domenica 31 ottobre 2021

IL CARRETTIERE e LA NERA DI...

(Borom Saret e La noire de... di Ousmane Sembène, 1963/1966)

Ousmane Sembène è stato uno dei cineasti più importanti del continente africano, a lui sono attribuiti il primo film (un corto) e il primo lungometraggio di finzione girati nel Continente Nero, entrambi questi titoli sono da poco disponibili nel catalogo di Raiplay nella preziosa sezione Fuori Orario; ovviamente, non c'è neanche da dirlo, queste due opere sono proprio Il carrettiere e La nera di..., due film risalenti agli esordi del regista senegalese che arriva all'arte cinematografica già quarantenne dopo essersi dedicato in precedenza alla produzione letteraria, le sue pubblicazioni sono infatti precedenti di qualche anno rispetto ai suoi primi film. I temi di questi girati, come molti di quelli successivi, vertono sulle vite della povera gente del suo Paese, con un focus particolare sulla zona di Dakar, sul loro privato e sul rapporto con la condizione sociale e di vita che sfocia nel politico, affrontando Sembène ciò che più da vicino ha toccato la storia del Senegal in epoca moderna: il colonialismo da parte della Francia. Grande divulgatore di cultura nel suo Paese, Sembène mette a disposizione dei suoi concittadini i libri e le riviste della sua biblioteca personale e fonda anche una compagnia di produzione cinematografica, la Doomirew. Proprio nel 1963 apre le porte della produzione cinematografica africana.

Il primo approccio al cinema di Sembène si concretizza con Il carrettiere, un cortometraggio di diciannove minuti che racconta una giornata lavorativa in Dakar di un giovane uomo (Ly Abdoulaye) proprietario di un carretto di legno e di un cavallo di nome Albourah. Il carrettiere parte il mattino presto senza sapere come andrà la sua giornata, se lavorerà o meno, se riuscirà a portare a casa prima di sera qualcosa da mangiare per sua moglie e per suo figlio; offre servizi di trasporto nella periferia di una città dove i mezzi di locomozione non sono ancora così diffusi e sicuramente inarrivabili per la maggior parte delle tasche, trasporterà persone, una donna partoriente all'ospedale cittadino, carichi di mattoni e finanche una piccola bara con un bimbo deceduto. Non tutti i suoi clienti potranno pagarlo, il carrettiere avrà a disposizione pochissimo cibo e troverà il modo di non portare a casa nemmeno il poco guadagnato, inoltre subirà le conseguenze per aver portato in centro città un compaesano benestante, in una zona più ricca dove i carretti hanno l'accesso vietato. Su un finale amaro sarà la moglie a dover trovare una soluzione per mettere del cibo in tavola.

Non c'è nulla di esotico nell'Africa di Sembène, realizzato con pochissimi mezzi Il carrettiere ha un piglio che si avvicina al nostro neorealismo per temi e realizzazione, non ci sono professionisti, il cinema d'Africa è agli albori, in alcuni passaggi si ha l'impressione che le comparse guardino in macchina stupiti dalla realizzazione stessa del film che era fuor di dubbio cosa nuova a quelle latitudini (la scena del mercato), racconto lineare ma che già mette in evidenza il contrasto tra cultura locale e occidentale con quest'ultima che tende a ghettizzare (l'impossibilità di entrare con un mezzo misero nei quartieri centrali), creare divari tra la popolazione, tra autoctoni e francesi, oltre a raccontare le difficoltà nell'affrontare la realtà quotidiana. Nonostante le lamentele del protagonista non c'è un senso di tristezza o pesantezza nel racconto di Sembène che lascia intravedere amarezza solo nella chiusura del corto.

Con La nera di... Sembène passa al lungo (seppur con 65 minuti si tratti di un lungo breve) realizzando un film a cavallo tra due continenti con una narrazione circolare (tramite uso di flashback) che nasce e muore a Dakar ma che vive nel suo corpo centrale in Costa Azzurra, ad Antibes, nella terra dei colonizzatori. La protagonista è Diouana (Thérèse M'Bissine Diop), la nera del titolo, una giovane donna che passerà da un'esistenza in cerca d'occupazione nelle periferie di Dakar a un impiego a servizio di una famiglia francese conosciuta nella città africana e che la porterà con sé in Francia. Diouana passerà così da un primo lavoro a Dakar dove si occupa dei bambini dei due francesi, marito e moglie senza nome nel film, a un impiego da domestica ad Antibes che si farà sempre più gravoso, non più solo accudire i bambini, ma anche cucinare, fare il bucato, pulire casa, fare il caffè, divenendo anche oggetto e mezzo per sfoggiare un tenore di vita borghese da parte dei due "padroni" agli occhi degli amici, uno dei quali chiederà anche di poter baciare Diouana per provare la nuova esperienza di baciare una negra. La giovane cade in depressione, trattata sempre peggio dalla padrona (ma non dal marito, in fondo Diouana è una donna molto piacente) si sente sfruttata, non ha amici, sente la mancanza di Dakar, del suo ragazzo, della vita nelle strade, in Francia vive reclusa nell'appartamento, una prigione nella prigione, la tradizione della sua terra è lontana, il sogno francese si trasforma in incubo. Girato ancora in lingua francese, si accentua il tema dello sfruttamento coloniale e l'inserimento in un sistema che invece di benessere crea infelicità. Sembène ricorre ancora ad attori non professionisti anche se il suo cinema è già riconosciuto (La noir de... vince il premio Jean Vigò in Francia), il bianco e nero restaurato è limpido e chiaro, c'è un bel contrasto tra interni/Antibes ed esterni/Dakar molto simbolico, ancora una volta la chiusura è decisamente amara.

Piccola rassegna sulle origini del cinema africano molto interessante ma soprattutto piacevole, entrambi i film si guardano molto volentieri e nonostante i temi siano importanti e propongano realtà affatto semplici e felici non si accusa mai pesantezza né sotto il punto di vista della narrazione né tantomeno nei ritmi che sono dosati in maniera ottimale. Ancora una volta la sezione Fuori Orario si conferma una delle realtà più meritorie per chi il cinema vuole anche conoscerlo e studiarlo un minimo nelle sue latitudini e nella sua storia, dando finalmente un senso al pagamento dell'abbonamento Rai.

giovedì 28 ottobre 2021

SUSPIRIA

(di Luca Guadagnino, 2018)

Non è passato molto tempo dall'ultima visione del Suspiria di Dario Argento, ne avevamo parlato anche su questi lidi qualche mese fa, ora, a costo di attirare sulla mia persona gli strali dei fan per il peccato di lesa maestà, posso affermare di essermi goduto in misura maggiore questo recente remake (se così possiamo chiamarlo) di Luca Guadagnino. Sebbene il film originale rimanga un pezzo di storia del cinema di genere italiano (e non solo) per l'impatto visivo che ebbe all'epoca della sua uscita grazie al lavoro superbo e innovativo sui colori del direttore della fotografia Luciano Tovoli, alla scelta delle architetture sia per gli interni che per gli esterni, alle soluzioni di regia nella gestione degli spazi, al film di Argento vennero mosse diverse critiche per l'inconsistenza della sceneggiatura, critiche in larga parte condivisibili che toccano un aspetto fondamentale che inficia in parte la buona riuscita del film. Alla più recente opera di Guadagnino invece si rimprovera il fatto di voler essere un horror ma di non fare paura; si potrebbe obiettare che in realtà non faceva paura nemmeno il Suspiria del '77, non la fa almeno rivisto oggi, mentre il suo epigono moderno in più occasioni riesce per lo meno a inquietare nonostante la vicenda di fondo, con le dovute differenze del caso, non sia nuova. Poi diciamocela tutta, anche dal punto di vista formale, pur non arrivando alla rottura che provocò Argento con i suoi rossi onnipresenti, non è che Luca Guadagnino sia proprio l'ultimo arrivato, con buona pace delle rimostranze di Argento (anche comprensibili se vogliamo) e quelle di parte della critica.

Berlino 1977. In una Germania afflitta dagli scontri provocati dalle azioni della banda Baader Meinhof (consigliata la visione dell'omonimo film di Uli Edel), arriva all'accademia di ballo Markos Tanz la giovane ballerina Susie Bannion (Dakota Johnson), un'americana originaria di una comunità mennonita dell'Ohio. La nuova arrivata supera brillantemente il provino d'ammissione alla scuola e riesce a fare da subito colpo sulla coreografa Madam Blanc (Tilda Swinton) riuscendo così ad ottenere anche ospitalità all'interno del convitto della scuola grazie anche al posto libero lasciato dalla danzatrice Patricia Hingle (Chloë Grace Moretz) della quale si sospettano contatti con le fazioni terroriste. In realtà quest'ultima è in fuga dalla scuola, recatasi dal dottor Kemplerer (Tilda Swinton), un noto psichiatra, Patricia racconta all'uomo le sue convinzioni riguardanti il personale della scuola a suo dire composto da una congrega di streghe alla ricerca di un corpo ospite per la Madre dei Sospiri, una strega potentissima, la Markos stessa. Nel frattempo all'interno della scuola si svolge una vera e propria sfida politica tra le sostenitrici della vecchia Markos e quelle della Blanc, strega che dovrebbe essere a servizio della più illustre "collega". Nel frattempo il dottore si convince che davvero ci sia qualcosa di strano nella scuola, coinvolge così nelle sue indagini anche Sara Simms (Mia Goth), altra studentessa della scuola, proprio mentre Susie guadagna il posto da prima ballerina e la compagnia si appresta a inscenare davanti al pubblico il Volk, un balletto in stile contemporaneo molto sanguigno.

Guadagnino sposta l'azione da Friburgo a Berlino donando un contesto storico di violenza anche allo sfondo della vicenda, non solo gli anni di piombo tedeschi dominati dalle azioni della RAF (la Rote Armee Fraktion) ma anche il dramma dell'Olocausto e dei campi che arriva dal passato del Dottor Kemplerer, un contraltare di vero orrore da opporre a contrasto di quello del sabba finale delle nostre streghe. Formalmente impeccabile ma senza troppi eccessi, e quindi senza troppo colpire come l'originale, Guadagnino punta su un'atmosfera dai toni più plumbei, adatta anche al contesto storico raccontato, anche le architetture di contorno sono quelle vicine alla concezione di regime e non le splendide scelte argentiane che guardavano all'art déco e al liberty. Sulla sceneggiatura si è fatto un bel lavoro, anche la figura delle Tre Madri è più chiara e la vicenda ha una coerenza di cui si sentiva il bisogno, anche la questione delle fazioni tra le stesse streghe porta a un finale agghiacciante che perde un po' d'intensità proprio a causa di una scelta in chiusura finanche troppo spinta mentre i momenti più inquieti si hanno grazie al rapporto tra la danza di Susie e le conseguenze patite dalle altre ballerine. Grande attenzione proprio alla danza, cosa assente nel Suspiria originale, si lavora molto sui corpi e sulle coreografie, molto riuscito il momento dell'esibizione del Volk così come tutti i movimenti del sabba, bene anche le interpreti, non ci sono ruoli maschili se non quello del dottore comunque interpretato dalla Swinton, perfetta e che si esibisce irriconoscibile in ben tre ruoli distinti. Come dicevo in apertura, ho preferito questo film a quello di Argento, peccato solo che il riversamento di Prime Video non sembri all'altezza dal punto di vista qualitativo, questo film avrebbe meritato una resa migliore.

lunedì 25 ottobre 2021

L'AUSTRALIANO

(The shout di Jerzy Skolimowski, 1978)

Il cinema di Jerzy Skolimowski non è mai stato semplice, ieri come oggi. Da poco abbiamo parlato del suo più recente 11 minuti, oggi torniamo indietro nel tempo e nei decenni fino al 1978, anno in cui esce il suo L'australiano (The shout in originale, più convincente), film ambientato e girato in Inghilterra (a dispetto del titolo italiano) durante una partita di cricket tra pazienti e personale di una clinica per malati di mente. Film ermetico dalla difficile interpretazione, alcune letture adducono un valore figurativo al personaggio principale che potrebbe rappresentare una forma di personificazione del desiderio sessuale di Anthony, altro protagonista del film, desiderio che si riversa di conseguenza sulla moglie di quest'ultimo, Rachel, in realtà gli appigli concreti per decifrare l'opera di Skolimowski, tratta da un racconto di Robert Graves, non sono poi moltissimi, si assiste alla visione in stato di semi rapimento ma alla fine della fiera i dubbi restano, certezze non ve ne sono, non resta che riflettere, ipotizzare...

Robert (Tim Curry) viene invitato dal direttore di una clinica psichiatrica (Robert Stephens) ad assistere in qualità di segnapunti alla partita di cricket che si tiene tra personale medico e pazienti. Con lui ad assolvere a questo compito ci sarà uno degli ospiti della clinica che approfitterà dell'occasione per raccontare a Robert una strana storia il cui protagonista, nella mente del paziente, è identico al paziente stesso (sono entrambi interpretati dall'ottimo Alan Bates). La storia inizia con una coppia sposata, Anthony e Rachel Fielding, lui (un giovane John Hurt) è un musicista sperimentale, un metodico ricercatore del suono che si adopera anche nell'uso dell'organo della chiesa del paese, lei (Susannah York) si occupa dei lavori domestici, i due sono una coppia vivace e all'apparenza affiatata, Anthony si apre anche a qualche avventura con la moglie del ciabattino del paese. Un giorno Anthony incontra un uomo particolarmente bizzarro, Charles Crossley (Alan Bates) che con una discreta faccia tosta riesce a farsi invitare a pranzo da Anthony per poi instaurarsi a casa sua per giorni e giorni. L'uomo ha un forte ascendente di tipo sessuale su Rachel che in principio rimane turbata dai racconti dello stesso il quale sostiene di aver passato diciotto anni nel deserto australiano a contatto con gli aborigeni e lì di aver ucciso i suoi stessi figli, cosa consentita dalla cultura locale. Ad Anthony invece Crossley confesserà di aver imparato dagli aborigeni una tecnica grazie alla quale ha conseguito la capacità di uccidere chiunque si trovi nei suoi pressi per mezzo di un urlo terrificante del quale darà dimostrazione al suo ospite con nefande conseguenze.

Seppur sepolto nei ricordi di gioventù, per atmosfere L'australiano mi ha ricordato il Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir, aleggia anche qui un senso di sospensione magica e mistero che tiene lo spettatore aggrappato a una narrazione dove i punti di riferimento sono scivolosi, quasi incorporei, fantasmatici; che l'oggetto del racconto sia follia del narratore o verità antica e ora trattenuta, è un enigma che solo sul finale lo spettatore potrà in qualche modo sciogliere. Da decifrare anche il rapporto di entrambi i protagonisti maschili con il suono, uno vanta la capacità presunta di uccidere con un urlo, quasi fosse una banshee nella versione più moderna delle tradizioni celtiche, l'altro sperimenta suonando latte di alluminio lacerato, registrando i ronzii di un'ape e via dicendo, in fondo da tradizione aborigena è proprio il suono, con le vie dei canti, a dare origine a tutto. Di fondo c'è una tensione sessuale che sfocia nell'attaccamento di Rachel al nuovo arrivato, un motore che scatena azioni e reazioni immergendo anche Anthony in questo aspetto magico dell'esistenza. La regia di Skolimowski sostiene bene la narrazione preoccupandosi più delle atmosfere e delle suggestioni che della concatenazione di fatti all'interno di un film che si esaurisce in un tempo più che adeguato. Buona l'interpretazione degli attori con un Alan Bates che porta scompiglio in un nucleo familiare con fare quasi luciferino, sensuale la prova della York e molto adatto anche John Hurt, Tim Curry si limita a una piccola parte. Non per tutti i palati come probabilmente molto del cinema del regista polacco, parecchio affascinante se si riesce a farsi trasportare dalle atmosfere.

domenica 24 ottobre 2021

SYNCHRONIC

(di Justin Benson e Aaron Moorhead, 2019)

I registi Benson e Moorhead fanno da tempo coppia fissa, sono ormai diversi i progetti a cui hanno lavorato insieme, oltre al film collettivo V/H/S: Viral i due firmano a quattro mani anche Resolution, Spring, The Endless e questo Synchronic. Una coppia rodata che per questo film di fantascienza semplificata all'osso parte da una teoria sempre molto interessante, quella che vuole la dimensione temporale non lineare come noi la percepiamo ma esistente contemporaneamente su più piani di realtà, ciò che è passato non è esaurito per sempre ma esiste contemporaneamente alla nostra realtà altrove, il nostro oggi è il passato di un futuro che si sta già sviluppando e svolgendo e così all'infinito. Se per alcuni del loro film precedenti Benson e Moorhead avevano raccolto diversi consensi non è di certo con film come Synchronic che i due passeranno alla storia del cinema, nonostante come prodotto d'intrattenimento per occupare un paio d'ore Synchronic, pur non entusiasmando, si possa considerare tutto sommato accettabile.

Steve (Anthony Mackie) e Dennis (Jamie Dornan) sono due amici molto legati tra loro, entrambi paramedici prestano servizio di soccorso in ambulanza rispondendo alle chiamate d'emergenza che quasi sempre coinvolgono vittime di abuso di droghe. Steve è un single piacente, un donnaiolo alla cui vita manca qualcosa, Dennis è sposato con Tara (Katie Aselton) e sua figlia Brianna (Ally Ioannides) va per la maggiore età, anche Dennis non è completamente soddisfatto della sua condizione familiare. Durante le ultime uscite di servizio a Steve e Dennis capita di assistere a situazioni fuori dall'ordinario: un uomo ferito a morte e un'antica arma da taglio conficcata nel muro della stanza, una donna che presenta un morso di un serpente non appartenente alla fauna locale (siamo a New Orleans dopo l'uragano Katrina), una vittima completamente bruciata da quello che sembra un caso di autocombustione spontanea. Tutti questi casi sono accomunati dall'uso da parte delle vittime di una nuova droga sintetica e legale chiamata Synchronic, durante una di queste chiamate di emergenza tra le persone coinvolte c'è proprio Brianna la quale risulta dispersa, ne consegue il crollo della vita di Dennis e esperienze incredibili per Steve che, venuto a conoscenza delle incredibili proprietà della nuova droga, vivrà momenti sconvolgenti nel tentativo di portare a casa quella che per lui è quasi una nipote acquisita. Il Synchronic permette infatti di spostarsi nel tempo per una durata limitata di minuti, possibilità appannaggio solo dei giovani causa la non avvenuta calcificazione della ghiandola pineale, situazione in cui si trova anche Steve per via di una formazione tumorale proprio nella sua zona pineale.

Se l'idea alla base di questo Synchronic è di indubbio fascino, supportata da una teoria molto interessante, lo sviluppo di certo non lo è altrettanto; la meccanica messa in moto da Benson (che è anche sceneggiatore) è di un semplicistico quasi imbarazzante, senza voler anticipare troppo a chi fosse interessato alla visione, il metodo "scientifico" per spostarsi da un'epoca all'altra assumendo la dose di Synchronic sembra una soluzione che avrebbero potuto ideare i bambini della terza classe dell'asilo nella sezione stelline (più propensi alla fantascienza rispetto a quelli della sezione farfalline), anche i materiali per realizzarla sarebbero alla loro portata: un po' di nastro adesivo rosso, una videocamera che ormai anche i poppanti padroneggiano e il gioco è fatto! Parecchio banali anche i discorsi tra i due amici sulle insoddisfazioni della vita e su come non si dia il giusto valore a ciò che abbiamo tendendo a vedere l'erba del vicino sempre più verde della nostra (che magari nemmeno abbiamo il giardino). Dal punto di vista tecnico il film non è male, la regia asseconda bene la narrazione, è vivace il giusto, gli effetti visivi seppur non eccezionali assolvono bene al loro compito, tra questi e qualche intuizione felice dello score musicale ci sono anche un paio di buoni momenti, tutto ciò però non basta a risollevare le sorti di un film abbastanza canonico che non lascerà vividi ricordi nello spettatore, fermo restando che per una serata di relax con birra e patatine quest'oretta e mezza a Synchronic gliela si può pure concedere.

mercoledì 20 ottobre 2021

ALL'OMBRA DELLE DONNE

(L'ombre des femmes di Philippe Garrel, 2015)

Philippe Garrel arriva al Festival di Cannes 2015 con questo All'ombra delle donne, un film parecchio recente dunque ma che con il suo bianco e nero luminoso potrebbe essere ascrivibile agli anni della Nouvelle Vague o a quelli immediatamente successivi, questo in virtù anche dell'universalità di temi e dinamiche senza tempo né frontiere. Lui, lei, l'altra e il rapporto di ognuno dei protagonisti con il tradimento, con sé stessi e con le persone con cui dividono la vita, attori degli intrecci sentimentali della storia che è mille storie, il tutto in una dimensione di quotidianità naturale con la quale si rapporta un sempre presente desiderio di esprimersi con l'arte e con il racconto. Garrel mantiene una certa distanza dai suoi personaggi, soprattutto da quello di Pierre (Stanislas Merhar) che sembra impermeabile a ogni tipo di emozioni solo per sciogliersi sul finale, più complesse e aperte le figure femminili che almeno nella persona di Manon dimostrano una maturità più marcata nell'affrontare gli svincoli che situazioni, vita e scelte pongono sul loro cammino.

Pierre è un regista parigino che sta ancora cercando di affermarsi, il suo ultimo progetto vorrebbe raccontare la vita di un partigiano, un eroe della resistenza (Jean Pommier) contro il regime nazista, una storia che ricorda a Pierre quella del suo stesso padre; nei suoi progetti l'uomo è sostenuto a spada tratta dalla compagna di vita Manon (Clotilde Courau) che collabora attivamente ai suoi lavori e che è costretta ad affrontare diverse discussioni con la madre (Antoinette Moya) la quale le rimprovera di aver lasciato gli studi e una potenziale carriera per seguire il percorso dell'inconcludente Pierre. Quest'ultimo incontra poi Elisabeth (Léna Paugam), una donna giovane da lui attratta con la quale inizia una relazione puramente carnale. In casa Pierre è sempre più freddo, Manon non riesce più a sentirsi amata e cade così anch'essa in tentazione iniziando una relazione con un giovane (Mounir Margoum), relazione scoperta proprio da Elisabeth che dopo qualche tentennamento racconterà tutto a Pierre. L'uomo, nonostante sia lui stesso un traditore, non riesce ad accettare il tradimento di Manon.

Lo sguardo della camera di Garrel non accende mai la narrazione accompagnandola con neutra partecipazione negli interni, davanti le finestre, tra le strade di una Parigi illuminata dal bianco e nero di Renato Berta, allo spettatore capire, empatizzare con personaggi che non esternano molto, soprattutto il protagonista maschile, in una storia fatta di bisogni quotidiani tra i quali quello d'amore spicca su tutti, fisico per Pierre, profondo per Manon, un po' di entrambi per Elisabeth. Interessante il diverso approccio alla scoperta del tradimento quando le carte sono sul tavolo, il protagonista maschile si veste di egoismo e di una punta di cattiveria non riconoscendo in sé stesso gli stessi errori della compagna che forse sono solo conseguenza del suo stesso comportamento e della sua freddezza, il personaggio di Manon sembra essere il più strutturato e positivo, più comprensibile e portatore di quella maturità necessaria a tenere in piedi ogni tipo di rapporto. Nulla di nuovo sotto il sole, la struttura è quasi archetipica ma Garrel gestisce il tutto con una naturalezza che rende la visione piacevole, quasi confortevole, lavorando di misura, evitando eccessi ed estremizzazioni, portando la vita sullo schermo, il cinema nella vita, così, semplicemente.

lunedì 18 ottobre 2021

LEGEND

(di Brian Helgeland, 2015)

Probabilmente non è destino che le imprese di Ronald e Reginald Kray vengano immortalate al cinema da un grande film, figure criminali anche meno note di loro hanno goduto di pellicole di maggior richiamo e qualità, le opere sui fratelli Kray non hanno infatti lasciato il segno, e dire che per quello che riguarda la criminalità londinese Ronnie e Reggie non hanno avuto eguali nei decenni tra gli anni 50 e 60 del Novecento ma con tutta probabilità nemmeno prima o dopo. Legend non è il primo tentativo di portare al cinema la storia dei due gemelli: nel 1990 Peter Medak ci provò con The Krays - I corvi, film solido con una bella ricostruzione d'ambiente dove a interpretare i due gangsters troviamo Gary Kemp e Martin Kemp, entrambi membri niente meno che degli Spandau Ballet, il film oggi è purtroppo pressoché dimenticato e, andando a memoria, anche un suo passaggio televisivo non lo si vede da molto, molto tempo; tra il 2015 e il 2016 oltre a questo Legend è uscito anche un dittico sui due gemelli che però ha avuto scarsa risonanza, si tratta di due film a basso budget, The rise of the Krays e The fall of the Krays. Non tantissimo a disposizione per conoscere queste due peculiari figure: il libro Professione criminale. La Londra dei gemelli Kray di John Pearson; qualche anno fa uscì nelle edicole italiane, in un'effimera incarnazione de Il giallo Mondadori presenta, il divertente Fermate il mondo di Dave Courtney, altro gangster che con la sua autobiografia lambisce solamente gli anni del dominio dei Kray su Londra (lettura comunque consigliata anche se recuperare il libro potrebbe non essere così semplice). Anche questo Legend non rimarrà nella storia del cinema, film discreto che non descrive in maniera completa le figure dei due professionisti del crimine ma che può contare sulla doppia interpretazione di un Tom Hardy che da sola vale il prezzo del biglietto.

Londra, anni 60. Ronnie (Tom Hardy) e Reggie Kray (sempre Tom Hardy) sono due eastenders, due gangsters molto temuti e rispettati nel quartiere e oltre, i loro interessi toccano diversi rami della criminalità ben nascosti dietro la facciata di qualche locale rispettabile e frequentato da celebrità e personalità politiche. Reggie è un tipo riflessivo, incline a scoppi di violenza ma controllato, è uno che nei suoi affari sa mettere la testa, uomo affascinate e capace nel portare avanti le relazioni e dirimere i contrasti, di contro Ronnie è ingestibile, un violento con tendenze schizofreniche, dichiaratamente omosessuale in un'epoca in cui la cosa era molto più che tabù, sincero e senza paure, strano, con una voce sgradevole, il naso storto, gemello di Reggie ma diverso in maniera profonda e nonostante tutti i casini di cui Ronnie è capace per Reggie quello schizzato rimarrà sempre suo fratello, sangue del suo sangue, da tenere a bada e proteggere. Quando Reggie si innamorerà di Frances (Emily Browning), sorella di un suo amico, questa pian piano cercherà di farlo allontanare dalla malavita e dagli affari illegali, ma quando si è ai vertici di un certo tipo di mondo non è così facile mollare la presa e cambiar vita.

Film discreto che piacerà agli amanti del genere gangster e ai fan di Tom Hardy, nel filone si contano parecchi capolavori, è naturale che alla mente si affacci il nome di Scorsese che abita però proprio su un'altro pianeta se non addirittura in una galassia diversa, Legend (si poteva trovare un titolo migliore) ha punti di forza e difetti, è una visione piacevole a cui manca qualcosa per lasciare il segno. Nel racconto di Helgeland non emerge in realtà la caratura criminale dei protagonisti, non completamente almeno, i due fratelli sembrano essere fin troppo ancorati all'East end nonostante la partnership con la mala americana, la loro "carriera" non è accuratamente presentata, il regista sceglie di concentrarsi sul rapporto tra i due fratelli e di quello di Reggie con Frances, mai veramente apprezzata dalla famiglia Kray, lo fa affidandosi completamente a Tom Hardy che si assume il compito di caratterizzare in maniera molto diversa i due protagonisti. Se nel tratteggiare Reggie abbiamo il Tom Hardy che conosciamo e amiamo, affascinante e talentuoso in egual misura, nella parte di Ronnie l'attore si trasforma e va sopra le righe, lavorando su voce, postura, trasmettendo la diversa attitudine dei due fratelli. Funzionale il cast di contorno, un bel lavoro si è fatto sulle scenografie e sugli esterni che fanno rivivere la Londra anni 60 in maniera convincente. Legend non è di certo l'apice del gangster movie, non rimarrà impresso nella memoria ma anche solo per il suo protagonista una visione è giusto concederla, in attesa che qualcun'altro rimetta mano alla biografia dei due fratelli Kray.

sabato 16 ottobre 2021

CHIAMAMI COL TUO NOME

(Call me by your name di Luca Guadagnino, 2017)

Per creare la giusta atmosfera per questo Chiamami col tuo nome il regista Luca Guadagnino parte dai (o arriva ai) luoghi, scenari che non agiscono da mera cornice ai personaggi ma si fanno contesto indispensabile alla narrazione, corpo quasi insostituibile; in questo Guadagnino si dimostra un mostro di bravura e acume, considerando inoltre che nella narrazione d'origine, quella del libro di André Aciman da cui il film è tratto, i fatti non si svolgono in Lombardia, nei dintorni di Crema, bensì al mare, sulla Riviera Ligure. Proprio come consulente per le location inizia l'avventura di Guadagnino con la produzione del film, giungendo solo dopo vari passaggi alla regia del progetto che prima doveva essere a quattro mani con il celebre James Ivory poi solo sceneggiatore (vince il premio Oscar alla miglior sceneggiatura non originale). Dal punto di vista formale Guadagnino indovina tutto, la regia sensuale ma allo stesso tempo pudìca innalza il valore di un racconto che avrebbe potuto facilmente scadere nella facile volontà di colpire e scandalizzare, la scelta consapevole del regista di limitare le nudità e non spingersi troppo oltre con le scene di sesso sposta il focus su ciò che è realmente importante nella storia di questi due giovani che si trovano e che vivono il classico amore estivo, breve ma intenso, formativo e che rimarrà in un modo o nell'altro a futura memoria in un'alternanza di gioia e dolore che è ricchezza e vita per i due protagonisti, in particolar modo per il più giovane Elio.

La famiglia di Elio (Timothée Chalamet) è in vacanza in Lombardia nelle campagne vicino Crema, di origini ebraiche e provenienza francostatunitense il padre del ragazzo, il professor Perlman (Michael Stuhlbarg), docente di archeologia, ogni anno ospita un laureando in fase di stesura tesi; è la volta dell'americano Oliver (Armie Hammer) di sfruttare l'occasione e godersi il viaggio in Italia, il giovane è un tipo estroverso, piacente, per alcuni versi originale e che non riesce da subito simpatico al diciassettenne Elio, più giovane e meno espansivo seppur baciato dalla fortuna di avere genitori molto aperti con i quali ha uno splendido rapporto. Mentre Oliver conquista da subito il favore dei genitori di Elio, questi si avvicina poco a poco all'americano più grande di lui iniziando a provare sentimenti contrastanti nei suoi confronti fino a sentirsi sempre più attratto da lui, è un periodo di confusione per il giovane che capirà solo in un secondo momento l'attrazione fisica e sentimentale per il nuovo amico che prenderà il posto di Marzia (Esther Garrell) nei desideri dello stesso Elio. Oliver, da principio più razionale, ricambia, per i due si prospettano alcuni giorni di passione destinati inevitabilmente a finire nel momento in cui Oliver dovrà far ritorno in America.

Non solo luoghi ma anche tempi. La scansione della storia tra Elio e Oliver è fatta di sospensioni, attese, rimandi, tempo sprecato, studi, incontri, avvicinamenti; la non linearità dell'approccio, i tempi del fuoco, dell'abbandono, contribuiscono a rendere viva una storia che, dato il pregiudizio della società (ma non della famiglia), siamo nei primi anni 80, fosse stata tra un uomo e una donna sarebbe stata più semplice e forse meno interessante, con il giusto contorno Guadagnino riesce a imprimere il carico emotivo necessario ai passaggi più intimi della relazione tra i due ragazzi, senza mai eccedere, misurando prima e dando sfogo poi a una passione che scatena anche il meraviglioso confronto tra padre e figlio sul finale che per chi è cresciuto in famiglie molto rigide e tradizionali può sembrare simile a una conversazione tra alieni (purtroppo). Ben definiti i coprotagonisti che possono apparire agli occhi di molti quasi irreali, non secondario nell'economia della storia proprio il rapporto tra Elio e questi genitori illuminati, ottima la prova di Chalamet, uno dei giovani attori più interessanti degli ultimi anni, splendida la fotografia che illumina le location e contributo prezioso al film del musicista Sufjan Stevens che regala alcune canzoni alla colonna sonora.

giovedì 14 ottobre 2021

BLUE JAY

(di Alex Lehmann, 2016)

Film diretto da Alex Lehmann ma progetto appartenente a Mark Duplass che scrive, recita e produce. Duplass, regista, sceneggiatore e attore originario di New Orleans, è indicato insieme al fratello Jay come uno dei maggiori esponenti della corrente mumblecore, un filone del Cinema indipendente che si caratterizza per film solitamente a budget contenuto e molto, molto parlati, storie romantiche e di vita quotidiana interpretate spesso da attori non professionisti anche se non è questo il caso, insieme allo stesso Duplass troviamo qui infatti Sarah Paulson, attrice di fama mondiale. Le altre caratteristiche del genere sono invece rispettate, due soli attori (più una comparsata veloce di Clu Gulager), budget ridotto, un bel bianco e nero moderno, parole, confronti e un girato che sembra sia stato terminato nel giro di una settimana, due protagonisti che potrebbero avere tra i trenta e i quarant'anni (più vicini ai quaranta che ai trenta direi), tanto sentimento, molta nostalgia e situazioni dolorose pronte a riemergere.

Crestline in California è un piccolo paese che ha tutta l'aria di essere stato un poco strapazzato dal tempo, qui si incontrano Jim (Mark Duplass) e Amanda (Sarah Paulson), due adulti che nel loro passato hanno una storia d'amore in comune consumatasi al tempo delle scuole superiori. Jim è tornato al paese natio per sistemare la vecchia casa della madre ormai defunta, Amanda è in visita alla sorella che aspetta un bambino. I due si incontrano casualmente al supermercato, dopo i primi momenti di imbarazzo Jim e Amanda ritrovano quella confidenza e quella complicità che ha le radici ancora salde in quella ormai vecchia e bellissima unione, ma il tempo è passato, Amanda ora è sposata, ha i due figli che il marito ha avuto da un matrimonio precedente a cui badare, Jim è invece rimasto un po' fermo, single, lavora nell'edilizia e in testa Amanda è rimasta, lì ad aleggiare, per tanti anni. I due ripercorrono il viale dei ricordi, ritrovano qualcuna delle vecchie giocose e assurde abitudini, tornano al Blue Jay per un caffè, dietro il bancone del vecchio minimarket c'è ancora il vecchio Waynie (Clu Gulager), sembra incredibile, la casa della madre di Jim è ancora più o meno la stessa ma comunque il tempo è passato, gli anni trascorsi forse non sono stati così felici, non come quelli dei vecchi tempi.

Se amate i film intimi, emozionali, e se nel vostro cuore alberga un po' di romanticismo e un pizzico di nostalgia per le esperienze di gioventù, Blue Jay si rivelerà un film delizioso. Il canovaccio imbastito per la trama ha giusto due o tre punti fermi, per il resto è tutto dialogo, sguardi, improvvisazione, recitazione, con una Sarah Paulson in splendida forma, affascinante nel bianco e nero del regista Lehmann che si occupa anche della fotografia. Molto bravo anche Duplass, i due attori riescono a farci sentire la presenza di quella chimica eterna di chi si è amato e in piccola (o grande) misura continuerà ad amarsi per sempre. Pochissima struttura, la camera di Lehmann asseconda i personaggi, li colloca nel giusto spazio alla giusta distanza, Blue Jay è un film da godersi senza troppi pensieri, con cui mettersi lì e farsi cullare, trasportare, poi arriva anche qualche strattone, il personaggio di Jim è un po' più complesso di quanto sembri a prima vista, è un susseguirsi di piccoli gesti, abitudini riprese, momenti di cui ogni esistenza dovrebbe essere piena. Un film molto sentimentale consigliato senza riserve.

lunedì 11 ottobre 2021

VIAGGIO IN GROENLANDIA

(Le voyage au Groenland di Sébastien Betbeder, 2016)

Con Viaggio in Groenlandia il regista Sébastien Betbeder dà un seguito al suo cortometraggio Inupiluk, antecedente al film di un paio di anni, nel quale compaiono alcuni dei personaggi qui ripresi. È un film piccolo quello di Betbeder che con una commedia dai toni lievi e con due interpreti un po' smarriti che ispirano tenerezza e simpatia coglie l'occasione per mostrare splendidi scenari ghiacciati e uno stile di vita lontano dal modello europeo delle grandi città (ma anche di quelle più piccole) a contatto del quale l'amicizia tra i due protagonisti, entrambi di nome Thomas, trova una profondità più sincera ma pur sempre leggiadra. 

Thomas (Thomas Blanchard) e Thomas (Thomas Scimeca) sono due amici parigini, aspiranti attori che vivono di piccoli ingaggi recuperati qua e là, si sono conosciuti a un corso di recitazione e hanno legato fin da subito, ora sono in viaggio verso i ghiacci perenni (chissà per quanto ancora) della Groenlandia, più precisamente la loro destinazione è quella del villaggio Kullorsuaq, poche casette coloratissime circondate dal bianco abbagliante di ghiaccio e neve, località nella quale si è da tempo trasferito Nathan (Francois Chattot), il papà di uno dei Thomas, dopo la separazione dalla moglie. Nathan tiene molto a questa visita durante la quale vuole mostrare al figlio una possibilità di vita diversa rispetto a quella del caos della città, un'esistenza più semplice dove i legami, anche con persone all'apparenza molto diverse da lui, sono più sinceri, più semplici e liberi dalle complicazioni e dalle preoccupazioni del sistema occidentale nel quale siamo tutti immersi. Tutto ciò avviene senza spreco di parole, col solo incedere della vita quotidiana, delle poche attività che il luogo offre: un po' di musica, la caccia, il cibo, la convivialità e una connessione a internet molto, molto scarsa.

Betbeder, ammantando la sua narrazione leggiadra di paesaggi abbaglianti senza per questo abusarne, racconta con eventi minimi un diverso modo di vivere, i due ragazzi afflitti dalla precarietà del mondo moderno, schiavi della rete attraverso la quale devono dichiarare le loro giornate lavorative e le loro scarse entrate per avere delle agevolazioni statali, imparano a conoscersi meglio, ad andare più a fondo nella loro amicizia e nel loro rapporto nonostante la riservatezza un po' imbarazzata di Thomas (il figlio di Nathan) che non riesce ad avere un rapporto completamente aperto col padre, convinto che di alcune cose forse è meglio non parlare. Per i due Thomas sarà anche l'occasione per mettersi alla prova e acquistare sicurezza grazie alle nuove conoscenze, alle battute di caccia nelle quali sono chiamati a partecipare in prima persona, nel portare le loro tradizioni al popolo della Groenlandia (le crepes) e immergersi in quelle locali (il fegato di foca). L'approccio è sempre divertito, i due ragazzi sono un po' stralunati e l'incontro con la nuova situazione risulta simpatico e genuino, Viaggio in Groenlandia è un film che mette lo spettatore in una condizione di serenità e buonumore, non presenta grandi contenuti né particolari motivi d'interesse ma la simpatia impacciata dei due Thomas rende la visione più che piacevole, buona per un momento d'evasione dalla frenesia della città.

sabato 9 ottobre 2021

SQUID GAME

(Ojingeo Geim di Hwang Dong-hyuk, 2021)

Ottimo prodotto di intrattenimento questo Squid game che da subito ha dato adito a paragoni ingombranti, spesso non completamente centrati, due su tutti quello con il connazionale Parasite di Bong Joon-ho e quello con la serie di punta di questi ultimi mesi per Netflix, La casa di carta, di cui questo Squid game sembra ripercorrerne l'ascesa verso il successo globale. Diciamo che nonostante Squid game sia una serie davvero piacevole da guardare, con i suoi pregi e i suoi difetti, le altre due opere citate sono proprio un'altra cosa. Se la disparità e l'ingiustizia sociale sono alla base di entrambi i prodotti coreani, Bong Joon-ho affrontava l'argomento con arguzia ma con tutt'altra profondità, le motivazioni non abbandonavano mai la narrazione in favore del semplice intrattenimento come accade in Squid Game, la violenza e il suo uso erano calibratissime mentre qui appaiono in alcuni passaggi finanche gratuite, in Parasite si assisteva a un crescendo perfetto mentre per la serie di Hwang Dong-hyuk il finale probabilmente non si dimostrerà poi così soddisfacente per più di uno spettatore. Con La casa di carta in comune ci sono le tute rosse (mossa parecchio furbetta e studiata) e basta, nel serial spagnolo i personaggi sono costruiti con ben altro spessore, più approfonditi e il coinvolgimento, nonostante entrambe le serie puntino prevalentemente a un intrattenimento facile, era davvero su tutt'altro livello. Con questo non si vuole certo sminuire questa serie che per tutta la sua durata rimane sempre più che godibile e porta un prodotto asiatico seriale al grande pubblico occidentale.

Lo squid game è il gioco del gambero, un passatempo diffuso tra i bambini coreani che ci introduce alla storia narrata. Seul, Seong Gi-hun (Lee Jung-jae) è un uomo sull'orlo del fallimento, versa in una profonda crisi economica, poco lavoro, debiti, l'uomo cerca aiuto ancora dall'anziana madre, i pochi soldi che racimola li gioca ai cavalli, separato dalla ex moglie ormai risposatasi non riesce a garantire un rapporto di qualità alla piccola figlia in procinto di trasferirsi negli Stati Uniti. L'uomo sembra un bambinone troppo cresciuto, in un momento di disperazione si lascia convincere a partecipare a un gioco misterioso con un grosso montepremi in palio e senza conoscerne le regole. Narcotizzato e portato sul luogo dell'evento, un'isola misteriosa, Seong Gi-hun incontrerà il suo amico d'infanzia Cho Sang-woo (Park Hae-soo), uomo di successo ma segretamente caduto in disgrazia. Insieme a loro centinaia di futuri giocatori: un uomo molto anziano, Oh II-nam (Oh Yeong-su), a cui è stato diagnosticato un male in fase terminale, la borseggiatrice Kang Sae-byeok (Jung Ho-yeon) che immigrata dalla Corea del Nord vorrebbe prendersi cura del fratellino piccolo, una coppia sposata, il delinquente Jang Deok-su (Heo Sung-tae) che ha rubato soldi a un boss della mala e diversi altri ancora, tutti spinti da condizioni di miseria a partecipare a una competizione che loro ancora non sanno essere mortale. Sei giochi da superare pena la morte, un premio in denaro che cresce a ogni eliminazione, i reietti della società a contenderselo tra paura e violenza.

Dalle dichiarazioni dello stesso Hwang Dong-hyuk sembra che nessuno, nemmeno Netflix, si aspettasse il successo che sta riscuotendo questa serie il cui meccanismo a prove successive è mutuato dai manga, come racconta in alcune interviste il suo creatore; in effetti i vari livelli da superare, oltre che ai videogames, fanno pensare ad alcune narrazioni molto usate nei fumetti del Sol Levante, per ciò che concerne il suo successo ha contribuito il look accattivante dei guardiani del gioco (tute rosse e maschera nera con simbolo geometrico), comparso poco dopo la messa online dei nuovi episodi de La casa di carta è rimasto impresso negli occhi e nelle teste degli spettatori creando curiosità attorno al nuovo prodotto. La produzione è di buon livello, la regia non annoia mai se non per l'abuso di qualche campo lungo nei primi episodi nei quali i concorrenti sono tantissimi e la portata del massacro necessita per forza di cose una visione d'insieme molto ampia. Proprio nei primi episodi le uccisioni di massa potrebbero far storcere il naso a qualcuno, dal punto di vista visivo nulla di troppo forte, come situazioni invece sì, chiara metafora di ciò che la società moderna permette tutti i giorni e a cui spinge i disperati, la ricerca di nuove soluzioni per affrontare vite nelle quali ormai non ci sono più garanzie e né speranza. Ben calibrata la crescita dei personaggi, seppur non troppo approfonditi ad esempio Seong Gi-hun passa da quella che può sembrare una macchietta ad essere un uomo tormentato dalla necessità di dover prendere scelte difficili che coinvolgono non solo la propria sopravvivenza ma anche quella di altri, non tutti reagiranno nello stesso modo e la stessa costruzione dei giochi contribuisce a rendere vivace il rapporto tra i personaggi che sono chiamati ad affrontare dinamiche sempre diverse: tutti contro il gioco, prove in solitaria, prove a coppie, imprevisti anarchici e così via. Almeno un paio le sottotrame, non troppo sviluppate, una delle quali tocca corde scoperte, con un accenno velocissimo, quasi impercettibile, esplica l'orrore di ciò che l'uomo arriva a fare per contrastare la miseria. Molto apprezzata l'idea di non ricorrere al flashback costante per delineare i protagonisti, riuscito l'espediente del secondo episodio per mostrare le vite dei personaggi al di fuori del gioco così come l'uso del testa a testa per mettere in crisi i protagonisti adoperato nell'episodio Gganbu. Finale un po' così, può piacere come no, lascia qualche spiraglio a nuove possibilità, nel complesso Squid game è una serie riuscita, non tra i migliori prodotti in circolazione ma per quel che riguarda l'intrattenimento puro non gli si può rimproverare poi molto. 

lunedì 4 ottobre 2021

MISTRESS AMERICA

(di Noah Baumbach, 2015)

Film parlatissimo che non può non evocare echi alleniani, Mistress America ci riporta nella Grande Mela cara al vecchio Woody e a luoghi ormai arcinoti a noi spettatori, è cambiata la generazione anche se le dinamiche paiono atemporali, i protagonisti di queste vite work in progress ritratte da Baumbach sono più giovani di quelli alleniani (non di tutti), sempre incasinati, anche oltre l'analisi ormai sorpassata, in qualche modo più consapevoli dell'incertezza del loro posto nel mondo, delle possibilità di successo ma soprattutto di quelle di fallimento, di spaesamento, capaci di affrontare la vita e farle fronte nonostante tutte le nevrosi del caso e senza mai soccombere realmente a esse, più resistenti anche quando frivoli e inconcludenti. Questo film di Baumbach, accompagnato dalla vivace Greta Gerwig ora sua attuale compagna e anch'essa regista di successo, risulta frizzante e piacevole nonostante, o forse proprio per questo, la sua storia minima sia sovrastata dalle chiacchiere a ruota libera dei protagonisti tutti in palla e adatti a ricoprire i ruoli assegnati loro dal regista che valorizza al meglio questa ronde di rapporti amicali tra generazioni diverse.

Tracy (Lola Kirke) inizia a frequentare il college e si trasferisce a Manhattan, lì non conosce nessuno e fatica un po' a integrarsi, sua madre (Kathryn Erbe) che è in procinto di sposarsi per la seconda volta, le consiglia di contattare la sua futura sorellastra che vive proprio in città, Brooke Cardinas (Greta Gerwig), una trentenne vivace con mille risorse e progetti da concretizzare per diventare una vera newyorkese affermata. Nel frattempo Tracy incontra Tony (Matthew Shear) con il quale condivide il sogno di farsi pubblicare un racconto ed entrare così nel club letterario del college, entrambi verranno però rifiutati e a dispetto di una nascente simpatia tra i due Tony inizierà una relazione con la scontrosa Nicolette (Jasmine Cephas Jones). L'incontro tra Tracy e Brooke sarà fulminante, la diciottenne trova nella futura sorella una personalità affascinate, avvolgente, pronta a presentargli le possibilità di una New York briosa, Tracy rimarrà incantata dall'energia della trentenne che ha in progetto di aprire un ristorante dal carattere accogliente a Manhattan, inizierà così a prendere appunti sulla vita di Brooke per trarne un racconto, quest'ultima trova invece in Tracy una spalla, una giovane da istruire e qualcuno capace (forse) di farla sentire un po' più importante e indirizzata sulla strada giusta. Ma per tutti trovare una direzione da seguire in questi tempi moderni è tutt'altro che semplice.

Fuoco di fila di dialoghi, battute, situazioni più o meno divertenti, personaggi vivaci, Mistress America illustra il modo di rapportarsi di due generazioni diverse, entrambe giovani, tra di loro e nei confronti della vita che la società di oggi propone (o impone). Aleggia lo spettro del fallimento, dell'inconcludenza in personaggi molto meno che perfetti ma ad ogni modo umani, consapevolmente costruiti, a tratti approfittatori, un po' opportunisti, strambi il giusto, Baumbach trova un bel cast e un'ottima Greta Gerwig a dar corpo al suo affresco corale forse poco originale ma sempre molto piacevole. Spicca il rapporto tra due giovani donne, meno che sorelle, complici per un pezzo di strada o chissà per quanto, che mostra in fondo almeno un pezzo di sincerità. Regia lieve di Baumbach che si concentra sulla direzione degli attori e dei dialoghi, sui tempi e sul quadro d'insieme parecchio frizzante per un film forse perfettibile ma niente affatto male, anzi.

venerdì 1 ottobre 2021

STRAY DOGS

(Jiao you di Tsai Ming-liang, 2013)

Film parecchio ostico Stray dogs (cani randagi) anche per chi è aduso a modelli di cinema alternativo al mainstream occidentale, ai tempi dilatati, alle narrazioni che non fanno del loro fondamento il mero concatenarsi di eventi, di scene madri e sviluppo logico di una trama ben definita. Anche per questi spettatori Stray dogs è una visione indubbiamente difficile che con tutta probabilità andrebbe approcciata dopo una conoscenza del percorso artistico di Tsai Ming-liang (per apprezzarne i segni di stile) di cui questo film è la penultima opera di una filmografia che conta poco più di una decina di lungometraggi. Stray dogs è il resoconto di una condizione, di esistenze oltre la crisi e l'umana indifferenza, è il post apocalittico senza la bomba, è il randagismo traslato dal cane all'uomo e permesso da una società abbruttita dove l'essere umano è l'ultima cosa a contare e ad avere importanza, proiezione avanti di un presente certo e di un futuro possibile su scala molto più ampia di quella attuale, sempre che il pianeta, mosso a pietà o arrabbiato, non decida di darci uno stop decisamente prima. Stray dogs è il racconto di tutto questo per quadri in (lievissimo) movimento.

Un padre, due figli, una bambina piccola e un maschietto di poco più grande, una donna, forse la madre, forse semplicemente un figura materna (o più d'una), in realtà si alternano tre attrici nel ruolo ma non è chiaro se interpretino lo stesso personaggio. Non c'è nulla di chiarificato in Stray Dogs, i dialoghi sono ridotti all'osso, le azioni si ripetono cicliche, non c'è sviluppo, non c'è trama, c'è solo il miserabile del quotidiano, la disperazione e poco altro. Il padre (Lee Kang-sheng) di giorno lavora per una società di affitti immobiliari, è una sorta di cartellone pubblicitario umano, tiene in mano per tutto il giorno un'inserzione pubblicitaria in un incrocio trafficatissimo di Taipei, sotto la pioggia battente, al freddo, fustigato dal vento, circondato da automobilisti indifferenti. I bambini passano le giornate dentro i negozi, si lavano nei bagni pubblici, non hanno dimora, dormono in luoghi abbandonati adattati alla bell'e meglio per avere una parvenza di casa. Gesti, ricorrenze, la cupa disperazione degli adulti, la vivacità dei bambini anche in queste condizioni inaccettabili. Non c'è una storia ma c'è un messaggio, certo, magari non sappiamo quale fosse quello nella testa di Tsai Ming-liang mentre girava Stray dogs, ma quello che arriva allo spettatore è che come razza (umana) un po' di schifo lo facciamo.

La camera del regista, uno di quelli che ha rivitalizzato la New Wave Taiwanese negli anni 90, è quasi sempre fissa, sono pochissimi i movimenti di macchina, sono i personaggi a muoversi all'interno di quadri che sono punti fermi e inevitabili ritorni, allo spettatore vengono richieste attenzione e pazienza: pochissime parole, tempi lunghi che trovano l'apoteosi nella scena finale, una sequenza per lo più statica di una decina di minuti, fatta di sguardi, piccole variazioni di espressioni a comunicare lo sfacelo interiore che possiamo solo assorbire dall'osservazione. A differenza dell'altro film asiatico che metteva in scena esistenze disperate (An elephant sitting still) di cui abbiamo parlato qualche giorno fa, questo Stray Dogs risulta più freddo, parimenti incisivo ma meno incline a scavare nell'animo dello spettatore, risultato derivante proprio da un approccio decisamente ostico e che poco agevola la visione con il risultato che alla fine del film questi personaggi si sentono meno vicini pur comprendendone le condizioni di vita miserabili che non dovrebbero mai essere accettate per nessuno. Purtroppo, proprio come succede durante la visione, sembra ormai che non si faccia altro che stare fermi a guardare, a guardare e a guardare tutto ciò che viene triturato e scartato dal nostro sistema.

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