venerdì 30 maggio 2025

CREPUSCOLO DI TOKYO

(Tōkyō boshoku di Yasujirō Ozu, 1957)

Continuiamo l’esplorazione della filmografia del maestro Yasujirō Ozu con Crepuscolo di Tokyo, film del 1957 che esce a un solo anno di distanza dal precedente Inizio di primavera. Se più volte nei titoli delle opere di Ozu si è fatto riferimento alle stagioni, metafora dell’incedere inevitabile del tempo, del naturale cambiamento delle cose e delle varie “stagioni” della vita stessa, per questo film si sceglie la parola “crepuscolo” che lascia sopravvenire alla mente l’idea della vicinanza, o almeno del tendere, alla fine di un qualcosa: di una giornata, di un’epoca, di un’esistenza. Facendo una ricerca in rete del termine il primo significato a spuntar fuori è “luminosità limitata e incerta del cielo nei momenti susseguenti al tramonto del sole”. Indubbiamente Crepuscolo di Tokyo è, tra i film analizzati finora, quello che presenta la minor “luminosità”, sia parlando di mera fotografia, sia con riferimento alle situazioni trattate dal regista, più cupe e tragiche di quelle presentate nei film precedenti, seppur permanga anche in Crepuscolo di Tokyo quella messa in scena asciutta ed “educata” alla quale Yasujirō Ozu ci ha già abituati con gli altri film da lui girati in anni anteriori a quel 1957 nel quale Crepuscolo di Tokyo veniva presentato al pubblico. Il tramonto del sole in questo caso può essere visto come specchio del tramonto della famiglia tradizionale come istituzione assoluta e inamovibile, un disfacimento, in atto per vari motivi, che può causare dolore da qualsiasi lato si voglia guardare a un fenomeno sempre più indice dei tempi e forse, in qualche misura, anche inevitabile.


Takako (Setsuko Hara) è una donna ancora giovane, madre della piccola Michiko, una bimba di due anni; il suo matrimonio è in crisi a causa dei disaccordi tra Takako e suo marito Numata (Shin Kinzo), un uomo troppo incline al vizio del bere. Così la donna torna a stare a casa del padre Shūkichi (Chishū Ryū), un impiegato non ancora in pensione; qui vive anche la sorella minore di Takako, Akiko (Ineko Arima), una ragazza dall’animo malinconico e sofferente alla costante ricerca del suo ragazzo Kenji (Masami Taura), un giovane immaturo e preso dalle case da gioco. Le due sorelle sono cresciute fin da piccole con il padre, un uomo abbandonato dalla moglie fuggita anni prima con un altro. Akiko ha molto patito la mancanza di una madre, di fatto la ragazza non ne serba nemmeno ricordo, nonostante l’affetto riversato sulla figlia dal padre la mancanza di una figura materna ha lasciato strascichi sul benessere familiare che in età adulta Akiko ancora subisce. Un giorno, mentre è in cerca di Kenji, Akiko incontra la proprietaria di una sala di mah jong, la signora Kikuko (Isuzu Yamada), la donna dice di conoscere la ragazza fin da quando era piccola, afferma di essere una vecchia vicina di casa, in realtà ad Akiko viene il sospetto che la donna possa essere sua madre. Questa sorta di rivelazione, più l’evento imminente per cui Akiko sta cercando l’irresponsabile Kenji, gettano la ragazza in uno stato di profondo sconforto che avrà conseguenze tragiche per tutta la famiglia.


Crepuscolo di Tokyo è per il regista giapponese una sorta di cambio di rotta, se non proprio nelle tematiche (i problemi familiari e di coppia erano stati già esplorati), almeno nelle atmosfere, qui più pesanti e tragiche di quelle alle quali i film precedenti di Ozu ci avevano abituati. Figure apparentemente predestinate al dolore come quella di Akiko non si erano ancora viste nelle opere dell’ultima parte della filmografia del regista; seppur non venga del tutto esautorata del suo ruolo la speranza, in Crepuscolo di Tokyo si affacciano anche il gesto violento e temi spinosi e delicati (siamo pur sempre nel ‘57, non che oggi non lo siano) come l’aborto, pratica all’epoca in Giappone già consentita in piena legalità. Continua anche qui il discorso sulla disgregazione della famiglia vista con toni ambivalenti: da un lato i danni perpetui che l’abbandono di bambini piccoli può provocare sugli stessi, nonostante l’affetto presente di chi è rimasto, da un lato le infelicità dettate da legami sbagliati o usurati, in questo il cinema di Ozu si conferma essere un classico senza tempo e sempre attuale. Ottimo il lavoro di scrittura sul personaggio di Akiko, una ragazza attanagliata da dubbi, vuoti e preoccupazioni che alla fine la vinceranno, nonostante la vicinanza della sorella e del padre amorevoli, un amore reso inutile dal gesto antico di una madre che qui subisce, soprattutto a opera di Takako, una dura condanna per la sua condotta. Visivamente tornano gli stilemi ormai noti del cinema di Ozu: inquadrature fisse, telecamera ad altezza tatami, interni rigorosi e ordinati, regolari, in contrapposizione agli stacchi in esterno con elementi di architettura moderna, tralicci, luci al neon a indicare una vita più disordinata rispetto a quella che dovrebbe (e qui il condizionale è d’obbligo) aver vita tra le mura domestiche. Crepuscolo di Tokyo si conferma come un altro frammento da ricordare all’interno della filmografia di un grandissimo autore.

domenica 25 maggio 2025

MY SISTER’S GOOD FORTUNE

(Das Gluck meiner Schwester di Angela Schanelec, 1995)

Ci sono volute due visioni consecutive (in due giorni diversi, non una dietro l’altra) per poter apprezzare al meglio My sister’s good fortune, titolo internazionale di uno dei primi film della regista tedesca Angela Schanelec. L’opera seconda della Schanelec è uno di quei film che è meglio non approcciare se si è particolarmente stanchi o se si pensa che un alito di sonno possa venire a batterci sulla spalla da un momento all’altro; è uno di quei film che è meglio guardare seduti su una sedia, magari scomoda, piuttosto che ben sistemati sul divano, sotto una copertina al calduccio. My sister’s good fortune è un film composto da soli dialoghi e da pochissime azioni, i confronti tra i vari protagonisti, sono tre quelli principali, a volte sono dilatati e rinchiusi dentro un’inquadratura fissa che toglie vivacità all’incedere della narrazione ma allo stesso tempo cerca di focalizzare l’attenzione dello spettatore su ciò che dicono e soprattutto provano i personaggi. A un primo impatto si potrebbe facilmente affermare che My sister’s good fortune sia un film per molti ma non per tutti, in realtà è un film per pochi, nemmeno per molti; questo però solo a fronte di un giudizio superficiale. Se invece si dedica la giusta attenzione al film della Schanelec (che potete trovare gratuitamente su Arte.tv, almeno a oggi 24 maggio) diventa evidente come l’opera sia fruibile da tutti quegli spettatori volenterosi e desiderosi di mettersi alla prova con film un poco diversi dal solito, caratterizzati da ritmi lenti e privi di scene madri, e a loro favore dispiega minuto dopo minuto la rappresentazione di una situazione difficile e interessante che i tre attori protagonisti riescono a portare sullo schermo con attenta devozione.


Berlino. Christian (Wolfgang Michael) porta avanti da tempo una relazione con Ariane (Anna Bolk) ma di recente l’uomo si è legato ad Isabel (Angela Schanelec), una scelta che Ariane, ancora molto innamorata di Christian, non riesce proprio ad accettare. Il grosso problema di questa questione sentimentale è che Isabel è anche la sorellastra di Ariane, un legame che si intuisce essere molto profondo e ora messo a rischio dall’amore per lo stesso uomo. Le due donne hanno la stessa madre ma padri diversi; la genitrice non è stata questa grande figura materna per le due ragazze che sono molto diverse tra loro, cosa che tormenta Christian che nelle due trova stimoli completamente differenti. Se Ariane è molto fisica, attaccata a Christian e disposta a condividere con lui tutto, Isabel, un poco più fredda, è una donna attraente e più interessante dal punto di vista intellettuale, a volte più “poetica”, cosa che stimola Christian e il suo lato artistico (l’uomo di professione fa il fotografo). Sullo sfondo viene accennata anche la storia in crisi di una coppia di amici comuni ai tre protagonisti.


Angela Schanelec è inserita tra i nomi dei fondatori della Berliner Schule, la Scuola di Berlino, insieme a registi come Christian Petzold, forse il più noto tra gli esponenti di questo movimento che mette in primo piano le relazioni tra i personaggi, lo scavo nell’intimo dei protagonisti. Quello di My sister’s good fortune è un cinema parlato, per alcuni versi assimilabile al mumblecore americano di registi come i Duplass o Bujalski, per ritmo e sviluppo non di immediata assimilazione. La Schanelec, qui anche attrice (è lei a interpretare Isabel), rimane addosso ai suoi personaggi, ce ne fa scrutare ogni espressione, ogni dubbio, le tracce di dolore, i momenti di fastidio e disappunto, sfumature ben portate sullo schermo dai tre attori principali. Si segue un tratto delle vite di questi personaggi confusi, che non sanno bene come far evolvere la situazione, questo vale soprattutto per Christian (uomini eternamente indecisi); non ci sono grandi sconvolgimenti nel film della Schanelec ma un progressivo costruirsi di sentimenti e relazioni difficili da gestire. Ogni tanto compare qualche piccolo elemento di disturbo tra i dialoghi (a un certo punto si insinua il dubbio che Christian abbia lanciato una moneta per scegliere tra le due sorelle; in realtà dal comportamento dell’uomo l’ipotesi non mi sembra credibile), qualche segnale di stile di regia, nel complesso My sister’s good fortune rimane un film che potrebbe risultare ostico allo spettatore occasionale, per apprezzarlo è necessario avere una passione sviluppata per il cinema e un po’ di esperienza al di fuori dei prodotti meramente mainstream. Affrontato con la giusta predisposizione il film della Schanelec si rivelerà quantomeno interessante nella costruzione fuori dagli schemi di questa piccola storia d’amore (anche se di slanci in questo senso ce ne sono davvero pochi, non si vive di romanticismo da queste parti).

martedì 20 maggio 2025

LES PARAPLUIS DE CHERBOURG

(di Jacques Demy, 1964)

Nel 1964 il regista francese Jacques Demy arriva al suo quarto lungometraggio con Les parapluis de Cherbourg, film che diede popolarità duratura al suo autore e che ottenne anche la Palma d’oro al Festival di Cannes del ‘64. Ancora oggi la visione de Les parapluies de Cherbourg rimane un’esperienza quantomeno originale; il film poggia infatti su un impianto da musical (è completamente cantato dall’inizio alla fine) ma non presenta le classiche coreografie tipiche del genere né numeri misti di ballo e canto, tutti i protagonisti si limitano semplicemente a recitare le loro battute cantandole, scelta artistica che dona un tocco inusuale alla pellicola e a tutto l’impianto recitativo immerso in quella che a conti fatti è una storia d’amore come ce ne sono tante, graziata dalla presenza di una giovanissima e deliziosa Catherine Deneuve e dal nostro Nino Castelnuovo (per chi non lo conoscesse è quel bell’uomo che ha saltato per anni la staccionata negli spot pubblicitari dell’olio Cuore ma che ha recitato anche in capi d’opera della storia del cinema come Rocco e i suoi fratelli, tanto per dirne una). Quello che lo spettatore deve aspettarsi dal film è una storia romantica, sofferta, candida e pulita giocata sula ripartizione di più momenti e di tre fasi: la partenza, l’assenza e il ritorno. Le scelte cromatiche e quelle di scenografia sembrano sospendere la storia di Les parapluis de Cherbourg in una sorta di limbo che sta a metà strada tra realtà e racconto finzionale, tra verità e fiaba, impressione dettata dal contrasto tra le riprese in esterno a Cherbourg (oggi Cherbourg-Octeville in Normandia) e quelle in interno caratterizzate da arredi, colori, tappezzerie a tinte pastello che forse mai si troverebbero (o si sarebbero trovate) tra le mura di una casa o di un negozio reale.



Les parapluis de Cherbourg è un negozio che vende ombrelli per lo più dai toni molto vivaci (ma non manca il nero per i signori seriosi) gestito da Madame Emery (Anne Vernon); la donna è aiutata da sua figlia Geneviève (Catherine Deneuve), una ragazza molto bella e senza troppi grilli per la testa. La giovane è innamorata di Guy Foucher (Nino Castelnuovo), un bel ragazzo gentile che lavora come meccanico in un’officina della zona. I due si incontrano più volte, sono innamorati ma la madre di Geneviève non approva questa frequentazione; la donna preferirebbe di certo per la figlia un compagno più facoltoso e benestante piuttosto che quel giovane di limitate speranze che ancora vive con la vecchia zia Elise (Mireille Perrey). Un bel giorno (non troppo bello in realtà) l’idillio tra i due giovani viene spezzato da una lettera che richiama Guy alle armi, due anni di servizio militare in Algeria, colonia francese. Durante il periodo d’assenza del ragazzo nella vita di madre e figlia entra Roland Cassard (Marc Michel), un ricco commerciante di preziosi attratto da Geneviève e disposto ad aiutare Madame Emery con le spese del negozio che sembrano farsi sempre più pressanti.


Les parapluis de Cherbourg può fregiarsi di un’originalità non comune per come presenta questo miscuglio di melò e musical, scelta di per sé già poco battuta, rafforzata da una messa in scena coloratissima che Demy impreziosisce con alcune trovate di regia indovinate e sfiziose come quella messa in atto nella sequenza iniziale. Vista sul porto di Cherbourg; la camera in posizione elevata rispetto al terreno ruota verso il basso e riprende l’acciottolato della strada. Inizia a piovere, le persone che passeggiano, ciclisti, ragazze, marinai, aprono i loro ombrelli: rossi, azzurri, bordeaux, blu; prima uno alla volta, poi insieme in fila… e ancora, bianco, giallo, grigio, granata, persone zuppe di pioggia, impermeabili e ancora marinai, rosso, blu, bianco, una famiglia di neri in fila. La camera torna nella posizione iniziale, incomincia la prima parte: le départ. Alla regia di Demy si unisce la partitura musicale vivace e jazzata di Michel Legrand, da lì un cantato pressoché continuo. Il film, sequenza d’apertura a parte, si apre e si chiude con una vista sull’officina in cui lavora Guy, una circolarità che torna anche nel rapporto con Geneviève seppur con valenze ed esiti differenti. Quella tra Geneviève e Guy è una storia d’amore triste, ammantata di nostalgia e di rimpianto, che mette sotto i riflettori il dolore delle storie spezzate, non compiute e non vissute pienamente fino in fondo. A un primo impatto Les parapluis de Cherbourg può sembrare artificioso ma con il passare dei minuti il film permette allo spettatore di mettersi comodo, di godere della visione e di arrivare a soffrire un poco, sotto la neve questa volta, per una amore che avrebbe potuto essere e che invece non è stato, almeno non del tutto. C’è un po’ di vita, c’è un po’ di finzione, c'è...

sabato 17 maggio 2025

CRUISING

(di William Friedkin, 1980)

Scrivere un pezzo sul Cruising del regista di Chicago William Friedkin è stata una sorta di sfida, questo perché la copia del film in mio possesso è il riversamento di una vecchia registrazione su VHS (se ci sono lettori abbastanza giovani da non conoscere il significato della sigla alzino pure la mano) risalente a un passaggio televisivo che il film fece anni orsono su mamma RAI. Ne consegue, viste le tematiche e alcune sequenze all'epoca ritenute scabrose, che il film è passato tra le forche caudine di un'intervento censorio che ne ha minato, presumibilmente in maniera significativa, l'integrità e in qualche modo la fruibilità complessiva. La gestazione di Cruising è stata parecchio travagliata, in rete ne potete trovare resoconti più dettagliati di quello che segue, qui diamo solo qualche accenno per inquadrare più o meno in quale contesto è nata e cresciuta quest'opera prima svilita e avversata e poi, con il passare degli anni, divenuta un piccolo fenomeno cult non troppo visibile al grande pubblico. Iniziamo col dire che il film è tratto dal romanzo di Gerald Walker, giornalista del New York Times e che da principio William Friedkin questo Cruising non avrebbe nemmeno voluto girarlo. L'interesse del regista si ravvivò in seguito ad alcune situazioni venutesi a creare nella New York di quegli anni; la prima fu data da una serie di omicidi che interessarono alcuni appartenenti alla comunità gay newyorkese, uomini che frequentavano locali per omosessuali a sfondo sadomasochista, ambientazione principale di questo Cruising (che tradotto significa qualcosa tipo andare a caccia ma si può intendere anche come saltare da un posto, da un locale all'altro). La seconda fu il rapporto che Friedkin aveva con un ex poliziotto di nome Jurgensen con il quale il regista aveva già collaborato (come consulente) per la realizzazione de Il braccio violento della legge: pare che l'agente in pensione avesse agito da infiltrato nel mondo delle comunità omosessuali e ne fosse uscito abbastanza turbato, proprio quello che vediamo poi accadere ad Al Pacino, protagonista del film in origine pensato con Richard Gere come interprete principale. Terza causa/combinazione, l'arresto come sospettato per gli omicidi di cui sopra di un tal Bateson, un uomo che aveva fatto da comparsa nel più celebre film di Friedkin: L'esorcista. Leggenda (o più probabilmente verità) vuole che in seguito al concatenarsi di questi eventi Friedkin accettò di dirigere Cruising.

New York, tardi anni Settanta. Nelle acque del fiume Hudson vengono ritrovate parti di corpi martoriati; i ritrovamenti vengono collegati a una serie di omicidi a danno di frequentatori di bar per omosessuali a sfondo sadomaso avvenuti nel quartiere del Greenwich Village e che fanno pensare all'opera di un omicida seriale. Il capitano Edelson (Paul Sorvino) della polizia di New York decide così di infiltrare un suo agente nell'ambiente gay e propone il lavoro al giovane Steve Burns (Al Pacino), eterosessuale e fidanzato con la sua compagna Nancy (Karen Allen). Così Burns inizia a frequentare locali per omosessuali e a mischiarsi alla comunità gay del Greenwich iniziando a prendere contatto con quel mondo; prende in affitto un appartamento in zona e cerca di creare una sorta di amicizia con Ted (Don Scardino), un vicino di casa anche lui gay, un tipo molto tranquillo con il pallino della scrittura. Con il passare dei giorni la frequentazione dell'ambiente rende Steve sempre più teso e confuso, il rapporto con Nancy, più sporadico a causa del lavoro sotto copertura, sembra filare meno liscio di prima, la violenza della polizia stessa nei confronti degli omosessuali infastidisce l'agente sempre di più. Quella che era nata come una missione alla ricerca di un assassino sembra sempre più trasformarsi in una personale discesa all'inferno dalla quale Burns uscirà molto cambiato.

Travagliata la realizzazione di Cruising; il film fu osteggiato sia durante la fase di riprese che dopo la sua uscita nei cinema da quella parte della comunità gay definita mainstream che non accettava la visione sadomaso, nascosta, quasi illecita e sporca che a loro parere il film di Friedkin trasmetteva dell'omosessualità. L'idea poi di mettere in scena l'omicidio di soli uomini gay preoccupava e non piaceva, tutti dubbi leciti se ci si ferma a pensare alle battaglie che già all'epoca (e si era solo agli inizi) le comunità omosessuali dovevano affrontare per raggiungere un seppur minimo livello di accettazione e riconoscimento, non stupisce quindi che non vedessero di buon occhio un film che a loro dire metteva il movimento in cattiva luce. In realtà guardando Cruising (almeno nella versione scorciata delle sequenze più forti), non si ha mai l'impressione che il film si scagli contro l'ambiente omosessuale in genere, anche il protagonista, seppur scombussolato sul finale, questo sì un poco (volutamente) ambiguo, mostra solidarietà e avvicinamento al mondo dei gay newyorkesi, semmai sono la città e la corruzione della polizia violenta e sfruttatrice a non uscire bene dal lavoro di Friedkin che, aiutato dalla fotografia cupissima e lercia di Contner, pennella una New York opprimente e infernale. Ciò che indaga Friedkin, sotto al primo livello di lettura di un confuso (nelle reali colpe) thriller metropolitano, è lo spaesamento interiore di un uomo che esce da un'esperienza provante con il diverso da sé con una sorta di perdita d'identità che ricorda quella subita dai reduci del Vietnam, altro argomento più volte esplorato dal cinema dei Settanta/Ottanta. Il film è scandito da una colonna sonora di peso che vede tra gli altri contributi dei The Germs, di Willy DeVille, dei The Cripples e di John Hiatt. Si è poi molto parlato delle scene forti girate all'interno di questi "leather bar" ma purtroppo la "versione educande" in mio possesso non mi ha permesso di valutare nell'interezza il reale valore di un film che non presenta particolari motivi d'interesse sotto l'aspetto thrilling ma compensa alla grande per ambientazioni e sviluppo del protagonista. Il consiglio, che potrei dare anche a me stesso, è di tentare un recupero della sua versione integrale per meglio apprezzare un'opera che ancor oggi potrebbe avere più di qualcosa da dire.

sabato 10 maggio 2025

INIZIO DI PRIMAVERA

(Sōshun di Yasujirō Ozu, 1956)

Il corpo d'opera del regista giapponese Yasujirō Ozu si compone di circa una cinquantina di film che il maestro ha realizzato tra la fine degli anni Venti e l'inizio dei Sessanta del secolo scorso; parte della sua filmografia, soprattutto per quel concerne le opere degli anni Venti e Trenta, è purtroppo andata perduta. Inizio di primavera è la prima opera successiva al film più celebre di Ozu che anche noi non ci esimiamo dal citare tutte le volte che parliamo dei film del regista: il riferimento è ovviamente a Viaggio a Tokyo dal quale passano ben tre anni prima di un ritorno del maestro proprio con questo film datato 1956. In un Giappone in profondo mutamento, come abbiamo imparato dai film precedenti, anche i gusti del pubblico iniziano a cambiare; proprio sul finire degli anni Cinquanta nasce una sorta di New Wave del cinema giapponese ispirata dal movimento francese della Nouvelle Vague i cui appartenenti (molti dei quali non riconoscevano quel movimento che andò sotto il nome di Nūberu bāgu) si concentrarono su temi e stilemi decisamente più moderni allontanandosi da quello che veniva definito, come facevano anche i francesi, il "cinema dei padri". Anche oggi in Giappone, come ci confermano Matteo Bordone e Flavio Parisi nel bel podcast Viaggio a Tokyo, in realtà il cinema di Ozu oggi non fa proprio parte della cultura popolare nipponica, è probabile che gli appassionati di cinema europei conoscano Ozu meglio di molti giapponesi stessi, non proprio un fenomeno di "dimenticanza" ma una sorta di appartenenza a un passato rispolverato nei musei, uno "sbiadimento" di cui i primi segni si iniziarono a vedere proprio nello stesso periodo in cui usciva questo Inizio di primavera. Eppure, anche in Inizio di primavera, pur rimanendo nell'impianto classico ormai noto e caro a Ozu, non manca qualche ulteriore slittamento verso una panoramica su famiglia e società che affronta temi che in effetti al moderno tendono, sempre ammantati della serena grazia con cui Ozu affronta ogni argomento.

Siamo a Tokyo. Shoji Sugiyama (Ryô Ikebe) è sposato con Masako (Chikage Awashima); i due sono soli in quanto hanno perso a causa di una malattia il loro unico figlio quando era ancora piccolo. Shoji lavora come impiegato in una delle tante aziende in via di sviluppo nella capitale giapponese, conduce quella che iniziava a essere la vita standard degli impiegati giapponesi dell'epoca: lavoro, poche soddisfazioni, paghe non sempre abbondanti e una vita aziendale che spesso proseguiva anche oltre l'orario d'ufficio caratterizzata da uscite con i colleghi o gite domenicali con gli stessi. La vita tra Shoji e Masako, che non lavora e si occupa delle incombenze casalinghe, scorre monotona e tranquilla. In una delle varie gite con i colleghi di Shoji alla quale Masako non partecipa, l'uomo si avvicina alla collega Kaneko (Keiko Kishi), detta Pesce rosso per i suoi occhi grandi, una ragazza molto aperta e solare con la quale Shoji, tipo belloccio ma meno interessante, sembra trovarsi molto bene. Con il passare del tempo, date anche le iniziative della ragazza molto intraprendente, il rapporto tra Shoji e Kaneko diverrà un qualcosa di più di una semplice amicizia, cosa della quale ben presto anche Masako avrà evidenza e che minerà il rapporto, già un po' usurato, tra i due coniugi. Il destino e le scelte aziendali si interporranno tra i tre dando modo a tutti di valutare la situazione e prendere le dovute decisioni.

Come si accennava poc'anzi, nel momento in cui usciva Inizio di primavera si iniziava in Giappone ad avvertire il bisogno di un cinema diverso, al passo con i tempi; in realtà i temi trattati da Ozu e la mancanza di una ricerca formale volta alla spettacolarizzazione e all'eccesso delle varie situazioni sono caratteristiche che rendono il cinema del maestro "senza tempo" e buono per tutte le stagioni; occupandosi in prevalenza della realtà di piccole famiglie spesso borghesi e del loro vivere nella società del tempo Ozu racconta storie con le quali, con tutti i dovuti distinguo legati all'epoca di appartenenza, è facile trovare delle affinità ancora oggi. In questo senso con Inizio di primavera si compie ancora un passo avanti non essendo qui presente il contrasto tra giovani e generazione precedente (non si parla di matrimonio combinato ad esempio), una generazione dalla quale lo spettatore moderno si trova ovviamente molto distante. L'argomento principe, anzi gli argomenti principe, sono la crisi della coppia e l'alienazione del lavoro a salario, due temi oggi ancora attualissimi e addirittura più esasperati di allora (per quanto l'esasperazione non appartenga nella maniera più assoluta al vocabolario di Ozu che anche qui resta sempre pacato e sereno nella gestione delle vicende dei suoi protagonisti). Si inizia a intravedere un discorso sull'insoddisfazione legata alla vita quotidiana, alla routine, all'abitudine forzata che il mondo del lavoro moderno impone alle singole persone e ai nuclei familiari, si intuisce una sorta di solitudine anche all'interno della vita di coppia finora forse meno esplorata. Il cinema di Ozu si espande e rielabora quelli che sono i suoi fondamenti, vive di variazioni, a volte anche minime, di piccoli scarti, più che la nostalgia presente in opere passate qui si avverte una punta di amarezza; in occasione della morte per malattia di un ex collega dei protagonisti si riflette sul fatto di come forse, per alcuni versi, al caro estinto sia stata risparmiata una vita monotona fatta di sconforto e tristezza. Ozu forse non approfondisce a dovere i motivi reali della relazione extraconiugale tra Shoji e Kaneko che non capiamo se dettata da mero capriccio, soprattutto da parte di Shoji, o se mossa da un reale sentimento per la nuova venuta, probabilmente i tempi non sono ancora maturi per affondare il colpo in questo senso. Comunque, anche per questo che è il film più lungo realizzato da Ozu (139 minuti la versione presente su Raiplay), la visione corre in maniera più che piacevole.

giovedì 8 maggio 2025

L'OMBRA DEL GIORNO

(di Giuseppe Piccioni, 2022)

Il 18 maggio del 1907, nella piazza centrale di Ascoli Piceno (Piazza del Popolo) apre il Caffè Meletti, locale storico della città di proprietà della famiglia omonima già produttrice di liquori; nelle sale del Meletti pare siano transitate personalità quali Ernest Hemingway, Sandro Pertini, Simone de Beauvoir, Guttuso, Mascagni, Sartre e via discorrendo. È proprio all'interno di questo celebre locale che il piceno Giuseppe Piccioni, classe '53, decide di ambientare la quasi totalità di quello che a oggi è il suo ultimo film, L'ombra del giorno, una vicenda in bilico tra il melò e il ritratto storico dell'epoca fascista (siamo nel 1938, anno della promulgazione delle Leggi razziali). A portare in scena quello che è un poco il ritratto dell'Italia che vedeva andare ad affermarsi il regime fascista, c'è una coppia d'attori in parte e che rende giustizia, insieme ad altri volti molto indovinati, alla sceneggiatura dello stesso Piccioni (con Rosella ed Emdin); Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli attraversano i giorni difficili narrati ne L'ombra del giorno, l'uno con piglio più dimesso, quasi rassegnato, l'altra portando una vitalità solare pur in mezzo a un evidente dolore del passato recente (recentissimo in realtà) e a una situazione che ora dopo ora sembra farsi sempre più triste e tesa e destinata a spezzare le illusioni di ogni possibile futura felicità (o anche solo serenità).

Luciano (Riccardo Scamarcio) è un reduce della Grande Guerra tornato dal fronte con un'evidente zoppia e che ora gestisce un ristorante nella piazza principale di Ascoli. Un giorno di fronte al suo locale si ferma una giovane donna; è Anna (Benedetta Porcaroli), una giovane che sembra avere un'impellente necessità di un lavoro e di un posto dove stare. Dopo un breve colloquio Luciano, uomo all'apparenza rigido ma in fondo di buon cuore, accetta di dare una possibilità ad Anna facendola iniziare a lavorare in cucina per dare una mano al cuoco Giovanni (Vincenzo Nemolato) e a Maria (Flavia Alluzzi). Luciano sembra un uomo, seppur ancor in età affatto avanzata, un po' spento e rassegnato, di simpatie fasciste ma più per quieto vivere che non per vera convinzione, un fascista "alla leggera" non ancora consapevole di ciò che il fascismo sta per diventare per il Paese. Anna invece mostra fin da subito una profonda avversione per il fascismo, anche di fronte a un pericoloso ex commilitone di Luciano, tal Osvaldo Lucchini (Lino Musella), destinato a divenire una figura di riferimento per i fascisti della zona e purtroppo anche per il giovanissimo cameriere Corrado (Costantino Seghi). Con il passare del tempo Luciano e Anna impareranno a conoscersi meglio e tra loro nascerà un amore destinato però a trovare sulla sua strada diversi ostacoli, non ultimo quell'Ester che si scoprirà essere il vero nome di Anna e che si porta dietro tutto quel che un nome ebraico in quegli anni può voler dire.

L'ombra del giorno è un bel film; Piccioni per esigenze di trama sembra ripartire il film in due sezioni dove la prima, quella che vede il nascere e il crescere del rapporto tra Luciano e Anna, risulta essere più coinvolgente e viva, la seconda, caratterizzata da una nuova rivelazione (dopo quella del vero nome di Anna) che qui non sveleremo, focalizzata sugli eventi più strettamente legati all'affermarsi del fascismo, cosa che smorza un poco i toni melò del racconto che a onor del vero sembrano essere anche quelli meglio riusciti. Questo grazie a due protagonisti che trovano la loro giusta misura con Scamarcio che interpreta un uomo che inizialmente sembra guardar scorrere la vita (degli altri) dalla vetrina del suo locale, avendo per vari motivi rinunciato un poco alla sua, in questo Luciano assomiglia al più celebre Titta Di Girolamo, il personaggio di Sorrentino che ne Le conseguenze dell'amore guarda scorrere la vita (degli altri) dalle vetrate dell'hotel in cui risiede. Luciano si è creato un microcosmo all'interno del locale fatto di clienti abituali e frequentatori occasionali che incarnano i vizi terribili di un'Italia in decadimento morale e che lascia campo libero a soprusi e prepotenze ma anche le strenue opposizioni, incarnate dal professore (Antonio Salines) ma anche dalla stessa Anna. Quello interpretato dalla Porcaroli è un personaggio che pur nelle sue difficoltà è la classica "botta di vita" di cui uno come Luciano aveva bisogno, la Porcaroli infonde in Anna il giusto mix di energia e consapevolezza politica e morale che la rendono speciale nel contesto dell'epoca. Da tenere d'occhio il testo del pezzo in colonna sonora del sempre interessante Andrea Laszlo De Simone.

martedì 6 maggio 2025

CINEMA SPECULATION

(di Quentin Tarantino, 2022)

È già da qualche tempo che si parla di introdurre nelle scuole l'insegnamento del cinema e dell'audiovisivo come materia utile per capire il nostro presente, per cogliere le possibilità di esprimerlo, rielaborarlo, raccontarlo e fermarlo nella memoria e, perché no, anche studiarlo (discorso questo utile anche per la storia, non solo del cinema ma tout court). Ecco, di fronte a una tale e augurata evenienza io tra i miei professori vorrei ci fosse Quentin Tarantino. Questo non perché il regista e qui scrittore sia uno degli storici del cinema più quotati e competenti (non lo è), forse non è nemmeno uno dei conoscitori più completi della materia (anche se qui credo fortemente sia messo davvero molto, molto bene); vorrei Quentin Tarantino tra i miei professori per la passione sincera che nutre per la materia e per quella capacità così accattivante e naturale che possiede di trasmettere quella stessa passione. Arriviamo così a Cinema speculation, seconda opera letteraria del Nostro dopo la trasposizione su carta di C'era una volta a... Hollywood, al momento sua ultima fatica cinematografica. Cinema speculation non è un testo che pretende di offrire ampie panoramiche su quello che è stato il cinema dai suoi albori fino a oggi, non è un viatico per conoscere i grandi movimenti della settima arte, i suoi capisaldi, i maggiori autori, non è una panoramica autorevole su quel che il cinema è stato come può essere, che so, uno Storia del cinema di Fernaldo Di GiammatteoCinema speculation è la storia del rapporto d'amore nato tra un giovane ragazzo del Tennessee e il cinema visto attraverso l'analisi puntuale (ma anche parziale) di una serie di film che hanno colpito l'immaginario del giovane Quentin in un arco temporale che va dalla fine degli anni 60 all'inizio degli 80; va da sé che il libro diventi così un mix tra un saggio su un certo cinema e il racconto personale, una storia di formazione dove sono cruciali non solo il rapporto con la sala e con i film ma anche quello con la madre e con l'assenza del padre (a volte sostituito da altre figure di riferimento bizzarre e di passaggio).

Il libro si apre con un'introduzione (I grandi film del piccolo Q) con la quale Tarantino ci illustra un poco la genesi del suo amore, e di quello di un sé stesso bambino, dai 7 anni in avanti, per i film e per le sale cinematografiche che nella sua infanzia furono per lui l'occasione imperdibile per "fare cose da grandi". Forte di una madre molto permissiva e niente affatto spaventata dall'influenza che film anche violenti avrebbero potuto avere sul figlio ancora piccolo, il giovane Quentin ebbe la possibilità di vedere film e appassionarsi a un tipo di cinema che alla maggior parte dei suoi coetanei era negato, cosa che peraltro gli fece guadagnare anche un certo rispetto tra i suoi pari. Tra i suoi primi ricordi c'è ad esempio un doppio spettacolo che presentava La guerra del cittadino Joe di John J. Avildsen e Senza un filo di classe di Carl Reiner, film oggi non proprio tra i più ricordati, cosa che appunto ci da un'idea delle pellicole di cui ci parlerà Tarantino in Cinema speculation, e sicuramente non proprio tra i più consigliati per un ragazzino, soprattutto il primo. Dopo aver gettato le basi per rendere il lettore edotto della situazione si passa a parlare di alcuni film per Quentin divenuti di riferimento; nei capitoli a essi dedicati non mancano riferimenti e approfondimenti su altre pellicole, attori, registi, sceneggiatori... e allora via con Bullit, Ispettore Callaghan: Il caso Scorpio è tuo!, Un tranquillo weekend di paura, Getaway!, Organizzazione crimini, un pezzo affettuoso sul critico cinematografico Kevin Thomas (che poco ha amato i film di Quentin), Le due sorelle, Daisy Miller, Taxi driver, Rolling thunder, Taverna Paradiso, Fuga da Alcatraz, Hardcore, Il tunnel dell'orrore e altri pezzi ancora.

Quello che ne esce è un libro estremamente divertente, coinvolgente, appassionante seppur laterale e non conforme a quella che può essere l'idea generalizzata di un cinema di serie A. Il cinema è visto prima di tutto come esperienza collettiva, come il vissuto di un ragazzino in una sala (in una dove magari è l'unico bianco presente a vedere un film della blaxploitation), come parte importante di un percorso di formazione che ha portato, insieme ad altro presumiamo, al Quentin Tarantino regista che oggi tutti noi conosciamo. Cinema speculation non è quindi un testo "assoluto" quanto piuttosto una visione personale e parziale dettata da un gusto soggettivo su di un piccolo pezzo della storia del cinema, ed essendo la storia personale di un narratore d'eccezione è quasi inevitabile che nel lettore nasca la voglia di andare a recuperarsi anche cose come l'Alligator di Lewis Teague o qualsiasi altro improbabile titolo la videoteca ideale di Tarantino contenga e alla quale qui solamente accenni. Torniamo quindi ad abbracciare quella passione che con estro, spirito e anche acume Tarantino è capace di trasmettere, non omettendo di riflettere e spendere parole, lodi e critiche su gente come Bogdanovich, Scorsese, Schrader, McQueen, Yates, Siegel, De Palma o Sam Peckinpah in una panoramica sull'epoca della sua formazione cinematografica, quella principalmente dei 70 del secolo scorso, tra le varie exploitation, New Hollywood, Movie Brats e via discorrendo. Un miscuglio quindi di cinema e ricordi dal quale è impossibile non uscire avvinti, parafrasando un più celebre slogan... "Professore subito!".

domenica 4 maggio 2025

SECRETARY

(di Steven Shainberg, 2002)

Secretary è un film che si porta sulle spalle ormai più di vent'anni; se un film del genere fosse stato distribuito oggi probabilmente le chiavi di lettura con le quali lavorare per interpretare l'opera di Steven Shaiberg sarebbero state diverse da quelle usate nel 2002 per commentarne l'opera, e non sono nemmeno così sicuro che il regista oggi avrebbe preso la decisione di dirigere questo film, alla luce dei vari movimenti MeToo e affini e alla questione sulla rappresentazione della figura femminile non solo al cinema ma in ogni forma d'espressione. A ben vedere in Secretary non ci sarebbero nemmeno gli estremi per far troppa polemica, al suo cuore c'è una storia d'amore cercato che potrebbe aver fatto la fortuna di una rom com classicissima se solo i due protagonisti non fossero affetti da qualche disturbo comportamentale e legati da una relazione sentimental-sessuale con dinamiche da padrone e sottomessa (accettate e volute/desiderate da entrambi i protagonisti). Ciò nonostante, oggi, questo Secretary si sarebbe potuto fare? Quesito tutto sommato molto interessante. Nel 2002 il film si fece, si ammantò da subito di una certa ambiguità che lo trasformò rapidamente in un piccolo culto (si giocò bene sulle aspettative pruriginose, ben più vagheggiate di quanto poi il film metta davvero in scena); al Sundance Film Festival dove Secretary venne presentato il presidente di giuria John Waters, avvezzo alle tematiche del film, istituì un premio ad hoc in modo da meglio promuoverlo, quello all'originalità.

Lee Holloway (Maggie Gyllenhaall) è una giovane donna cresciuta in una famiglia disfunzionale in situazioni che l'hanno portata a casi di autolesionismo e al ricovero in una clinica psichiatrica. Quando Lee viene dimessa, non completamente guarita, il ritorno a casa si rivela un piccolo trauma; la donna decide di reagire rivolgendosi al mondo del lavoro, provando a cercare un impiego e sfruttando le sue ottime doti da dattilografa. Tramite un annuncio sul giornale Lee si candida per un posto di segretaria nell'ufficio dell'avvocato E. Edward Grey (James Spader), un posto che otterrà e accetterà nonostante l'impiego potrebbe rivelarsi alla lunga noioso. Dopo aver affrontato con il suo nuovo titolare l'argomento dell'autolesionismo e averlo apparentemente superato grazie a un misto di devozione e attrazione che Lee prova per Edward, tra i due si instaura pian piano un rapporto di sottomissione della donna nei confronti del suo titolare, un uomo sessualmente inibito e attratto dalle dinamiche di dominazione che inizieranno a manifestarsi con un continuo riprendere il lavoro della sua segretaria per trasformarsi poi in qualcosa di più fisico a partire dalla famosa scena della sculacciata con la Gyllenhaall appoggiata alla scrivania del capo. In realtà, dietro questa dinamica accettata, cercata e desiderata in primis da Lee, si nasconde un'attrazione tra i due più profonda e sincera.

Il regista Steven Shainberg, che oltre a questo Secretary non vanta grandi voci in curriculum per cui essere ricordato, gestisce bene il mix che si viene a creare tra una struttura da commedia romantica e temi che una volta potevano essere considerati addirittura scabrosi; inserisce la storia d'amore tra Lee ed Edward in un contesto del tutto particolare dove si parla di disagio estremo (l'autolesionismo è una cosa che fa paura e che ancora oggi preoccupa migliaia di genitori in tutto il mondo) e di preferenze sessuali non così comuni o magari anche più comuni di quel che si possa pensare ma delle quali raramente si parla in maniera aperta; ne esce così un panorama che contempla la dominazione, le dinamiche di sottomissione, il sadomasochismo, tutte pratiche raccontate da Shainberg con una certa levità, senza mai eccedere e senza mai cadere troppo in pratiche che contemplino una vera violenza. Accompagnato dalle musiche di un Badalamenti che da sé già crea atmosfera, Shainberg gira con gusto un film dove esce bene il contrasto tra le scenografie dell'ufficio, di quel corridoio centrale, di quei colori non a caso vagamente lynchiani, e tutto ciò che c'è all'esterno di esso e che presenta tinte più marcate, quasi infantili, a tratti più irreali di quelle adoperate per rappresentare il posto di lavoro (e di sculacciate) in cui si muovono i due protagonisti. Ottima prova della Gyllenhaal che si concede senza pudori e costruisce in un ruolo non semplice una bella protagonista supportata da un decisamente funzionale James Spader, una bella coppia per una commedia romantica che, come aveva intuito John Waters, ancora oggi non possiamo che definire quantomeno originale.

venerdì 2 maggio 2025

THUNDERBOLTS*

(di Jake Schreier, 2025)

Non è la prima volta che i Marvel Studios riescono nell'impresa di portare sullo schermo con buoni risultati personaggi considerati minori, almeno per quel che riguarda l'economia del Marvel Universe classico (ci riferiamo a quello cartaceo, i cari vecchi fumetti). Il tentativo aveva avuto successo già con i Guardiani della Galassia, e se stiamo a ben pensarci anche Black Widow, Shang-Chi, Black Panther non sono proprio paragonabili ai grossi calibri come Hulk, Thor, Capitan America o Iron Man. Se per alcuni degli episodi sopra citati qualche dubbio sulla buona riuscita dell'operazione poteva anche rimanere, con Thunderbolts* il regista Jake Schreier e soci sembrano essere riusciti a lasciarsi alle spalle pesantezze e complicanze legate a tutte le varie questioni nate con il multiverso e a costruire di conseguenza un film semplice, chiaro, lineare, divertente e fruibile più o meno da tutti. L'unico piccolo neo che rimane nella gestione del Marvel Cinematic Universe è la questione legata all'amata/odiata continuity che ancora lascia la sensazione di essersi persi qualcosina se non si sono visti tutti i film precedenti dei Marvel Studios; io ad esempio non ho avuto modo di guardare ancora Marvels e Capitan America: Brave New World e in qualche passaggio, per carità nulla di irreparabile, l'impressione di riscontrare la presenza di piccoli vuoti qua e là comunque la si avverte.

Dopo la morte della sorella, Yelena Belova (Florence Pugh) ha perso interesse per il suo lavoro ed è entrata in una sorta di depressione acuita dalla lontananza dal patrigno Alexei (David Harbour), il Guardiano Rosso. La mercenaria decide così di porre fine alla serie di incarichi che sta portando avanti per la direttrice della C.I.A. Valentina Allegra de Fontaine (Julia Louis-Dreyfus) la quale è sotto processo per attività illecite svolte nell'esercizio delle sue funzioni; a tentare di provare le sue malefatte c'è anche Bucky Barnes, il Soldato d'Inverno (Sebastian Stan), ora deputato al congresso. Yelena accetta di portare a termine un'ultima missione per la de Fontaine che segretamente sta cercando di togliere di mezzo tutte le prove delle sue missioni illecite; con uno stratagemma riunisce quindi in un complesso segreto alcuni personaggi per le potenzialmente compromettenti: Yelena ma anche John Walker (il Cap dei poveri U.S. Agent interpretato da Wyatt Russell), Ghost (Hanna John-Kamen) e Taskmaster (Olga Kurylenko). Qui il gruppo di agenti a pagamento si trova intrappolato insieme a Bob (Lewis Pullmann), un ragazzo timido e introverso, evidentemente in stato confusionale, soggetto (ab)usato per portare avanti il fantomatico progetto Sentry i cui frutti si vedranno solo a film inoltrato. Il gruppo scombinato, dopo essersele date di santa ragione, si troverà a dover collaborare per sfuggire alla trappola tesa loro dalla de Fontaine prima, e ad affrontare l'involontaria minaccia di Sentry dopo, roba da far tremare le gambe anche ai più potenti tra gli AvengerZ.

Thunderbolts* non presenta nessun elemento innovativo all'interno del Marvel Cinematic Universe ma vanta almeno il merito di essere un film divertente e soprattutto non troppo cervellotico; si abbandonano quindi le trame del multiverso per costruire un nuovo gruppo di (anti)eroi che guarda al futuro, lo fa magari portandosi appresso diversi legami con il passato, senza troppo innovare ma provando anche ad affrontare oltre alle minacce di turno temi più che mai attuali e per nulla leggeri, vedi la depressione, la mancanza di direzione, i traumi capaci di condizionare un'intera esistenza e la forza che può nascere dall'aiuto e dalla vicinanza di altre persone, siano essi amici, familiari o semplicemente nuovi compagni di viaggio che la vita ci ha messo accanto per caso, nuovi compagni di dolore e disgrazia con i quali dividere e affrontare i momenti bui (e qui bui lo sono davvero). Per far questo si pesca dal catalogo infinito della Marvel Comics il personaggio di Sentry, essere potentissimo ma portatore di un lato oscuro incontrollabile che è perfetta metafora dei traumi, delle solitudini e delle depressioni dell'animo umano e che danno vita a Void, l'altra faccia della medaglia del "solare" Sentry, un essere che guarda ai disturbi che sembrano essere propri di questi tempi difficili e proprio per questo molto più spaventoso di altri. La regia di Schreier gestisce bene i momenti scanzonati (che non mancano), quelli cupi di cui abbiamo già detto organizzando un tour nelle "stanze della vergogna" dei diversi protagonisti offerto dal mite Bob, quelli tamarri (l'entrata in azione di Bucky in moto), e quelli puramente action che guardano alla tradizione Marvel all'epoca degli Avengers (*al momento non disponibili). Sul versante degli interpreti Harbour gigioneggia di classe con il suo personaggio in costante ricerca di gloria ma in fondo genuino, la Louis-Dreyfus giostra bene il suo finanche esagerato freddo distacco di fronte a ogni sorta di pericolo e accusa, la Pugh sta una spanna sopra tutti, peccato questo accento marcatissimo russo nella versione italiana che, insieme a quello del patrigno, a tratti sembra davvero forzato (bisognerebbe provare la V.O.). Nessuna rivoluzione quindi, però un film più che godibile oltre ogni più rosea aspettativa.

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