mercoledì 30 marzo 2022

RED

(Turning red di Domee Shi, 2022)

La Pixar si colloca ad altezza di (pre)adolescente con il film della sino-canadese Domee Shi, regista che riversa in Red molti elementi autobiografici: la vicenda è infatti ambientata a Toronto, città dove la stessa Shi è cresciuta, siamo nel 2002, anno in cui la regista aveva tredici anni, la stessa età che ha nel film la giovane protagonista Meilin "Mei" Lee che inoltre è di origine cinese proprio come la Shi. Si affronta in Red, probabilmente per la prima volta in un lungo animato di una major, il cambiamento fisico che si trovano a dover gestire le giovani adolescenti quando il loro corpo inizia a svilupparsi, la metafora con l'arrivo delle prime mestruazioni è evidente, qui il rosso non indica ovviamente il colore del sangue ma quello del tenerissimo (ma molto goffo) panda rosso gigante in cui Mei Lee si trasforma al sopraggiungere di emozioni forti, una sorta di maledizione che la sua famiglia si porta dietro da generazioni e generazioni. Il parallelo è palese: sbalzi d'umore, contrasti con i genitori, difficoltà nel controllare il proprio corpo, nuove sensazioni e primi stimoli di natura sessuale che qui vengono sublimati dalle prime cottarelle per i ragazzi, sia quelli comuni sia per le star del mondo dello spettacolo, affermazione di un nuovo sé, tutte caratteristiche note a chi adolescente è già stato o chi rivive le stesse esperienze nei panni di genitore.

Mei Lee ha tredici anni, vive a Toronto e sta entrando a passi svelti nel pieno dell'adolescenza. Come è giusto che sia per le ragazzine della sua età Mei ha il suo piccolo gruppo di amiche inseparabili: Miriam, Priya e Abby, tutte quante come lei follemente innamorate dei componenti dei 4*Town, una boy band di successo composta non da quattro ma da ben cinque baldi giovini. Rimanendo con i piedi per terra la cottarella adolescenziale di Mei è il biondo Davon, una specie di ameba all'apparenza poco sveglia che lavora in un minimarket del quartiere, personaggio inviso alla madre di Mei Lee, la severa e molto esigente Ming. Mei Lee è una brava ragazzina, studiosa, affatto ribelle, cerca in tutti i modi di compiacere la rigida madre, tutti i pomeriggi la aiuta nella gestione del tempio dedicato al panda rosso. Quando con l'arrivo della pubertà si scatena la maledizione di famiglia anche su Mei Lee, questa inizia a trasformarsi in un grosso e goffo panda rosso ogni qualvolta le sue emozioni vanno fuori scala, sarà proprio questa trasformazione a far capire alla ragazza che il suo percorso non deve essere per forza nel solco di chi l'ha preceduta e che non è giusto continuare a vivere solo per compiacere la propria madre. La situazione di emergenza chiamerà a raccolta tutte le donne della famiglia e sarà occasione di crescita e cambiamento un po' per tutti.

È un film abbastanza semplice questo Red che però si porta dietro un bel carico di esperienze e metafore che lo sguardo tutto femminile di Domee Shi rende al meglio, tratteggiando un universo di donne giovani (e non) capaci di scrivere il proprio destino senza dar seguito ai condizionamenti loro imposti; il mondo maschile sembra essere invece composto più che altro da inutili semi idioti. L'animazione è anch'essa semplice ma molto accattivante, guarda più all'efficacia di espressioni e stati d'animo che non al dettaglio a tutti i costi, molto adatta al tipo di storia narrata dove l'essere protagonista, Mei trasformata in panda, farà innamorare grandi e piccini. Molto indovinata la colonna sonora con i brani dei 4*Town composti da Billie Eilish e dal fratello Finneas O'Connell che ci riportano agli anni d'oro delle boy band (anni d'oro ovviamente per chi amava questo genere di musica), in alcuni momenti sembra di risentire i vecchi Backstreet Boys e l'effetto devo ammettere che è parecchio divertente. Oltre all'insegnamento sull'autoaffermazione, alle metafore sull'età puberale e i traumi così importanti per un adolescente che questa si porta dietro, c'è anche un bel discorso sull'amicizia in un'età in cui il giudizio e l'approvazione degli amici, il senso di appartenenza al gruppo, diventano più importanti agli occhi dei ragazzi anche del rapporto con i propri genitori. Forse Red non sarà uno degli apici toccati dalla Pixar ma è indubbiamente un film d'animazione divertente, perfetto per chi sta entrando nell'adolescenza e che avrebbe meritato un passaggio in sala invece di essere distribuito direttamente sulla piattaforma Disney+. Se anche l'animazione cede, tempi duri per le sale!

lunedì 28 marzo 2022

MIO ZIO D'AMERICA

(Mon oncle d'Amérique di Alain Resnais, 1980)

Alain Resnais è stato considerato un punto di riferimento da molti registi appartenenti all'ondata della Nouvelle Vague francese dei tardi anni Cinquanta del secolo scorso, il suo film più noto è indubbiamente Hiroshima mon amour ma sono diverse le sue opere che gli amanti del cinema e la critica citano a più riprese: L'anno scorso a Marienbad, Muriel il tempo di un ritorno, Anatomia di un suicidio, etc. Innovatore e sperimentatore, sovverte i canoni della narrazione classica, la voglia di provare cose nuove e non seguire un percorso troppo lineare per la messa in scena della sua concezione di cinema si evidenzia bene anche in questo Mio zio d'America, film del 1980 che presenta una costruzione quantomeno originale. Nonostante il film abbia sul groppone più di quarant'anni riesce ad essere spiazzante ancora oggi, anche per lo spettatore moderno più scafato, i primi minuti del film si seguono con una certa fatica, il film poi cresce e quando si entra nel gioco di regia di Resnais ci si trova avvinti da una narrazione stratificata su più livelli che riesce a far convivere le storie dei tre protagonisti alle teorie del biologo e filosofo francese Henri Laborit che partecipa in prima persona al film nei panni di sé stesso creando un cortocircuito tra le sue teorie e le vite dei personaggi che vediamo svilupparsi sullo schermo.


Sono tre i percorsi ai quali lo spettatore è chiamato a prestare attenzione da Resnais. Il piccolo Jean Le Gall (Roger Pierre) cresce in una famiglia della borghesia benestante francese, educato dagli insegnamenti del nonno che fin da giovane gli impartisce lezioni sull'impegno e sui premi che possono derivarne, è destinato a far carriera nell'ambito della comunicazione francese lambendo anche la sfera politica. René Ragueneau (Gérard Depardieu) è figlio di agricoltori, cresce con il pallino dei numeri e si affrancherà dalla vita del padre, dalla fattoria, e diventerà un piccolo responsabile nell'ambito dell'industria tessile. Janine Garnier (Nicole Garcia) è una ragazza militante, impegnata politicamente e figlia di comunisti, contro la volontà dei genitori cercherà la sua strada nel mondo del teatro e dello spettacolo. Se le distanze tra i tre protagonisti sembrano parecchio marcate, le loro vite sono destinate in qualche modo a incontrarsi e influenzarsi l'un l'altra. I rapporti sentimentali, le ambizioni e i colpi che una nuova società del lavoro infligge a più livelli agli stessi personaggi saranno il viatico per l'esplicazione dei concetti teorizzati da Laborit discussi nella pratica appoggiandosi alle realtà dei nostri protagonisti.


È un film all'apparenza complesso Mio zio d'America, è necessario per apprezzarlo superare lo scoglio dei primi minuti, comunque interessanti per un'idea di regia molto dinamica da parte di Resnais, tra montaggio frammentato, sovrapposizioni di quadri, alternanza di tempi e personaggi, voce fuoricampo a illustrare teorie che si svilupperanno lungo tutto l'arco del film; Resnais ci chiede un po' di impegno, col trascorrere dei minuti questo verrà ripagato e si scioglierà su un film piacevole e capace di aprire a riflessioni ancor oggi attuali, atte a mettere in discussione la conoscenza che l'uomo ha di sé stesso, delle sue funzioni, del suo cervello, e di come questa possa aiutare (o meno se ignorata) nella gestione della vita spesso complicata da angosce (e conseguenti malattie) dovute a meccanismi naturali che la società che abbiamo creato inibisce in maniera innaturale andando a creare danni enormi. L'aspetto scientifico è dimostrato dai tre fili narrativi destinati a incrociarsi mettendo a nudo ambizioni, legami familiari, sentimenti, delusioni, tradimenti, tutto ciò che caratterizza le vite dei protagonisti ma più in generale dell'umanità tutta, l'uomo visto come cavia per dimostrare delle teorie, un aspetto che Resnais sottolinea in maniera comica e grottesca con soluzioni visive "animalesche". Da buon amante del cinema il regista bretone contrappone ai momenti salienti del racconto dei suoi personaggi spezzoni di cinema classico in bianco e nero, momenti di Jean Gabin, Jean Marais, Danielle Darrieux, star del cinema che fu, inserti che creano stacchi indovinatissimi che non mancano di donare un effetto comico alla narrazione. È un coacervo di inventiva e idee Mio zio d'America, momenti lievi e spunti non banali, passaggi drammatici e tumulti del cuore; un regista importante Resnais, film più che godibile purtroppo oggi un po' dimenticato dal pubblico. Recupero consigliatissimo.

sabato 26 marzo 2022

I MERCENARI - THE EXPENDABLES

(The expendables di Sylvester Stallone, 2010)

Credo proprio che a far oscillare la lancetta di un'eventuale giudizio positivo o negativo su un film come questo I mercenari possa essere solo e soltanto una questione di affetto. L'ultima (a oggi) regia di Stallone si concretizza in un film tamarrissimo, in bilico tra action spinta e (auto)ironia che poggia su una sceneggiatura leggera come un velo di carta igienica (ogni allusione non è puramente casuale) e può trovare il giusto coinvolgimento solo da parte di quel pubblico capace di mettere per un attimo da parte il senso critico, pronto a lasciarsi travolgere da un'ondata di nostalgia per quel cinema d'azione diretto e poco stratificato che imperava negli anni 80 e 90 e che ha donato fama imperitura a tutta una serie di attori muscolari che sono riusciti a imprimersi con forza nell'immaginario collettivo, a prescindere dall'alta qualità o meno dei film a cui hanno partecipato, fermo restando che alcuni di loro, Stallone in primis, hanno siglato o contribuito a creare anche dei grandissimi episodi di cinema (basti pensare a Rocky e Rambo). Detto questo non resta che accomodarsi sul divano, aprire i popcorn, scegliere la bibita giusta e godersi un po' più di un'ora e mezza di botte, sparatorie, battute e scene action in compagnia di queste vecchie glorie del cinema. Oppure potete scegliere qualcosa di meglio da guardare.

Barney Ross (Sylvester Stallone) è al comando di una banda di mercenari pronti a intervenire in situazioni molto spinose, del gruppo fanno parte Lee Christmas (Jason Statham), un maestro nel lancio di coltelli, l'esperto d'armi da fuoco Hale Caesar (Terry Crews), l'ingestibile Gunnar (Dolph Lundgren), l'esperto d'arti marziali Yin Yang (Jet Li) e il mago degli esplosivi Toll Road (Randy Couture). Dopo una missione di salvataggio in Somalia Ross è costretto ad allontanare Gunnar dal gruppo, troppo ingestibile, insubordinato e dedito all'uso di droghe. Il gruppo si ritrova nel garage di Tool (Mickey Rourke), un ex membro ora tatuatore e contatto per nuovi lavori, Tool propone a Ross un nuovo contatto, l'agente C.I.A. Church (Bruce Willis) che ingaggerà il gruppo per una missione sull'isola di Vilena dove un ex agente corrotto della C.I.A. (Eric Roberts) sta organizzando un traffico di droga verso gli States con la complicità del dittatore dell'isola, il generale Garza (David Zayas). Sull'isola il contatto del gruppo sarà Sandra, la figlia del generale che odia tutto quel che sta succedendo sull'isola, l'incontro tra Ross e Sandra finirà per complicare la vita già non troppo facile dell'intero gruppo. Seguono esplosioni, morti e botte da orbi.

Se non siete fan del genere o dei nomi coinvolti in questo progetto ci sono davvero pochi motivi per guardare questo I mercenari, ciò non vuol dire che il film non abbia dei pregi, ne ha, ma la storia è talmente risibile da non destare nessun tipo di interesse se non in chiave nostalgica o al limite se siete fan delle coreografie e dei combattimenti. Lo Stallone regista è uno che sa quel che fa, il film presenta infatti una regia di tutto rispetto: dinamica, molto attenta alla riuscita delle scene action, alcune delle quali realmente spettacolari (penso alla sequenza con l'idrovolante, davvero ben studiata), si è scelta una cifra stilistica per la resa degli spargimenti di sangue molto grottesca ed esagerata che volendo può ben assolvere alla sua funzione, gli stunt sono davvero ottimi, pare che lo stesso Stallone si sia seriamente infortunato durante le riprese di un film comunque evidentemente impegnativo e tecnicamente ben lavorato. Si apprezza l'autoironia dell'operazione, in questo senso il punto più alto è raggiunto con la breve sequenza che mette a confronto Stallone, Willis e il grande Arnold Schwarzenegger, i tre fondatori del Planet Hollywood creano un siparietto da applausi. Si riflette un po' sul tempo che passa, le icone rimangono tali, scolpite sulla celluloide e nei ricordi dei fan, i corpi invecchiano, qui non è la fiera del precotto come diceva Bill Murray ma quella del botox, vena malinconica fatta carne grazie al martoriato Mickey Rourke. Insomma qualcosa qua e là c'è, per il mio gusto personale questa è un'operazione un po' fuori tempo massimo, non è escluso che a molti possa piacere, di certo il vero pubblico di riferimento della saga ha già visto e rivisto l'intera trilogia.

venerdì 25 marzo 2022

L'ETÀ GIOVANE

(Le jeune Ahmed di Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2019)

Fin dal loro film d'esordio i fratelli Dardenne hanno imbevuto il loro cinema di questioni sociali; i due registi belga, insieme ad altri esponenti di un certo tipo di cinema tra i quali spicca Ken Loach, offrono delle finestre sul nostro contemporaneo che andrebbero fatte studiare nelle scuole per iniziare a cambiare il mondo partendo dal rispetto e dalla tolleranza, dal loro insegnamento. È un tipo di narrazione antispettacolare quella dei Dardenne, a differenza di quella proposta da Loach che butta cuore e anima per la causa dei suoi personaggi (cause che dovrebbero essere di tutti), l'approccio dei due fratelli sembra meno empatico, più glaciale, distante in misura maggiore e all'apparenza meno di parte, nel cinema dei Dardenne difficilmente c'è giudizio, è presente invece una messa in scena illustrativa che solleva questioni morali, aiuta a porre domande e stimola l'identificazione ora con una realtà, ora con una situazione, senza mai parlare alla pancia dello spettatore. È palese che i Dardenne siano schierati dalla parte del rispetto, dell'equità, dell'importanza nel dare dignità a ogni esistenza, la loro presa di posizione però non viene mai fatta pesare nei loro film, la si deduce dalla scelta di trattare alcuni temi piuttosto che altri, da quella di fare dei film senz'ombra di dubbio impegnati piuttosto che occuparsi di frivolezze, ma il giudizio è sempre libero, mai pilotato da una regia che molto spesso non si muove dai personaggi, tenendoli sempre al centro della scena, lì vicino, senza farli scappare e senza lasciare spazio allo spettatore per distrazioni di sorta.

Siamo in Belgio, il giovane Ahmed (Idir Ben Addi), un ragazzo adolescente, sta affrontando un percorso di radicalizzazione nell'approccio alla religione musulmana; in questo sviluppo Ahmed è influenzato in maniera forte e negativa dall'imam estremista della moschea che frequenta. Il contesto sociale in cui si muove Ahmed non è affatto estremista, anzi, la madre del ragazzo (Claire Bodson) è molto preoccupata per lui, vede il figlio adolescente mettere da parte ogni interesse a favore di una dedizione totale alla moschea e alle preghiere, coglie il mutamento intransigente nel giovane che inizia ad accusare la stessa madre perché beve alcol e a contestare i comportamenti e il modo di vestire della sorella. A scuola il ragazzo segue dei corsi per imparare l'arabo, durante le riunioni con l'insegnante (Myriem Akheddiou) sono diverse le famiglie musulmane che si dimostrano molto aperte, disponibili al fatto che i loro figli imparino l'arabo non solo dal Corano ma anche da fonti più frivole come le canzoni per esempio, ma l'imam ha ormai indottrinato Ahmed convincendolo che questi sono comportamenti da apostata. Mal ispirato dal suo imam e da un lontano cugino immolatosi per la causa fondamentalista, Ahmed tenterà di assassinare la sua insegnante venendo in seguito assegnato a un programma di recupero che si svilupperà principalmente a lavoro in una fattoria didattica, qui incontrerà la coetanea Louise (Victoria Bluck) e inizierà un percorso che dovrebbe riportarlo a una concezione più equilibrata di come funzionino i rapporti tra le persone e le cose del mondo.

La camera dei Dardenne segue Ahmed costantemente: riprese agili, movimento costante, camera a mano, sono segni di stile ai quali i due fratelli ci hanno abituato già in film precedenti e che permettono di stabilire una vicinanza tra spettatore e protagonista che nel caso di L'età giovane ci porta a seguire da vicino un percorso che da spettatori non possiamo in alcun modo condividere, si apre quindi una riflessione per cercare di capire i perché di alcune svolte, di alcuni atteggiamenti che non possono che portare a episodi dannosi e che purtroppo fanno parte del complicato mondo nel quale ci troviamo a vivere nei nostri tempi. Come già detto non c'è giudizio nel racconto dei registi, c'è sicuramente speranza, c'è però anche la presa di coscienza di come alcune situazioni si possano facilmente incancrenire, trovare la soluzione a determinate dinamiche non spetta ai registi di film, gli stessi Dardenne hanno dichiarato di non credere al fatto che un film possa cambiare il mondo nonostante proprio il loro film Rosetta contribuì a far varare in Belgio una legge a tutela dei lavoratori più giovani (chiamata proprio legge Rosetta), portare però l'attenzione di pubblico e addetti ai lavori su temi importanti può in alcuni casi contribuire a migliorare in qualche modo tessuto sociale e coscienze, fosse anche solo per una maggior conoscenza e consapevolezza su dinamiche magari a noi estranee. Quello dei Dardenne è il classico cinema "necessario", quello che deve esserci e che dovrebbe essere guardato sempre, coltivato, perché non può far altro che incrementare l'empatia per i comportamenti civili e per ciò che, in un mondo organizzato su di una struttura sociale, dovrebbe essere considerato giusto (e rendere palese ciò che è sbagliato, come in questo caso). Nessuna star in L'età giovane, nessuna scena madre, nessuna spettacolarizzazione, solo ottima narrazione buona a stimolare le teste, se non è indispensabile questo non so proprio cosa possa esserlo.

giovedì 24 marzo 2022

TRA LE NUVOLE

(Up in the air di Jason Reitman, 2009)

Tra le nuvole arriva dopo il successo ottenuto da Jason Reitman con il suo film precedente, Juno, opera che poteva contare sull'ottima sceneggiatura di Diablo Cody, vincitrice anche dell'Oscar nella sua categoria. In confronto al suo predecessore, tanto per rimanere in tema, potremmo dire che Tra le nuvole ha le ali spuntate; ci troviamo al cospetto di una commedia piacevole, discreta, con diversi argomenti interessanti a tenerne le parti ma che finisce per rifugiarsi in un'apologia familista molto trita e risaputa, questo nonostante non manchino le frecciate all'istituzione familiare, così come è chiara la volontà critica verso un sistema americano legato alla gestione del lavoro e delle persone troppo poco umano, freddo e in fin dei conti dannoso. Tutti elementi lodevoli, buono inoltre il cast, sono diversi anche i momenti apprezzabili di regia, tutto molto ben realizzato e confezionato ma anche tutto molto (troppo) convenzionale nonostante qualche piccola sorpresina verso il finale. 

Ryan Bingham (George Clooney), nessun vincolo di parentela con l'omonimo cantautore, è un frequent flyer che per lavoro passa la maggior parte della sua vita in volo, in viaggio, negli aeroporti o nelle camere d'albergo degli Stati Uniti. Ryan è felice della sua vita scandita dai passaggi in quelli che l'antropologo Marc Augé definirebbe non-luoghi, difende e addirittura vende in conferenze apposite la teoria dello zaino vuoto, vede i rapporti stabili come una zavorra, un peso capace di minare mobilità e libertà, tanto da impedire la felicità piena che pensa si possa trovare solamente in un'esistenza sempre in movimento e non radicata, simile a quella che lui stesso conduce. Ryan lavora per un'agenzia che si incarica di comunicare ai dipendenti di altre aziende il loro licenziamento, di fargli sapere che il loro contributo non è più richiesto, che per loro non c'è più posto in società; è un lavoro che Ryan svolge senza farsi troppo coinvolgere dai destini altrui, non è un crudele Ryan, anzi, cerca il modo più efficace per indorare la pillola ed evitare traumi alle persone che si trova davanti, non di meno il suo lavoro è quello di tagliare teste, né più né meno. Questo finché una nuova leva della sua azienda, la giovane Natalie (Anna Kendrick), sviluppa un sistema che farà risparmiare alla direzione l'85% dei costi, i colloqui per comunicare i licenziamenti si faranno a breve via web: niente più voli, niente trasferte, addio al sogno di Ryan di cumulare dieci milioni di miglia e relativi bonus. Per far fare un po' di esperienza a Natalie e mettere a confronto i due sistemi di lavoro Ryan porterà la ragazza in giro per gli States, in uno dei suoi ultimi viaggi l'uomo incontrerà la disponibile Alex (Vera Farmiga) che sembra essere una sorta di sua controparte femminile e con la quale inizierà una bella relazione destinata, forse, a fargli rivedere un poco le sue idee sulla vita.

In Così parlò Bellavista l'indimenticato Luciano De Crescenzo, corroborato da tanto di grafico, illustrava la differenza tra uomini di libertà e uomini d'amore. Possiamo dire che quello di Ryan Bingham in Tra le nuvole è il classico percorso di traslazione da uomo di libertà a uomo d'amore, una parabola che al cinema, come in ogni altra forma di narrazione, abbiamo visto centinaia di volte. Questo percorso, unito alla riscoperta dei legami familiari e più in generale dei legami affettivi, è ciò che rende il film di Reitman un poco risaputo, ciò non toglie che punti di interesse ve ne siano, a partire dal discorso sui tagli scellerati al personale (siamo nel 2009 in piena crisi finanziaria) e sui danni della società capitalista pagati sempre dai soliti noti. Reitman costruisce tre bei personaggi ben interpretati da Clooney, Kendrick e Farmiga, li inserisce in un contesto da commedia impegnata, comunque sempre gradevole, non lesinando su soluzioni interessanti di regia, a partire dai titoli di testa per arrivare poi alla coreografia di un Clooney in partenza a suo completo agio nelle routine aeroportuali, fino alla bella sequenza del matrimonio della sorella di Ryan. Nulla di nuovo sotto il sole, consigliato a chi trova nella commedia non sguaiata il suo genere d'elezione.

martedì 22 marzo 2022

TRUE DETECTIVE - STAGIONE 1

(di Nic Pizzolatto, 2014)

Prendendo in esame tempi più o meno recenti, la prima stagione di True detective è stata una tra le opere seriali che in misura maggiore ha suscitato entusiasmi mettendo d'accordo pubblico e critica, spettatori adoranti pronti a stracciarsi le vesti per l'annata d'esordio e critici più equilibrati ma dai giudizi altrettanto lusinghieri. Che sia una tra le migliori serie (o meglio, stagioni) del decennio è fuor di dubbio, che si vada a piazzare su un'ipotetico podio tra le migliaia di ore di fiction prodotte per il piccolo schermo dipende anche dai gusti, per chi scrive l'esordio di True detective, serie ideata e scritta da Nic Pizzolatto, ha davvero pochissimi rivali. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui è giustificata la definizione di cinema trasportato sugli schermi televisivi, la produzione di questa serie non ha infatti nulla da invidiare a quella messa in atto per opere cinematografiche pensate per il circuito delle sale, il canale HBO trova anche il jolly con la regia ispirata e talentuosa di Cary Joji Fukunaga che dona alla narrazione non una ma parecchie marce in più, tanto che il regista californiano arriverà poi a dirigere uno degli episodi del brand di James Bond. La sensazione è quella di assistere a un poliziesco compatto e coerente dalla durata di circa otto ore, una narrazione giocata su più tempi, che attraversa i decenni, che unisce al mestiere di Pizzolatto e al suo amore per il genere una linea di novità data in particolare dall'utilizzo delle location, di quella Louisiana delle paludi tanto soleggiata quanto oscura finora probabilmente mai utilizzata a dovere fino in fondo. E se il trend che sta portando i grossi calibri del cinema in forze alla serialità televisiva è ormai più che consolidato, qui ci sono due veri mostri alle prese con interpretazioni tra le loro migliori in assoluto, la coppia di detective formata da Woody Harrelson e Matthew McConaughey, capace di competere un po' con chiunque, si ritaglia un posto d'onore nella storia del poliziesco.

Louisiana, 2012. Due agenti della Polizia di Stato (Michael Potts e Tony Kittles) stanno cercando di ricostruire un caso che risale al 1995, per farlo convocano in separata sede i due detective che seguirono l'indagine a quel tempo: il detective Martin Hart (Woody Harrelson) e il detective Rustin "Rust" Cohle (Matthew McCounaghey). Un pezzo alla volta i due ex partner raccontano ciò a cui si trovarono di fronte in quell'ormai lontano 1995: il corpo della giovane Dora Lange, assassinata e violentata, viene ritrovato in una piantagione della Louisiana sotto la chioma di un albero solitario. Il cadavere è sistemato in una posizione rituale, delle corna di cervo sono state collocate sulla testa della vittima, sulla schiena di Dora è stato segnato uno strano simbolo, piccole sculture in legno dal sapore ancestrale sono presenti vicino al luogo del delitto, per il detective Cohle tutto lascia pensare a un omicida seriale. Le indagini saranno affidate ai due detective, per mantenerle vive i due dovranno lottare con le pressioni del comandante Quesada (Kevin Dunn) e della task force voluta dal reverendo Tuttle (J. O. Sanders). Rust e Martin non si conoscono da molto, il primo è un cervello fino, lo chiamano l'esattore per l'abitudine di girare sempre con una cartellina per gli appunti, un tipo strano che non ripone grandi aspettative nella vita e nella razza umana, è un pensatore dei massimi sistemi, un nichilista ex alcolizzato, molto rude e diretto nelle sue affermazioni e nel rapporto con gli altri. Martin è il classico piacione, aperto, simpatico, tutto chiesa, famiglia e bandiera, uomo in gamba ma dalla tenuta morale ambigua, soprattutto nei confronti della bella moglie Maggie (Michelle Monaghan) che tradisce a più riprese. I due formano una coppia che sul lavoro funziona bene, Rust pensa, trova collegamenti, Martin copre le sue cattive maniere, tiene i contatti, compila le scartoffie, entrambi agiscono senza timori. Il caso in cui sono coinvolti però è più grande di quel che sembra in principio, tanto da provocare strascichi ancora molti anni dopo la sua chiusura.

La regia di Cary Joji Fukunaga lavora molto bene sul paesaggio, vero passo in più che la serie vanta nei confronti di altre, veniamo immersi nelle paludi assolate della Louisiana, nel bayou, tra il verde e l'acqua, in uno scenario aperto che il regista, aiutato dalla fotografia, riesce a rendere sempre pericoloso e inquietante nonostante la luce, abitato da un'umanità marginale capace delle peggiori brutture. Si è molto parlato dell'apertura della quarta puntata, vero saggio di regia, prova di talento e bravura, un pianosequenza riuscitissimo che unisce tecnica e tensione narrativa. La struttura della sceneggiatura è un altro grande punto di forza di questa stagione di True detective, i rimandi tra gli eventi del '95 e quelli del 2012, passando per un nodo focale nel 2002, vanno a costruire una narrazione avvolgente dalla quale si fa fatica a staccarsi. Non ci sono mai scarti improvvisi nella sceneggiatura, facili escamotage, tutto è studiato in fase di scrittura per girare al meglio, compresa la costruzione dei due superbi personaggi interpretati da due grandissimi attori. Il Rust di McConaughey è indubbiamente un protagonista originale, la frase pronunciata da Marty, "cacare su ogni momento di decenza è una cosa di cui non puoi fare a meno?", è emblematica della caratura dell'uomo: sfatto, pessimista, diretto, onesto fino alla maleducazione ma sempre sincero, convinto della circolarità della vita, di questo inferno terreno che si ripeterà ancora e ancora e ancora, disilluso sugli aspetti positivi di un'esistenza insopportabile (Rust ha i suoi buoni motivi per vederla così), è all'apparenza contraltare del più solare e gigione compagno, il Marty di Woody Harrelson è la personificazione dell'idea dell'american way, ma il nucleo familiare tanto caro agli stati del sud fa in fretta ad esplodere, grazie anche alle grazie della stupenda Alexandra Daddario. Tra tutti i pregi che si possono trovare alla serie ciò che realmente incanta è la narrazione, né più né meno, quando una storia è narrata bene, strutturata con questa cura, anche tutti gli altri aspetti, sempre ottimi, brillano di una luce più luminosa. Una delle serie (stagioni in realtà) imprescindibili nel suo decennio, essendo True detective antologica ogni annata fa poi storia a sé.

venerdì 18 marzo 2022

DAYS OF BEING WILD

(di Wong Kar-wai, 1991)

Days of being wild può essere considerato come un'opera di passaggio all'interno della filmografia di Wong Kar-wai; se nell'ottimo esordio As days gone by trovavano posto in ampia misura alcuni elementi molto cari al cinema di Hong Kong di quegli anni e che andavano incontro al pubblico, e parliamo principalmente di tutto il côté criminale dell'opera, in questa seconda prova del regista si intuisce una costruzione già proiettata verso quelli che saranno alcuni dei temi poi presenti nei film di maggior successo di Wong Kar-wai, in particolar modo si pensa a quel capolavoro indiscutibile che verrà: In the mood for love. Lo scavo nei sentimenti dei protagonisti diventa centrale, importante il mutamento che questi subiscono nel corso del tempo ma anche, o forse soprattutto, le conseguenze che da questi, o dalla loro mancanza, si scatenano, portando a situazioni esistenziali complesse e spesso foriere di infelicità e desideri inappagati. È l'inizio di un percorso, del passaggio da un cinema ancora condizionato dal mercato e dalla produzione a uno più prettamente d'autore che porterà il regista a essere uno dei più riconosciuti di Hong Kong in quegli anni, così come lo stesso Days of being wild verrà poi considerato uno dei migliori esiti di quella stessa cinematografia.

Siamo negli anni 60 a Hong Kong (come sarà anche per In the mood for love), il giovane Yuddi (Leslie Cheung) tenta di conquistare la bella Su Lizhen (Maggie Cheung) che fa la cassiera presso lo stadio, riuscirà in qualche modo a incantarla con un giochino legato allo scorrere del tempo e a un minuto ricorrente della giornata che diventerà il loro minuto, un po' come altre coppie hanno una loro canzone. Ma quando la loro relazione prenderà il via, i sentimenti di Yuddi non si riveleranno così radicati come i suoi primi sforzi lasciavano supporre, l'uomo si rivelerà freddo tanto da allontanare Su Lizhen. Yuddi si avvicinerà così alla cantante Mimi (Carina Lau), lei come in precedenza era accaduto a Su Lizhen si innamorerà di Yuddi, anche lei verrà presto accantonata. La difficoltà di Yuddi nel trovare un impegno sentimentale, una relazione che possa dare corpo alla sua vita e portarlo alla felicità, è radicata in una mancanza, quella dell'amore della sua vera madre che lo abbandonò da piccolo per affidarlo a una madre adottiva (Rebecca Pan) che per timore di venire abbandonata non vuole rivelare al figlio l'identità della madre naturale. Solo quando finalmente Yuddi riuscirà a mettersi sulle tracce del suo passato, in un viaggio verso le Filippine, capirà ciò che nel corso degli anni per lui è andato perso, ma ora forse è davvero troppo tardi...

Sembra di essere in una Hong Kong sospesa nel tempo in questo Days of being wild, la metropoli è tratteggiata tramite pochi angoli, quasi invisibile, ne cogliamo solo vicoli stretti, particolari, inquadrature che riportano alla mente altro per chi già ha avuto modo di ammirare le successive opere del regista: le strade buie, i personaggi accostati ai muri, la pioggia battente e soprattutto quella sensazione d'attesa (qui ben chiarificata dalle scene con la cabina telefonica), quella presenza costante di sentimenti sospesi, inesplosi, inespressi che donano profondità alla narrazione. Come si diceva in apertura è una fase di passaggio, il film non è ancora completamente a fuoco, in alcuni punti addirittura enigmatico, come nel caso della comparsa sul finale di Tony Leung, futuro protagonista di In the mood for love, c'è già però tutto il fascino dell'opera di un regista che sa come catturare il pubblico, interessato ai sentimenti e ai tormenti dell'animo umano, schiavo di sé stesso e del tempo, degli eventi, forse anche della predestinazione. Prove di stile, già significanti, un'apertura verso un discorso che porterà a grandi risultati.

mercoledì 16 marzo 2022

THE TOWN

(di Ben Affleck, 2010)

Ben Affleck, ormai lo sostengono in molti, pare sia più in gamba dietro la macchina da presa che non davanti, cosa alla quale non si fatica a credere anche nel caso non si siano visti i suoi film da regista. Attore non proprio di primo livello, con questo The Town Affleck scrive, dirige e interpreta, a dir la verità in maniera neanche malvagia, un action solidissimo spruzzato da squarci di romanticismo mai affettati; una narrazione diretta, corale, graziata dalla scelta di un ottimo cast, un film che non mette in campo nessuna novità né sprazzi d'originalità di sorta, segue invece una sceneggiatura (dal libro di Chuck Hogan) molto canonica che non sorprende mai lo spettatore ma che allo stesso tempo si rivela molto efficace, priva di perdite di ritmo per l'intera durata di un film che alla fine avvince il giusto e lascia un retrogusto di soddisfazione una volta arrivati ai titoli di coda. In fondo, quando ben realizzato, il film criminale, di rapina, riesce quasi sempre a centrare il bersaglio posizionato al centro del gusto di un pubblico molto vasto.

Il quartiere di Charlestown a Boston è preso d'assalto da gruppi di rapinatori di banche. Doug MacRay (Ben Affleck) è la mente di una di queste bande di rapinatori, una molto organizzata, i suoi piani sono studiati per ridurre al minimo i rischi e l'uso di violenza, cosa che Doug cerca in tutti i modi di evitare. Del gruppo però fa parte anche il suo amico Jem (Jeremy Renner), una testa calda difficile da tenere sotto controllo al quale però Doug deve molto, per episodi sepolti nel loro passato comune e per la relazione che intrattiene con Krista (Blake Lively), ragazza tossicodipendente e sorella di Jem. Durante una delle rapine del gruppo qualcosa va storto, i rapinatori, tutti mascherati, sono costretti a prendere in ostaggio Claire Keseey (Rebecca Hall), la direttrice della banca, liberata poi subito dopo la fine del colpo. Quando Doug e Jem scoprono che la ragazza abita proprio nel quartiere, a pochi metri da loro, decidono di seguirla per capire se questa possa avere qualche sospetto sui membri della banda; prendendo casualmente contatto diretto con Claire, Doug finisce per innamorarsene, cosa che complicherà molto la situazione e gli equilibri all'interno della banda.

Affleck guarda al cinema classico: costruzione impeccabile, buon profilo di tutti i personaggi principali, narrazione solida da canovaccio più che rodato, si gioca inoltre in maniera intelligente qualche bonus con l'interpretazione dell'ottimo Pete Postlethwaite ad esempio; tutto è scritto, non rimane che metterlo in scena e Affleck questo lo fa benissimo. Cesellati i rapporti tra i vari personaggi, quello tra Doug e il padre (Chris Cooper) in galera, una sorta di predestinazione al crimine, quello tra Doug e Jem, un rapporto tra fratelli che tra alti e bassi non può che rimanere indissolubile fino alla fine, quello tra Doug e Claire, in evoluzione continua con una Rebecca Hall magnifica che riesce a eclissare anche una Blake Lively di indiscutibile bellezza. Sull'altra sponda, quella dell'F.B.I. un cazzutissimo Jon Hamm con Titus Welliver a tentare di incastrare i nostri. Regia di livello con una sequenza di inseguimento girata negli spazi stretti del quartiere di Charlestown davvero coinvolgente e tirata ad arte, un Jeremy Renner che vince il premio di miglior giocatore in campo, alla faccia di chi lo sottovaluta, in tempi più recenti l'attore ha dimostrato di saper gestire anche toni più scanzonati (Hawkeye). Tirate le somme The town non offre niente di nuovo ma mette sul piatto un prodotto inappuntabile che chi ama il genere non può farsi scappare.

lunedì 14 marzo 2022

HALLOWEEN - LA NOTTE DELLE STREGHE

(Halloween di John Carpenter, 1978)

Torniamo al cinema di John Carpenter dopo aver da poco parlato di Distretto 13 - Le brigate della morte. Se con il film precedente Carpenter racimolò critiche positive e incassi tutto sommato in attivo seppur non stratosferici, con Halloween - La notte delle streghe arriva la svolta vera nella carriera del Nostro; con una spesa di circa 300.000 dollari la nuova regia di Carpenter raggranella qualcosa come 70 milioni di dollari stabilendo una sorta di record per il cinema indipendente americano. Inoltre Halloween segna un punto di svolta nella storia del genere horror, il terzo lungometraggio del regista proveniente dallo stato di New York viene per convenzione indicato come l'opera che da il via al sottogenere dello slasher da qui in avanti codificato con una serie di caratteristiche che diverranno punti fermi per centinaia di epigoni a venire. Sentori ovviamente ce n'erano anche prima, negli anni 70 del 1900 già molto cinema è passato sotto i ponti, l'originalità assoluta è cosa rara, tra le influenze più celebri riconosciute al film (e sono diverse) la più curiosa è quella dell'hitchcockiano Psycho che senza ombra di dubbio si può annoverare come fonte di ispirazione per Halloween nella figura di Bates, assassino disturbato amante del coltello, e che vede nel ruolo di protagonista femminile una sorta di passaggio di consegne tra madre e figlia: Janeth Leigh in Psyco e sua figlia Jamie Lee Curtis (padre Tony Curtis) al suo esordio in Halloween. Oltre ai meriti commerciali c'è da dire che la fama del film è del tutto meritata, forse qui per la prima volta viene fuori tutto il talento di Carpenter, come regista, come narratore e come compositore, dettaglio affatto trascurabile.

1963. Alla vigilia di Halloween Michael Myers (Will Sandin), un giovane ragazzino di sei anni, uccide la sorella più grande a colpi di coltello. Negli anni successivi, in una struttura sanitaria per criminali, il dottor Loomis (Donald Pleasence) tenta di capire e curare il giovane ragazzo fino a giungere alla conclusione che in Michael (Nick Castle) non alberghi più nessun sentimento umano e che quello che col tempo è divenuto un uomo sia ormai una sorta di incarnazione del male assoluto. Dopo quindici anni di reclusione, esattamente nella notte della vigilia di Halloween, Michael Myers riesce a fuggire dall'istituto; Loomis enormemente preoccupato, intuisce che Myers probabilmente tornerà a Haddonfield, suo paese natale e dove la sua storia criminale è iniziata; qui la giovane Laurie (Jamie Lee Curtis) si prepara alla serata di Halloween durante la quale dovrà fare da babysitter al piccolo Tommy, le sue amiche Annie (Nancy Kyes), figlia dello sceriffo della cittadina, e Lynda (P. J. Soles) hanno invece programmi un pizzico più peccaminosi. Il trio di ragazze verrà preso di mira dalla fredda malvagità di Michael Myers che si aggira con tuta e maschera inespressiva nel suo vecchio quartiere confermandosi figura sempre più inquietante.

Oltre a scrivere una pagina importante dell'horror e alcune regole del genere, con Halloween - La notte delle streghe Carpenter crea, inconsapevolmente, una delle icone più durature e riconoscibili della storia del cinema, non solo di quello horror. La maschera bianca di Mayers contribuisce ad aumentare la tensione, all'interno di un film già tesissimo, proprio per l'inconoscibilità delle intenzioni di questo assassino, per l'impossibilità di coglierne un'emozione, uno spasmo, rendendo il serial killer una macchina di morte e terrore pressoché perfetta. Tutto Halloween corre sul filo della tensione, sotto questo aspetto il film è perfetto, sembra incredibile ma Carpenter crea una pietra miliare dell'orrore versando quattro gocce di sangue e senza abusare di scene truci, praticamente assenti. Qui è tutto un gioco di camera, di tempi, di visioni periferiche, di preparazione, di musiche (ottime), di tempismo che sfocia nello jump scare studiato al secondo, sempre perfetto, mai eccessivo o gratuito. La prima scena è magistrale, un pianosequenza in soggettiva ripreso con una telecamera molto mobile, oscillante, un movimento che mette i brividi da subito, nell'avvicinamento a quel portico decorato con la classica zucca illuminata, l'incedere di camera in camera, l'osservazione della futura prima vittima, la sorella lasciva, la salita per le scale (in un'intervista Carpenter affermerà che tutto nasce dalla sequenza sulle scale in Psycho), poi Michael infila la maschera e la visuale si limita al campo visivo delle due fessure per gli occhi, la sorella nuda, il coltello... sequenza perfetta. Inutile soffermarsi sui significati metaforici del genere, voluti o meno che siano (le ragazze peccaminose punite con la morte, la final girl virginale destinata alla salvezza), sull'argomento si è già detto tutto, oltre a Myers il film crea un'altra icona, quella della scream queen Jamie Lee Curtis destinata a tornare a più riprese in ruoli simili. Il pregio maggiore di Halloween è proprio quello di riuscire a tenere lo spettatore in tensione dall'inizio alla fine, dal primo all'ultimo fotogramma, con una minaccia che si palesa a più riprese, che vediamo spesso in lontananza, anche Laurie la vede diverse volte, senza riuscire a dargli un volto, un'intenzione, un grado di pericolosità che forse solo Loomis conosce e, visto il finale, nemmeno fino in fondo. Inchino.

sabato 12 marzo 2022

CONTAGION

(di Steven Soderbergh, 2011)

Dei lavori di Steven Soderbergh abbiamo parlato a più riprese sottolineando l'ecletticità di questo autore (sessant'anni il prossimo gennaio) che ancora non è stanco di sperimentare e provare soluzioni nuove. Con Contagion il regista prova a ipotizzare cosa sarebbe potuto succedere se l'umanità avesse dovuto affrontare l'arrivo di una pandemia globale, come questa si sarebbe potuta gestire lavorando sulle reazioni che le persone e i governi avrebbero adottato in una situazione per l'epoca nuova e potenzialmente molto letale. Il regista non fallisce nemmeno questa volta, con il senno di poi e la conoscenza attuale che abbiamo del problema, il film è del 2011 decisamente precedente la pandemia di Covid-19, si potrebbe affermare: "Soderbergh come Nostradamus!". Il regista riesce a prevedere con una buona precisione gran parte di ciò che realmente si è poi verificato qualche anno più tardi, nessuna dote da veggente ovviamente ma tanta ricerca e una buona dose di intuizione portano Soderbergh e lo sceneggiatore Scott Z. Burns a confezionare un film che rivisto oggi non può che essere letto in chiave profetica. Contagion è un raro caso di film che acquista valore con il passare del tempo, visto oggi, alla luce dei fatti noti a tutti, è proprio la sua capacità predittiva l'aspetto più interessante di un'opera ben realizzata ma a conti fatti poco coinvolgente se non vista appunto attraverso gli occhi della consapevolezza odierna; Contagion avrebbe potuto essere un instant movie ma è arrivato con quasi un decennio di anticipo, una cosa quasi incredibile, più interessante oggi che nel suo anno d'uscita.

Beth Emhoff (Gwyneth Paltrow) torna da un viaggio di lavoro a Hong Kong con dei sintomi influenzali. Quella che da principio sembra una brutta influenza inizia a peggiorare fino a portare la donna ad attacchi convulsivi e infine alla morte. Poco dopo la stessa sorte tocca al figlioletto della Emhoff, la preoccupazione del secondo marito della donna, Mitch (Matt Damon) sale alle stelle, non tanto per lui quanto per la salute della figlia Jory (Anna Jacoby Heron). Nel frattempo il numero di contagi sale, i morti iniziano a essere un buon numero, il dottor Cheever (Laurence Fishburne) del CDC organizza delle squadre d'azione per scoprire il più possibile sul virus, si affida sul territorio americano alla dottoressa Mears (Kate Winslet) per studiare i primi casi, la ricercatrice Orantes (Marion Cotillard) si recherà invece in Cina alla ricerca delle origini della malattia. Mentre il virus si rivela più letale del previsto si aprono i canali di ricerca e informazione: la dottoressa Hextall (Jennifer Ehle) e il dottor Sussman (Elliot Gould) lavorano a un possibile vaccino, il blogger cospirazionista Alan Krumwiede (Jude Law) promuove invece una cura alternativa a base di forsizia, una pianta molto comune anche alle nostre latitudini. Con il passare dei giorni aumenta l'escalation di casi, l'informazione diventa martellante, il panico dilaga.

Soderbergh e il suo gruppo di lavoro ci narrano con anticipo molto di quello che avremmo vissuto da lì a pochi anni: si parte dai mercati in asia dove vengono venduti animali vivi, c'è il passaggio intraspecie del virus, si identifica con discreta precisione anche l'area geografica di una possibile nascita della pandemia, si mettono sul piatto i sistemi di informazione e controinformazione, le immagini dei futuri ospedali da campo richiamano alla mente quelle che tutti abbiamo visto centinaia di volte, si esamina la paranoia e l'isolazionismo della gente in seguito all'esplosione del panico. Quella che racconta Contagion è una forma influenzale molto più letale di quella che abbiamo vissuto nella realtà, colpisce l'accuratezza predittiva di molti particolari, per la realizzazione del film Soderbergh ha dichiarato di essersi appoggiato a medici di fama e alle ricerche dell'Organizzazione Mondiale della Sanità andando a ricreare degli scenari che si reputavano realmente possibili (non è che alla fine, magari, ci ha portato pure un po' di sfiga?). Contagion non è un film elettrizzante, sicuramente accurato, ben studiato ma piuttosto freddo e frammentato, se non fosse stato per l'esperienza con il Covid l'interesse suscitato dal film non sarebbe stato per chi scrive così alto, oggi come oggi una visione però la vale tutta, inoltre il regista ha l'intelligenza di non offrire soluzioni, tutto si ferma un passo prima che si arrivi a sapere del reale esito della pandemia, di certo ci sono l'opportunismo di chi sta in alto e la sofferenza di chi sta in basso. Soderbergh lavora in digitale, gioca un poco con la saturazione, un poco con il montaggio, ma nel complesso costruisce un film molto diligente e molto classico; nonostante il cast di primissimo livello proprio il vasto numero di attori e di linee narrative messe in campo impediscono un avvicinamento empatico ai protagonisti, anche a livello di recitazione nessuno dei grandi nomi posti sulla scacchiera emerge con una prova degna di nota. È un film discreto Contagion, parecchio buono se visto oggi, come detto in altre occasioni però, non si sa bene come, in questo caso anche fortuitamente, alla fine Soderbergh riesce sempre e comunque a offrire almeno un valido motivo per guardare i suoi film, questa volta il motivo è arrivato quasi dieci anni dopo, eppure siamo qui oggi a parlare del regista ancora una volta con un certo grado di interesse.

martedì 8 marzo 2022

APE

(di Joel Potrykus, 2012)

Con Ape di Joel Potrykus sembra di tornare ai tempi di Clerks di Kevin Smith, a quel cinema indipendente americano fatto con pochissimi soldi, pochi personaggi, periferie urbane e situazioni strampalate o borderline. Il cinema di Potrykus, pur non mancando di qualche momento divertente, non punta sulla commedia, non solo almeno, il regista si presenta come un cantore del disagio e della mancata integrazione di elementi che non possono, e non vogliono, inserirsi nella società come è oggi costituita. Se Dante e Randal, i protagonisti di Clerks - Commessi, ingabbiati da lavori noiosi e afflitti da una quotidianità ordinaria e insoddisfacente, erano ragazzi che potevamo comunque considerare dei simpatici cazzoni, il Trevor Newandyke di Ape prima lambisce e poi sfocia completamente in una situazione di disagio che presto tocca apici distruttivi, rimanendo sempre in una dimensione limitata, periferica, priva di veri stimoli e di prospettive concrete. È un ritorno a quell'indie, ancor meglio a quell'underground, che purtroppo non è facile vedere alle nostre latitudini, anche su Mubi, la piattaforma che mette a disposizione l'esordio nel lungo di Potrykus che valse al regista i premi a Locarno per miglior esordio e regista emergente, Ape è visibile solo senza doppiaggio con la possibilità di inserire i sottotitoli in inglese. 

Trevor Newandyke (Joshua Burge) è un ragazzo solitario privo di vita sociale, vive nella periferia di Grand Rapids nel Michigan e cerca di ottenere qualche sorta di ingaggio come stand-up comedian; tiene alcune serate davanti a un pubblico risicato che raramente ride alle sue battute; in effetti il numero di Trevor non è così divertente, il locale nel quale si esibisce non è proprio il gotha della comicità, i soldi ricavati dagli ingaggi sono talmente pochi da non essere sufficienti né per mettere insieme dei pasti decenti né tanto meno per pagare la tv via cavo. Inoltre Trevor ha la tendenza a prestare i pochi soldi che ha a disposizione senza riuscire a farseli restituire, ogni tanto si immischia in situazioni spiacevoli per delle giuste cause che gli procurano più che altro dei guai. Come consolazione Trevor sviluppa una piromania latente destinata a peggiorare, ama dar fuoco a pezzetti di carta per attenuare lo stress; forse a causa dello stesso stress e della mancanza di risultati e di approvazione, forse in seguito a quell'incontro con un uomo vestito da diavolo che gli regalerà una mela in cambio di una battuta divertente, Trevor perderà un pizzico del suo equilibrio, cosa che lo porterà a compiere anche qualche gesto inconsulto. Ma alla fine, dopo tante delusioni...

Lo stile di Potrykus unisce caratteristiche dell'underground urbano a tocchi surreali che sfociano anche in piccoli squarci di body horror; il contesto circostante sembra uscire spesso dai binari, ad esempio Trevor si imbatte a più riprese in uno strano personaggio che circola per le strade di Grand Rapids vestito da gorilla (l'Ape del titolo) compiendo atti insensati, sviluppa poi uno strano rapporto con una mela offertagli da un'altrettanto strano individuo vestito da diavolo che gestisce una bancarella (illegale di certo) che vende frutta ma sulla quale di frutta, eccetto quella mela, non v'è traccia. Anche il protagonista, uno stralunato Joshua Burge che con il regista lavorerà in simbiosi negli anni successivi, cade pian piano in una condizione tale da favorire gesti fuori contesto e incontrollati. Non si capisce bene se Potrykus voglia presentarci una vittima della crisi economica americana o un disadattato non attratto dalla società corrente, o più facilmente attratto dalla stessa ma incapace di inserirsi al suo interno, magari un misto delle due cose. Sono i primi passi di un regista che non si preoccupa di creare un personaggio piacevole, accattivante, non mancano momenti divertenti, dialoghi assurdi, ma il registro che prevale è quello della weirdness, un approccio sghembo con un protagonista che sfocia spesso nell'imbarazzante o in alternativa nella mancanza di controllo. Sarebbe interessante approfondire il discorso con le altre opere di Potrykus, il corto Coyote (precedente ad Ape) e Blizzard che con questo film formano un'ideale trilogia degli animali, e almeno gli altri due suoi lungometraggi, The alchemist cookbook e Relaxer, al momento nessuno disponibile in abbonamento su piattaforma.

domenica 6 marzo 2022

QUESTIONE DI CUORE

(di Francesca Archibugi, 2009)

Film datato 2009 diretto da Francesca Archibugi che non ha destato troppo le attenzioni del pubblico e della critica ma che qualcosa di più avrebbe meritato, è uno di quei prodotti presto dimenticati che contribuiscono però a creare una base solida e credibile per il cinema nostrano contemporaneo che spesso e volentieri non lesina nel produrre cantonate che poi ottengono successi decisamente più clamorosi rispetto a film ben pensati e confezionati come questo Questione di cuore. Con il titolo si gioca sul doppio senso, le questioni di cuore messe in scena dalla regista e sceneggiatrice sono sì quelle sentimentali dei due protagonisti maschili, la bella coppia Albanese e Rossi Stuart, ma anche quelle legate all'organo motore delle nostre esistenze, per entrambi malato, per convenzione sede dei legami affettivi ma anche, in maniera a volte crudele, del destino e della tenuta della nostra salute. Da queste premesse si sviluppa una storia che ha al suo centro l'amicizia tra due uomini che stanno affrontando la stessa esperienza traumatica, vissuta per ognuno di loro con le proprie inclinazioni e in relazione alle loro responsabilità, una situazione che cementificherà un'unione, la loro, all'apparenza impensabile.

Alberto (Antonio Albanese) è un uomo del nord trasferitosi a Roma per lavoro, è uno sceneggiatore che scrive per il cinema, ben inserito nell'ambiente e con una serie di amicizie illustri, ha una relazione ormai frusta con Carla (Francesca Inaudi); nonostante la sua buona posizione Alberto è un uomo infelice ma con una grande capacità di immaginare storie, di osservare, elaborare e infine creare dando risposte a quesiti con i quali scruta il mondo per trasformarli in finzione. Angelo (Kim Rossi Stuart) è un borgataro poco colto, genuino, innamorato della moglie Rossana (Micaela Ramazzotti) in attesa del terzo figlio che andrà a unirsi al piccolo Airton (Andrea Calligari) e all'adolescente ribelle Perla (Nelsi Xhemalaj). Angelo gestisce una carrozzeria specializzata in auto d'epoca che muove anche un bel giro di nero, vive in un quartiere popolare molto colorato e ha progetti tutti legati alla famiglia. Purtroppo a entrambi gli uomini il cuore cede e inizia a fare capricci, per Alberto saranno momenti di puro panico, Angelo si troverà invece a doversi confrontare con una storia familiare di problemi cardiaci (il padre ne morì poco più che quarantenne). L'incontro in ospedale sarà una svolta nella vita di entrambi, nonostante le molte differenze tra i due uomini nascerà una profonda amicizia che coinvolgerà anche conoscenti e familiari, portando Angelo e Alberto al confronto, al reciproco conforto e a rivedere le loro complete esistenze che purtroppo non per entrambi si prospettano così liete.

Nel suo cuore il film della Archibugi presenta una storia di amicizia e di cambiamento, un cambiamento forzato dalle circostanze che porta sofferenza ma anche qualcosa di buono. La regista trova un gruppo di interpreti in stato di grazia, oltre a quella dei due protagonisti emerge la prova di una Ramazzotti a suo agio nella parte della donna di borgata, innamorata, con tutte le difficoltà di una madre di figlia adolescente ribelle. Il tono da commedia, molto divertente in diversi passaggi, si alterna all'angoscia del pensiero che spesso torna a quell'organo fondamentale malato, per chi, come chi scrive tra l'altro, porta in eredità una familiarità con l'infarto, è un pensiero ingombrante che periodicamente può tornare a opprimere e a far paura. I due protagonisti cercano insieme un nuovo equilibrio, soprattutto Alberto sarà pronto a sacrificare ogni cosa per il futuro e per il bene della propria famiglia, per garantir loro un futuro che teme un giorno possa non vederlo più protagonista. Un ottimo film italiano, direzione degli attori precisa, ben scritto e tratto dal soggetto di Umberto Contarello, autore del libro quasi omonimo. Film da riscoprire.

sabato 5 marzo 2022

MALMKROG

(di Cristi Puiu, 2020) 

L'ultimo film di Cristi Puiu è un'opera intransigente che non lascia aperture allo spettatore il quale viene trascinato in una maratona di pensiero filosofico, di parole e dialoghi, di scambio d'idee e di vedute, di posizioni e convinzioni (religiose, politiche, culturali) che non hanno sfogo alcuno se non per qualche brevissima divagazione. È un film molto coraggioso Malmkrog, un'opera per un pubblico ristrettissimo, Puiu lo sa, rivolto a volontà ferree disposte a imbarcarsi in un viaggio di quasi tre ore e mezzo fatto di discettazioni filosofiche che muovono i passi a partire da I tre dialoghi e il racconto dell'anticristo scritto sul finire dell'Ottocento dal russo Vladimir Sergeevic Solovev. Quanto detto sopra non è un'esagerazione, la narrazione è divisa in capitoli i cui brevi stacchi sono tra le pochissime pause concesse al turbinio dei ragionamenti, dei discorsi, delle prese di posizione che alludono ai temi più disparati e che vedono protagonisti alcuni esponenti dell'aristocrazia russa di fine secolo, uomini e donne dei quali non conosciamo i legami che li accomunano, riuniti nella tenuta di campagna del proprietario terriero Nikolai (i personaggi non hanno cognomi) immersa in uno scenario invernale innevato. La narrazione in Malmkrog non poggia su un ritmo cadenzato da eventi, questi sono pochissimi e servono più che altro da cambio di scena, l'impostazione è d'ispirazione teatrale, almeno uno di questi brevi interludi offre uno scossone da leggere in chiave metaforica, altro spunto per ragionamenti e riflessioni ai quali il regista sembra proprio volerci portare, come a chiedere una nuova assunzione di responsabilità verso alcuni temi, verso una lettura del mondo e del contemporaneo più pensata e razionale, scevra da influenze esterne oggi più che mai incontrollabili e poco verificabili, in quest'ottica, proprio in questi giorni, il film assume anche un valore di monito, una spinta alla valutazione ponderata e profonda al fine di capire un mondo all'apparenza sempre più incomprensibile, difficile da leggere, un ritorno alla razionalità; così come risulta difficile per i protagonisti del film trovare punti d'incontro tra opposte visioni (limitate nel numero), a maggior ragione lo è oggi per noi, in una realtà (spesso finzionale) dove le posizioni si moltiplicano a dismisura e spesso molte di queste non contengono fondo di verità alcuno o si dimostrano traviate e travisate.

Oltre a Nikolai (Frédéric Schulz-Richard), all'apparenza il più colto tra i presenti, della compagnia fanno parte la giovane Olga (Marina Palii), una donna ciecamente devota all'insegnamento di Dio e del Cristo e che sarà la principale interlocutrice/oppositrice del padrone di casa, tra i loro confronti quello sull'opportunità o meno di perpetrare il male nell'atto di difendere un innocente, sull'essere o meno interventisti in situazioni spinose (grandissima attualità). C'è poi Ingrida (Diana Sakalauskaité) che mal tollera le nuove ondate pacifiste sostenendo invece la grande nobiltà degli eserciti e delle figure militari in carriera, anche quando queste si trovino a compiere azioni violente e deprecabili; Madelene (Agathe Bosch) è una figura che funge più da moderatore/provocatore a seconda dei casi, infine abbiamo Edouard (Ugo Broussot) che sostiene con passione come la cultura sia l'unica vera salvezza e vede il popolo russo teso naturalmente verso l'Europa, un'unione inevitabile a suo parere proprio a causa di nobiltà, apertura e cultura del popolo russo. Nel confronto continuo gli spunti si affastellano l'uno sull'altro e la giornata passa finché viene sera.

Cristi Puiu, premiato alla Berlinale per la regia di Malmkrog, adotta tecniche diverse per i vari segmenti pur mantenendo uno stile mai invadente, la sua regia non è mai ingombrante nonostante in alcuni passaggi si faccia notare a un'occhio attento, il primo segmento ad esempio è girato con un'unico pianosequenza molto discreto, si apprezzano alcune trovate adottate per donare un po' di movimento al film, alcuni personaggi che parlano fuori campo, eventi sullo sfondo come piccole possibili intrusioni, ma in tutto ciò lo spettatore non è mai distolto dal flusso dei dialoghi, non lo può essere, soprattutto se si sta guardando il film con l'uso dei sottotitoli, la concentrazione richiesta è pressoché totale, sempre, per tutta la durata di questo Malmkrog. La lingua scelta per gli scambi colti d'opinioni è il francese, la lingua della cultura, i pochi scambi di battute con la servitù sono in tedesco, accortezza atta a differenziare il valore delle discussioni. C'è chi ha accostato quest'opera allo slow cinema, al lavoro di registi come Tsai Ming Liang, del suo Stray dogs abbiamo parlato qualche tempo fa, ma se nel film del regista taiwanese si chiedeva uno sforzo allo spettatore legato allo sguardo, alla contemplazione di immagini spesso silenziose caratterizzate da piccoli e impercettibili scarti, qui l'attenzione è catalizzata dalla parola. Nonostante non manchino i detrattori di questo film, a mio avviso la visione di Malmkrog risulta comunque meno pesante rispetto a quella di Stray Dogs ad esempio, mantenendo fermo il punto che stiamo parlando di un film non proprio agile, bisogna sottolineare come sia facile entrare nel gioco proposto da Puiu e rimanerne avvinti, nonostante qualche passaggio risulti scolastico, in maniera quasi incredibile la noia sembra non far mai capolino durante l'intera visione. Dal punto di vista storico siamo di fronte a un'aristocrazia in declino, probabilmente inconsapevole del suo prossimo tramonto, che dibatte da una posizione ancora privilegiata destinate a cambiare, la rivoluzione è alle porte. Cos'altro dire? Tanto di cappello al regista rumeno, non saprei proprio dire in quanti si sarebbero presi il rischio di creare un'opera di questa portata con la concreta possibilità di vederla apprezzare giusto dai propri parenti e da una fetta oltremodo risicata di pubblico.

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