sabato 29 giugno 2024

GREAT FREEDOM

(Große Freiheit di Sebastian Meise, 2021)

L'Austria non è tra i maggiori produttori al mondo per quel che riguarda film di un certo peso, con questo Great freedom (titolo internazionale) i mitteleuropei mettono a segno un ottimo colpo, il film di Sebastian Meise viene infatti scelto per rappresentare il Paese e concorrere alla categoria "miglior film internazionale" all'edizione 2022 degli Oscar dove non vincerà, raccoglierà comunque premi in giro per l'Europa tra i quali "miglior attore" per il bravissimo Franz Rogowski al Torino Film Festival, il premio della giuria al Festival di Cannes (Un certain regard) e un altro paio di riconoscimenti agli European Film Awards, un'ottima presentazione per tutti quegli spettatori che volessero affrontare ora la visione del film su piattaforma (Mubi, lingua originale con sottotitoli). È un "prison movie" un po' atipico questo Great freedom, un dramma (e che dramma!) dove a farla da padrone è l'amore; l'amore per l'altro, l'amore per le proprie scelte e per la propria natura, l'amore per il sesso (e il sesso per l'amore e non solo), l'amore per la propria dignità e su tutto l'amore per l'amore, forza dirompente che sostiene la resistenza e permette il compimento di scelte difficili e la vita stessa in situazioni di ingiustizia estrema e reiterata (in ambiti dove non tutti ce la fanno).

La storia di Hans Hoffmann (Franz Rogowski) segue in qualche modo quella del Paragrafo 175, una sezione del codice penale tedesco in vigore fin dalla fine dell'800 e rimasta in piedi, con alcune revisioni, fino al 1994, praticamente l'altro ieri. Il suddetto "paragrafo" condannava i rapporti omosessuali tra uomini, nel corso del tempo questa legge è stata inasprita o alleggerita in base all'aria che tirava nel paese. Ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, in generale in tutta l'epoca nazista, il Paragrafo 175 fu l'appiglio del governo per perseguire in maniera sistematica gli omosessuali per poi internarli nei campi di concentramento, una situazione ignobile che purtroppo migliorò davvero di poco con la sconfitta dei nazisti; infatti la legge rimase in piedi anche dopo la guerra e gli internati nei campi con il "triangolo rosa" si videro trasferire direttamente dai campi di concentramento alle carceri tedesche. È più o meno in questo momento che iniziamo a seguire la storia di Hans, una storia che non procede in maniera lineare nel tempo, nel passaggio al carcere Hoffmann viene per la prima volta in contatto con il compagno di cella Viktor (Georg Friedrich), un uomo prima restio ad avere contatti con un omosessuale, poi via via sempre più comprensivo fino a sviluppare una vicinanza al compagno di reclusione sempre più forte. Nel frattempo Hans, schiena dritta e dignità sempre altissima e intatta, porta avanti con coerenza la sua esistenza in armonia con il suo essere, troverà in carcere amore e dolore fino a quando quel maledetto Paragrafo 175 verrà abolito; finalmente Hans tornerà alla vita, il suo amore però è rimasto dentro quelle mura ormai così familiari.

Il regista Sebastian Meise ci introduce alla vicenda con un montaggio di una serie di filmati che inchiodano Hans nei suoi momenti di trasgressione e che lo porteranno a scontare una delle sue multiple condanne per omosessualità. Nel film non vediamo il lasso di tempo relativo alla detenzione di Hans nei campi di concentramento, la narrazione si concentra dal dopoguerra fino al momento in cui la legge verrà alleggerita permettendo al protagonista di venire scarcerato. La figura centrale del film, quella di Hans, supportata in maniera esemplare dalla presenza del Viktor interpretato altrettanto magnificamente da Georg Friedrich, mette al centro della narrazione l'importanza di non tradire mai sé stessi, a costo di altre detenzioni, della perdita della libertà, di reiterati periodi di isolamento. Narrato in maniera equilibrata e mai sensazionalistica o sopra le righe, Great freedom è un affresco fatto d'amore e d'emozioni (tra le quali c'è anche molto sesso) ma soprattutto di rispetto e affermazione; fondamentale in questo l'interpretazione di Franz Rogowski che anche nei momenti di lussuria trasmette sempre il giusto contegno, un personaggio colmo della sicurezza d'essere nel giusto, del vivere senza far del male ad alcuno (a differenza di altri uomini condannati per motivi diversi). Meise costruisce a poco a poco, detenzione dopo detenzione, un percorso interno al carcere che porta Hans a trovare il suo equilibrio nelle dinamiche che la sua vita da recluso gli offre: nel carcere l'uomo troverà l'amore, il lavoro, tanti uomini ovviamente, la solidarietà, tanto che nel momento della libertà, come accade in tanti drammi carcerari, non saprà come gestire la sua nuova condizione di cittadino libero. Great Freedom ha la capacità di esprimere profondità e potenza senza uscire dai bordi, una qualità non appannaggio proprio di tutti. 

lunedì 24 giugno 2024

PREGA IL MORTO E AMMAZZA IL VIVO

(di Giuseppe Vari/Joseph Warren, 1971)

All'udire le parole "spaghetti" e "western" pronunciate una dietro l'altra e senza nulla a separarle nel mezzo non può non affiorare alla mente la trilogia del dollaro di Sergio Leone, la più nobile e celebre espressione di quel sottogenere, lo spaghetti western appunto, che sta a identificare la produzione nostrana di pellicole a tema che imperversò nelle sale più o meno dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso fino all'incirca ai tardi Settanta dando vita a una serie numerosa di film, di alterna qualità e spessore, che vanta titoli di forte richiamo ma anche esiti poco conosciuti ai più. Al netto delle eccezioni che come accade all'interno di ogni corrente o filone non mancano, in genere lo spaghetti godeva di capacità finanziarie modeste compensate da molto ingegno: le location di solito si spostavano dalla Spagna (l'Almeria, quando andava bene) alle zone montane o periferiche italiane (come sembra sia il caso di Prega il morto e ammazza il vivo), gli attori non sempre erano nomi di grido o talenti della Settima Arte, i temi e i toni spesso molto lontani da quelli del western classico americano abituato a mitizzare un'epopea del west che probabilmente, come spesso mostrato dai film italiani, è stata decisamente più brutta, più sporca e più cattiva di quella presentataci da Hollywood per moltissimi anni. Maggiore violenza, protagonisti più cattivi e meno limpidi, situazioni estreme, meno cortesie verso donne, vecchi e bambini, pochi pellerossa, tanto fango e parecchia lordura. E poi, ovviamente, soldi e oro, un motore narrativo sempre funzionale, quasi imprescindibile. Prega il morto e ammazza il vivo rispetta diverse di queste caratteristiche, non vanta uno dei registi più quotati nel filone, non è uno dei titoli più noti del genere ma si dice abbia in parte ispirato Tarantino nella stesura di The hateful eight, in effetti qualche punto di contatto c'è...

Dopo un colpo ben riuscito che ha fruttato loro un bottino in oro di una certa consistenza, la banda di banditi capeggiata da Dan Hogan (Klaus Kinski) si dà appuntamento presso una stazione di ristoro con telegrafo che va sotto il nome di Jackal's Ranch; i primi ad arrivare sono i componenti del gruppo agli ordini di Reed (Dean Strafford) i quali trovano già nel locale l'intraprendente John Webb (Paul Sullivan alias di Paolo Casella), un pistolero che si offrirà di accompagnare il gruppo in maniera sicura ai confini con il Messico in cambio della metà del bottino, non un lingotto di meno. In seguito sul posto giungerà Hogan, l'oro invece dovrebbe arrivare con la donna di Hogan, Daisy (Anna Zinnemann), scelta come corriere per dar meno nell'occhio. A gestire la locanda il vecchio proprietario Jonathan (Dan May/Dante Maggio) e la figlia Santa (Patrizia Adiutori) che vorrebbe convincere Webb a portarla con lui in una grande città, così da vedere un po' di vita. Mentre si allunga l'attesa per Daisy nel locale cresce la tensione, Webb inizia a instillare in Hogan il tarlo del dubbio riguardo un possibile tradimento, Reed pensa che Daisy sia scappata con l'oro e non si fida più della guida di Hogan, nel frattempo arriva al Jackal's Ranch anche una diligenza con una coppia di ricconi, un vetturino e una sorta di ballerina. La situazione rischia di farsi sempre più esplosiva, la banda inoltre è ricercata dalle autorità.

Il regista laziale Giuseppe Vari, qui accreditato con nome d'arte anglosassone come usava all'epoca (Joseph Warren), non è tra i nomi più ricordati del filone spaghetti western, parliamo comunque di un direttore "artigiano" che iniziò come montatore la sua carriera nel cinema e che vanta una filmografia nutrita che conta circa una trentina di titoli all'attivo. Prega il morto ammazza il vivo, titolo che anch'esso rientra in una tradizione di titoli quantomeno singolari, vive di una dicotomia degli ambienti; la parte del leone la gioca la lunga sequenza ambientata all'interno della stazione di sosta Jackal's Ranch, luogo chiuso nel quale molti confronti si sviluppano e giungono a una catarsi, non solo quelli tra banditi o che vedono protagonista Webb, ma anche per esempio quello tra la coppia di coniugi benestanti con problemi "matrimoniali". È proprio questa la parte del film meglio riuscita e quella che probabilmente ha portato alcune firme della critica ad accostare il film di Vari all'opera più recente di Tarantino. Le sequenze in esterna sono quelle che invece mostrano un po' di fiato corto, il territorio scelto per girare non è quello del nord americano e qui la differenza si vede, come si percepisce la mancanza di budget nella scelta di non avere un set troppo variegato a disposizione per la costruzione della vicenda. A vantaggio del lavoro di Vari c'è la presenza di Kinski nel ruolo di fetente che è una garanzia e che anche qui è sempre piacevole vedere all'opera, si gioca su una buona tensione nello sviluppo dei rapporti tra i molteplici personaggi (alcuni più credibili di altri) all'interno dello spazio chiuso, non mancano un paio di colpi bassi a bollare questi banditi come dei veri figli di buona donna (le sequenze nel fienile e quella delle sabbie mobili), per il resto latitano un poco una trama davvero avvincente (il plot è semplice, alcune scelte paiono raffazzonate e poco convincenti) e manca un poco di ritmo sul versante dell'azione che è perlopiù assente. Un discreto episodio nell'ambito dello spaghetti buono per approfondire la conoscenza del genere, tanto più data la reperibilità su piattaforma a titolo gratuito (Pluto Tv nella fattispecie).

sabato 22 giugno 2024

I DELINQUENTI

(Los delincuentes di Rodrigo Moreno, 2023)

Meglio farsi tre anni di galera per poi vivere in tranquillità il resto della propria esistenza oppure è preferibile passare venticinque anni dietro lo sportello di una banca in veste di umile impiegato? Con questo dilemma a far da scheletro al plot imbastito da Rodrigo Moreno, I delinquenti riflette sulla schiavitù del lavoro, sull'ingiustizia del dover dedicare la maggior parte del nostro tempo utile a questa occupazione; senza calcare troppo e unicamente la mano su questo aspetto Moreno, argentino in un'Argentina squassata da una crisi economica sempre più evidente e dolorosa per diverse fasce della popolazione, muove un'accusa a quel sistema del capitale che ormai imperversa dittatorialmente a (quasi) qualsiasi latitudine e longitudine e porta (quando va bene) sprazzi di benessere ma anche tantissime ingiustizie, infelicità e sacrificio a tantissimi uomini e donne costretti a vivere vite che nel profondo dei loro animi sanno di non voler vivere davvero. Può sembrare questa l'inevitabile quotidianità della gran parte degli uomini moderni, a tutti gli effetti lo è, ma con mano leggera e con i giusti tempi (più di tre ore di narrazione) Moreno affronta quello che a tutti gli effetti è un dramma collettivo di dimensioni planetarie. Questo il motore, di contorno e ad arricchire le vicende dei due protagonisti principali c'è però parecchio altro...

In una banca di Buenos Aires tra i suoi impiegati storici ci sono i dimessi e ligi al dovere Morán (Daniel Elías) e Román (Esteban Bigliardi), il primo è anche incaricato, insieme al direttore della filiale Del Toro (Germán de Silva), di depositare ogni tot di tempo il contante nel caveau della banca. Stufo del suo lavoro di routine e privo della benché minima soddisfazione, Morán studia un modo di alleggerire la banca di una somma pari al doppio di quello che guadagnerebbe in un'intera vita lavorativa fino al giorno del suo pensionamento. Dopo aver messo a segno il colpo Morán confessa tutto al collega Román coinvolgendolo (e in piccola parte ricattandolo) nell'impresa chiedendogli di conservare il maltolto in un luogo sicuro per un periodo di circa tre anni. Questo è il periodo di tempo che Morán ha previsto di passare in galera a causa di quel colpo che non ha richiesto la minima traccia di violenza, infatti l'uomo è deciso a costituirsi per chiudere il cerchio del suo piano, scontare poi la sua pena e uscire di galera da uomo libero e con la possibilità di riagguantare un malloppo che consentirà a lui e al collega Román (ovviamente il tutto verrà diviso in due parti) di vivere dignitosamente senza strafare ma con la possibilità di non doversi più sottoporre all'incessante schiavitù del lavoro e riappropriarsi invece del proprio tempo, della propria vita, della propria libertà.

Adónde está la libertad? si interrogano i Pappo's Blues riproposti da Moreno a più riprese come colonna sonora portante all'interno del film. Adónde está la libertad? È chiaro come per il regista argentino questa non stia nella reiterata afflizione del lavoro impiegatizio moderno. Nell'aprire una riflessione su questa tematica, affrontata senza violenza e senza mai voler puntare troppo sull'aspetto sociale della problematica, Moreno costruisce un film che apre all'aspetto più positivo della questione, quella riappropriazione di una dimensione personale più semplice e felice che esploriamo in misura maggiore non grazie al personaggio di Morán, l'artefice del colpo, ma per mano delle vicende di Román che si trova implicato quasi suo malgrado nell'intera vicenda ma che riuscirà a tenere il gioco e portare avanti l'opera del suo collega fino (quasi) alla fine del film. C'è una certa dualità che ricorre nelle scelte di Moreno a partire dai nomi molto simili di alcuni protagonisti: Morán e Román (anagrammabili tra loro), stessa cosa per il nome delle due sorelle che Román incontrerà nel momento in cui dovrà trovare un posto per nascondere i soldi, Norma (Margarita Molfino) e Morna (Cecilia Rainero, anagrammabili anche loro), c'è un personaggio che si chiama Ramón e l'attore Germán de Silva interpreta due ruoli, il direttore della banca e un detenuto, Garrincha, che tiranneggerà Morán una volta in galera, una dualità quest'ultima che dà lo stesso volto alle due figure alle quali Morán è costretto a sottostare, un superiore e un delinquente, due differenti "sfruttatori", parallelo che apre a possibili elucubrazioni. Ciò che più conta è però quel ritorno a una vita più semplice e vera soprattutto per Román che scombina tutte le carte della propria esistenza per trovare infine un nuovo amore, dal timore instaurato dalla situazione iniziale si passerà a un rinfrancante ritorno alla natura e alla semplicità, ma poco prima del finale Moreno sarà ancora una volta molto bravo (magari un filo prevedibile) nello scombinare ancora una volta le carte nella vita dei suoi personaggi. Narrazione pacata, ritmi studiati e ben dilatati, tre ore e più che passano in un attimo e che sicuramente vale la pena di dedicare a questo film, torniamo anche noi a ritmi più lenti, godiamoci il film, prendiamoci almeno questa piccola libertà.

mercoledì 19 giugno 2024

SIBERIA

(di Abel Ferrara, 2020)

Il cinema di Abel Ferrara si è sviluppato negli anni come una sorta di lunga seduta di autoanalisi. Sono molti gli aspetti che si potrebbero prendere in considerazione pensando alle varie tappe dell'ormai lunga carriera del regista newyorkese. Tra questi è fondamentale sottolineare quella sorta di transfert tra il privato tormentato dell'artista e quello dei suoi protagonisti su pellicola. Nel corso degli anni il focus di questa operazione, volontaria o involontaria che sia, si è gradualmente spostata dalla sofferenza dovuta ai vizi e alle dipendenze di un giovane e dolente Ferrara, sublimate poi nell'opera cinematografica, a una sorta di riflessione più posata e ragionata ma comunque squarciata da ampi sprazzi di inquietudine come ben dimostrato proprio da questo Siberia, opera ostica che sembra aprire un discorso su coscienza e incubo con un approccio visionario e astratto che conferma ancora una volta quanto il sentire e il riferire di Ferrara non si sia mai pacificato fino in fondo (e forse nemmeno un po'). A portare avanti questa operazione e a dare corpo all'io di Ferrara su schermo torna ancora una volta l'amico e sodale Willem Dafoe, ormai una sorta di doppelgänger di Ferrara stesso e qui alla sesta importante collaborazione con il regista di origini italiane, un'appartenenza e un amore per il nostro Paese che è l'ennesimo elemento che accomuna il direttore al suo interprete, anche lui (Dafoe) legato all'Italia e ormai in grado di padroneggiarne la lingua con sempre maggiore confidenza. E proprio con la voce over di Dafoe che si auto-doppia in italiano che si apre questo Siberia...

In una landa ghiacciata che sembra esistere ai confini estremi del mondo (in realtà si è girato in Trentino) il solitario Clint (Willem Dafoe) gestisce una locanda frequentata da pochissime persone le quali vi si recano principalmente per bere. Oltre ai pochi avventori, a far compagnia a Clint c'è il gruppo di cani da slitta che gli permette di avere una certa mobilità in quell'ambiente non troppo amichevole. Tra i clienti compare un nativo del luogo, un inuit forse, poi una donna incinta con sua madre, una donna che nel grembo porta forse il figlio di Clint? Il protagonista si inoltra poi nella neve con i suoi cani, la sua mente comincia a vagare tra incubi e ricordi, l'esperienza sarà tutt'altro che quieta.

La voce fuori campo di Clint ci introduce al film con un piccolo trauma, con un ricordo legato a un'infanzia non semplice, protagonisti proprio i cani da slitta della razza husky che ora, per un Clint adulto, sono la sua unica compagnia costante. L'approccio di Ferrara allo sviluppo di Siberia è da subito frammentato, segmentato, un montaggio di ricordi, situazioni reali (fotografia irreale) e incubi che formano un flusso di coscienza a scavare nella psiche di un uomo che si è ritirato dal mondo e che, forse per mancanza di coraggio, ora non ne fa più parte. Nel fondersi di realtà e immaginifico, il protagonista sembra confrontarsi in maniera critica con una seconda versione di sé stesso, una sorta di autocoscienza che mette in discussione l'operato dell'uomo, il suo isolarsi, il suo giustificarsi; l'incubo così prende piede, l'atto del decifrare le immagini diviene più difficile per lo spettatore e per il protagonista, si aprono crepacci e sguardi sanguinolenti, l'angoscia della caduta si sovrappone alla presenza di corpi sfatti. Anche il paesaggio è estremamente mutevole e inafferrabile: dalle lande ghiacciate si passa a un deserto desolato e caldissimo, dagli scenari di guerra alle sortite di pesca in compagnia del padre. Fondamentali le figure femminili: una madre? una moglie? ancora una madre, forse quella del suo futuro figlio? Per questa sorta di scavo nell'(in)conscio Ferrara sembra optare per l'isolamento anche nella scelta delle location, il cittadino che ha amato Roma e ancor prima New York si sposta nel nulla, a distanze significative dalla maggior parte degli altri esseri umani e si affronta, si esamina, quel che ne viene fuori è un caos la cui interpretazione rifugge la semplicità. È probabile (ma in fondo chi può dirlo?) che a seguito di un percorso di riscoperta Abel Ferrara abbia trovato in sé stesso ancora delle cose da rimettere in ordine, o magari da lasciare in disordine ma con consapevolezza, l'effetto può essere stato catartico per l'autore, più ostico di certo per lo spettatore che, a parere di chi scrive, per apprezzare davvero questo Siberia deve già partire da un amore pregresso per Ferrara, la visione occasionale è sconsigliata, diciamo che sarebbe meglio iniziare il viaggio da un altrove radicato decisamente nel passato e che sta proprio dalle parti della New York nella quale Ferrara mosse i primi passi. Detto questo Siberia gode di fascino e libertà anti narrativa, nel suo continuo sviscerarsi e donarsi il regista compie un altro passo e regala un nuovo tassello, uno di quelli difficili da piazzare al posto giusto se non si hanno in mano già altri pezzi del puzzle.

martedì 11 giugno 2024

JUHA

(di Aki Kaurismaki, 1999)

Nonostante Juha mostri elementi comuni ad altro cinema del peculiare regista finlandese Aki Kaurismaki, uno che si lascia amare quasi a prescindere, quest'opera datata 1999 all'interno della sua filmografia sembra quasi un mero divertissement, un esercizio di stile con il quale Kaurismaki gira qualcosa di diverso rispetto a tanto cinema che si produce in epoca moderna ma anche un qualcosa di cui si apprezza l'idea di base ma che a conti fatti finisce per essere meno significativo e coinvolgente di altri esiti dello stesso regista decisamente più memorabili. Juha è l'adattamento del romanzo omonimo dell'importante scrittore finlandese Juhani Aho pubblicato nel 1911; per questa trasposizione Kaurismaki decide di girare un film muto in bianco e nero, corredato da didascalie esplicative dei principali dialoghi e accompagnato da un'indovinata partitura musicale a scandire l'avvicendarsi della varie sequenze che vanno a comporre la storia dei due protagonisti, la coppia di contadini formata proprio da Juha e da sua moglie Marja. A dar volto e corpo a questi personaggi ci sono due nomi noti per chi ama il cinema di Kaurismaki: Sakari Kuosmanen che interpreta Juha compare infatti in alcune delle pellicole più interessanti del regista tra le quali L'uomo senza passato, L'altro volto della speranza, Nuvole in viaggio e il recente Foglie al vento, Kati Outinen ha invece partecipato a una decina di titoli diretti dal finlandese che per brevità non staremo qui a elencare. A chiudere il millennio Kaurismaki ci propone, con una scelta parecchio originale, un moderno film muto.

Juha (Sakari Kuosmanen) e Marja (Kati Outinen) sono una coppia sposata di contadini che vivono una vita semplice e all'apparenza felice fatta di piccoli gesti quotidiani, della fatica dei campi, della vendita delle loro verdure (cavolo verza probabilmente) e di vicinanza e condivisione. Juha è un uomo concreto di poche parole e non troppo ricco di effusioni d'amore verso la consorte che comunque ama d'amore sincero; da principio sembra che tutto questo alla più giovane e ingenua Marja possa bastare. Un giorno dalle loro parti, una fattoria isolata nella campagna, capita un signore maturo (più di Juha) e ben agghindato, il suo nome è Shemeikka (André Wilms); a causa di un guasto alla sua auto sportiva l'uomo chiede aiuto proprio a Juha, nell'attesa che la sua auto venga riparata Shemeikka non manca di posare gli occhi sulla giovane e piacente Marja. Questa, dopo alcune avances, si sente lusingata e ammaliata da promesse di mille meraviglie cittadine e decide di abbandonare il marito per intraprendere una fuga e una nuova vita a fianco del più stimolante Shemeikka. Giunti in città questo si rivelerà essere un farabutto della peggior specie, un aspirante pappone e uno sfruttatore, ma (s)fortunatamente Juha non ha ancora rinunciato alla sua amata Marja.

Con la scelta di un bianco e nero netto, pulitissimo e moderno, fotografato dal sodale Timo Salminen (quasi una ventina di volte insieme al regista finlandese), Kaurismaki torna al muto sul volgere del nuovo millennio, lo fa in maniera spiritosa e con i piedi ben piantati nel suo presente. I temi richiamano quelli spesso esplorati dal regista: Juha in fondo è un marginale, un semplice, un buono, un solitario anche quando contornato da altre persone (il finale poi, che non sveliamo, è limpido cinema kaurismakiano. Si può dire kaurismakiano?), i personaggi sono un poco strambi, surreali. Le didascalie dei dialoghi sono asciugate all'osso, poche, solo quelle essenziali, la vicenda lineare è in qualche modo leggibile con un certo anticipo nella struttura da parte dello spettatore non completamente svagato o distratto. Diretto e semplice Juha si lascia apprezzare proprio per le idee di Kaurismaki e per il coraggio che il regista dimostra nel proporre qualcosa di diverso (non che Kaurismaki sia mai stato uno allineato) ma allo stesso tempo non riesce a entusiasmare proprio per la semplicità della narrazione, nonostante la recitazione tirata ad hoc per inscenare questo muto contemporaneo, con gesti e oggetti di scena enfatizzati, espressioni parlanti e quant'altro. Bene ma non benissimo si sarebbe detto qualche anno fa (magari anche oggi ma ormai saprete che lo stare sul pezzo non è proprio la qualità preponderante di chi scrive), non male ma del buon Aki si può di certo recuperare di meglio.

domenica 9 giugno 2024

K-19

(K-19 - The widowmaker di Kathryn Bigelow, 2002)

A vederlo quasi non ci si crede, eppure K-19 di Kathryn Bigelow è un film indipendente che non vanta nella sua produzione il coinvolgimento di nessuna major cinematografica; forse di questa scelta il film paga un po' lo scotto (sul versante spese/incassi) in quanto la storia di questo sottomarino russo, ispirato alla vera vicenda del K-19 sovietico, si rivelò essere una delle più costose produzioni indipendenti della storia che chiuse al botteghino con un ammanco non proprio trascurabile pur essendo a tutti gli effetti un ottimo film realizzato con tutti i crismi del caso. Parlare di K-19 offre anche l'occasione di rimarcare, se ancora ce ne fosse bisogno, l'importanza di una regista come la Bigelow nel panorama del cinema moderno, una sorta di precorritrice (certo, non la sola e non la prima), esempio per tante professioniste donne nel cercare il proprio spazio in un settore oggi di sicuro più aperto alle pari opportunità e alle registe di talento ma che fino a un po' di anni addietro era innegabilmente a trazione in gran parte maschile. Inoltre la Bigelow si muove, facendosi peraltro molto apprezzare, all'interno di diversi generi che per convenzione (e con faciloneria) si legano spesso al genere maschile: pensiamo al thriller-action Point break con Reeves e Swayze divenuto un piccolo cult, o al fantascientifico Strange days e al war-movie The hurt locker (le vale l'Oscar a "miglior regia", prima donna a riceverlo in assoluto), film che insieme ad altre cose come questo K-19 o a Zero dark thirty hanno contribuito a formare tasselli di immaginario cinematografico tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo. Con K-19, a prescindere dall'insuccesso commerciale che non è imputabile a una cattiva riuscita del film, la Bigelow dimostra di saper gestire molto bene anche una produzione importante.

Lo scenario è quello della guerra fredda; l'Unione Sovietica sta affrettando le operazioni di costruzione del sottomarino K-19, un sommergibile dotato di razzi a testata nucleare da lanciare in fase di emersione. Il veicolo non nasce con la volontà di offendere, nelle intenzioni di Mosca c'è quella di usarlo come deterrente, un modo per far sapere agli americani, già in possesso di qualcosa di simile, che anche l'Unione Sovietica è pronta e attrezzata, in caso di pericolo e conflitto non si farebbe trovare impreparata neanche sul versante sottomarino nucleare. Per questioni di costi e materiali scadenti, uniti alla fretta di Mosca nel dover mettere in mare il K-19, il veicolo non è però esente da difetti, il comandante Mikhail Polenin (Liam Neeson) non manca di far sentire la sua voce in difesa della sicurezza dell'equipaggio e per questo viene declassato a secondo in comando e sostituito dal comandante Alexei Vostrikov (Harrison Ford). Il nuovo ufficiale è un uomo molto preparato e sul quale si può contare, è però decisamente più esigente con l'equipaggio e meno amato del precedente ufficiale in comando, questa situazione non mancherà di creare tensioni quando il K-19 prenderà il mare in condizioni già difficili di per sé. Durante le manovre volte a portare il mondo a conoscenza dell'esistenza del sottomarino qualcosa andrà maledettamente storta...

K-19 è fatto della materia di cui sono fatti i classici film d'avventura hollywoodiani; nella struttura narrativa la Bigelow in questo caso non porta nulla di innovativo al genere ma confeziona un film solido nel quale salta all'occhio il transfer del noto eroismo americano verso un cast di protagonisti tutti russi (anche se interpretati da attori perlopiù statunitensi o britannici). Gli elementi fondanti sono quindi l'onore, la fratellanza tra compagni, il senso del dovere verso Patria e colleghi, anche verso il mondo intero a tratti, e poi coraggio e riscatto, dedizione e fedeltà, tutte qualità appannaggio degli storici avversari degli Stati Uniti d'America. Come per il suo ex marito James Cameron, anche la Bigelow sembra amare le ambientazioni che hanno a che fare con l'acqua (Point break, La forma dell'acqua, K-19) anche se qui la fanno da padrone le riprese negli spazi strettissimi del sottomarino, in questo la Bigelow compie un lavoro di grande precisione e dinamicità, i movimenti collettivi degli attori sono una vera danza, non sono mancate le difficoltà in fase di realizzazione durante la quale la troupe dovette preoccuparsi di nascondere tecnici e telecamere dato il poco spazio di manovra a disposizione. Tanta camera a mano, riprese mobilissime, aperture negli spazi ghiacciati del Nord come defaticamento, tutto realizzato con la dovuta perizia. K-19 gode di una bella tenuta anche a livello emotivo grazie all'eroismo e al sacrificio di soldati, uomini, che a costo della loro vita hanno evitato un'incidente che avrebbe potuto rivelarsi portatore di conseguenze nefaste a causa di uno sconsiderato utilizzo del nucleare. Del vero equipaggio del K-19 almeno otto membri morirono nelle settimane successive all'incidente narrato nel film a causa delle radiazioni assorbite a bordo del sottomarino. A differenza di quanto detto da qualche critico il cast occidentale offre una buona prova nei panni di questi soldati russi, qualche spettatore potrà sentire il profumo di retorica qua e là ma nel complesso K-19 rimane un ottimo prodotto di intrattenimento ben girato e ben interpretato.

giovedì 6 giugno 2024

IL SIGNORE DEL MALE

(Prince of darkness di John Carpenter, 1987)

All'interno della filmografia di John Carpenter Il signore del male non è tra le pellicole più conosciute del regista originario dello Stato di New York, l'opera non si fregia nemmeno di quella fama di "cult movie" che in effetti molti altri esiti di Carpenter hanno acquisito con il passare del tempo e degli anni. Pensiamo alla popolarità de Il signore del male e poi a titoli quali La cosa, Grosso guaio a Chinatown, 1997: Fuga da New York, Halloween - La notte delle streghe, Distretto 13 - Le brigate della morte, Christine - La macchina infernale, Essi vivono... insomma, sembra che tra il primo e gli altri film citati non possa esserci proprio paragone, eppure Il signore del male contiene in sé molte delle caratteristiche ricorrenti del cinema di Carpenter e a conti fatti ha ben poco da invidiare ad almeno alcune delle pellicole di cui sopra; con questo film Carpenter aggiunge un'altra tacca all'elenco delle sue opere che possono dirsi ben più che riuscite grazie alla capacita del regista nel giocare con una gestione calibratissima della tensione che ci fa apprezzare il film dall'inizio alla fine anche oggi a quasi quarant'anni dalla sua uscita, e non stiamo di certo parlando di un'opera per la cui realizzazione si sono fatti scorrere fiumi e fiumi di denaro.

Presso l'università di Los Angeles Brian Marsh (Jameson Parker) segue le lezioni dell'eccentrico professor Birack (Victor Wong), il docente insegna fisica teorica e cerca di aprire la mente dei suoi studenti a possibilità altre rispetto a quelle che la diffusa concezione di realtà e tempo li porta in maniera naturale a prendere in considerazione. In realtà Brian, oltre che alle lezioni del professore, presta attenzione ai movimenti della compagna di corso Catherine (Lisa Blount) per la quale nutre un certo interesse. Alla fine di una giornata di lezioni Birack viene contattato da padre Loomis (Donald Pleasance), un prete che chiede un consulto al professore dopo aver scoperto che la Chiesa tiene da tempo immemore nascosto in una parrocchia dismessa un'entità che lo stesso Loomis ha scoperto essere qualcosa di molto simile all'anticristo, una sostanza ancora incorporea che diverse profezie danno in fase di risveglio. Il professore mette così insieme un gruppo di ricerca composto da suoi studenti senza rivelare loro nei dettagli di cosa stiano andando a occuparsi; oltre a Brian e Catherine del gruppo fanno parte, tra gli altri, il loro compagno Walter (Dennis Dun), la radiologa Susan (Anne Marie Howard), Kelly (Susan Blanchard) e l'esperta in lingue antiche Lisa (Ann Yen). Giunti in questa chiesa periferica e abbandonata il gruppo si troverà poco a poco coinvolto in fenomeni sempre più inspiegabili e inquietanti.

Come si accennava sopra, causa l'insuccesso commerciale del precedente Grosso guaio a Chinatown (del 1986), Carpenter è costretto a realizzare Il signore del male con un budget ridotto; il regista fa di necessità virtù e sforna un film capace di creare tensione fin dalle primissime sequenze grazie a una partitura, dello stesso Carpenter, subdola e anticipatrice, una colonna sonora che mette a disagio lo spettatore con pochissime note, grande talento in questo del Carpenter compositore, autorità da tutti riconosciuta. Come ambientazione si torna a quelle periferie tetre e degradate che Carpenter ha già esplorato e che ancora ritrarrà in futuro, nella fattispecie qui una chiesa abbandonata, scenari già presenti in film come Distretto 13 o ancora a venire come poi in Essi vivono (dove torna anche una chiesa, e forse non è un caso). Torna anche il tema dell'assedio caro al regista, qui con un'interessante variante in quanto il gruppo di studiosi protagonisti deve affrontare una minaccia esterna costituita da un folto gruppo di disperati resi simili a zombi dalla presenza custodita nella chiesa (gruppo capeggiato niente meno che dal rocker Alice Cooper) ma anche la minaccia interna costituita dall'entità e dai suoi nuovi adepti che questa si creerà con il passare delle ore. Nel centrare il fulcro del male in una chiesa (e Carpenter poi lo rifarà ancora) si delinea un contrasto tra religione classica (Loomis), religione occulta (l'anticristo) e scienza (Birack e il suo gruppo), una commistione di temi che sfocia in alcune riflessioni filosofiche (si cita anche Schrodinger) che però non prendono mai il sopravvento su ciò che davvero conta nell'economia del film, ovvero la perfetta gestione di tempi e tensione. Molto interessante il finale e il tema del sogno ricorrente che diversi protagonisti avranno lungo la durata del film, elementi che donano una sorta di circolarità imperfetta alla narrazione che in chiusura si trasforma in un indovinato quid in più che impreziosisce un lavoro già molto riuscito. Forse all'epoca Il signore del male non ebbe il successo che avrebbe meritato, forse negli anni il film non è riuscito a ritagliarsi quella nomea di cult come altre opere del Nostro hanno fatto, resta certo che questa è un'opera meritoria indicativa della maestria che Carpenter sfoggiava in quegli anni e che anche grazie a questa opera oggi possiamo ancora continuare a tributargli.

sabato 1 giugno 2024

SOFFIO AL CUORE

(Le souffle au coeur di Louis Malle, 1971)

Dopo Le lycéen di Christophe Honoré ci occupiamo ancora di cinema francese e di adolescenza, lo facciamo andando su un'opera di Louis Malle, regista classe 1932 tra i maggiori esponenti della Nouvelle Vague del cinema d'oltralpe (anche se Malle non sente di appartenergli fino in fondo), "movimento" nato sul finire degli anni Cinquanta e che tra alti e bassi sfornò pellicole fino agli anni Settanta del secolo scorso. Proprio nei Settanta esce questo Soffio al cuore, nel 1971 per la precisione, film con il quale Malle torna al suo ambiente preferito, quello della borghesia francese (da cui egli stesso proviene) con un focus sul periodo dell'adolescenza e con al centro un ragazzino di quattordici anni che muove i suoi primi passi nell'esperienza del diventare uomo. A differenza di ciò che accade in molti altri film a tema qui l'approccio di Malle alla materia è leggiadro e scherzoso, spesso molto divertente e narrato con una struttura capace di mettere sì al centro di tutto il protagonista bambino ma ritagliando ruoli di grande importanza anche per i vari altri membri appartenenti alla famiglia del giovane Laurent, soprattutto per quello di mamma Clara, interpretata da un'ottima Lea Massari.

La famiglia Chevalier è composta da un nucleo di cinque persone: mamma Clara (Lea Massari) è una casalinga molto vitale di origini italiane, una donna bella e piacente, papà Charles (Daniel Gélin), all'apparenza più posato e serioso, è un affermato ginecologo, Laurent (Benoit Ferreux), che è il piccolo di casa, ha quattordici anni e deve subire gli scherzi e le uscite goliardiche dei due incontenibili ma affettuosi fratelli maggiori, Thomas (Fabien Ferreux) e Marc (Marc Winocourt). Arriva per Laurent l'età in cui un ragazzo inizia a interessarsi all'altro sesso, così il giovane comincia a guardare le ragazze con una curiosità diversa, spinto anche dai due fratelli (di poco) maggiori che gli lasciano intendere di saperla lunga sull'argomento. Il sesso non è un tabù intoccabile in casa Chevalier, la famiglia è capace di scherzare su tutto, mamma Clara ha inoltre un rapporto molto aperto e confidenziale con i suoi figli. Quando a Laurent viene diagnosticato un lieve soffio al cuore, questi è costretto a passare un periodo di tempo in una struttura di riposo e recupero, accompagnato dalla madre avrà qui modo di vivere una sorta di vita nuova a contatto con altri giovani pazienti; qui le ragazze non mancano e Laurent avrà occasione di fare incontri interessanti ed esperienze importanti, almeno una delle quali trascende gli usuali percorsi di formazione previsti per l'età dell'adolescenza.

Louis Malle ambienta questo racconto di un'adolescenza nei primi anni Cinquanta; il protagonista è un quattordicenne con gusti molto adulti: ama il jazz sofisticato, ascolta Charlie Parker, legge autori impegnati come Camus, alcuni di questi, anche molto celebri, li snobba con sufficienza, ha conversazioni erudite con i compagni e inizia a interessarsi alle donne. La sua dimensione di ragazzino prende corpo in famiglia, con gli scherzi e gli scontri amichevoli con i due fratelli, con le coccole della madre, qualche rimbrotto del padre. Nel descrivere questa famiglia borghese e i costumi del tempo come lo svezzamento dei ragazzini nelle case chiuse, Malle adopera un registro molto leggero che continua a mantenere, cosa questa parecchio inusuale, anche quando la narrazione si sposta su temi molti delicati come quelli dell'incesto, pratica di certo non da prendere alla leggera ma che il regista francese riesce a inserire con una maestria senza pari in maniera naturale e indolore all'interno della narrazione che non perde mai toni e ritmi della commedia intelligente ma dalla mano leggera. Di contorno sono diversi gli accenni ai vizi d'epoca probabilmente davvero dibattuti nelle case borghesi in quegli anni, a partire dalle opinioni sulla politica coloniale francese, sulla religiosità (c'è il prete a cui pare i ragazzini non dispiacciano) e in genere sulla morale che è in Soffio al cuore argomento più che centrale. Film ancora oggi molto godibile, inusuale nel rapporto tra temi e toni, si affronta tutto con una leggiadria propedeutica all'accettazione, cosa affatto banale.

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