a recuperare a buon prezzo gli albi della collana Tex - Romanzi a fumetti. È questa una collana dedicata al celebre Ranger di casa Bonelli che presenta storie di Tex ambientate in periodi differenti della sua vita realizzate nel classico formato "alla francese", albi più grandi quindi rispetto al formato della serie mensile da edicola di Tex, storie di circa quarantotto pagine o giù di lì, più dirette e veloci quindi, colore e autori a rotazione con nomi coinvolti anche di un certo pregio, ad aprire nel 2014 la collana fu addirittura un Paolo Eleuteri Serpieri che magari nessuno si aspettava su Tex, al momento ho letto solo i primi tre volumi ma mi sembra questa un'iniziativa che valga la pena d'esser recuperata.


Quest'anno ho riguardato diverse cose prodotte dalla Image Comics degli inizi, quando l'universo fondato dai sette esuli della Marvel (McFarlane, Liefeld, Larsen, Portacio, Lee, Silvestri e Valentino) sembrava potesse mettere in discussione addirittura il primato delle due major del fumetto di super eroi americano, Marvel e D.C. Comics, cosa che per un breve periodo è anche riuscita a fare. Se dovessi consigliare una sola serie regolare nata in quel periodo questa potrebbe essere Savage Dragon di Erik Larsen. Forse Dragon non è mai stato il protagonista di una serie capolavoro però la narrazione di Larsen è riuscita a mantenersi per molto tempo fresca e divertente tanto da essere l'unica serie, insieme allo Spawn di McFarlane decisamente più noioso, a riuscire a sopravvivere con continuità fino ai giorni nostri. Ragazzone super resistente e super forte dall'aspetto di un drago (di Komodo?) esordisce affetto da amnesia e si arruola nel Dipartimento di Polizia di Chicago combattendo una criminalità organizzata e super potenziata, soap opera di contorno sempre parecchio brillante. La Cosmo sta ristampando e mettendo ordine alle pubblicazioni sul personaggio.

Oltre alle creazioni dei sette fondatori che diedero vita a Image (Spawn, The Savage Dragon, Wildc.a.t.s., YoungbloodCyberforce, Wetworks e Shadowhawk), ben presto affiancate da altre mini e serie regolari prodotte dai sei Studios dei fondatori (Portacio non ne creerà mai uno suo), i sette ragazzi diedero spazio ad altri autori permettendogli di pubblicare con Image le loro serie di proprietà riconoscendo loro la paternità e gli introiti dei loro personaggi. Tra queste serie uscite nel primo periodo di Image la più interessante fu senza ombra di dubbio il The Maxx di Sam Kieth e William Messner Loebs. Lontano dai super tizi messi in commercio dai tipi di Image, The Maxx è la storia di un senza tetto non troppo equilibrato che crede di essere un supereroe, seguito dall'assistente sociale Julie, Maxx si rifugia spesso in un mondo onirico dove Julie è una splendida principessa guerriera e dove strane creaturine guidate da un avversario infido sono sempre in agguato. Ma il confine tra i due mondi à labile, la lettura non sempre facile (quasi mai in realtà) e la serie The Maxx un viaggio che in ogni caso vale la pena d'esser vissuto. 

Viriamo all'horror entrando nei mondi profondamente inquietanti creati dallo scrittore di Providence Howard Phillips Lovecraft, da sempre uno dei pallini e fonte di ispirazione del grande Alan Moore. Materiale ancora reperibile (forse tranne per il primo capitolo) quello della trilogia di opere che compone questo affresco che Moore dedica a Lovecraft (ma ci sarebbe poi anche I funghi di Yuggoth). Si parte con Il cortile, opera breve e introduttiva che presenta atmosfere e alcuni personaggi poi ripresi nel successivo Neonomicon dove si iniziano a esplorare i mondi sommersi tratteggiati da Lovecraft con esuberanza moderna e senza freni inibitori, per andare poi a concludere con la più corposa Providence, serie divisa in più volumi. Opera imperdibile sia per i fan di Moore che per quelli dello scrittore del Rhode Island. Roba non adatta ad anime sensibili, una delle migliori letture dell'anno.


Mi accorgo che, a parte la (stupenda) collana Super Eroi Classic non ho ancora segnalato nulla delle uscita della Casa delle idee. Devo dire che non ho davvero nulla da segnalare a riguardo, probabilmente invecchiando mi sento un po' più lontano da ciò che offre il mercato moderno delle grandi due americane, Marvel e D.C., leggo poco delle cose da loro prodotte nonostante l'immutato affetto nei confronti almeno della Marvel, casa editrice che mi accompagna fin dall'infanzia. Allora perché non segnalare una rilettura? Il mio consiglio questa volta cade su una miniserie di fine anni 80 che vide all'opera un'accoppiata che in pochi si aspettavano per una serie che invece funziona molto bene: Havok & Wolverine: Meltdown. Siamo agli sgoccioli della guerra fredda, il muro di Berlino sta per cadere, in Russia è fresca la ferita di Chernobyl e da lì muove la nostra storia, se ci mettiamo il fatto che Havok è un accumulatore di energia, che i russi vogliono controllare la potenza nucleare, che Wolverine non è uno che si può facilmente prendere per il naso... Gioiello dipinto da Jon J. Muth e Kent Williams e scritto senza sbavature dai coniugi Simonson, Meltdown è uno scarto di grande qualità anche all'interno della produzione mutante del periodo in quegli anni in fortissima espansione (negli stessi mesi nascono le serie regolari Wolverine, Excalibur e Marvel Comics Presents che contiene storie mutanti, più questa mini e X-Terminators che si aggiungono alle già presenti Uncanny X-Men, New Mutants, X-Factor e, se vogliamo considerarla una serie "mutante", anche Alpha Flight).


Altra ottima iniziativa da parte di Editoriale Cosmo, a prezzo abbordabile questa volta, è la ristampa della serie Lo Sconosciuto in un formato pocket tascabile che riprende il formato originale usato negli anni 70 dall'editore Il Vascello, casa editrice dedita non solo all'avventura e al nero ma soprattutto al fumetto erotico, tendenza che ha permesso anche una liberalizzazione di costumi che si può intravedere anche nell'opera summenzionata del grande Magnus, all'anagrafe Roberto Raviola, uno dei grandi autori del fumetto italiano. Dopo i primi sei numeri la collana proporrà un'altra serie (Fun) mentre Lo Sconosciuto trasmigrerà su un formato più grande per seguire quanto fatto in origine dalla prima edizione. Il protagonista è un mercenario, ex Legione Straniera, che per tirare a campare si trova invischiato in una serie di vicende e complotti che lo porteranno in giro per il globo, ottima iniziativa che finalmente torna a far sentire il profumo di popolare. Certo, sarebbe bello che il fumetto popolare tornasse nelle edicole anche con nuove proposte di qualità.


Altra iniziativa allegata ai quotidiani, uscita tra il 2022 e il 2023, della quale vale la pena recuperare qualche volume (ottimo rapporto tra prezzo, pagine e qualità media) è sicuramente Supereroi: Le leggende D.C. che presenta una selezione antologica di saghe dedicata ai principali eroi della D.C Comics per lo più pescando dal catalogo recente della casa editrice (ma qualche chicca d'annata non manca). Titoli molto golosi per i neofiti, gli amanti duri e puri del fumetto americano troveranno cose per lo più a loro già note, è però questa l'occasione per avere all'interno di bei volumi venduti a un giusto prezzo cose come l'All Star Superman di Morrison e Quitely, Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Miller, la Wonder Woman mitologica di Azzarello, alcuni tra i maggiori eventi D.C. (le varie Crisi), il bellissimo Batman di Snyder e Capullo, le incarnazioni di Lanterna Verde di Geoff Johns e di Neal Adams e ancora Batman: Anno uno, Superman: Red son e un sacco di altra roba interessante. Il futuro del fumetto popolare sembra dover passare dalla formula dell'allegato, al momento è qui che si trovano i migliori compromessi tra qualità e prezzo.


Torniamo in Europa con una bellissima saga che potete facilmente recuperare usata in giro (i mercatini spesso ne hanno qualche copia) nel formato de I classici del fumetto di Repubblica - Serie Oro, l'albo è quello dedicato alla serie I maestri dell'orzo, fumetto franco-belga a opera di Jean Van Hamme e Francis Vallès. Lo scrittore, Van Hamme, oltre a questa saga di mastri birrai è autore di altri fumetti degni di nota come il thriller/spy story XIII, il racconto fantasy Thorgal e il celebre Largo Winch che ha generato anche libri e film. La serie narra le vicende della famiglia Steenfor il cui capostipite farà la fortuna della famiglia con la produzione della birra, come in ogni saga familiare che si rispetti attriti, tradimenti, delusioni, legami e oscure manovre la fanno da padrone in una serie di altissimo livello.


Chiudiamo questa serie di segnalazioni, che non vuole avere nessuna pretesa di ordinare per merito le varie serie qui citate, con il volume unico, ancora reperibile a prezzi umani, edito in origine dall'etichetta Legend, dal titolo Big Guy and Rusty the boy robot. Accoppiata di assi, Frank Miller alla storia crea una sorta di parodia dei film di mostri giapponesi, proprio in Giappone è ambientata la vicenda con tanto di esperimento fallito e mostro gigante a devastare Tokyo. A tentare di arginare il disastro prima il piccolo robottino autoctono Rusty e poi il grande Big Guy, robottone statunitense. Le tavole di Geof Darrow sono una semplice meraviglia, una ricchezza di dettagli nella quale ci si perde con trasporto, da guardare e riguardare, tavole esaltate dal grande formato del volume. Con questa segnalazione chiudiamo questa carrellata, tutte opere che gli amanti del fumetto probabilmente già conoscono ma che i neofiti o i lettori occasionali potrebbero recuperare con loro grande sollazzo.
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