mercoledì 31 agosto 2016

ANT-MAN

(di Peyton Reed, 2015)

Con Ant-Man si chiude la seconda fase del progetto Marvel Cinematic Universe e in quest'ottica il film ha ancor più il sapore del colpo di coda, dell'esperimento atto a inserire nella continuity cinematografica della Marvel un personaggio tutto sommato minore, allo scopo di vedere se la cosa potesse funzionare o meno (anche perché andando a logica la fase due poteva dirsi chiusa con Age of Ultron, il secondo film dedicato agli Avengers). La cosa ha funzionato, per due motivi. Primo perché il film ha portato in casa Disney un utile di circa 400 milioni di dollari, incasso lontano dai fasti del primo Avengers ma comunque soldoni, secondo perché Ant-Man si è rivelato un film parecchio divertente apprezzato da pubblico e critica.

All'uscita del film molte furono le voci secondo le quali la Marvel aveva ormai individuato la via da seguire, grazie anche al successo ottenuto da Guardiani della galassia: premere e spingere sul pedale dell'ironia e della risata. In realtà Ant-Man a mio avviso non è proprio all'altezza dei Guardiani e i filoni Marvel sono almeno due, questo dove si spinge un po' di più sul versante comico e quello più prettamente action/supereroistico dove comunque una sana dose di ironia non manca mai. Nel complesso mi sembra ormai assodato che in casa Marvel abbiano imparato più che bene come muoversi (senza voler fare paragoni con la Distinta Concorrenza).

Se escludiamo una sequenza scontro con un altro personaggio della crew degli Avengers (e la solita scena dopo i titoli di coda), Ant-Man non ha particolari agganci agli altri film Marvel ed è quindi godibilissimo per appassionati e profani.

Si ragiona più in piccolo in Ant-Man e non solo in termini di dimensioni. La minaccia globale è questa volta appunto solo una minaccia, ciò permette al film di avere un indole più incline ad andare verso una storia di rapina che non verso un disaster movie come accade ad esempio invece nei film dedicati agli Avengers.


Si parte da Hank Pym (Michael Douglas), l'Ant-Man originale ormai in pensione e inventore delle Particelle Pym, alla ricerca di un modo per arginare il suo ex pupillo Darren Cross (Corey Stoll) traviato dalla smania di potere e da un senso di abbandono provocatogli proprio da Pym stesso che nel corso degli anni ha iniziato a vedere nel suo possibile successore tracce di squilibrio. Così la formula delle Particelle Pym, capaci di rimpicciolire i tessuti organici e la distanza tra gli atomi, è rimasta un segreto del suo creatore, ciò nonostante Cross è davvero vicino a replicare la stessa formula con successo, ed è intenzionato ad applicarne le proprietà alla tuta da guerra denominata Calabrone a scopo ovviamente commerciale e bellico.

Ormai vecchio, impossibilitato a indossare la tuta di Ant-man e determinato a non mettere in pericolo la figlia Hope (Evangeline Lilly), Pym cerca un sostituto e lo trova nel ladro con una morale Scott Lang (Paul Rudd), uomo di cuore ma dalla vita incasinata, separato con una figlia che non riesce a vedere mai abbastanza e con un gruppo di amici criminali più simpatici che efficienti (Michael Peña, Tip T.I. Harris e David Dastmalchian). Sarà proprio questo gruppo male assortito, dopo un periodo di addestramento, a dover entrare nelle industrie di Cross per cancellare la formula e sottrarre la tuta Calabrone.

A differenza di quanto accadeva in Guardiani della galassia qui ci si concentra su un solo personaggio che è quindi caratterizzato a dovere grazie allo script di Edgar Wright che in un primo tempo doveva essere anche il regista del film (peccato!). Non c'è l'ausilio di una colonna sonora vincente e ingombrante ma si è lavorato bene sulla costruzione della trama e sui tempi comici (parliamo di un uomo che si rimpicciolisce e va in giro con le formiche), niente male anche la resa visiva di tutte le situazioni in cui il protagonista è alto come un'unghia.

Anche qui è consolante vedere un uomo che ha fallito, con il lavoro, con sua figlia (ma non agli occhi della stessa che vede sempre suo padre come un eroe), con la vita, avere un occasione di riscatto, fantasiosa e rocambolesca quanto si vuole, e riuscire a coglierla. Ant-Man non è un Dio, non è un super uomo, non è un mostro fortissimo, Ant-Man è prima di tutto un cazzone, un uomo qualunque che ha le sue difficoltà a trovare il suo posto nel mondo, ed è bello vederlo vincere.

martedì 30 agosto 2016

ACROSS THE UNIVERSE

(di Julie Taymor, 2007)

Era il dicembre del 2011 quando proprio su questo blog si parlava (per lo più maluccio) di questo Across the universe concentrandosi, almeno per quel che riguardava i miei commenti, sulla sola colonna sonora, all'epoca infatti ancora non avevo avuto modo di vedere il film. Di acqua sotto i ponti ne è passata e alcune cose sono cambiate, cinque anni fa alcuni post del blog riuscivano ad attirare un numero maggiore di commentatori attivi rispetto a quel che accade oggi, diversi di voi (di loro se contiamo che alcuni non frequentano più) lasciarono commenti anche sul film, ancora una volta poco lusinghieri a dirla tutta. Mi permetto ora una piccola digressione appoggiando l'affermazione fatta da Cyberluke qualche post fa sul suo blog che insinuava come probabilmente Facebook abbia tolto una parte di interesse (o perlomeno di commenti) al mondo dei blog, sicuramente più impegnativi da seguire e meno invasivi della privacy altrui, interesse che ovviamente si è riversato proprio sul più immediato Facebook.

Il preambolo per dirvi che sì, ce l'ho fatta, dopo soli cinque anni sono riuscito a recuperare Across the Universe. Posso ammettere fin d'ora di aver apprezzato il film e anche parecchio. Nonostante mi inserissi tra i detrattori di una colonna sonora che trovavo carente di personalità (e che ancor oggi probabilmente non mi metterei ad ascoltare), la stessa, combinata con le immagini messe in scena dalla Taymor, acquisisce valore e contribuisce a confezionare un prodotto molto, molto piacevole e accattivante. Ribadisco che all'epoca chi vide il film non me ne parlò in termini entusiastici, anzi, forse l'unico sostenitore fu l'amico Adriano e in questo caso io mi schiero dalla sua parte.

Poi diciamocela tutta, anche la sola storia narrata nel film, presa di per sé, non è niente di eccezionale, ma l'insieme dei volti, delle situazioni, delle musiche e soprattutto di alcune riuscite sequenze e di diversi cameo indovinati, fanno si che la somma sia maggiore delle sue parti. In ogni caso si parla di un film molto piacevole e non di capolavoro. Non escludo che il mio apprezzamento possa essere condizionato dal piacere di vivere una storia interamente sulle note dei Beatles, operazione furba (ma credo sincera) da parte della Taymor, in fondo i quattro di Liverpool sono sempre i quattro di Liverpool.


Si ricostruisce un poco l'epoca della controcultura e della contestazione, la vita di parecchi giovani ragazzi negli anni della guerra in Vietnam e dell'assassinio di Martin Luther King, delle rivendicazioni delle minoranze e di quella grande, e col senno di poi ingenua, speranza che il mondo potesse cambiare per il meglio. E in tutto ciò i Beatles non sono mai nemmeno citati (omaggiati magari si) ma attraverso le loro canzoni, tutte interpretate dagli stessi attori e da qualche comparsa di lusso (Bono, Joe Cocker), vengono narrate le vicende dei protagonisti.

Alcune sequenze, soprattutto quelle di stampo più psichedelico e onirico, sono realmente ben riuscite, in generale il cast riesce ad adattare al meglio pezzi immortali alle situazioni via via presentate dalla sceneggiatura garantendo interpretazioni anche molto distanti dagli originali, operazione questa che riportata in toto lontano dalle immagini perde però parecchio di interesse. A tutto ciò si unisce un bel lavoro sui numeri coreografici, anche i volti dei protagonisti mi sembrano azzeccati, anche se la vicenda ha poco di originale è aiutata dal fatto di avere a disposizione un cast scelto tutto sommato con cura (e, cameo a parte, privo di grossi nomi). Tra i musicisti coinvolti invece non mancano nomi di richiamo, dai Secret Machines a Jeff Beck.

Alla fine più che altro emerge la storia d'amore tra i due protagonisti, Jude (Jim Sturgess) e Lucy (Evan Rachel Wood) più che tutto il resto. Curiosità: tutti i nomi dei personaggi sono mutuati dai pezzi dei Beatles, troviamo quindi Jude (Hey Jude), Lucy (Lucy in the sky with diamonds), Prudence (Dear Prudence), Sadie (Sexy Sadie) e via discorrendo.

Ecco, se proprio non amate i Beatles il film, che è a tutti gli effetti un musical, potrebbe farvi un altro effetto.

domenica 28 agosto 2016

PATAGONIA

(di Mauro Boselli e Pasquale Frisenda, 2009)

Bisogna dire che, quali che fossero le intenzioni con cui l'iniziativa è nata, la qualità media del Texone rimane altissima. Ammettiamo pure che l'ambizione di Sergio Bonelli di portare sul personaggio portabandiera della sua casa editrice un artista internazionale di richiamo ogni anno sia in larga parte naufragata, però ragazzi che albi sono stati sfornati, e questo Patagonia sale di diritto tra le prime posizioni nella classifica dei migliori Texoni di tutti i tempi.

L'albo sfoggia intanto una copertina molto interessante del disegnatore Pasquale Frisenda colorata ad acquerello che si discosta parecchio da quelle finora pubblicate e, per il secondo anno consecutivo, Tex esplora lande solitamente a lui lontane, nella fattispecie le terre della Patagonia, lontane migliaia di miglia dai soliti sentieri battuti dell'Arizona o del Colorado per esempio.

Il viaggio nella pampa argentina è l'occasione per Boselli, autore di un'ottima sceneggiatura, di ricordare al lettore abituato a sentir parlare di Navajos, di Apache, di Sioux e via discorrendo, come non solo nel Nord America l'uomo bianco ha portato sterminio e morte nel nome della democrazia (sinonimo di opportunità economica a discapito di altri), ma anche in Argentina, dove le tribù dei Tehuelches o dei Ranqueles per citarne un paio, furono cacciate per perseguire gli stessi opportunistici ideali.

Proprio come è nelle sue corde, Tex con la compagnia di suo figlio Kit, si recherà in loco per incontrare un suo vecchio amico, il maggiore Montales, e cercare così di impedire un massacro di nativi sudamericani da parte del civilizzato esercito argentino.


Oltre all'interessante aspetto storico della vicenda, la sceneggiatura di Boselli è inappuntabile per quel che riguarda la costruzione dei caratteri dei personaggi, uomini capaci di grande coraggio, inaspettati slanci d'onore ma anche d'azioni opportunistiche e vili tradimenti. Sul lato umano dei protagonisti forse questo è uno dei Texoni sui quali si è svolto il lavoro migliore andando a creare una storia tesa per gli eventi narrati ma anche dal punto di vista emotivo.

Per Frisenda solo applausi. E anche in piedi. Le sue tavole sono semplicemente un piacere per gli occhi, basti soffermarsi sulle prime due e ammirare la resa e la sensazione che offre la nebbia uscita dalla sua matita, la percezione del freddo della notte, la minaccia incombente degli indios in agguato, sensazioni che sarebbero state fantastiche anche trasportate in una storia dalle tinte horror. Nulla è fuori posto: le inquadrature, le scene più dinamiche, i cieli notturni, la bruma del mattino, tutto è perfetto. Per capire bisognerebbe sfogliare.

Patagonia, come già detto, entra a pieno diritto tra i miei Texoni preferiti.

venerdì 26 agosto 2016

AMORES PERROS

(di Alejandro González Iñárritu, 2000)

Ho già confessato di amare le sceneggiature a incastro di Guillermo Arriaga parlando del suo The burning plain qualche tempo fa. Lo sceneggiatore messicano ha raggiunto la popolarità proprio in coppia con il regista di Amores Perros, un sodalizio felice e vincente che pare essersi rotto solo di recente. In Amores Perros sono tre le storie che in qualche modo si incontrano, più che altro qui si sfiorano o collidono in un unico momento determinante, a differenza di quel che accadeva ad esempio in The burning plain dove i destini dei protagonisti erano avviluppati uno all'altro in maniera più forte e decisa.

Protagonista, oltre ai cani e agli amori come si può dedurre dal titolo, è la perdita, che sia questa di un amore, di una parte di se stessi, di una vita, di un ruolo nell'esistenza. Tutte e tre le storie, separate in frammenti abbastanza netti seppur secanti, hanno un'ottima ragion d'essere, tutti e tre molto coinvolgenti e declinati in maniera differente, un lavoro di sceneggiatura superbo che insieme alla realizzazione probabilmente effettuata a budget ridotto, garantiscono ai centocinquantatré minuti del film di correre appaganti e coinvolgenti.

Denominatore comune dei tre segmenti è la presenza dei cani. Nel primo il giovane Octavio (un ottimo Gael García Bernal) vive in povertà insieme alla madre, al fratello violento e delinquente Ramiro (Marco Pérez) e alla di lui moglie Susana (Vanessa Bauche). Grazie a un flashforward sappiamo da subito di come Octavio sia in guai grossi, forse a causa del suo amore per la cognata Susana, forse a causa degli incontri clandestini tra cani ai quali Octavio parteciperà con il suo Cofi.


Non voglio svelare troppo dei segmenti successivi per non rovinare ad alcuno il piacere della scoperta, sappiate solo che i protagonisti saranno il barbone El Chívo (il superbo Emilio Echevarría) sempre contornato dal suo seguito di cani, e la bella modella Valeria (Goya Toledo) che, tra le altre cose, dovrà affrontare un crollo psicologico al quale contribuiranno anche le vicissitudini accorse al suo amato cane.

Tutti e tre i frammenti hanno una componente d'amore, una di perdita e una di cani. Probabilmente la coppia Arriaga/Iñárritu sentiva proprio il bisogno di inserirci i cani che a onor del vero sono sempre funzionali alle storie narrate. Comunque.


Il plauso maggiore va al ritmo del primo segmento interpretato divinamente dal talento di Gael García Bernal, è con un misto di violenza, sensualità e predestinata sconfitta che l'attore, anche lui messicano, porta sullo schermo con trasporto impressionante la sua storia romantica e violenta. Inquieta la presenza costante di El Chívo che attraversa minacciosa il film fino a deflagrare nel suo segmento.

Indubbiamente un ottimo esordio che sarà seguito da parecchi altri film interessanti a opera di questa cricca di Città Del Messico, una Città Del Messico violenta e cattiva che non lascia grosse speranze a nessuno.

mercoledì 24 agosto 2016

POIROT A STYLES COURT

(The mysterious affair at Styles di Agatha Christie, 1920)

È un romanzo importante Poirot a Styles Court, sia per Agatha Christie che per la letteratura in generale. Scritto in seguito a una scommessa con la sorella maggiore, il romanzo è infatti il primo dell'autrice britannica a inserirsi nel filone giallo (la Christie scrisse anche alcuni romanzi rosa), filone che regalerà grandi gioie alla scrittrice, ed è inoltre quello che vede l'esordio di Hercule Poirot, uno degli investigatori più celebri della letteratura di genere.

Sono parecchie le caratteristiche del mystery all'inglese qui presenti ormai divenute dei classici di questo tipo di narrativa d'intrattenimento. Primo fra tutti l'enigma della stanza chiusa nella quale avviene il delitto. Poi c'è la presenza di un investigatore privato, in questo caso l'ex poliziotto belga Poirot, che supera in astuzia i rappresentanti della polizia facendogli fare anche delle figure barbine (qui nella persona dell'ispettore Japp di Scotland Yard). C'è il narratore, amico del detective e suo ammiratore (malgrado qualche contrasto caratteriale) qui impersonato da Hartur Hastings; c'è una bella magione attorno alla quale ruotano le vite dei diversi sospettati, immersa nell'apparentemente tranquillizzante e bucolica campagna inglese. Ci sono gli indizi, i sospetti, le rivelazioni e l'immancabile svelamento finale del colpevole con tanto di seduta di spiegazioni a opera del detective di turno. Intendiamoci, queste cose non le ha inventate la Christie, però indubbiamente è divenuta una maestra nel padroneggiarle.

Ammetto che fin dall'epoca delle mie prime letture in autonomia il genere mi ha sempre intrigato, dall'incontro con il fantastico Sherlock Holmes di Conan Doyle in avanti è stata tutta una scoperta. Rileggo quindi sempre con piacere questo tipo di storie che sono però inserite in schemi parecchio rigidi e che quindi, per forza di cose, devono piacere, pena la visita della temuta noia.

Qui siamo nell'Essex, nella località di Styles dove trova posto la casa degli Inglethorp, casa in cui la ricca Emily vive insieme ai due figliastri John e Lawrence Cavendish, il nuovo marito Alfred Inglethorp e diversi altri personaggi che avranno ruoli fondamentali nella vicenda. Per nostra fortuna John Cavendish invita il suo caro amico Hastings (il narratore) a passare un periodo in casa sua, proprio nei giorni in cui la sua matrigna verrà assassinata. Come dicevo, proprio una bella fortuna per noi, altrimenti non ne avremmo saputo mai niente della vicenda e non avremmo avuto modo di vedere all'opera Poirot, che è simpatico come la merda sotto le scarpe, però è davvero in gamba.

È già un bel romanzetto Poirot a Styles Court, non uno dei più celebri della Christie ma un buon intrattenimento, precursore di tanti altri a venire, che conta più di duecento pagine di indizi, attese e suspence. Beh, un esordio niente male da un'autrice che, non dimentichiamocelo, è sparita un paio di giorni per andarsene in giro con un certo Dottore.

lunedì 22 agosto 2016

I PASTICCI DI LAURA


Qualche giorno fa mia figlia Laura mi ha chiesto di poter avere anche lei un piccolo blog dove parlare ai suoi amici e ai suoi coetanei di quel che a lei più piace. Al momento Laura ha pensato ai libri e ai film ma chissà, se avrà la costanza di dedicare un po' del suo tempo e delle sue energie a questo progetto, cosa potrà venirne fuori.

Quindi insieme ci siamo messi lì a scegliere colori, modelli e immagini per dare un corpo a questo nuovo blog che avrà il sapore dell'infanzia. Infatti i contenuti saranno scelti da Lauretta così come saranno scritti da lei tutti i testi. Ci sarà quindi un linguaggio ad altezza di bambino, una visione delle cose ad altezza di bambino e per noi tutti degli spunti di riflessione su cui confrontarci.

Dal primo scritto ad esempio è uscito fuori il tema dell'adozione con un interessante scambio di vedute: dove un bambino può vedere una situazione triste perché ovviamente il suo primo pensiero è quello che deriva dalla mancanza dei genitori naturali, un genitore può spiegare al proprio figlio la fortuna per il bambino nell'aver trovato due persone ben contente di poterlo amare senza condizioni.

Insomma, i bambini si sa che insegnano, quindi noi prepariamoci a imparare. Spunti buoni un po' per tutti.

Vediamo come va, il blog ovviamente è stato aperto con il mio account e quindi ritroverete anche lì il profilo legato a La Firma Cangiante. Il blog non è ancora indicizzato su Google, lo trovare inserendo nella barra degli indirizzi ipasticcidilaura.blogspot.com o cliccando sul link nel colonnino di destra.

Buona lettura, soprattutto ai più piccini.


domenica 21 agosto 2016

LA S.A.C.C.I.

La S.A.C.C.I. dal telefono e senza aggiustamenti (e si vede).





Non sembra un po' Beirut?




















































venerdì 19 agosto 2016

JURASSIC WORLD

(di Colin Trevorrow, 2015)

E come l’anno scorso al mare col pattino. Anche quest’anno si è fatta la visitina al cugino con mega impianto home video, sessantacinque pollici collegati a delle uscite audio da paura, uno spettacolo, quasi come al cinema e pure gratis. Quest’anno è andata decisamente meglio per quel che riguarda la scelta del film. Ovvio che per valorizzare al massimo l’impianto la scelta cada sul blockbuster spettacolare, ma tra il Jurassic world di quest’anno è il Transformers 4 dello scorso c’è un abisso, come leggere un libro di Philip Roth e uno di uno scribacchino qualsiasi (o quasi).

Jurassic world è un film divertente, raccoglie con dovuto rispetto e con la dovuta ironia un lascito importante nel campo del blockbuster americano offrendo allo spettatore tutto ciò che un film del genere deve offrire. Il film è fruibile anche se non avete visto i primi tre episodi dedicati al parco giurassico, noi per esempio (e per puro caso) abbiamo rivisto il Jurassic park originale la settimana scorsa ma ignoravamo e continuiamo a ignorare cosa sia successo negli episodi due e tre della saga. Un buon punto a favore del film questo, un film che in fin dei conti si presenta come vero e proprio sequel ma con collegamenti con il passato tutto sommato blandi e che non impediscono ai profani di godersi un paio d’ore di ottimo spettacolo popcorn.

Sono passati circa vent’anni dal primo tentativo di aprire un parco a tema giurassico in cui dinosauri clonati scorazzassero sotto controllo per il divertimento del genere umano. Dopo gli insuccessi già in fase di test riscontrati nel primo capitolo, ora il parco è una redditizia attività aperta al pubblico e perfettamente funzionante, una sorta di Disneyland primitiva. E una realtà come questa ha bisogno sempre di nuove attrazioni. È così che il team di ricercatori capitanato dal dottor Wong (Henry Wu) crea un mostruoso ibrido su richiesta del proprietario del parco Simon Masrani (Irrfan Khan) e della responsabile Claire Dearing (Bryce Dallas Howard), ibrido che ovviamente in poco tempo sfugge al controllo dell’uomo. Il problema grosso è che questa volta il parco è pieno di gente, compresi i due nipoti di Claire, Gray e Zach (Ty Simpkins e Nick Robinson), in quell’occasione sotto la responsabilità della zia sempre troppo occupata per curarsi di loro. Fortunatamente al parco lavora un ex U.S. Navy incaricato di addestrare i raptor, un uomo dal sangue freddo di nome Owen Grady  (Chris Pratt).


Non ci sono grandi cose da rimproverare al film se non l’improbabilita’ di resistere per diverso tempo a ogni sorta di minaccia su tacco 12 da parte della Howard (ma forse è così bella che le si perdona un po’ tutto) e una pseudo love story superflua con tanto di frase finale irricevibile e patetica. Ma si sa, il blockbuster americano vive anche di questo. Per il resto ritmo e divertimento ci sono, c’è anche Vincent D’Onofrio che non guasta mai, gli attori sono in palla e le attrazioni del parco ben realizzate. Alla fin fine ci si diverte anche parecchio. Non mancano le strizzate d’occhio ai fan del primo film sotto forma di merchandising e omaggi all’ormai famosa zanzara.

Direi che dopo uno stop di diversi anni il franchise è stato rilanciato alla grande.

mercoledì 17 agosto 2016

GREMLINS

(di Joe Dante, 1984)

Gremlins è il lato oscuro e cattivello (più di quanto si possa pensare) di quel filone ora nostalgico, allora meraviglioso, che significò così tanto per molti giovanissimi degli anni Ottanta. Se i nomi di Steven Spielberg e di Chris Columbus (qui rispettivamente produttore e sceneggiatore) sono la migliore garanzia per quel che riguarda il lato fantastico e divertente della vicenda, il regista Joe Dante ci mette una sana dose di cattiveria e la passione per le atmosfere horror. Il film ha tutte le caratteristiche per inserirsi di diritto in quel blocco di film per ragazzi (e non solo) divenuti veri e propri cult per un’intera generazione: protagonisti giovani, un alone di mistero o avventuroso, creature fantastiche, la cittadina di provincia e altro ancora. Ma qui c’è di più.

Partiamo dalla cornice. La cittadina di Kingston Falls si appresta a festeggiare il Natale, per molti dei suoi abitanti però le festività non saranno sinonimo di gioia e felicità. L’area attraversa infatti un difficile periodo di crisi economica, molte famiglie sono afflitte dalla piaga della disoccupazione, i più deboli vengono taglieggiati dalla banca e dalla signora Deagle (Polly Hollyday), proprietaria di numerosi immobili, e non sono poche le persone che per un motivo o per l’altro odiano il Natale. Come dice uno dei protagonisti del film: “mentre alcuni aprono i pacchi dei regali ce ne sono altri che si aprono le vene”. La visione del Natale triste, amplificatore di difficoltà e brutti ricordi, è forse il più cinico e cattivo aspetto del film di Dante, insieme alla rivelazione carogna buttata in pasto in un momento tragico agli spettatori (ai più piccoli ovviamente): Babbo Natale non esiste! Non così usuale per un film per ragazzi.


Poi c’è il versante horror e pauroso che, inquadrato sempre in un film del filone di cui sopra, non lascia indifferenti. Le creaturine all’apparenza così simpatiche e coccolose prima mutano e poi uccidono (e vengono uccise nei modi più fantasiosi). Se può sembrare che la prima vittima dei gremlins se la possa cavare con un morso alla mano, la si ritrova invece più tardi con il cranio sfondato. Anche la figura più rassicurante di tutte, la mamma amorevole, premurosa, padrona del focolare domestico in una casetta della provincia americana, è costretta suo malgrado a trasformarsi in un’assassina, esibendosi per mezzo di coltellacci da cucina in furiose scene alla Psycho o costretta a terminare cattivissime creature servendosi di frullatore e forno a microonde.

No, non è rassicurante per niente Gremlins, fin dalla scena d’apertura nella quale il padre del protagonista, Billy Peltzer (Zach Galligan), in un inquietante bugigattolo gestito dal cinese Wing (Keye Luke) acquista un mogway, la creaturina tenera dalla quale tutto avrà inizio. Il signor Peltzer (Hoyt Axton) andrà via con tre raccomandazioni: non esporre il mogway alla luce, non bagnarlo ma soprattutto mai dargli da mangiare dopo la mezzanotte.

Spassosi i richiami alla produzione spielberghiana più addomesticata (Indiana Jones, E.T.) e diverse sequenze come quella che coinvolge il disneyano Biancaneve e i sette nani, ma per il resto Gremlins si distingue realmente dal resto della produzione per ragazzi di quegli anni per cinismo e cattiveria e anche il lieto fine, se di lieto fine si può parlare, lascia comunque parecchi cadaveri per terra.

Lei ha fatto con mogway quello che vostra società fa con tutti i doni di madre natura. Voi non potete capire. Non siete ancora pronti.

E forse non lo saremo mai.

lunedì 15 agosto 2016

SNAKE AND LADDERS

Da Wikipedia:

Scale e serpenti è un gioco da tavolo tradizionale, nato in Inghilterra e diffuso soprattutto nei paesi di lingua inglese (il nome originale è snakes and ladders). Si tratta di un semplicissimo gioco di percorso piuttosto simile al gioco dell'oca. Come nel gioco dell'oca, l'esito di una partita è completamente determinato dal lancio dei dadi.











































































































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