sabato 27 febbraio 2021

ONE NIGHT IN MIAMI...

(di Regina King, 2020)

Non mancano in questo periodo film che affrontano la questione razziale negli Stati Uniti, qualche settimana fa si era parlato di Antebellum, un thriller con un occhio rivolto alla storia americana ai tempi della Guerra di Secessione, ora è il turno di Regina King di dare il suo contributo alla causa con un esordio che le apre la strada al Cinema e al lungometraggio, in curriculum già alcune regie per vari episodi di serie televisive (Shameless, This is us, Scandal, etc...). È un bell'esordio quello della regista dall'antroponimo regale, un film riflessivo, debitore della sua origine teatrale (dalla pièce di Kemp Powers), esula dall'unità di luogo ma la maggior parte della narrazione si svolge in una camera dell'Hampton House Motel, uno degli hotel dove all'epoca venivano accettate le persone di colore (si accenna anche al green book). One night in Miami... è un'ottima occasione per sviscerare dall'interno della comunità nera diversi punti di vista, non solo quelli disinteressati, sulla difficile situazione che gli afroamericani vivono tutti i giorni sulla loro pelle a causa del disprezzo e della pretesa di superiorità dell'uomo bianco.

Siamo nel 1964, un Cassius Clay (Eli Goree) molto giovane vince il titolo dei pesi massimi battendo il campione Sonny Liston (Aaron D. Alexander), dopo l'incontro raggiunge per  i festeggiamenti il suo amico Malcolm X (Kingsley Ben-Adir), membro della Nazione Musulmana e attivista militante per la parità di diritti tra le razze, li raggiungeranno presto il cantante Sam Cooke (Leslie Odom Jr.) all'apice del suo successo e la stella più luminosa dell'NFL, Jim Brown (Aldis Hodge). I quattro amici, esponenti di un'America nera di successo ma ancora disprezzata dai bianchi, si trovano in un momento molto particolare: Clay è appena diventato campione dei massimi e grazie all'amicizia che lo lega a Malcolm sta per convertirsi all'Islam e unirsi alla Nazione Musulmana, proprio nel momento in cui Malcolm sta pensando di lasciare l'organizzazione nei cui vertici non ha più fiducia per fondarne una tutta sua. Cooke e Brown dal canto loro, pur essendo delle star famose in tutto il Paese e anche oltre, hanno appena subito delle cocenti umiliazioni proprio a causa del colore della loro pelle. È un momento critico per la lotta alla disuguaglianza, sono i giorni che precedono l'assassinio di Malcolm X, quest'ultimo è teso per ragioni personali e per le minacce alla sua persona e alla sicurezza della sua famiglia, il suo desiderio è quello che anche i suoi amici, così noti e in qualche modo influenti, si adoperassero per la causa, le recriminazioni e i diversi modi di gestire l'appartenenza faranno salire la tensione e venire a galla i malumori e le posizioni di ognuno di loro, alcune all'apparenza meno coraggiose ma non del tutto condannabili, altre nate virtuose hanno un po' d'odore di opportunismo.

Regina King alla sua prima prova per il "cinema" (ormai dobbiamo usare le virgolette pensando alla mancata uscita in sala) offre un'ottima regia soprattutto sul versante della gestione degli attori, poco contorno, dopo le sbruffonate che saranno cifra stilistica di Cassius Clay per tutta la carriera a venire, i quattro amici si chiudono in una stanza di motel, non uno di quelli di lusso al quale è abituato il facoltoso Sam Cooke, no, un'alberghetto di poche pretese, i potenziali festeggiamenti per il titolo di Cassius si trasformano in una serata di teste pensanti, i quattro amici avranno modo di discutere, riversarsi contro le proprie opinioni e di ferirsi, di tradirsi un poco e di riappacificarsi, di stimolarsi, abbracciarsi e confrontarsi. Proprio il confronto è il motore d'interesse di questo film, se si può facilmente comprendere la posizione di lotta aperta manifestata da Malcolm X, che pretende dai suoi amici lo stesso coinvolgimento, si rivelano altrettanto interessanti i punti di vista di Cooke e Brown sul rapporto tra i soldi, l'indipendenza economica, primo passo verso una marcata libertà, e il ruolo degli artisti e degli sportivi di colore, tollerati dai bianchi per il loro divertimento ma ciò nonostante ancora disprezzati, significativa in tal senso una delle sequenze iniziali che vede coinvolti Jim Brown e il suo "amico" bianco interpretato da Beau Bridges. Le posizioni più oltranziste vengono così messe in discussione, la fama e il successo ridimensionati, emerge però su tutto un sentimento d'amicizia e di forte stima tra questi quattro uomini, il passaggio più commovente si assapora nel racconto del serioso Malcolm X di un'esperienza mai confessata prima ai suoi amici, vissuta proprio durante uno dei concerti di Cooke, il fratello con il quale la sua ideologia cozza maggiormente, e ancora molto interessante il discorso su quel ragazzo del Minnesota e sulla sua musica.

Una bella storia, inventata per la gran parte, ciò nonostante i messaggi veicolati sono chiari e le riflessioni che suscita tutto sommato interessanti, nonostante la poca spinta dinamica il film ha un bel ritmo, la King dosa bene i momenti e si va ad aggiungere alla lista crescente delle donne dietro la macchina da presa da seguire con interesse, e pensare che fino a qualche tempo fa era costretta a subire le richieste assurde del Dottor Sheldon Cooper e di quella manica di disadattati dei suoi colleghi!

giovedì 25 febbraio 2021

LOUISE-MICHEL

(di Gustave De Kervern e Benoît Delépine, 2008)

Louise e Michel sono i nomi dei due protagonisti del film (o delle due protagoniste se vogliamo), ma Louise Michel, come ci ricordano i due autori sui titoli di coda, è anche il nome di una storica anarchica francese dalla quale i registi hanno tratto ispirazione, se non nella storia sicuramente nello spirito. Perché l'approccio alla narrazione, ai suoi protagonisti, è sicuramente anarchico, atipico, un corpo libero originale nella cinematografia di quegli anni e che risulta completamente avulso da ogni corrente ancora oggi, gli spettatori più giovani potrebbero bollare alcune sequenze come cringe, i due autori sembrano saltare dal cattivo gusto al grottesco, dall'idiota al più classicamente divertente fino all'imbarazzante, trovando una cifra stilistica personale e indovinata che rende Louise-Michel un ottimo film con pochi eguali (forse nessuno).

Louise (Yolande Moreau) vive in una triste provincia francese, donna di mezza età, analfabeta, vive vicino alla soglia di povertà circondata da un bel po' di squallore, insieme a molte colleghe lavora in una fabbrica che a causa della crisi (e per furberia dei padroni) continua a chiedere sacrifici alle sue dipendenti; rinuncia dopo rinuncia le operaie si troveranno con un camice nuovo e la fabbrica chiusa e svuotata nottetempo. Con un'indennizzo statale di 2000 euro a testa una decina di loro si riuniranno per decidere sul da farsi, non riuscendo a trovare una soluzione credibile per far fruttare i pochi soldi ricevuti dallo Stato, Louise butta lì un'idea: perché non pagare con quella cifra un professionista per far ammazzare il proprietario della fabbrica? L'idea piace, i contatti giusti li ha la stessa Louise, purtroppo l'uomo prescelto, tal Luigi, ha preso a rigare dritto, non è più sul mercato. Louise allora incappa in Michel (Bouli Lanners), all'apparenza disposto a portare a termine lo scomodo lavoro, il problema è che se Louise è stramba Michel è meno in quadro di lei, l'eliminazione del capo diventerà una vera e propria avventura che porterà i due ben al di fuori dei confini della Francia.

L'approccio di De Kervern e Delépine alla narrazione è realmente originale, magari si può trovare qualche lieve rimando ad accomunare una piccola parte della loro sensibilità per la commedia al lavoro di qualche altro autore, ma sarebbe comunque una commistione di spunti che tutti insieme collimano in qualcosa di poco accostabile ad altre opere note, i due registi francesi adottano un registro che sembra non avere rispetto per nulla e per nessuno, si ride con tutto, con gli emarginati, con i malati terminali, con l'immigrazione clandestina, con le fissazioni bio, con l'omicidio, con l'identità sessuale; le situazioni oscillano dall'imbarazzante al comico senza soluzione di continuità, i due protagonisti principali sono messi in scena da due interpreti poco noti e perfetti, Louise è un orso ignorante che tenta di tenersi lontana dai vizi (non beve mai), attraversa le giornate con stolida apatia che viene smossa però dal vero orrore del film, quel sistema del capitale che nonostante venga sempre più spesso tirato a lucido non manca di produrre storture di cui qualcuno paga le conseguenze in maniera pesante, Michel è un idiota goffo e anche vigliacco (giustificato) a cui però i soldi fanno gola per uscire dalla miseria. Film piccolo ma girato in maniera molto professionale, la cadenza delle sequenze non perde un colpo, fotografia e scelta delle location aggiungono un tocco vitale ai contorni di per sé poco allegri, ne nasce un'avventura itinerante alla ricerca del capo da far fuori e che al momento dei titoli di coda sembra essere finita troppo presto, riserva qualche sorpresa (molto bella la scena finale) e ci regala un'ulteriore sequenza delirante dopo i titoli di coda. La coppia di registi ha realizzato insieme una decina di titoli, almeno il successivo Mammuth aveva goduto di maggiore visibilità grazie alla presenza di Gérard Depardieu a fianco della stessa Moreau, un dinamico duo tutto da approfondire, non è da tutti realizzare un film infischiandosene completamente di dove tira il vento (ma lo faranno poi davvero?).

martedì 23 febbraio 2021

THE WARD - IL REPARTO

(The ward di John Carpenter, 2010)

Nel 2010 John Carpenter torna al cinema dopo un silenzio durato quasi un decennio, l'ultima sua sortita nel lungometraggio risale all'insuccesso commerciale di Fantasmi da Marte, film che mischiava horror e fantascienza senza raggiungere i migliori esiti del notevole passato del Nostro. Ci si aspettava quindi, all'epoca - ormai sono passati altri dieci anni senza nuovi film del regista - un ritorno con il botto, l'opera capace di mandare in solluchero i numerosi fan di Carpenter. The ward si rivela invece solo un buon film horror (se non addirittura discreto), molto classico e prevedibile nella costruzione, tranne per un finale i cui risvolti non è detto che siano facilmente intuibili da tutti, ben realizzato in tutte le sue parti, ovviamente ben diretto (non è che Carpenter possa aver dimenticato come si gira un film), ben recitato da un bel gruppo di attrici, anche loro brave ma non eccezionali né memorabili. Ne esce il classico prodotto medio, un buon film che trova il suo motivo d'essere proprio nella mano sicura di un regista maestro del genere che torna al suo ambiente dopo una lunga assenza, come se non fosse passato nemmeno un minuto, con le stesse capacità immutate ma anche senza apportare nulla di nuovo o interessante al discorso. Ciò che si può riconoscere a Carpenter è la grande capacità di dosare la tensione per tutta la durata del film, anche se lo schema è risaputo si seguono comunque con interesse le vicende legate alle sue protagoniste.

Seconda metà degli anni Sessanta, una volante della polizia sta cercando sul limitare del bosco una ragazza disturbata e potenzialmente pericolosa, riuscirà a catturarla non prima che la stessa abbia dato fuoco a una fattoria isolata. La ragazza, Kristen (Amber Heard), viene portata nell'ospedale psichiatrico dove opera il Dottor Stringer (Jared Harris), qui incontrerà le altre ragazze rinchiuse nel "reparto" delle pazienti problematiche, un settore costantemente sorvegliato dall'infermiera Lundt (Susanna Burney): Kristen conoscerà così Emily (Mamie Gummer), la più sfasata del gruppo, Zoey (Laura-Leigh) remissiva e terrorizzata, la più matura Iris che sembra essere un tipo assennato e pronta al reinserimento nella società (Lynsdy Fonseca) e infine l'altezzosa Sarah (Danielle Panabaker). Da subito a Kristen è chiaro come qualcosa di strano aleggi nel reparto, la ragazza non riesce a ricordare i motivi per cui è stata rinchiusa e da subito avverte una presenza pericolosa che verrà poi individuata come il fantasma di una ex paziente sparita in circostanze misteriose, una ragazza di nome Alice Hudson (Mika Boorem) sulla quale né il personale medico né le sue nuove compagne sembrano dirle tutta la verità.

Il film si sviluppa su binari consolidati, una presenza capace di apparire in ogni luogo e in ogni momento, carrellate sui corridoi, nei sotterranei, personale infermieristico che ispira timore più che fiducia, una serie di belle ragazze in pericolo, qualche morte violenta, immancabile scena sotto la doccia, qualche passaggio più claustrofobico, traumi dal passato e una buona chiusura finale. Tutto corre liscio senza particolari brividi, la tensione tiene ed è abbastanza costante, vero punto di forza del film, una buona regia e una bella fotografia compensano la mancanza di una sceneggiatura interessante. Nulla di memorabile per il genere horror, un film che può sicuramente valere la visione, ma da un Carpenter assente da un decennio al cinema era lecito aspettarsi qualcosa di più soprattutto se pensiamo che per la televisione aveva nel frattempo diretto lo strepitoso Cigarette burns, per me il miglior episodio della serie Masters of horror.

domenica 21 febbraio 2021

LA PAROLA AI GIURATI

(12 angry men di Sidney Lumet, 1957)

Quello di La parola ai giurati è un progetto che nasce con la sceneggiatura di Reginal Rose per uno show televisivo che verrà effettivamente realizzato nel 1954 dalla CBS; vista la bontà del materiale di partenza nel '57 lo script passa in mano a Sidney Lumet, all'epoca esordiente, al fine di trarne un adattamento per il cinema, l'impianto della vicenda è molto "teatrale", non servono quindi grandi mezzi, si mantengono anche un paio di attori della precedente versione e si finisce di allestire il cast, il ruolo principale va ad Henri Fonda, la storia avrà poi altri due adattamenti, uno per la tv e uno al cinema (il molto riuscito 12 di Mikhalkov con riflessioni sul confronto russo-ceceno) per arrivare infine anche in teatro.

La parola ai giurati, come suggerisce anche il titolo del film, rientra nel filone processuale inserendosi però nel genere con parecchia originalità, del processo vediamo infatti giusto un paio di minuti, tutto poi si svolge nella stanza in cui i dodici giurati chiamati a giudicare l'imputato, un ragazzino sospettato di aver ucciso il proprio padre, dovranno assolvere il loro dovere di cittadini nella maniera più imparziale possibile e arrivare a un verdetto d'unanimità: innocenza e conseguente assoluzione del ragazzo o colpevolezza e imputato mandato alla sedia elettrica. Si parla d'un ragazzo giovane, il dilemma dovrebbe toccare profondamente le dodici coscienze, invece c'è chi sembra inamovibile e certissimo della colpevolezza del ragazzo, in maniera aprioristica, altri ai quali le sorti dello stesso non sembrano importare più di tanto, uno solo dei giurati sembra avere quel ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell'imputato e tanto basta per fargli decidere di voler trattare l'argomento con rigore, senza superficialità, esaminando i fatti in tutti i loro dettagli; a una prima indicativa votazione sarà l'unico a propendere per l'innocenza, uno contro undici, da principio può bastare per non archiviare il caso in fretta e furia e continuare con le discussioni. Nessuno dei giurati viene presentato per nome, l'uomo che sostiene la non colpevolezza è Henri Fonda. A opporglisi con maggior foga un uomo d'affari pieno di livore (Lee J. Cobb) che è lì a perorare la causa della colpevolezza con spropositata energia, quasi come se la sua fosse una questione personale con l'imputato, un'altro giurato ha due biglietti per la partita della sera e non vede l'ora di togliersi di torno, quale che sia il verdetto finale (Jack Warden), il presidente della giuria è invece un tipo più ragionevole e cerca di dare ordine alla discussione (Martin Balsam), l'imputato è un immigrato che vive nei bassifondi, di certo non troverà l'appoggio di quel giurato così profondamente razzista (Ed Begley), potrà invece contare sulla possibile solidarietà dei più anziani (Joseph Sweeney). Un intervento dopo l'altro, con poche battute, si delineano caratteri e punti di vista di questi dodici uomini chiamati a decidere della vita o della morte di un loro simile.

La regia di Lumet sfrutta egregiamente l'unità di tempo e di luogo, il grosso del corpo del film, a parte un paio di minuti iniziali in aula e uno finale in uscita dal palazzo di giustizia, è ambientato in una sala afosa con un lungo tavolo attorno al quale siederanno i giurati, con un paio di deviazioni nell'attiguo bagno, la camera stringe sui primi piani o si alza su panoramiche ristrette a seconda dell'emozione e del grado di tensione che si vuole suscitare nello spettatore, il resto lo fa un ottimo cast nel quale si alternano volti più noti come quello di Fonda ma anche Jack Klugman (il mitico Quincy), il caratterista Martin Balsam, Jack Warden (due nomination all'Oscar in carriera) ad altri meno celebri ma altrettanto efficaci. Lumet si trova a suo agio in questi spazi stretti, anche se in maniera molto diversa riprenderà una struttura simile decisamente più avanti nella sua carriera con l'adattamento di Assassinio sull'Orient Express (1974), il film non perde mai il ritmo tenuto alto semplicemente da dialoghi e interpretazioni, sceneggiatura calibratissima, durata giustamente contenuta. Più che sull'omicidio, sul quale si discute basandosi su prove e testimonianze udite durante l'udienza, si riflette sull'animo dei giurati, sulle loro convinzioni, sui pregiudizi, sulla loro capacità di mettere in discussione le proprie idee. Grandissimo esordio per Lumet per uno dei film ricordati come tra i più belli del genere processuale, sicuramente non a torto.

venerdì 19 febbraio 2021

LA SANTA ROSSA

(Cup of gold: A life of Sir Henry Morgan, buccaneer, with occasional reference to history di John Steinbeck, 1929)

Esordio per John Steinbeck che sulle pagine della biografia romanzata dedicata al pirata Henry Morgan, figura storica del 1600, si fa le ossa in vista dei ben più celebri scritti successivi, costruendo un romanzo d'avventura velato di romanticismo affatto disprezzabile e che si lascia leggere con estremo piacere anche da chi come me non nutre interesse alcuno per il mondo dei bucanieri e men che meno per tutto ciò che concerne battaglie navali e imprese piratesche. Unico romanzo d'impianto storico nella carriera dello scrittore californiano, il libro è intriso di una piacevole leggerezza, sia nel personaggio di Henry Morgan, sia nella descrizione di diverse situazioni, alcune effettivamente divertenti, da inquadrare sempre nel ritmo e nel gusto di inizio secolo scorso, lontano quindi dalla sfacciataggine odierna ma non per questo privo di brillantezza e divertito brio.

Siamo nel Galles verso la metà del 1600, Henry Morgan è un quindicenne che vive in un piccolo villaggio poco lontano da Cardiff nella fattoria del padre Robert, uomo mite e di poche pretese, uno che non ha mai azzardato nella vita al contrario di suo fratello Edward divenuto finanche Governatore di Giamaica. Mamma Morgan invece è una donna molto pratica che bada al sodo, entrambi i coniugi sono affezionati in maniera sincera al loro ragazzo che da qualche tempo mostra segni di viva inquietudine. È il desiderio d'avventura a tormentare Henry, il ragazzo non vuole fare la vita del padre, in testa ha l'idea di partire per le Indie (si intende quelle occidentali, le isole del Mar dei Caraibi) e diventare un bucaniere, avere così la sua parte nella guerra contro la Spagna e la sua flotta, sogno massimo la conquista di una grande città sotto il dominio spagnolo. Dopo una visita di un ex servitore della famiglia di ritorno proprio dalle Indie, Henry prenderà la decisione di partire lasciandosi tutti alle spalle, comprese la dolce Elizabeth e la terra di Galles, a poco valgono le preghiere della madre e del padre, il destino del ragazzo è deciso, forte anche dei buoni auspici del vecchio Merlin, una sorta di eremita del villaggio. Con l'entusiasmo proprio dei ragazzi Henry affronta il suo futuro, incontra i primi inganni e il tradimento, la sua caparbia ossessione per la pirateria lo porterà col tempo a diventare il temuto e ammirato Capitano Morgan al comando del quale qualsiasi bucaniere si affiderebbe senza pensarci due volte.

Steinbeck romanza il carattere del suo protagonista inserendolo negli eventi storici che hanno visto partecipe il vero Morgan, nonostante non manchino descrizioni di avventure e battaglie, sempre narrate con tocco lieve e mai protratte oltre misura, La Santa Rossa è un libro che ci parla di desideri, aspettative, sentimenti, moti interiori che cadenzano l'esistenza del suo protagonista senza mancare di porre sempre la giusta attenzione su comprimari e contesto, il tutto con uno stile d'impianto classico ma allo stesso tempo lieve, divertente con classe, sempre piacevole. I desideri della gioventù, forti e tanto più realizzabili quando perseguiti con la giusta intensità e senza troppe riflessioni, incontreranno con l'età l'inevitabile dissolversi di fronte alla consapevolezza che le cose che davvero contano nella vita non sono quelle che si sono inseguite con tanto impegno, dedicandoci tempo e dedizione, ma quelle nelle quali in qualche modo si è fallito, a incarnare l'arrivo di questa tardiva consapevolezza proprio la Santa Rossa, una donna panamense innalzata a statura leggendaria per bellezza e inarrivabilità da montagne di racconti orali, vero e più prezioso bottino al quale ogni bucaniere in segreto mira. Dopo tante sfide militari, tanto oro e tanto sangue, è a lei che volge la mente di Henry, con una parte di cuore fermo alla giovane Elizabeth e a tutto ciò che non è stato. Ma la vita è la vita.

“Credo di capire. Sei un fanciullino. Vuoi la luna per bere in essa come in una coppa d’oro; e così è molto probabile che tu divenga un grand'uomo... se saprai restare un fanciullino. Tutti i grandi del mondo sono stati fanciullini che volevano la luna; correvano, s’arrampicavano, e talvolta riuscivano ad acchiappare una lucciola. Ma se si diventa grandi e ci si fa una mente da uomo, questa mente non può non vedere che la luna è irraggiungibile... e così non si prende neppure la lucciola.”

“Ma voi non avete mai voluto la luna?” chiese Henry con voce sommessa, come per non turbare la pace della stanza.

“L’ho voluta. Più di qualunque cosa, l’ho desiderata. Ho allungato la mano verso di essa e poi… poi sono diventato uomo e così mi sono rovinato. Ma c’è un dono nella rovina; la gente sa che un uomo è fallito, e gli si mostra dolente e gentile. Quell'uomo ha tutto il mondo dalla sua; un ponte che lo tiene in contatto con la sua gente; la veste della mediocrità. Ma colui che ripara una lucciola nel cavo della mano, una lucciola presa mentre egli tendeva il braccio verso la luna, è doppiamente solo; può rendersi conto soltanto del suo pieno fallimento, può constatare la propria meschinità, le proprie paure, le proprie evasioni.

Tu giungerai alla grandezza, e può darsi che un giorno ti senta solo nella tua grandezza, senza amici in nessun luogo, ma solo fra coloro che ti rispettano, o ti temono o ti tengono in sacro terrore. Io ti compiango, ragazzo dai limpidi occhi dritti che guardano lontano, colmi di desiderio. Ti compiango e...Madre Celeste, come t’invidio!”

Il brano riportato qui sopra dice tutto, altro non v'è da aggiungere.

mercoledì 17 febbraio 2021

A SUN

(Yángguāng pǔzhào di Chung Mong-hong, 2019)

Film enorme, in tutti i sensi. In genere cerco di non usare il termine capolavoro parlando di film appena visti, questa volta devo ammettere di essere stato molto tentato. Non lo userò nemmeno oggi rimanendo fedele alla linea, ma sappiate che ne rimango comunque molto tentato. Film enorme si diceva, per contenuti, durata (due ore e mezzo), temi, struttura. Chung Mong-hong parte da un episodio di estrema violenza per allargare il discorso a temi più ampi, profondi e universali: la famiglia, i legami, la perdita, la redenzione, il rifiuto, l'amore nascosto e quello negato e ancora la violenza, quasi a chiudere un cerchio, quello della vita, che vede convergere e convivere bene e male, atti sconsiderati e momenti di poesia, in un dualismo a volte più netto e didascalico, spesso più sfumato e dai confini incerti; Chung Mong-hong è capace di colpire e di commuovere, di scrivere protagonisti bellissimi anche in tutti i loro più grandi momenti di debolezza, ti sorprende con i detour della trama che sono quelli dell'esistenza portandoti per mano verso un finale struggente nella sua perfezione. Sul piano emotivo si affastellano momenti e situazioni in maniera quasi stordente eppure controllata in modo sapiente da regia e sceneggiatura, non si arriva mai al troppo ma ci si sente spesso vicini al colmo, in senso positivo, quasi doloroso, appagante vedere come nonostante gli errori, alcuni irreparabili, la tragedia e il dolore, la speranza riesca sempre a farsi un po' di posto, grazie alla strenua tenacia, a nuova vita, alla rinascita di amore dato ormai per morto o definitivamente disperso; a raccoglierlo e riportarlo in vita ci pensano i morti,  i legami di sangue, a volte i vuoti motti come "cogli l'attimo, segui la tua strada" che campeggia per l'intera durata di A Sun, un sole, la cosa migliore che ci sia, perché il Sole è democratico, capace di illuminare tutto indistintamente e in egual misura.

In seguito a un atto criminale il giovane Chen Jian-ho (Wu Chien-ho) detto A-ho viene arrestato insieme al suo compare Radish (Liu Kuan-ting) e mandato in riformatorio dove sconterà una pena di un anno e mezzo. Questo episodio provocherà un trauma in Wen (Chen Yi-wen), il padre del ragazzo, che disconoscerà il figlio ignorandone l'esistenza, dovendo inoltre tenere a bada i famigliari di Radish che chiederanno con insistenza aiuti economici per risarcire la famiglia della vittima dell'atto criminoso. A tentare di tenere in piedi la famiglia lo stoicismo della madre Qin (Samantha Ko) che potrà contare sull'aiuto dell'altro suo figlio, il mite e avveduto Hao (Greg Hsu). Ma le disgrazie non vengono mai sole, mentre si prepara un altro brutto colpo per la famiglia, alla porta di casa Chen si presenta la giovane Xiao-Yu (Apple Wu), accompagnata dalla zia, che asserisce di essere incinta di A-ho. Tra le vicende in riformatorio che vedono protagonista A-ho e quelle fuori legate ai membri della sua famiglia i sentieri della vita si sviluppano seguendo destini non semplici, dolorosi e in costante mutamento.

La ridda di emozioni di A sun è veicolata da una regia vivace, varia, ferma nell'alternare ampie vedute sulla città di Taiwan e i suoi dintorni a scorci più intimi e raccolti, cieli mobili a tratti urbani, sostenuta da una fotografia meravigliosa che dalle luci al neon ai vicoli di periferia riesce a illuminare il film con una mano dotata di vera grazia, Chung Mong-hong dosa immagine e ritmo riuscendo a far filare le due ore e mezzo di durata in un attimo, tale è il coinvolgimento creato nello spettatore, i momenti intensi sono diversi, i passaggi in cui il regista riesce a spiazzarci più d'uno, la delicatezza dell'amore emerge in misura minore ma quando arriva si fa sentire. È un film pieno A sun, uno di quelli che ti lasciano realmente qualcosa e che vanno a prendersi un posto speciale in quel magazzino di emozioni che il cinema è capace di trasmettere, a poca distanza da Parasite c'è un altro film asiatico a ricordarci che ci sono tante strade alla narrazione, quella del far east è ora forse una delle più vive.

domenica 14 febbraio 2021

TWO LOVERS

(di James Gray, 2008)

Per il suo quarto film James Gray torna ancora una volta nella sua Little Odessa, il quartiere a maggioranza russo-ebraica di Brooklyn che affaccia sulla spiaggia di Brighton Beach, abbandona invece le trame criminose concentrandosi sui legami familiari e affettivi, come già accadeva nei film precedenti, costruendo quello che a tutti gli effetti è un melò dai risvolti problematici e amari, nel farlo si affida per la terza volta a Joaquin Phoenix per il ruolo principale affiancato da una Gwyneth Paltrow inedita alle prese con una prova più interessante rispetto alla media dei ruoli interpretati in passato dall'attrice.

Leonard Kraditor (Joaquin Phoenix), uscito da una relazione finita male e per la quale ha molto sofferto, tenta il suicidio per la seconda volta buttandosi nelle acque dell'Hudson; salvatosi dalla tragica fine omette di raccontare l'episodio in famiglia, alla madre Ruth (Isabella Rossellini) e al padre Reuben (Moni Moshonov). I Kraditor gestiscono una lavanderia nel quartiere di Brighton Beach nella quale anche Leonard lavora, hanno in ballo una fusione con l'attività di Michael Coen (Bob Ari) la cui figlia Sandra (Vinessa Shaw) sembra provare una forte simpatia per Leonard, il legame tra i due ragazzi è ben visto dalla famiglia Kraditor, i due genitori sono sinceramente affezionati a questo figlio sofferente, sperano che la compagnia di Sandra possa portare un po' di serenità nella vita del loro unico figlio. Leonard però, proprio nello stesso periodo, fa la conoscenza di Michelle (Gwineth Paltrow), una vicina di casa attraente ma anch'essa invischiata in una relazione molto problematica con un ricco uomo sposato (Elias Koteas), Michelle sarà per Leonard una folgorazione che andrà a creare un triangolo (quadrangolo?) di relazioni che non potrà che complicare l'esistenza già di per sé poco serena di Leonard.

Lo sguardo di Gray è ancora una volta un saggio sul cinema classico proveniente dai 70, il cammino del regista evidenzia, almeno fino a questo momento, una coerenza programmatica da encomio, il legame con i luoghi e con le sue origini ci porta film dopo film in un territorio ormai noto, il passaggio a una narrazione estranea al mondo criminale non snatura per niente lo stile di Gray, anzi, lo riconsegna a un ambito prezioso, capace di unire storie universali e adulte a un modo di fare cinema che rischia di scomparire. I luoghi sono fondamentali, alla spiaggia di Brighton Beach, alla sopraelevata di Brighton Beach Avenue, al cortile del caseggiato popolare dalle cui finestre Leonard e Michelle alimentano la loro peculiare relazione, si alternano panoramiche del centro di New York, dei suoi ristoranti, ancora una volta dei suoi locali (come già in I padroni della notte), un contorno che serve a rendere più viva e credibile una storia di relazioni molto lontana da quelle proposte nelle rom-com di tanto cinema statunitense: protagonisti problematici, delineati, prigionieri di relazioni dolorose, insoddisfacenti per molti versi che non potranno che portare a epiloghi amari dei quali poco è dato sapere allo spettatore che, pur pago di un ottimo film, rimane con il tarlo del dubbio sul più classico degli "e poi?", cosa sarà di quei personaggi, di quegli amori tra cinque anni? Joaquin Phoenix ancora una volta superbo alle prese con un carattere del tutto particolare, a tratti infantile, ferito, ancora relazioni familiari che in qualche modo legano (non solo quelle di Leonard), probabilmente salvifiche per altri versi, certamente complesse. Passaggio non banale per Gray che qui si conferma come uno dei registi da seguire con attenzione e forse, perché no, anche con un pizzico di devozione.

sabato 13 febbraio 2021

CANNONBALL

(di Paul Bartel, 1976)

Tutto ha origine dalla Cannonball Run, nome per esteso Cannonball Baker Sea To Shining Sea Memorial Trophy Dash, una competizione automobilistica semi-illegale, sicuramente non avallata dalle autorità U.S.A., nata negli Stati Uniti all'alba degli anni 70 come protesta verso le nuove leggi che imponevano sulle highway interstatali un limite di velocità di 55 miglia orarie, limite non amato da molti automobilisti come ci ricorda anche il rocker Sammy Hagar con la sua I can't drive 55, brano che sarebbe stato perfetto in colonna sonora ma ahimè composto purtroppo qualche anno più tardi rispetto all'uscita del film. La gara fu ideata dall'ex pilota Brock Yates che provò insieme a suo figlio per la prima volta il percorso a bordo di un furgone della Dodge, percorso che avrebbe portato i futuri concorrenti da New York a Los Angeles con punti di partenza e arrivo prefissati (nel film il percorso è inverso). Per il resto nessuna regola, ogni partecipante avrebbe potuto scegliere il veicolo e la strada da seguire che preferiva: una partenza, un arrivo, massima velocità e minor tempo di percorrenza possibile, il tutto sponsorizzato dalla rivista di settore Car and driver. Quattro edizioni oltre la prima prova in solitaria di Yates, record stabilito nell'ultima con un tempo di 32 ore e 51 minuti da un paio di piloti a bordo di una Jaguar XJS.

Questo lo spunto del film di Bartel che nel 1976 si trova in buona compagnia, esce infatti nelle sale americane anche il coevo La corsa più pazza del mondo che porta sugli schermi lo stesso argomento, ci si ritorna sopra anche negli anni 80 con i due sequel di Cannonball in Italia forse un po' più noti grazie al cast di maggior richiamo (Burt Reynolds, Roger Moore, Farrah Fawcett, Jackie Chan, Dean Martin, Sammy Davis Jr., Peter Fonda): i due film sono La corsa più pazza d'America e La corsa più pazza d'America 2. Ma torniamo a noi. Rispetto ai due successori Cannonball punta meno sui toni della commedia, il film pur rimanendo leggero si muove più sul versante action con gli stilemi di moda nei seventies, protagonista principale proprio Coy "Cannonball" Buckman (David Carradine, qui il nome appartiene al personaggio e non alla gara), ex pilota in libertà vigilata e concorrente più quotato per la vittoria finale. La posta in palio fa gola a diverse persone, 100.000 dollari nei 70 non sono bazzecole, oltre a Cannonball e alla sua custode per la libertà vigilata di lui innamorata (Veronica Hamel) sono diversi i contendenti che partecipano alla gara (in realtà nel film non ne vediamo più di una decina): l'amico fraterno di Coy, Zippo (Archie Hahn) intenzionato ad agevolare il compito al suo socio, entrambi guidano una Pontiac Trans Am, l'eterno rivale di Coy, il pilota Cade Redman (Bill McKinney) deciso a far fuori Coy con ogni mezzo a bordo della sua Dodge Charger, e ancora una coppia di fidanzatini su una Chevrolet Corvette (lui è Robert Carradine), un (dis)onesto padre di famiglia a bordo di un Chevrolet Blazer che non potrebbe vincere nemmeno la corsa verso il supermercato, un pilota tedesco convinto della superiorità della meccanica europea su una De Tomaso Pantera, un Van con a bordo tre belle e allegre figliole, un autista afroamericano che partecipa con la Lincoln Continental dei suoi datori di lavoro a loro insaputa e via di questo passo, sullo sfondo interessi loschi, scommesse, secondi fini, etc...

Punti di interesse del film: nessuno se non amate l'estetica del cinema di serie b americano dei 70, che potrebbe per alcuni versi essere la stessa del successivo Hazzard per rimanere in tema motori ma anche quella di Duel, oppure le auto americane di quel periodo (magnifiche) o le panoramiche sugli spazi del nuovo continente, gli scorci newyorkesi o losangelini. Cannonball non è un film che si guarda per la trama, elementare, rimane giusto la curiosità di sapere chi timbrerà per primo il cartellino all'arrivo, per il resto auto, polvere, alcune buone sequenze d'inseguimento, quella definizione d'immagine che tanto amano gli estimatori dei film di quegli anni (chi scrive è sicuramente tra questi), un'ottima sequenza con incidenti, esagerata ma che non lesina sugli effetti speciali, Martin Scorsese e Sylvester Stallone decontestualizzati, e infine un David Carradine che tira calci post Kung-Fu. Pura serie b, donna e uomo avvisati mezzi salvati, però, alla fine, a me non è che sia proprio dispiaciuto...

giovedì 11 febbraio 2021

SMETTO QUANDO VOGLIO - MASTERCLASS

(di Sydney Sibilia, 2017)

Dopo aver visto L'isola delle rose di Sydney Sibilia mi è venuta la voglia di recuperare gli episodi due e tre della saga di Smetto quando voglio, film con il quale il regista esordiva al cinema nel 2014. Quello che di Masterclass colpisce più ancora del film, comunque riuscito e più che piacevole, è il coraggio produttivo dell'accoppiata ancora oggi in sella formata dallo stesso Sibilia, che oltre a essere regista è anche tra gli sceneggiatori, e da Matteo Rovere, una squadra che sembra avere lo sguardo lungo e i mezzi per uscire da quelle dinamiche della commedia nostrana che tendono a renderla spesso "troppo italiana", per dirla con una celebre frase del Sermonti di borisiana memoria che anche qui dà bella prova di sé.

Valutato l'ottimo esito dell'esordio, si decide di mettere in piedi non un sequel ma addirittura ulteriori due capitoli di quella che diverrà una trilogia, due film da girare in parallelo e da mandare nei cinema a poca distanza uno dall'altro (usciranno entrambi nel 2017) seguendo un'idea produttiva propria del cinema hollywoodiano e non certo di quello nostrano poco aduso a progetti di così ampio respiro. Già l'idea dà modo di apprezzare un coraggio e una visione che, insieme ad altre realtà ed eccellenze italiane, contribuiscono a costruire una cinematografia "dello stivale" degna di rispetto e capace di competere con prodotti più blasonati di provenienza estera, oltre a questo, aspetto fondamentale, c'è un film che non delude sotto nessun punto di vista.

Si riparte da Pietro Zinni (Edoardo Leo), ideatore nel primo capitolo della realizzazione di una nuova smart drug creata partendo da molecole legali, unico della banda di laureati ultraspecializzati ad essere finito in galera e ora alle prese con una paternità imminente e una compagna (Valeria Solarino) che sta per perdere la pazienza di fronte alle continue bugie di Pietro. La possibilità di riscatto arriva grazie all'ispettrice Paola Coletti (Greta Scarano) che ha l'idea di riunire la banda adoperando il talento dei suoi componenti per ripulire Roma dalla piaga delle altre smart drugs sulla piazza, in cambio la libertà per Pietro e la fedina ripulita per tutti gli altri. Per portare a termine il pericoloso compito Pietro chiede di poter reclutare oltre ai suoi vecchi compagni anche alcuni cervelli in fuga costretti all'estero dalla disoccupazione: il dottor Bolle (Marco Bonini), esperto anatomista attualmente impegnato in incontri clandestini in Thailandia, l'ingegner Lucio Napoli (Giampaolo Morelli), trafficante d'armi a Lagos e l'avvocato vaticanista Vittorio (Rosario Lisma).

Lo spunto sociale del primo film legato alla situazione stabilmente precarizzata di molti laureati italiani è qui ancora presente ma meno ingombrante, la narrazione sembra da principio ripetersi per sfociare poi in una commedia action ottimamente realizzata, sia sul versante dei tempi comici, delle battute e soprattutto sulla costruzione dei personaggi messi in scena da una squadra d'attori rodata e brillantissima (Morelli, Fresi, Sermonti, Aprea, Calabresi, Di Rienzo, tutti grandi comici), sia sul piano puramente action con alcune sequenze (penso a quella dello scambio sul treno tra il segnalatore gps e il latinista, già detta così fa ridere) girate in maniera mirabile anche dal punto di vista tecnico oltre che da quello narrativo. Dopo tante risate e parecchia azione il film finisce sul più bello, con la comparsa di Luigi Lo Cascio e uno sviluppo inatteso tutto da esplorare. E ora? E ora devi guardarti Smetto quando voglio ad honorem, per forza, altra trovata che porta acqua al mulino della produzione.

Niente da dire, lavoro intelligente, pianificato e ben realizzato dal quale emerge soprattutto una specie di factory che sarà capace di regalare sorprese, la prima delle quali è stata proprio L'incredibile storia de l'Isola delle rose, prodotto che effettivamente non ha deluso le aspettative.

domenica 7 febbraio 2021

MANK

(di David Fincher, 2020)

Immersione nel cinema della grande Hollywood degli anni 30 e 40, Fincher, regista di razza, su sceneggiatura del padre, mostra come trasformare un biopic in qualcosa di più grande, legato non solo agli eventi dell'epoca e non solo al suo protagonista, eclissando rapidamente altre biografie recenti osannate un po' ovunque e che si affidano a strade banalotte e già battute (si, qualche giorno fa ho visto Rocketman) senza destare grande coinvolgimento nello spettatore (almeno in questo). Ma torniamo a Mank. Il tema è spinoso: a chi attribuire il merito della stesura originale di Quarto potere, film che a momenti alterni viene eletto dalle classifiche di settore come il più importante (il migliore?) nella storia della Settima Arte (titolo che ultimamente è conteso da La donna che visse due volte di Hitchcock)? A Herman J. Mankiewicz, sceneggiatore esperto e caustico di provenienza teatrale o al genio emergente di Orson Welles al suo esordio cinematografico? Come si evince dal titolo i Fincher, padre (ormai defunto) e figlio, ci danno la loro risposta che probabilmente, come spesso accade, ci racconta una verità parziale, mentre le voci più accreditate parlano di una effettiva compartecipazione dei due all'esito finale, Mankiewicz domina sulla prima stesura e sulla creazione del soggetto, Welles lavora di fino per arrivare alla versione definitiva che a tutti gli effetti rivoluzionerà il modo di raccontare storie al cinema, ancor oggi quando ci stupiamo di fronte a soluzioni postmoderne tornare a Quarto potere potrebbe essere un buon modo per rimettere in prospettiva slanci oltremodo entusiastici.

Proprio come in Quarto potere non c'è unità di tempo. Nel presente, inizio degli anni 40, dopo aver subito un incidente d'auto che lo costringerà a letto per un po' di tempo, a Herman J. Mankiewicz detto Mank (Gary Oldman) viene affidata la stesura di quello che dovrà diventare il primo film dell'enfant prodige Orson Welles (Tom Burke) che in virtù dei suoi precoci successi ha un contratto con la RKO che gli concede carta bianca su tutto ciò che desidera realizzare. Sessanta giorni per scrivere una sceneggiatura, disintossicarsi dall'abuso di alcool, sopportare le pressioni dell'intermediario John Houseman (Sam Troughton) e scrivere, scrivere, scrivere con l'aiuto di un'infermiera che tenterà di rimetterlo in sesto e della segretaria Rita (Lily Collins) incaricata di mettere su carta le idee di un Mank infermo. L'ispirazione arriva da storie dell'ultimo decennio di vita vissuta nella gloriosa Hollywood dei grandi studios: la Paramount, la MGM, l'RKO, la Warner e da tutti i personaggi che orbitano intorno al mondo del Cinema e in generale appartenenti all'America che conta, su tutti l'attenzione di Mank si concentrerà sul magnate dell'editoria William Rundolph Hearst (Charles Dance) e sulla sua fiamma, l'attrice Marion Davies (Amanda Seyfried) per la quale Mank proverà un'amore platonico per diversi anni. Ne uscirà un ritratto niente affatto lusinghiero infarcito dell'arguzia sferzante di un Mank incontenibile che sull'onda di delusioni politiche e umane, provocate dalla stessa cricca a cui Hearst appartiene, tratteggia un ritratto al vetriolo del magnate e della corte di personaggi che gli gira intorno: sarà il suo lavoro migliore, l'unico premiato con un Oscar in tutta la carriera dello sceneggiatore.

Fincher imbastisce un film corale, sovrastato dalla presenza ingombrante di Mank, personaggio affascinante e interpretato da un Oldman con buone probabilità di portarsi a casa un Oscar, per godere appieno del quale è consigliabile almeno la conoscenza dell'argomento principe, la visione di Quarto potere è quindi utile (non solo per via di Mank) ma tutto sommato la calata nel mondo della Grande Hollywood rimane piacevole per tutti. In un bianco e nero d'epoca, con contrasti mai troppo netti, si inseriscono nella narrazione le vere personalità di quegli anni, oltre a quelle già citate sopra, da ricordare almeno il fratello minore di Mank, quel Joseph L. Mankiewicz qui oscurato dall'ombra del protagonista ma che la storia del cinema consegnerà a maggior gloria (quattro Oscar, due per la regia, due come sceneggiatore, in curriculum Eva contro Eva, Cleopatra, Lettera a tre mogli, Giulio Cesare, La contessa scalza, etc...) e il produttore Louis B. Mayer, capo della Metro Goldwyn Mayer e interpretato anche lui ottimamente da Arliss Howard. Sullo sfondo i postumi della Grande Depressione, le elezioni del '34 in California e la paura che la minaccia rossa arrivi a compromettere lo stile di vita statunitense (paura prevalentemente di ricchi e benestanti), in questo contesto la simpatia di Mank per il socialismo sembra essere stata promossa da Fincher ben oltre la verità, curioso che nuovamente un altro grande film di un nome di richiamo veda la luce grazie a Netflix, ormai potenza economica che da molta critica viene vista come l'artefice di un livellamento della proposta se non proprio verso il basso almeno verso una medietà non esaltante. Non è questo il caso, Mank è un ottimo film che meriterebbe di essere visto, poi studiato nei vari fatti e protagonisti presentati, poi rivisto, opera ambiziosa la quale Fincher rende merito con una regia sapiente e una ricostruzione che dalle musiche (splendide di Trent Reznor e Atticus Ross) ai costumi ci riporta in un'epoca indimenticabile per ogni amante della Settima Arte.

venerdì 5 febbraio 2021

IL LERCIO

(Filth di Irvine Welsh, 1998)

Ogni tanto è confortante tornare nelle coree di Edimburgo, saltellare per le strade di Leith o, come più volte accade ne Il lercio, muoversi tra le vie storiche del centro città. Il corpo d'opera di Irvine Welsh è ormai un universo condiviso che libro dopo libro va a creare il suo affresco corale della capitale scozzese; pur rimanendo i singoli romanzi episodi a sé stanti, non necessariamente collegati ad altre narrazioni (non lo sono quasi mai), i personaggi sono invece ricorrenti andando così a creare nel lettore quella sensazione di familiarità per la quale al solo sentire nominare Franco già si saprà che si sta parlando di quello stronzo d'un Begbie, tutto torna (o meglio tutti tornano), come direbbe il sergente investigativo Bruce "Robbo" Robertson: "le regole son queste". È proprio il sergente Robertson il protagonista del libro nonché "il lercio" del titolo; nonostante il racconto sia ambientato intorno ai personaggi di un distretto di polizia di Edimburgo e fin da subito si assista all'omicidio di un nero di buona famiglia, il caso da risolvere è assolutamente marginale nel dipanarsi del racconto, in fondo non frega niente a nessuno di un "negroide stincato", men che meno al razzista Robbo Robertson, giusto un poco all'impettito superiore di Robbo, quel Toal con velleità artistiche che cerca di darsi da fare più che altro per tenere a bada le pressioni che arrivano dall'alto. Ciò che interessa a Robbo sono le ore di straordinario buone per pagarsi alcool e droga e per finanziare la sua sortita annuale ad Amsterdam dove dare ampio sfogo alla sua fissa intramontabile per il sesso, nonostante il brutto sfogo ai genitali e al culo che lo tormenta e alla presenza di una tenia nell'intestino più che decisa a non finire nello scarico del cesso insieme alle mefitiche deiezioni del protagonista.

Irvine Welsh con la sua solita abilità nel costruire situazioni tanto divertenti quanto ripugnanti scrive un protagonista altamente sgradevole, un uomo che le ha un po' tutte: razzista, zero considerazione per le donne se non come corpi in cui entrare da tutte le vie d'accesso possibili, dedito alle droghe, incline all'abuso di potere, disinteressato al bene comune se non in forza a un traballante codice d'onore della "polìs", manipolatore, arrivista e traditore, intelligente nel mettere gli altri l'uno contro l'altro per il proprio tornaconto. Lo vogliamo dire? Alla fine il sergente Robertson è un pezzo di merda, a farne le spese in diversi modi ci sono il partner Ray Lennox dalla narcotici, l'ex moglie Carole e la loro bambina e tutti i componenti del distretto di polizia. 

Nell'approcciare un romanzo di Welsh la mia speranza è sempre quella di imbattersi in un'opera all'altezza dell'affresco corale e sociale che è Colla, lettura che fu una vera folgorazione dopo i vari e seppur validi Ecstasy, Trainspotting, Acid house e via dicendo. Con Il lercio non ci avviciniamo a quei grandissimi esiti, Welsh inanella una serie di episodi che costituiscono le giornate del suo protagonista alternando momenti spassosi ad altri più genuinamente cattivi, lo stile dello scozzese lo conosciamo: dinamico, volgare, sboccato, politicamente scorretto, tutte caratteristiche note alle quali si aggiunge un tocco sperimentale nel dare voce alla tenia che sta dentro l'intestino del protagonista, i pensieri del verme resi graficamente all'interno di uno spazio dal contorno che ricorda proprio un intestino si evolvono da un semplice "mangia, mangia, mangia" a una sorta di flusso di coscienza che metterà a nudo nel finale tutto ciò che c'è dietro l'esistenza di Bruce Robertson. Se per tre quarti di romanzo sembra che non si vada a parare da nessuna parte e si seguono più che altro le avventure sessuali del protagonista e le sue macchinazioni per arrivare alla tanto agognata promozione, sul finale Welsh cambia marcia e costruisce un epilogo bellissimo e durissimo che cambia le prospettive del lettore nell'interpretare diversi fatti e dona profondità a un personaggio che acquisisce spessore in una sorta di riscatto (qualitativo, non morale) dell'intera opera. Welsh sa bene come ci si muove tra le pagine di un libro, certo, è necessario essere ben disposti verso le volgarità per affrontarne la lettura, quelle abbondano sempre, ma alla fine il vecchio scozzese ripaga, piaccia o non piaccia "le regole son queste"!

mercoledì 3 febbraio 2021

OLD MAN & THE GUN

(The old man & the gun di David Lowery, 2018)

Un racconto crepuscolare eppure pieno di vita per quello che sembra dover essere l'addio alle scene da parte di Robert Redford, oggi ottantacinquenne, uno dei grandissimi (e bellissimi) del Cinema dagli anni 60 a oggi. Partendo dalla storia (quasi) vera di Forrest Tucker, un arzillo rapinatore di banche originario della Florida, il regista David Lowery, che sembra essere fine conoscitore e amante della carriera di Redford, cuce addosso all'attore uno splendido personaggio grazie al quale Redford ci regala l'ennesima ottima interpretazione andando a tratteggiare una narrazione su una terza età vitale, indomita, appassionata e ancora incline all'amore; da questo punto di vista lui e la Sissy Spacek, più bella da anziana signora che da giovane, sono una coppia straordinaria, semplicemente luminosa e in grado di donare qualcosa a spettatori di tutte le età, un vero sogno. Sono stati spesi diversi paralleli tra questo ruolo e il celebre Sundance Kid che immortalò il biondo attore nell'iconico Butch Cassidy, i due personaggi e i due film sono accomunati dallo stesso incedere romantico, dalla stessa voglia di prendersi la vita fino all'ultimo e viverla fino in fondo, se deve essere Old man & the gun il testamento di Redford allora quale miglior testamento se non questo?

Forrest Tucker (Robert Redford) è un anziano rapinatore di banche, è proprietario di una pistola che però non usa e non sfoggia mai, sono le stesse cassiere di banca o i vari direttori di filiale a ricordarlo come "un vero gentiluomo" una volta finiti i colpi, si, insomma, uno di cui ti puoi fidare. Così, banca dopo banca, insieme ai suoi soci (altrettanto attempati) Teddy (Danny Glover) e Waller (Tom Waits), Forrest racimola soldi, ma i soldi non sono mai stati il punto, il succo sta tutto nell'emozione, nell'adrenalina, nella sensazione del sentirsi vivi, sembra assurdo dirlo ma a Forrest rapinare le banche è proprio ciò che piace fare, ciò che lo rende un uomo felice e probabilmente lo farebbe anche per pochi spicci. L'altra cosa che piace al nostro protagonista è evadere dalle carceri, ben sedici evasioni in curriculum, tutte non violente, da vero signore. Durante uno dei suoi colpi in banca è presente il poliziotto disilluso e demotivato John Hunt (Casey Affleck) insieme a suo figlio, l'agente non si accorge della rapina finché Tucker e i suoi non sono ormai lontani. La cosa pungola il poliziotto nell'orgoglio tanto che inizierà ad indagare sulla banda della terza età, man mano che Hunt si avvicina alla sua preda è però sempre meno convinto di volergli mettere realmente il sale sulla coda. Tra un colpo e l'altro Forrest Tucker incontra Jewel (Sissy Spacek), un'anima a lui complementare con la quale non gli dispiacerebbe passare i suoi ultimi anni, senza mai però rinunciare a un po' di sana adrenalina.

Non è un racconto d'azione Old man & the gun, nonostante le rapine e qualche inseguimento in auto, è Cinema classico dei sentimenti, il modo migliore con il quale Redford potesse congedarsi dai suoi fan, il modo in cui lui è la Spacek riescono a creare quella chimica che farebbe invidia a qualunque coppia è appannaggio solo dei grandissimi del mestiere, poi Tom Waits e Glover, certezze, ma soprattutto un Casey Affleck che amo sempre un po' di più ad ogni film, tutt'altra pasta del fratello, un attore al cui il ruolo dello sconfitto o del disilluso calza a pennello, grande intensità che è giusto contrappunto alla passerella finale di Redford, un uomo che come Tucker con le rapine si è divertito come un pazzo per una vita nel regalarci emozioni.

martedì 2 febbraio 2021

TUTTI I COLORI DEL BUIO

(di Sergio Martino, 1972)

Tra gli anni 70 e gli 80, con qualche coda nei decenni successivi, il regista Sergio Martino si è dedicato a progetti di diverso genere rimanendo sempre nei confini di quello che viene considerato Cinema di serie B se non addirittura trash, alternando momenti capaci di costruirsi una loro dignità come il periodo del giallo/thriller al quale appartiene anche questo Tutti i colori del buio, ad altri decisamente più sbracati ai quali è possibile ricondurre parecchi titoli passati a ripetizione dalle nostrane rete private nel corso dei decenni e piccola gioia di noi un tempo preadolescenti adoranti della Fenech e di tutte le altre più celebri esponenti del chiappa e spada, per citare qualche titolo ricordiamo Cornetti alla crema, La moglie in vacanza... l'amante in città, 40 gradi all'ombra del lenzuolo e via di questo passo. Poi qualche piccolo cult (sempre nostrano, come L'allenatore nel pallone) e almeno un buon successo d'oltreoceano con 2019 - Dopo la caduta di New York. Lungi dall'essere un esperto della filmografia del regista e, pur con tutto l'affetto sincero per Banfi la Fenech e compagnia bella, probabilmente lungo la carriera di Martino non si distinguono opere destinate a entrare nelle mire del National Film Preservation Board, seppur degno di qualche interesse nemmeno Tutti i colori del buio fa eccezione.

Il film vive sull'accumulo di immagini e suggestioni, lavorando certamente meglio dal punto di vista della costruzione visivo/scenografica che non su quello della trama, puntellata questa su troppo frequenti impasse percettivi (sogno?, allucinazione?, realtà?, passato?, presente?) e diverse ingenuità, alcune ascrivibili al genere e risapute (i famosi comportamenti insensati delle donzelle in pericolo) altri legati alla location londinese che non si capisce come nei momenti più tesi possa essere sempre deserta, nemmeno fossimo a Zagarolo. La protagonista è una Edwige Fenech prima maniera, supportata da un cast che riesce a mantenere il livello attoriale vicino alla soglia di guardia e nulla più, se non si vuole poi star troppo lì a contare i difetti il film diventa anche interessante da inquadrare all'interno del filone dei gialli o thriller venati da una punta orrorifica che in quegli anni hanno portato diverse fortune al nostro Cinema.

Jane Harrison (Edwige Fenech) è tormentata da incubi e allucinazioni derivanti da due eventi traumatici: la morte violenta della madre quando Jane ancora era in tenera età e l'aborto provocatole da un incidente d'auto. Il compagno Richard (George Hilton) tenta di alleviare le pene della sua amata con beveroni di vitamine mentre la sorella Barbara (Susan Scott) insiste affinché Jane veda lo psichiatra per cui Barbara lavora, il Dottor Burton (George Rigaud). Nonostante i vari tentativi di terapia, realtà e allucinazione si confondono davanti agli occhi di Jane che continua a vedere un uomo dagli occhi di ghiaccio (Ivan Rassimov) pronto ad accoltellarla con la stessa arma che uccise sua madre. Completamente confusa e sconvolta la donna accetta l'aiuto di una vicina di casa, Mary (Marina Malfatti), che la introdurrà in un giro esoterico (giuro, in un lapsus avevo scritto esoterotico, termine altrettanto funzionale) grazie al quale a suo dire Jane dovrebbe guarire dalla sua condizione. Le cose non faranno che peggiorare.

Si lascia apprezzare la regia di Martino che offre delle belle soluzioni, mai noiosa, gioca molto sugli effetti nelle sequenze oniriche con sovrapposizioni d'immagini, set creati ad hoc per evocare momenti surreali, trucco caricato sugli attori; belle le location e le atmosfere, il versante tecnico è indubbiamente il più interessante del film di contro molto confuso sul piano della narrazione; per essere un giallo Tutti i colori del buio ha il difetto di non far tenere mai troppo il fiato allo spettatore, a conti fatti non terribile da guardare ma è indubbiamente uno di quei film dove la cornice attrae più dell'opera stessa.

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