sabato 27 novembre 2021

ETERNALS

(di Chloé Zhao, 2021)

Eternals arricchisce il Marvel Cinematic Universe con alcune conferme ma anche con qualcosa di nuovo. Le due principali conferme sono la volontà in casa Disney, lo ribadiamo pochi giorni dopo aver parlato di Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli, di perseguire a tutti i costi un progetto di inclusività, di razze, di genere, di colori (anche di specie viene da dire in questo caso conoscendo il fumetto originario), in modo da accontentare proprio tutti. Si prendono quindi i personaggi creati da Jack Kirby nel 1976 e si aumentano le quote rosa eliminando la preponderanza di uomini bianchi in favore di altre scelte, così il velocista Makkari diviene una donna di colore, anche Ajak, uno dei pochi Eterni in grado di comunicare con i Celestiali, nella fattispecie con il rosso Arishem, diventa donna (e che donna!), Sersi guadagna tratti asiatici e così discorrendo. Per questo tipo di operazione Eternals è proprio il film adatto, i protagonisti sono molti, dieci i personaggi principali, nell'immaginario collettivo sono praticamente sconosciuti se non per i Marvel zombies (e forse anche tra qualcuno di loro...) quindi le modifiche fatte ai personaggi originali filano lisce senza colpo ferire e risultano più che indovinate, che poi nel cambiare qualche caratterizzazione non c'è nulla di male, ma uno Steve Rogers ad esempio, che so io... maori, non lo potrei sopportare, un'icona deve rimanere riconoscibile, qui invece si può giocare in piena libertà. La seconda conferma è, purtroppo, quella sensazione di stanchezza dovuta alla sovraesposizione del genere, con Eternals si fanno dei passi avanti nella diversificazione del prodotto, e questo è bene, la scelta di una regista come Chloé Zhao è stata indubbiamente corretta in quest'ottica, purtroppo il film non è completamente riuscito, patisce dei momenti di stanca nella parte centrale e comunque è imbrigliato da dettami Marvel/Disney che non consentono più di tanta libertà nonostante proprio qui siano arrivate la prima scena di sesso (castissimo) tra due eroi e un protagonista apertamente omosessuale (Phastos).

Tra le novità la più rilevante è lo scarto dalla figura dell'eroe o supereroe classico, qui si crea una vera e propria mitologia, gli stessi Eterni sono ispirati in qualche modo agli dei greci, non per nulla anche tutta la narrazione supereroica viene considerata un po' la nuova epica. Abbiamo questa razza aliena proveniente dal pianeta Olimpia (guardacaso), gli Eterni appunto, inviata sulla Terra da entità ancor più inconcepibili, i Celestiali, per proteggere la razza umana in via di sviluppo (siamo nel 5000 a.c. circa) dai Devianti, sorta di mostri a metà strada tra dinosauri e creature uscite dalla computer grafica (in originale erano dei mostriciattoli dalle sembianze umanoidi); il compito di questi dieci esseri potenziati che gli uomini dell'epoca vedono come veri e propri dei, è quello di non interferire mai negli eventi della razza umana, nemmeno nei più sanguinosi, ma semplicemente eliminare tutti i Devianti che minacciano l'uomo, compito che i dieci termineranno all'incirca all'epoca dei conquistadores per poi dividersi e mischiarsi tra gli uomini conducendo delle vite più o meno normali. È così che la bella Sersi (Gemma Chan) si innamorerà dell'umano Dane Withman (Kit Harington, i marvelliani già fremono) prima del ritorno, ai giorni nostri, dei Devianti e di Ikaris (Richard Madden), il più potente degli Eterni e vecchio amore di Sersi. I due, insieme alla giovane Sprite (giovane solo nel corpo, anche lei eterna), sconfitti i Devianti dovranno riunire i dieci per far fronte a una minaccia dalle proporzioni ben più grandi che farà impallidire anche lo schiocco di dita di Thanos.

L'arrivo degli Eterni sulla Terra non si dimentica, la scena d'apertura di Zhao è già stata accostata all'incipit del 2001 di Kubrick, di forte impatto la comparsa dell'astronave Domo, le note di Time dei Pink Floyd fanno il resto. Peccato che per questi film, anche nella ricostruzione delle location (Babilonia ad esempio) non si possa fare a meno del digitale, perché nelle riprese sui luoghi reali la regista Chloé Zhao porta tutta la sua sensibilità per i panorami e per i paesaggi che abbiamo imparato ad amare guardando Nomadland, gli scenari sono centrali in Eternals, gli spazi sempre molto vasti, abitati con rispetto, non manca nemmeno l'apertura al discorso sul cambiamento climatico inserito ad hoc all'interno della narrazione, anche il rapporto tra l'uomo e la natura ritorna, nelle sequenze che vedono protagonista Druig (Barry Keoghan), il più irrequieto tra gli Eterni, e il popolo tra il quale si è ritirato a vita privata. Interessante la scelta di inserire un personaggio sordo, Makkari, che parla con il linguaggio dei segni interpretata dalla brava Lauren Ridloff di The Walking Dead e già in Sound of Metal, attrice realmente affetta da sordità, altro segnale forte di inclusività. Eternals si differenzia dalla gran parte degli altri cinecomics per una minore invasività delle scene d'azione e anche un minor ricorso alla battuta pronta, c'è il tentativo di sviare un poco il prodotto dai binari consolidati, scelta apprezzabile ben condotta dalla regista sino-americana, a parere di chi scrive è ciò di cui c'è bisogno affinché la produzione (troppo) vasta di cinecomics non finisca per sfiancare anche i più irriducibili aficionados, purtroppo, complice anche un minutaggio importante, il film accusa qualche momento in cui un po' di stanchezza fa capolino. Sul finale, sui titoli di coda, la prima comparsa nel MCU di Harry Styles, cantante degli ex One Direction, e qualche purtroppo scarna informazione in più sul mitico Dane Withman...

Eternals imbocca un sentiero che è a questo punto doveroso provare a percorrere, non centra proprio il bersaglio ma nemmeno lo manca del tutto, ora ci vuole solo coraggio, gli incassi ci sono e quindi ulteriori tentativi per creare film diversi e migliori si possono fare, i film Marvel sono mediamente dei bei prodotti e spesso confezionati in maniera ottima, pensiamo però che ogni tanto si può realizzare un Logan, un Batman di Nolan, un Joker...

giovedì 25 novembre 2021

IL MOSTRO DELLA CRIPTA

(di Daniele Misischia, 2021)

Opera seconda per Daniele Misischia, sodale dei Manetti Bros e loro collaboratore in diversi progetti per la televisione (L'ispettore Coliandro, Il commissario Rex); Il mostro della cripta è più commedia che horror, un film che gioca sul sapore amatoriale e la nostalgia per i tempi spensierati della gioventù, per quell'età perduta più che propriamente per l'epoca degli anni 80 nella quale il film è ambientato con cura di dettagli e citazioni pop. Quello che emerge dal progetto dei Manetti - loro l'idea e la sceneggiatura - è un'amore incondizionato al quale da tempo ci hanno abituati per il cinema e per i generi, per l'arte di portare a casa la pagnotta in modo sempre dignitoso e divertito anche quando la capacità di spesa e i mezzi non sono quelli dei grandi blockbuster (e non lo sono praticamente mai), un amore che con tutta probabilità li accomuna all'amico Misischia che sembra in perfetta sintonia con il modo di intendere il cinema, e più in generale la narrazione per immagini, di Marco e Antonio Manetti, una coppia che almeno chi scrive non finirà mai di ringraziare per il loro approccio vero, sincero e genuino alla materia. E anche perché sono due cazzari capaci di far ridere sempre.

Sul finire degli anni 80 a Bobbio, paese dove con buona pace del maestro Bellocchio non c'è proprio niente da fare, un gruppo di ragazzi si diletta nelle riprese di un film horror amatoriale a budget sottozero; Giò (Tobia De Angelis), aspirante regista, sceglie come protagonista e scream queen del suo film la compagna di scuola Vanessa (Amanda Campana), perché "come lei non grida nessuno" e poi perché è davvero figa, Giovanni ne è cotto perso, ma Vanessa ovviamente questo sfigato nemmeno se lo fila e preferisce frequentare il viscido patentato proprietario di pick up di turno (mentre Giò va in giro su una bicicletta che per taglia andrebbe bene per un bambino di sei anni). Appassionato di fumetti horror Giò è fan dei lavori di Diego Busivirici (Pasquale Petrolo a.k.a. Lillo), fumettista di Bologna, è proprio leggendo il suo Squadra 666 - Il mostro della cripta che il ragazzo nota delle affinità tra le location del fumetto e la sua Bobbio: la chiesa del paese, il caratteristico pilone di Bobbio, una costruzione alta 20 metri di cui non si conosce l'origine e la cripta nascosta nella chiesa, unico elemento all'apparenza stonato in quanto Giò e il suo amico Alberino (Nicola Branchini), alle spalle una lunga esperienza come chierichetti, non ne conoscono l'esistenza. Incuriositi i due amici iniziano a indagare, nel frattempo la famiglia Valmont, composta dai matti del paese, inizia una segreta mattanza in nome di solo Dio sa cosa...

C'è aria di nostalgia e agli effetti speciali, in gran parte artigianali, viene chiamato il nome più rinomato della scuola italiana, Sergio Stivaletti, a donare una patina professionale anche sotto il punto di vista visivo, quando si passa al digitale qualche effetto più al risparmio invece lo si nota, attori in parte ma indubbiamente non proprio d'alta scuola di recitazione fatta esclusione per i nomi più noti, confezione come già abbiamo detto low budget ma tutto sommato ben realizzata per un film che, diciamocelo, non punta sull'horror in quanto non suscita mai brividi ma più che altro risate, assolutamente volontarie, è dal punto di vista della commedia che il film va visto e che si lascia apprezzare, d'altronde la scena di apertura con De Notaris, già in Song 'e Napule dei Manetti, per i conoscitori è tutta un programma. Bella ricostruzione d'epoca, con l'edicola e la cameretta di Giò a ricordare le riviste a fumetti di quegli anni, le videocassette dei film, i poster, tutto richiama gli 80, in quest'ottica anche l'abbigliamento e la caratterizzazione dei personaggi colgono bene l'atmosfera che si respirava in quegli anni lì. Indovinata la colonna sonora che passa dai Blue Oyster Cult a Guccini con l'entrata in scena del personaggio di Lillo, vero motore comico dell'operazione che per un maialino alle erbe affronterebbe di tutto. Da prendere così, film divertente che gronda passione, cinema di serie b, spunti, ammicchi, ideale per chiudere con quattro risate una giornata magari pesante.

martedì 23 novembre 2021

PAPRIKA - SOGNANDO UN SOGNO

(Papurika di Satoshi Kon, 2006)

Tutta l'opera di Satoshi Kon (purtroppo non così cospicua a causa della prematura scomparsa del regista e mangaka dovuta a un tumore maligno) ha in qualche modo a che fare con l'immagine e con i sogni, tema che trova in Paprika una decisa esplosione che per molti versi anticipa alcune delle caratteristiche dell'Inception di Nolan il quale un'occhiata a questo film d'animazione sono quasi certo debba averla data prima di realizzare la sua opera, successiva di quattro anni. Satoshi Kon ci precipita dentro il sogno fin dalla prima sequenza ambientata sotto il tendone di un circo, già da questa scena iniziale possiamo assaggiare l'alternanza che sarà continua tra reame del sogno, realtà e riferimenti cinematografici, grazie all'esperienza di uno dei protagonisti del film, un poliziotto di nome Toshimi Konakawa che in realtà sta semplicemente seguendo una terapia psicanalitica ma che presto si troverà coinvolto in quello che a tutti gli effetti si rivelerà un thriller surreale (e surrealista) in interscambio continuo tra piani diversi e costruito con una narrazione che guarda al thriller ma con un piglio anarchico e completamente slegato dalle regole, lasciando a briglia sciolta la fantasia dell'animatore sotto il punto di vista visivo oltre che su quello narrativo.

Il DC Mini è un'apparecchiatura in grado di connettere un medico psichiatra, in questo caso la dottoressa Atsuko Chiba (detta At-Chan), ai sogni dei suoi pazienti, come con l'ispettore Konakawa, lo scopo è andare ad avere uno strumento molto importante per curare ansie e disturbi dei pazienti stessi attraverso l'interpretazione e la manipolazione dei loro sogni. L'apparecchiatura è stata sviluppata da Tokita, un genio sovrappeso incapace di smettere di mangiare, è proprio a lui che qualcuno ruba un paio di prototipi del DC Mini non ancora protetti, capaci di leggere sia i sogni di chi vi è connesso che di entrare nella psiche dei medici collegati all'apparecchiatura di controllo. Mentre la dottoressa Atsuko, Tokita e il dottor Torataro Shima discutono il da farsi per evitare conseguenze nefaste in seguito al furto dell'apparecchiatura, quest'ultimo inizia a straparlare vaneggiando di frigoriferi, cassette per la posta, rane suonanti e di una parata assortita da strani elementi; in seguito alla subitanea crisi Shima si getterà dalla finestra. Nell'analizzare il sonno del mancato suicida la dottoressa Atsuko, tramite l'avatar Paprika, si troverà di fronte al caos di cui Shima stesso vaneggiava, nel frattempo il progetto DC Mini rischia di essere cancellato dal Presidente della compagnia contrario alla tecnologia, convinto che il sogno sia qualcosa di sacro e che mai andrebbe violato.

L'animazione in Paprika è tradizionale, fluida e scorrevole e vanta un numero altissimo di trovate visive; la prima sequenza è emblematica della fantasia che Satoshi Kon scatenerà lungo i novanta minuti del suo lungometraggio, la bella e sensuale Paprika passa senza soluzione di continuità da un piano di realtà all'altro all'interno dello stesso sogno, da uno schermo video a una strada di città, da una forma concreta a una astratta, dall'immagine su una maglietta a un cartellone pubblicitario, tutto con movimenti naturali e fluidi che da subito dettano la cifra stilistica del racconto. Per la sua complessità Paprika è adatto a un pubblico adulto, non mancano nemmeno evidenti riferimenti sessuali tra i vari giochi di prestigio che il regista ci propone, nel mondo del sogno tutto diventa surreale, e se a quest'opera Nolan ha guardato per il suo Inception, Kon attualizza una delle caratteristiche portanti della serie di film Nightmare on Elm Street (e usata poi svariate volte) con i protagonisti che rischiano di pagare nella realtà le azioni subite nel sogno. Gli amanti del cinema apprezzeranno le varie strizzate d'occhio alla settima arte soprattutto quando in scena c'è l'ispettore Konakawa, un uomo legato al grande schermo da un rapporto di amore/odio legato a vicissitudini del suo passato. Serve un po' di concentrazione ma il meccanismo messo in moto da Satoshi Kon ripaga, il film tiene la mente sveglia, lascia la possibilità di approfondire i legami tra realtà e sogno per i vari protagonisti e muove la curiosità verso un corpo d'opera non così vasto ma probabilmente parecchio interessante.

sabato 20 novembre 2021

LOVELY BOY

(di Francesco Lettieri, 2021)

Francesco Lettieri ha alle spalle la direzione di moltissimi video musicali realizzati per giovani artisti della scena italiana, solo dell'anno scorso il suo esordio nel lungometraggio di finzione con Ultras, una storia corale ambientata nel mondo della tifoseria organizzata; per il suo nuovo film il regista napoletano passa dal corale al racconto su un solo individuo, un individuo solo. È proprio la solitudine, la mancanza di appigli affettivi veri il tema portante delle vicende di questo lovely boy protagonista del film, destinato a divenire in modo programmatico un lonely boy interpretato in maniera molto ispirata dal bravo Andrea Carpenzano, bel volto già ne La terra dell'abbastanza dei D'Innocenzo e in altri film nostrani. Lo sfondo è l'ambiente della scena underground romana legata alla musica trap, Lettieri sceglie un contesto attuale per raccontare una storia che non parla di musica bensì di un giovane che si perde, smarrito in un'esistenza che sembra non avere senso, in un mondo privo di importanza, valori ed elementi per cui all'apparenza possa valere la pena vivere. La storia è narrata con un'alternarsi di tempi, il passato tra ascesa musicale, droghe, vuoto esistenziale, e il presente con il protagonista in una comunità di recupero in Trentino, lontano da tentazioni e immerso in un mondo dove i rapporti personali, anche molto difficili, contano più del resto, sono anzi praticamente l'unica cosa rimasta, o quelli o la solitudine più nera.

Roma, giorni nostri. Nic (Andrea Carpenzano), con il nome d'arte di Lovely Boy, insieme a Borneo (Enrico Borello) fa parte di un duo musicale ascrivibile alla scena trap locale anche se lui stesso ne ricusa un po' la definizione, ciò che fanno loro non ha nome e forse nemmeno importanza, il duo è in ascesa, il loro manager Padella (Riccardo De Filippis), un mezzo sfigato, cerca di fargli avere i contatti giusti nella speranza di fare il botto e di arrivare ai soldi veri, ma a Nic questa cosa sembra non interessare più di tanto, persosi nel mondo delle droghe, senza mai arrivare alla vena, sembra in realtà non essere interessato più a niente, non troppo al rapporto con i genitori, molto largo e permissivo, né in maniera significativa a quello con la giovane Fabiana (Ludovica Martino) che proprio a causa del suo rapporto con Nic sarà costretta a crescere in fretta. In parallelo la vita in comunità, dopo la droga, la montagna, il Trentino, il lavoro quotidiano e i rapporti con persone che hanno vissuto esperienze spesso molto peggiori della sua, il contatto con qualcosa e un percorso molto difficile da portare avanti.

Film realizzato per la tv che salta le sale e approda direttamente su Sky, Lettieri confeziona un bel film che nulla ha da invidiare ad altri prodotti italiani pensati per il cinema, il grosso del lavoro lo fa Carpenzano che ha il volto giusto per questo genere di narrazione dal quale emerge un disagio personale del quale è difficile capire i motivi, l'uso delle droghe sempre più invasivo nella vita del protagonista sembra più conseguenza che causa di un malessere apatico che sembra non far riconoscere un valore in niente, né nella musica (dove per stessa ammissione di Nic volutamente non ci sono contenuti) né nelle relazioni personali. C'è un bel contrasto tra la scena musicale e i momenti di lavoro e confronto con gli altri membri della comunità, con Daniele (Daniele Del Plavignano) che diventerà una sorta di tutor per Nic, con lo scombinato Martino (altro bel volto quello di Martino Perdisa), con Lorenzo (Pierluigi Pasino) che si sente in qualche modo vicino a Nic, anche lui cantante ma nella cover band ufficiale di Foggia dei Queen. Lovely Boy è un film che fotografa bene la perdita di riferimenti, l'assenza di direzione senza arrogarsi la presunzione di giudicare o demonizzare i protagonisti, lasciando anzi un velo di speranza finale anche se, come dice lo stesso Nic, "la vita è comunque una merda".

mercoledì 17 novembre 2021

SHANG-CHI E LA LEGGENDA DEI DIECI ANELLI

(Shang-Chi and the legend of the ten rings di Destin Daniel Cretton, 2021)

Il personaggio di Shang-Chi nasce nei primi anni 70 per mano di Steve Englehart e Jim Starlin quando in Marvel si decise di cavalcare l'onda del successo ottenuto dai film di arti marziali con ben in mente il mito di Bruce Lee, un tipo d'operazione che la Marvel operò in altre occasioni, pensiamo alla serie di Dazzler per esempio, personaggio minore, una mutante legata alla saga degli X-Men lanciata per sfruttare la moda della disco music di fine 70, primi 80. Fallita l'acquisizione dei diritti di sfruttamento del serial Kung-Fu con David Carradine, la Marvel acquisì invece quelli per utilizzare il malvagio character Fu-Manchu, la personificazione della "minaccia gialla" parecchio in voga all'epoca e che nei fumetti di Shang-Chi assunse addirittura il ruolo di padre dell'eroe che verrà presto ripudiato dallo stesso figlio accortosi della malvagità sconfinata del genitore.

Oggi però è tempo di politically correct, va da sé che riproporre un personaggio bidimensionale come Fu-Manchu, asiatico e unicamente votato al male, avrebbe aizzato contro la Marvel critiche di ogni tipo e in casa Disney si sa che si cerca di non scontentare mai nessuno. Così si ripensano le origini di Shang-Chi legando il nuovo (per il MCU) eroe niente meno che alla figura del Mandarino che i fan dei fumetti conoscono come il più iconico avversario di Iron Man e che tutti ricordiamo per il pasticcio fatto con lo stesso nei film dedicati al vendicatore in armatura, affidandolo alle abilità di Ben Kingsley e riducendolo (il Mandarino non Kingsley) a un attorucolo da quattro soldi senza nessuna abilità e senza arte né parte. Con Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli si tenta di accontentare tutto il pubblico, anche quello asiatico visto che il mercato del continente conta una mole di spettatori impressionante, e porre anche rimedio allo scempio fatto con un personaggio storico della casa delle idee come il Mandarino sostituendolo a Fu Manchu e rendendolo il nuovo papà di Shang-Chi creando ad hoc una origin story dove si smussano gli angoli che avrebbero potuto risultare troppo spigolosi. Approfittiamo così per aprire una piccola parentesi sull'approccio ormai super rispettoso di tutto e tutti al cinema: è giusto, mettiamo al bando gli stereotipi e puntiamo pure all'inclusività, però... sarà mai possibile che non si possano più vedere sullo schermo dei fetenti che tali sono per avidità, per smania di potere o semplicemente perché sono dei grandissimi figli di puttana? Ora la figura malevola sembra debba avere alle spalle sempre un buon motivo per essere diventato un criminale, un signore del male, onde evitare che poi l'etnia, il genere, il colore che va a impersonificare il malvagio di turno si senta offeso. Voglio dire, il cinema è sempre stato pieno di pezzi di merda uomini e bianchi e io mai mi sono sentito offeso e anzi, godevo pure nel vedere queste figure malvagie giustamente punite, magari tra atroci sofferenze. Discorso magari un po' semplicistico impostato così, si dovrebbe approfondire, ma qualcuno potrebbe dire... "ridateci quei bei bastardi fino al midollo" che a distinguere tra finzione e realtà siamo ancora capaci, almeno con i film, è certamente diventato più difficile farlo con un qualsiasi telegiornale.

In maniera inaspettata, la visione di Shang-Chi, da poco reso disponibile su Disney Plus, apre a diverse riflessioni, soprattutto in questi giorni in cui anche Ridley Scott si unisce al partito de "i film di supereroi ci hanno scassato le palle" che vanta già membri illustri come Scorsese e Villeneuve, inguaribili rosiconi o cineasti delusi da pubblico e/o case di produzione? Da Marvel fan della prima ora (dei fumetti da sempre e in anni recenti dei cinecomics) ammetto di non poter dire di non capire (e in parte condividere) lo scontento dei tre nomi citati qui sopra che in un modo o nell'altro hanno o stanno contribuendo a edificare pagine di storia del cinema. Prendiamo il miglior film prodotto all'interno del Marvel Cinematic Universe, ognuno per sé decida quale, non fa una grande differenza, e poi andiamo ad affiancarlo a Blade Runner (uno qualsiasi dei due), a Casinò, a Quei Bravi Ragazzi (e potrei andare avanti per un pezzo) o anche a un Arrival qualsiasi (un gran film a parer mio) e tiriamo due somme. Dobbiamo davvero continuare il discorso? Io credo di no. Il fatto è che per quanto siano ben fatti, divertenti, anche appassionanti e coinvolgenti (assolutamente non tutti), i film della Marvel, decisamente migliori di quelli DC salvo alcune eccezioni, sono prodotti se vogliamo inutili, che passano e vanno, non ascrivibili al novero di capolavori del cinema. Ci sono, piacciono molto a un sacco di gente (intendiamoci, piacciono anche a me) e fanno un botto di soldi, è un problema? Per l'industria cinematografica sicuramente no, a loro in fondo interessa fare soldi, non arte e nemmeno grande cinema, può diventare un problema per autori ambiziosi e di personalità che si vedono negare i fondi per progetti "rischiosi" (vedi la vicenda The Irishman) perché dirottati su prodotti più sicuri e di ritorno certo, e questo lo sappiamo bene non vuol dire per forza di maggior qualità, anzi! In quest'ottica anche il pubblico rischia di perdere qualcosa in termine di ricchezza, non quantitativa ma certamente qualitativa.

Detto questo, Shang-Chi. Ennesimo film discreto della Marvel, in bilico tra action e una buona dose di ironia, collegato al MCU grazie alla presenza di Wong (Benedict Wong) e che si distingue per un cast completamente asiatico e una seconda parte ambientata proprio in Asia. Molto efficaci le sequenze action con Simu Liu, l'attore che interpreta Shang-Chi, coreografate in maniera ottima e ben dirette, Liu insieme agli altri interpreti va a formare un cast all'altezza nel quale emerge Tony Leung, vero mito del cinema asiatico, già ne L'ultimo combattimento di Chen o in pietre miliari come Città dolente di Hou Hsiao-hsien, Bullett in the head di John Woo, Hong Kong Express di Wong Kar-wai o nei film della saga Infernal Affairs. Presente anche Michelle Yeoh già ne La tigre e il dragone, proprio il genere Wuxia viene qui omaggiato nella storia dell'incontro tra il Mandarino (Tony Leung) e la sua amata Jiang Li (Fala Chen) capace per anni di distogliere l'uomo da propositi malvagi. Indubbiamente spettacolare e molto divertente in tutta la prima parte ambientata a San Francisco, si perde un poco nella seconda metà dove subentrano una serie di elementi tipici della tradizione asiatica del versante fantastico, l'universo cinematografico Marvel si arricchisce di altri protagonisti accattivanti, il problema che si fa sentire anche in questo Shang-Chi, problema indiretto, è l'inizio di una saturazione del genere che non presenta scarti, picchi, iniezioni di coraggio e autorialità, non resta che sperare in Chloé Zhao che finora non si può dire abbia girato film banali e nel suo Eternals che non ho ancora avuto modo di vedere. Perché seppur divertente e ben realizzato tra due giorni di questo Shang-Chi non rimarrà proprio nulla.

domenica 14 novembre 2021

JEANNETTE

(Jeannette, l'enfance de Jeanne d'Arc di Bruno Dumont, 2017)

Perché accontentarsi di un Jesus Christ Superstar qualsiasi quando si può avere una piccola Giovanna D'arco nel pieno della sua estasi religiosa a contestare l'operato di Dio su tappeto heavy metal mentre pratica del buon headbanging contornata da una doppia apparizione della monaca Madame Gervaise?

Ovviamente la frase d'apertura è una piccola boutade, i due film non sono paragonabili e difficilmente questo Jeannette (seguito da Jeanne del 2019) diverrà nel tempo un cult come è accaduto per Jesus Christ Superstar; detto questo il film di Bruno Dumont si rivela essere una scheggia impazzita nel panorama cinematografico recente, almeno per chi, come chi scrive, non conosce in maniera approfondita il cinema del regista francese. Jeanette nasce come progetto per la televisione, l'ispirazione arriva da due testi di Charles Péguy dedicati alla pulzella d'Orléans ai quali Dumont guarda per mettere in scena quello che è un musical sui generis che pur rientrando nel genere sicuramente non ne rispetta i canoni declinandolo in una forma originale che per molto pubblico risulterà alla lunga parecchio ostica. Scelte radicali nella messa in scena di un film molto parlato, molto cantato, coreografato e dove pensieri e parole la fanno da padrone sull'azione: fede, assilli teologici ed esistenziali di una bambina (si inizia con Jeannette a otto anni) che si pone questioni molto più grandi di lei in preda a un dolore sincero per la sofferenza che vede assillare i suoi compaesani, siamo nel 1425 durante la Guerra dei cent'anni con una Francia in scacco sotto il tallone degli eserciti inglesi.

Il film è diviso in due parti, nella prima una Jeannette (Lise Leplatt Prudhomme) ancora piccola, guardiana di pecore, discute con la sua amica e coetanea Hauviette (Lucile Gauthier) del comportamento del Signore nei confronti della povera gente oppressa dalla guerra, Jeannette colma di fede non capisce però il mancato intervento di Dio nell'alleviare la sofferenza dei suoi concittadini, dei suoi connazionali e desidera un approccio più interventista, del Signore, degli stessi francesi, per riprendere in mano il proprio paese e la pace tanto agognata. Dal canto suo Hauviette non si sente proprio di mettere in dubbio il volere e l'operato (o il non operato) del Signore e sostiene che il compito dei cristiani sia solo quello di pregare e affidarsi in maniera totale a Dio. Nella seconda parte del film la bambina è cresciuta, da giovane ragazza diventa Jeanne (Jeanne Voisin), prende coscienza che il suo tumulto interiore è una chiamata, del Signore, alle armi, non è chiaro, fatto sta che la convinzione di essere il condottiero che il Signore vuole per la liberazione della Francia si afferma, Jeanne partirà aiutata dallo zio (Nicolas Leclaire) alla volta dell'assediata Orléans, il film termina prima dell'incontro della pulzella con le armi e con i campi di battaglia.

Bruno Dumont adotta una messa in scena all'apparenza molto povera, essenziale, poche location, attrici e attori non professionisti e scelte artistiche che donano un sapore irreale all'intera opera, come le apparizioni della Madame Gervaise sdoppiata o quelle stralunate di Santa Caterina, Santa Margherita e San Michele che sembrano forme di un presepe dell'assurdo (pur non avendo nulla a che fare con la natività). Le parti cantate, quasi continue, non godono di precisione tecnica essendo protagoniste ragazzine non professioniste, tutto è molto spontaneo, non artificioso, nelle coreografie a tratti c'è l'impressione di assistere all'esibizione della recita scolastica, eppure tutto trova una sua coerenza, un suo stile scarno che viene valorizzato dalle musiche atipiche e molto originali per il genere e per il tema trattato a cura del musicista Igorrr che si carica sulle spalle gran parte della riuscita del film. Si sperimenta con un metodo del tutto particolare per il cantato che avviene in presa diretta mentre gli attori ascoltano le musiche di Igorrr tramite auricolari, il tutto rende il film ancora più straniante sottolineando le scelte già poco usuali per il genere del compositore francese che arriva dal death metal. Nonostante Jeannette sia un film che verrà percepito con esiti differenti in base al gusto personale dello spettatore data la sua particolarità, è innegabile che vedere la giovane e futura Giovanna d'Arco lanciarsi in riflessioni altissime a ritmo di heavy metal, fare headbanging e portare a compimento coreografie moderne, slegate da ogni riferimento al musical classico, è quantomeno una bella soddisfazione. Le musiche di Igorrr sono trainanti e indovinate per tener desta l'attenzione su un progetto non facile che sui minuti finali non manca di far accusare un lieve velo di stanchezza nonostante l'impegno a scombinare le carte in un mood già scombinato di suo (il giovane zio che parla solo rappando). Opera coraggiosa, sperimentale se vogliamo, a inquadrare in maniera nuova quello che per la Francia è un vero simbolo nazionale, discorso da riprendere più avanti con la visione del successivo Jeanne del 2019.

giovedì 11 novembre 2021

L'APPARENZA DELLE COSE (e le piattaforme)

(Things heard & seen di Shari Springer Berman e Robert Pulcini, 2021)

La medietà si annida nelle piattaforme? Questione molto attuale già dibattuta da più parti e che in maniera ciclica torna a riproporsi nello spettatore dall'animo critico a seguito della visione di opere più o meno recenti, nella fattispecie questo L'apparenza delle cose. Fughiamo subito ogni dubbio, il film di Springer Berman e Pulcini (sposati tra di loro nella vita reale) non è male, lo si guarda con piacere, nulla di nuovo da dire, nessun picco ma anche diversi passaggi che catturano l'interesse, film ben confezionato, a conti fatti si passa piacevolmente una serata senza rimpiangere il tempo dedicato alla visione. Il problema sta (o potrebbe stare, a seconda del giudizio di ognuno) in quel non è male, giudizio che sembra sempre più adattarsi a molti dei prodotti reperibili sulle varie piattaforme, senza generalizzare perché anche queste sono differenti l'una dall'altra e con alterna qualità a seconda delle sezioni esplorate in ognuna di esse. Almeno per chi scrive il pensiero corre subito a Netflix che sembra essere il maggior veicolo per una pletora di prodotti medi che rischiano di uniformare un poco il gusto dello spettatore meno attento e meno curioso, con conseguenza l'aumento di prodotti della stessa fattura che la piattaforma consiglia, propone e promuove e che lo spettatore di cui sopra rischia di continuare a guardare, dedicandosi meno a opere di maggior valore, aiutato in questo anche da una proposta spropositata per quantità all'interno della quale diventa difficile orientarsi con il rischio di perdere ore solamente per scegliere quale film (mediocre) guardare dopo cena. Il problema è la piattaforma quindi o lo spettatore? Il rischio è davvero che la qualità media del cinema contemporaneo si abbassi guardando alla platea più vasta possibile o semplicemente basterebbe saper cercare meglio? È facile che la verità stia come spesso accade nel mezzo, ciò che effettivamente potrebbe andare a perdersi è proprio lo spirito critico diffuso che rischierebbe di relegare opere meritorie che già oggi non sono magari campioni di incassi ai margini dell'industria cinematografica. L'invito per tutti è quello di provare a variare; detto che è impossibile avere un abbonamento a tutte le piattaforme esistenti, già alcune delle maggiori che in molti hanno a disposizione (Netflix, Prime Video, Raiplay che è gratuita) propongono approcci diversi al cinema: se Netflix è probabilmente imbattibile sulla serialità, offre invece un catalogo cinema non così esaltante incorrendo spesso, soprattutto per gli autoprodotti (tranne i casi d'autore, vedi The Irishman di Scorsese ad esempio), nei problemi di cui sopra; Prime offre invece un catalogo più eterogeneo, anche qui sugli autoprodotti può valere lo stesso discorso di cui sopra ma le possibilità di trovare ottime opere sembra decisamente più alta, ogni tanto guardare al passato apre la mente e lo spirito (critico), da questo punto di vista la scelta qui è quasi infinita, pecca invece su diversi film per qualità video; altre perle le si può trovare gratuitamente anche su Raiplay, non si finirà mai di lodare la sezione Fuori Orario ma anche tra i film più mainstream si trovano ottime opere. Poi per chi vuole andare sui film d'autore ci sono i vari Mubi, il Fareastsream, IWonderfull, sono piattaforme queste più di nicchia delle quali gli appassionati duri e puri saranno già a conoscenza. Così L'apparenza delle cose (Things heard & seen, più bello) è diventato il pretesto per fare due chiacchiere sullo streaming per il quale bisogna anche spezzare una lancia a favore in quanto ci permette di reperire molte cose interessanti, purtroppo con ancora dei limiti, sarebbe utile una piattaforma gratuita per tutte quelle opere che non hanno mercato e non muovono soldi che però gli appassionati vorrebbero vedere, recuperare; se fino a qualche tempo fa per vie alternative questo materiale era reperibile, ora con l'avvento delle piattaforme e il seguente blocco sistematico dello scambio culturale libero (anche quello che appunto danno economico non può arrecare) il rischio è quello di perdere davvero molto: film di nicchia, film storici, importanti se non sempre bellissimi (ma spesso sì), sostituiti da prodotti moderni che nulla aggiungono e poco contano nel complesso della meravigliosa arte cinematografica.

Ma spendiamole due parole su questo L'apparenza delle cose di Berman e Pulcini dei quali consiglio vivamente il recupero di American Splendor del 2003 (all'apparenza non disponibile su nessuna piattaforma). Il film è un thriller psicologico dai risvolti sovrannaturali (etichettarlo come horror mi sembra un po' troppo) che gode di una buona prima parte riuscendo a catturare l'attenzione dello spettatore, gli sviluppi cadono purtroppo nel già visto (e non ci sarebbe nulla di male) sprecando però nella seconda parte del film ciò che di buono si era costruito nella prima, cadendo un po' alla volta nell'ovvio senza riuscire purtroppo a emozionare, spaventare o a costruire qualcosa che a fine visione valga davvero la pena di essere ricordato. Siamo nei primi anni 80, coppia newyorkese con figlia ancora piccola, George (James Norton) è un giovane professore universitario che ottiene una cattedra per insegnare arte in un college a nord, la moglie Catherine (Amanda Seyfried) è una restauratrice d'arte con un accentuato disturbo alimentare. Quando George inizia ad insegnare la famiglia dovrà trasferirsi, Catherine perde così lavoro, amicizie e punti di riferimento rimanendo sola tutto il giorno con la piccola Franny (Ana Sophia Heger) nella vecchia casa che la coppia ha comprato, ovviamente questa si rivelerà infestata da presenze che spaventeranno prima la piccola bambina e poi Catherine. La gente del posto però ha un approccio un po' più benevolo al soprannaturale, proprio tra i colleghi di George la giovane Catherine troverà degli alleati per capire cosa sia successo in passato nella vecchia casa mentre il marito diverrà sempre più distante e farà emergere un lato della sua personalità finora tenuto ben nascosto finanche alla moglie.

L'apparenza delle cose gode di una buona costruzione nell'incipit, le basi sono gettate in modo da catturare l'attenzione che solo nel corso del film va a scemare a causa di uno sviluppo banale, dietro l'allure che richiama il gotico, tutto sommato intrigante, il film si stempera in una sequela di soluzioni risapute che non hanno la giusta forza per ergersi a simbolo del vero male che sta dentro la casa, quello del disfacimento del rapporto tra marito e moglie i cui primi sintomi erano inconsapevolmente avvertiti da Catherine già a New York e che vede la donna vittima dei comportamenti sempre meno onesti e urbani del marito. Il resto è contorno, tutto sommato ben confezionato, ci sono Murray Abraham (il Salieri di Amadeus) e per i più giovani Natalia Dyer direttamente da Stranger Things, la Seyfried è molto brava e gestisce bene il ruolo di madre in bilico tra terrore e voglia di vivere, anche Norton fa il suo pur senza brillare, tutto scorre senza sussulti ma senza nemmeno annoiare, tipico prodotto medio di Netflix si potrebbe chiosare. E quindi? visto questo, il celebre algoritmo cosa ci proporrà domani?

PS: le riflessioni di cui sopra non vogliono essere un attacco a Netflix, tutt'altro, piattaforma grazie alla quale abbiamo potuto ammirare cose come The Irishman, l'ultimo Sorrentino, etc.. (oltre l'ottimo catalogo seriale, ma qui premeva parlare di film), piuttosto un invito a differenziare, a scoprire visioni altre, viaggiare tra passato e presente, tra Europa, Stati Uniti, Asia, Americhe e oltre e non fermarsi al "caro utente visto che hai guardato A ti consigliamo B", che qui l'alfabeto può essere composto da ben più di una ventina di lettere.

mercoledì 10 novembre 2021

L'INVASIONE DEGLI ULTRACORPI

(Invasion of the body snatcher di Don Siegel, 1956)

Un caposaldo della fantascienza degli anni 50, L'invasione degli ultracorpi è diretto, decisamente bene peraltro, da Don Siegel, regista di certo non noto per i temi fantastici, lo si ricorda per le collaborazioni con Clint Eastwood (L'ispettore Callaghan, Fuga da Alcatraz, Gli avvoltoi hanno fame, L'uomo con la cravatta di cuoio) e per una serie di film votati all'azione, che siano questi d'ambientazione western o urbana (Telefon con Charles Bronson, Chi ucciderà Charlie Varrick? con Walter Matthau o Il pistolero, l'addio al cinema di John Wayne, giusto per citarne solo qualcuno). Eppure Siegel mette mano alla materia e con un budget risicato, in controtendenza a molte produzioni sontuose e dispendiose di quegli anni a Hollywood, sigla un piccolo capolavoro, un film che come spesso accade sarà un mezzo insuccesso al botteghino ma che con il tempo crescerà nel cuore degli appassionati e agli occhi della critica divenendo un punto di riferimento e termine di paragone per la nutrita schiera di film di fantascienza di quel decennio (ma anche dei successivi) tanto da contare anche diversi sequel e remake. Bianco e nero, assenza di grandi nomi in cartellone, effetti speciali ridotti all'osso e realizzati con il minimo indispensabile, eppure il film funziona davvero molto, molto bene.

È il dottor Miles Bennel (Kevin McCarthy) a raccontare alle autorità l'incredibile storia di cui è stato protagonista. Tornato a Santa Mira dopo una breve assenza, il dottore viene informato dalla sua segretaria Sally (Jean Willes) di diverse richieste urgenti di assistenza da parte dei suoi pazienti. Una volta riaperto lo studio molte di queste emergenze sembrano però rientrate; rimangono un paio di casi a incuriosire il dottore: Wilma Lentz (Virginia Christine), cugina di Becky Driscoll (Dana Winter) vecchia fiamma del dottore, dice di essere certa che suo zio non sia più la stessa persona di sempre, certo all'apparenza sembra ancora lo stesso uomo ma Wilma si dice convinta che non sia più suo zio quello che abita in casa con lei; poi c'è il piccolo figlio della signora Grimaldi che non vuole più stare con sua mamma, piange disperato convinto che quella donna non sia più la sua mamma. Liquidata la cosa come un'isteria collettiva (i casi aumentano) dal collega psichiatra Kauffman (Larry Gates), Miles inizia a preoccuparsi sul serio quando l'amico Jack Belicec gli mostra quello che sembra essere un cadavere, in realtà un corpo organico amorfo che sembra prendere pian piano proprio le sembianze dello stesso Jack, da lì in avanti la situazione inizierà a degenerare, Miles e Becky dovranno trovare il modo di allontanarsi da Santa Mira e avvisare le autorità che in paese sta accadendo qualcosa di molto strano.

Il film si regge tutto sulla gestione della tensione, ottimo sotto questo punto di vista il lavoro fatto da Siegel dietro la macchina da presa ma anche quello fatto in sede di sceneggiatura (alla quale contribuisce anche Sam Peckinpah), bellissimo il bianco e nero che gioca molto con le ombre e con l'alternanza diurni/notturni. Come già detto effetti speciali minimi, un po' di schiuma per l'apertura dei baccelli che sembrano fatti da grosse foglie di verza prima della schiusa, nulla di sorprendente ma funzionale nel creare quell'angoscia di minaccia diffusa e ormai inarginabile che attraversa l'intero film. Lettura molto aperta e adattabile anche alla società odierna, ai tempi della sua uscita si è voluta dare ogni sorta d'interpretazione al film (poi smentite dallo stesso Siegel), c'è chi ha voluto leggerci una critica alle simpatie per il comunismo e chi una critica alla caccia alle streghe maccartista, tutto e il contrario di tutto. In effetti L'invasione degli ultracorpi ben si presta alla manipolazione interpretativa, in fondo abbiamo una forza difficile da contrastare che cerca di imporre un pensiero unico, uno stile di vita unico, eliminando le minoranze che non si adattano allo schema. Mi sembra che anche il parallelo con la situazione odierna non sia poi così difficile da fare o da adattare al film. Il posto che L'invasione degli ultracorpi occupa nell'empireo dei film di fantascienza è stato guadagnato con il tempo e tutt'oggi risulta ancora ampiamente meritato.

domenica 7 novembre 2021

MARK IL POLIZIOTTO

(di Stelvio Massi, 1975)

Tra i generi che andavano per la maggiore nella produzione italiana degli anni Settanta, oltre al più celebrato spaghetti western, si ritagliava un posto importante il poliziottesco, genere mutuato dal più classico poliziesco e che ne esasperava le caratteristiche puntando su una maggiore violenza e su protagonisti, anche quelli dalla parte della legge, usi ad anteporre il fine ai mezzi, adoperando metodi d'indagine brutali, spicci e diretti rendendosi così invisi al corpo d'appartenenza e ai diretti superiori e facendo giustizia ricorrendo spesso a una violenza che rende pan per focaccia a quella messa in campo dai vari criminali. A contribuire alla filmografia del genere sono diversi i maestri considerati in chiave minore (o artigiani) del nostro cinema, alcuni nomi ancor oggi risuonano nelle menti degli appassionati anche grazie a tardivi revival che periodicamente rivalutano questo o quell'altro genere; giusto per citare qualcuno: Lucio Fulci, Umberto Lenzi, Stelvio Massi, Enzo G. Castellari, Duccio Tessari, Damiano Damiani, Carlo Lizzani, Sergio Martino, Sergio Sollima, Bruno e Sergio Corbucci e infine Fernando Di Leo. Il poliziottesco ha poi vissuto diverse contaminazioni con altri generi, dalla commedia (pensiamo ai film con Tomas Milian) agli effetti splatter (Fulci con Luca il contrabbandiere ad esempio) sfornando opere di interesse come altre più trascurabili.

A questa seconda china appartiene anche purtroppo Mark il poliziotto di Stelvio Massi, film che pure ha prodotto una trilogia, seguito infatti da Mark il poliziotto spara per primo e Mark colpisce ancora, tutti diretti da Massi. Film convenzionale del filone riconducibile a tanti altri prodotti degli anni 70 che non si fa ricordare per nessuna caratteristica particolare, come spesso succedeva in quegli anni spicca qualche bel volto, soprattutto tra i più trucidi fetenti, buoni caratteristi tra i quali qui emerge l'interprete di Gruber, non perché particolarmente convincente, anzi, ma semplicemente perché risponde al nome di Juan Carlos Duran noto campione di boxe nelle categorie dei medi e dei superwelter. Colpirà il volto del protagonista soprattutto il pubblico femminile, il nostro Mark, interpretato da Franco Gasparri, è indubbiamente un bell'uomo, anche lui non proprio attore di primo piano (morto precocemente in un incidente) e doppiato come lo stesso Duran. Detto che sul versante attoriale non ci sono grandi qualità messe in campo, anche la regia di Massi non si sforza più di tanto, si apprezzano alcune sequenze principalmente in virtù delle location urbane che ci riportano alla Milano degli anni 70 (in realtà si girò anche in altre città), manca però qualche inseguimento spettacolare, qualche trovata un po' più truce e in realtà anche uno sviluppo avvincente, il film lo si può guardare, interesserà più che altro filologi e appassionati dei generi nostrani, ma difficilmente entusiasmerà chicchessia. Non male invece la colonna sonora che richiama le atmosfere in voga in quegli anni con un bel risultato del compositore Stelvio Cipriani.

Trama ordinaria, il commissario Mark Terzi (Franco Gasparri) si convince che dietro al giro di droga che piaga le strade di Milano ci sia un grosso industriale milanese, tale Benzi (Lee J. Cobb), ovviamente il commissario ha ragione ma è ostacolato dai superiori, in parte per i suoi metodi spicci, Terzi non si fa troppe remore a sparare, ma soprattutto per la fama del suo sospettato. Di contorno ex galeotti, poliziotti corrotti, delinquenti di piccolo cabotaggio e una ragazza (Sara Sperati) caduta nel giro della droga alla quale Terzi si affezionerà un poco. Nulla di nuovo sotto il sole, purtroppo anche Lee J. Cobb (La parola ai giurati, Fronte del porto, L'esorcista, etc...) si perde in un film privo di picchi, esito diligente che purtroppo non lascia grandi tracce di sé.

venerdì 5 novembre 2021

TENERA È LA NOTTE

(Tender is the night di Francis Scott Fitzgerald, 1934)

Per apprezzare al meglio l'opera di Fitzgerald è probabile che la cosa migliore da fare sia approcciare in un lasso di tempo non troppo dilatato più di uno dei suoi scritti, almeno i maggiori: questo Tenera è la notte, Il Grande Gatsby, Al di qua del Paradiso, I racconti dell'età del jazz e così via, per poi rapportarli tra loro e alla vita privata dello scrittore, al suo legame con la moglie Zelda, al loro stile di vita, alle origini familiari della coppia, alle idee espresse apertamente o tra le righe da Fitzgerald nei suoi scritti che per alcuni versi, oltre all'inchiostro, sulla pagina deve aver versato anche una discreta dose di sofferenza, di dubbio, di disillusione. Sono scritti che crescono con il tempo quelli di Fitzgerald, pensare che alcune critiche contemporanee all'uscita dei libri, anche formulate da personalità celebri e di tutto rispetto come Ernest Hemingway, furono davvero poco lusinghiere imputando all'autore una scrittura troppo semplice se non addirittura sciatta. Invece il dipinto d'ambiente, quello della borghesia benestante, incline alla vita mondana, all'euforia e al piacere, è di una ricchezza avvolgente, il contrasto tra l'apparenza da mantenere, la vivacità e l'eleganza coinvolgente e da tutti ammirata del protagonista Dick Diver e della bellissima moglie Nicole, cozzano con i demoni e con le cadute morali, con le incertezze interiori che un dissoluto abuso della ricchezza e un incedere frivolo lungo gli anni della propria vita fanno nascere nel protagonista che finirà per andare alla deriva, incapace di gestire un'esistenza che per alcuni versi si è voluta presentare come larger than life ma che invece, a conti fatti, finisce per calzare piuttosto stretta allo stesso Dick. C'è tanto di autobiografico in questo Tenera è la notte, come in altri romanzi di Fitzgerald, dal precario equilibrio della moglie del protagonista che richiama le condizioni di salute della stessa Zelda alla vita dissoluta all'insegna di buone dosi di alcool, e ancora la ricchezza derivante dalla famiglia d'origine di lei al cruccio per la condizione sociale, sono molti gli aspetti della vita di Fizgerald che creano cortocircuito con quella di Dick Diver, tanto che anche molti dei protagonisti secondari trovano dei papabili corrispettivi nella vita reale dei Fitzgerald.

Romanzo tripartito, si parte negli anni di maggior splendore di Dick Diver e di sua moglie Nicole. Siamo in Costa Azzurra, poco distante da Cannes, qui i Diver, grazie alla dote naturale di Dick di attrarre in maniera irresistibile le persone, hanno raccolto un gruppo di amici e conoscenti adatto per passare nel migliore dei modi le giornate sulla spiaggia vicino all'hotel Gausse, tra loro spiccano Abe e Mary North e Tommy Barban. Grazie alla vivacità del gruppo e alla joie de vivre che si respira in loro compagnia, una giovane attrice hollywoodiana, Rosemary Hoyt, in vacanza con la madre manager, viene attratta sempre più da questa coorte affiatata. Dopo una prima conoscenza e l'ingresso nella ricercata compagnia, la giovane donna si invaghirà del più maturo Dick provando comunque affetto e ammirazione sincera anche per la sua elegante moglie Nicole. Dopo aver esplorato gli sviluppi di questa situazione, almeno in questa versione del libro (ne esistono diverse, una rimontata in ordine cronologico), Fitzgerald torna indietro nel tempo e ci racconta il primo incontro tra Dick e Nicole che avviene in condizioni del tutto particolari, vengono illustrate le difficoltà di Nicole e il suo passato e come Dick si sia creato una posizione come medico psichiatra in una prestigiosa clinica in Svizzera. Nella terza parte si torna al presente e si assiste alla deflagrazione morale e intima degli eventi, di come l'umiliazione e la caduta verso il fallimento prendano possesso di quell'uomo all'apparenza sicuro e indistruttibile e come queste sembrino gettarlo in una spirale di autodistruzione inarrestabile.

La descrizione della vita spensierata di questo gruppo di persone, le loro giornate svagate, le splendide notti (tenere) caratterizzate da queste cene in scenari meravigliosi, costellate da momenti perfetti e incontri che istigano all'amore, sono il vero pezzo forte dell'arte dell'autore, scenari idilliaci che nascondono però crepe, crepe che sono le stesse presenti nella vita di Fitzgerald, i paralleli sono tanti e non stiamo qui a sviscerarli tutti, piccoli e grandi macigni che spostano l'attenzione dalla perfezione apparente a un processo di sgretolamento triste quanto umano e comprensibile, un moto distruttivo che in alcuni passaggi sembra quasi autoinflitto dal protagonista a sé stesso, come se un ineluttabile destino lo portasse verso un finale che rompe le speranze di grandezza e infrange ogni sogno, proprio come si infrangeva anche quello di Jay Gatsby confermando tra i temi dello scrittore del Minnesota la menzogna del sogno americano che tra l'altro proprio in quegli anni faceva i conti con la Grande Depressione. Il contorno storico è solo accennato nel romanzo, i miserabili sono lontani anni luce, la grande guerra è un ricordo, è l'età del jazz a riverberare nonostante il racconto si svolga principalmente in Europa, tra Francia, Svizzera e Italia. Al netto dei temi e dei paralleli tra finzione e vita vera, Tenera è la notte è anche un bel romanzo, con personaggi affascinanti che non abbandoneranno il lettore troppo presto, stretto tra una sensazione di tristezza e un po' di amarezza per un destino compiuto che per il protagonista poteva essere, forse ma forse no, più clemente.

mercoledì 3 novembre 2021

REALITY

(di Matteo Garrone, 2012)

Reality di Matteo Garrone è una commedia amarognola che inquadra bene il suo tempo (i nostri tempi) e che coglie le fantasiose aspirazioni senza fondamenta di una parte, non così risicata all'apparenza, di popolazione italiana: il miraggio della fama, la possibilità di sistemarsi, di svoltare dall'oggi al domani e affrancarsi dalla miseria della vita quotidiana che a moltissimi la società impone, perché non sempre bastano la volontà di autoaffermazione e la serietà per evitare la discriminazione sociale o di giudizio, la vita misera della routine avvilente necessaria per arrivare alla fine del mese, che a volte poi ci si arrivi bene o male poco importa. E allora si fanno sogni vuoti, sogni che Matteo Garrone mette in scena senza eccessi, senza cadere nel grottesco o nella risata di grana grossa ma raccontandoci quella che poco a poco diventa un'ossessione invalidante per il protagonista di questo film che fuor di dubbio ha qualcosa da dirci, divertendo questo sì ma con molto equilibrio.

In una casa storica ormai in rovina del quartiere Barra di Napoli, Luciano Ciotola (Aniello Arena) vive insieme a una famiglia allargata molto numerosa: moglie, figli, madre, zie, tutti stipati in una metratura non troppo ampia. Di giorno Luciano gestisce una pescheria insieme a Michele (Nando Paone), con la moglie Maria (Loredana Simioli purtroppo scomparsa un paio di anni fa) invece organizza un giro di piccole truffe ai danni di una società che produce robottini per cucinare. Spinto dalla figlia più piccola, che tra i suoi idoli ha Enzo (Raffaele Ferrante), un esule dall'ultima edizione del Grande Fratello, Luciano partecipa così per scherzo alle selezioni del famoso programma televisivo venendo scelto per la seguente sessione di provini che si terranno a Roma. Dopo questo ulteriore provino durante il quale Luciano offre il meglio di sé, inizia l'attesa per la chiamata definitiva. Dentro o fuori? Luciano inizia a pensare seriamente che questa possa diventare l'occasione della vita; incitato da conoscenti e parenti, come si dice a Napoli "ce mette 'o penziero", si convince che lui ci andrà dentro quella casa e finalmente svolterà. Questa idea diventa una fissazione, poi una sorta di delirio lucido fino a condizionare l'esistenza del protagonista e della sua famiglia portando cambiamenti reali nella vita di tutti i giorni, ma i sogni, soprattutto quelli senza fondamenta, non sono per tutti...

Matteo Garrone trova in Aniello Arena un protagonista straordinario, probabilmente uno dei talenti del regista è proprio quello di scovare volti non noti (pensiamo anche a Marcello Fonte di Dogman) dalle grandi capacità, Arena è un attore formatosi nella compagnia di teatro del carcere di Volterra dove sta scontando la condanna all'ergastolo, recita con una limpidezza e una misura inappuntabili, senza mai cadere nell'eccesso, scivolando in una follia paranoide molto trattenuta e personale, un'ossessione priva di picchi portata a compimento senza strappi e con un'evoluzione naturale decisiva per la credibilità del personaggio. Ottimi anche i comprimari, bellissimo il volto di Nando Paone noto a tutti ma mai troppo sfruttato, di misura anche la regia di Garrone che accompagna questo racconto di una voglia di finzione e di protagonismo che collidono con la realtà anche nella scena iniziale del matrimonio ambientata alla Sonrisa di Sant'Antonio Abate, l'hotel che ospita il castello delle cerimonie di Don Antonio Polese e relativa trasmissione tv che in quanto a manie di protagonismo pure non scherza. Reality è un film contemporaneo, in ogni senso, sarebbe interessante rivederlo tra vent'anni per capire quanto il film registri il nostro presente e di questo presente quanto e cosa rimarrà in futuro. Come fosse una fotografia.

lunedì 1 novembre 2021

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

(di Gabriele Mainetti, 2015)

Da quando figurava tra i protagonisti di fiction televisive come Un medico in famiglia (il Nonno Libero con Lino Banfi) o La nuova squadra Gabriele Mainetti di strada ne ha fatta parecchia, tra televisione e cinema in qualità di attore ma soprattutto nei panni di regista, produttore e anche compositore di corti e lungometraggi, in occasione dell'uscita di Freaks out, sua opera seconda, torniamo sull'esordio al cinema del Mainetti regista con Lo chiamavano Jeeg Robot. È un film di rottura questo Lo chiamavano Jeeg Robot, importante come conferma che i generi anche da noi si possono fare e pure bene, nel supereroico alla Marvel tanto per capirci l'impresa sembrava impossibile, qualche tentativo non completamente convincente era già stato fatto (Il ragazzo invisibile di Salvatores per esempio), con Mainetti invece si centra il bersaglio in pieno, senza ovviamente poter puntare al lato spettacolare offerto dai film Disney/Marvel, il budget qui non lo permette, ma superando di gran lunga per cuore e contenuti molti dei film con protagonisti i personaggi della casa delle idee. È proprio alle origin stories della Marvel dei 60 che Mainetti guarda per la nascita di questo eroe di borgata che non arriva da Hell's Kitchen come Daredevil, dal Queens come L'Uomo Ragno e nemmeno da Harlem come Luke Cage, ma è un piccolo delinquentello di poco conto di Tor Bella Monaca, periferia di Roma. Come dicevamo spirito marvelliano, a donare i poteri al nostro Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) è un liquido tossico contenuto in un bidone smaltito abusivamente nel Tevere, si guarda proprio al Matt Murdock accecato da liquami radioattivi e poi divenuto il giustiziere cieco Daredevil, i riferimenti sono quelli, la vicinanza a Jeeg Robot d'Acciaio è più nominale, giustificata nella trama da una fissazione per il personaggio da parte di uno dei protagonisti che vedrà in Enzo una sorta di Hiroshi Shiba, un salvatore suo malgrado che però nulla ha a che vedere con il manga di Go Nagai (decisamente meno interessante tra l'altro, altro discorso per l'anime). 

Quello che Mainetti mette in campo è un'intelligente commistione di generi, usa bene i mezzi che ha a disposizione senza strafare in modo da non dare mai adito a dubbi o al ridicolo, immerge questa storia super nel degrado di una borgata romana mischiando accenni di poliziottesco (l'inseguimento iniziale), prese di coscienza tipiche dei fumetti di supereroi e contorno criminale nostrano assimilabile ai vari Gomorra e simili sguinzagliando, è proprio il caso di dirlo, anche la scheggia impazzita dello Zingaro (Luca Marinelli), già paragonato a personaggi fuori di testa come il Joker. La narrazione è ben strutturata grazie alla sceneggiatura di Guaglianone e Menotti, il casting è semplicemente perfetto con tre protagonisti uno più indovinato dell'altro e con due avversari all'opposto anche per stile recitativo.

Enzo (Claudio Santamaria) scappa dopo un furto finito male, braccato dalla polizia è costretto a gettarsi nel Tevere per sfuggire agli sbirri, qui incappa in un bidone pieno di scorie tossiche che lo cambiano per sempre. In principio Enzo è ignaro delle conseguenze del suo bagno imprevisto, si sente male, continua a sputare liquido nero, torna nella sua casa miserabile dove mangia solo budini e passa il tempo guardando film porno. Dopo una nottata agitata si reca da Sergio (Stefano Ambrogi), un ricettatore, per piazzare il bottino del furto. Questi, che fa parte della banda dello Zingaro (Luca Marinelli) in trattativa per entrare nel giro grosso del traffico di droga con i napoletani, propone a Enzo un lavoretto per recuperare degli ovuli di droga da due immigrati. L'affare finirà molto male, Enzo scoprirà di essere invulnerabile e di aver ottenuto una forza incredibile, si troverà però a doversi occupare della figlia di Sergio, Alessia (Ilenia Pastorelli), ormai una donna fatta e finita afflitta da disturbi psichici, Alessia vive infatti in un'altra realtà mutuata dai cartoni animati di Jeeg Robot con la convinzione che il mondo sia minacciato dalla Regina Himika, quando scoprirà dei poteri di Enzo per lei il transfert sarà automatico, in lui vedrà il suo eroe Hiroshi Shiba.

Grande lavoro sui personaggi e sulla direzione degli attori, la Pastorelli è una vera sorpresa, grande prova su un personaggio non banale con un carico di disgrazie alle spalle: lutti, abusi, malattia; Marinelli è perfetto e inquietante, crudele e folle nei panni di un criminale assetato di potere ma ancor di più di fama e visibilità, uno che non si ferma davanti a niente, nemmeno di fronte a quello che vede come un suo rivale, quel nuovo essere che scardina bancomat a mani nude e depreda portavalori soffiandoglieli da sotto il naso, guadagnando la visibilità che lui ha sempre desiderato, fin da quella comparsata a Buona Domenica! Menzione particolare per l'esibizione dello Zingaro mentre canta Un'emozione da poco di Anna Oxa, uno dei momenti migliori del film, un Marinelli davvero eccezionale. Tanto sopra le righe lui quanto stordito e spaesato Santamaria (in modo voluto ovviamente), l'interpretazione di questo delinquente che ottenute capacità straordinarie le usa subito per andare a rubare per poi comprarsi altri budini e altri porno è calibrata al millimetro, il percorso del personaggio, nella presa di coscienza ma soprattutto nel rapporto con Alessia, con la quale sbaglia e anche molto, è sempre credibile e ben scritto. Regia decisamente valida e gestione degli effetti visivi ridotta all'osso, coerente con l'atmosfera. Un ottimo film con superpoteri tutto italiano che poco ha da invidiare ai colossi americani se non il budget, esordio coi fiocchi per un regista che è stato anche capace di prendersi i suoi tempi prima di arrivare alla sua opera seconda con l'augurio che possa rivelarsi interessante quanto questa sua prima.

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