venerdì 31 marzo 2023

THE AFRICAN DESPERATE

(di Martine Syms, 2022)

Uno dei punti di forza della piattaforma Mubi è quello di offrire ai suoi abbonati la possibilità di poter vedere alcuni film che nelle nostre sale non arriveranno mai e che probabilmente in un prossimo futuro saranno quasi impossibili da reperire altrove e, per alcuni di essi, anche nel catalogo della stessa Mubi, la quale, come quasi tutte le piattaforme, non gode di diritti di concessione sulle opere a tempo indeterminato; è facile ipotizzare quindi che film come questo The african desperate senza la distribuzione Mubi sarebbero destinati a finire nell'oblio, a meno che, nella fattispecie, la regista losangelina Martine Syms riuscisse ad arrivare al grande successo permettendo in futuro anche alle sue prime opere di venire di conseguenza recuperate e rivalutate a posteriori. Presto comunque per fare ipotesi, nonostante la Syms sia un'artista visuale con diverse esposizioni importanti alle spalle, nel ruolo di regista è invece agli esordi, un esordio che porta anche esperienze autobiografiche in forza a un film che è ambientato proprio nel mondo dei moderni artisti concettuali americani. Oltre all'ambientazione accademica The african desperate affronta in maniera lieve e ironica un diffuso razzismo in sottotraccia che ammorba, a volte anche ingenuamente, l'ambiente dell'arte moderna ma in generale il mondo dei bianchi, anche quelli che si pensano in buona fede a favore delle parità, progressisti e illuminati. Il titolo del film deriva da una conversazione telefonica tra la Syms e la stessa protagonista, l'attrice e anch'essa artista Diamond Stingily la quale, volendo parlare della diaspora africana (african diaspora), erroneamente pronunciò le parole "african desperate".

Per Palace (Diamond Stingily) è giunto il momento di laurearsi presso la scuola di Belle Arti; Palace è una ragazza di colore che si trova di fronte a una commissione composta da soli bianchi; alcuni membri mostrano apprezzamento per il lavoro svolto da Palace, altri sono più scettici, qualcuno con un'inconsapevole nota di razzismo vorrebbe vedere rappresentate dall'opera della neo laureata in maggior misura le sue radici africane, la discussione si protrae tra citazioni colte e una forzata voglia di mostrarsi vicini e consapevoli al lavoro di autori neri le cui opere sono a volte mal interpretate nelle intenzioni dagli stessi membri della commissione; a ogni modo con questo surreale "esame" giudicante l'intero percorso di Palace alla scuola d'arte si chiude in maniera positiva: laurea conseguita, è tempo per Palace di voltare pagina, tornare a Chicago dalla madre malata, ricominciare ed entrare per davvero nel mondo adulto. Ma prima di fare questo c'è la festa di laurea, una festa alla quale Palace non vuole presenziare e per la quale continua a dire dei  bei "no" a tutti gli amici che la invitano e che continuano a dirle che a questa festa lei non può proprio mancare. Così tra l'amica Hannah (Erin Leland) e il belloccio Ezra (Aaron Bobrow) di fronte al quale il carattere schietto e un po' scontroso di Palace sembra rabbonirsi, con l'aiuto di droghe di vario tipo fornite dalla rossa Portia (Ruby McCollister) e soprattutto dalla stralunata Aidan (Cammisa Buerhaus) la festa si farà, ma sarà poi quel gran successone che in genere ci si aspetta da un evento del genere?

L'esordio di Martine Syms è un film non ancora perfettamente a fuoco, più interessante in prospettiva per la speranza di veder crescere una nuova voce femminile (i numeri ci sono) che non per la reale riuscita di questo The african desperate che, satira sul mondo dell'arte a parte, si erige su canovacci già esplorati senza lasciare troppo il segno, di avventure lunghe un giorno (e una notte) ne abbiamo viste molte, di chiusure di cicli con aperture verso futuri incerti anche, di droghe e sesso pure; qualcosa in effetti c'è,  l'aspetto più interessante del film è forse proprio il lavoro fatto con la regia e con il montaggio, ne esce una costruzione parecchio vivace e non banale. A laurea conseguita si apre un abisso, quanti di questi personaggi usciranno dal loro percorso preparati alla vita? Quanto installazioni fatte da video multipli di masturbazione maschile potranno trovare fortuna nel mondo là fuori? Cosa se ne faranno questi personaggi dei loro meme, delle citazioni pseudo colte, dell'utilizzo delle comunicazioni da remoto e di tutto il resto, alcune delle loro opere comprese? Magari niente, magari ci faranno un film. Magari ci faranno un film fuori fuoco che però vedi mai, magari un domani me lo distribuisce Mubi.

giovedì 30 marzo 2023

UN EROE DEL NOSTRO TEMPO

(di Vasco Pratolini, 1949)

Vasco Pratolini è stato un grande scrittore, uno che con una naturalezza incredibile è riuscito a essere allo stesso tempo popolare, proletario e autore di un'eleganza e una felicità di scrittura impareggiabili, capace di infilare nei suoi romanzi contesto storico, elementi autobiografici, spaccato sociale, storie personali capaci di avvincere davvero chiunque e vita quotidiana in un miscuglio dagli esiti tanto godibili quanto importanti, per la prosa, per la memoria, per le idee e le riflessioni, per gli uomini e le donne raccontati. Diversi i suoi titoli molto conosciuti, parecchi trasposti anche al cinema su sceneggiature dello stesso Pratolini che, a parte i film tratti dai suoi romanzi, ha apposto la firma anche su veri capolavori della storia del nostro cinema, uno su tutti il meraviglioso Rocco e i suoi fratelli, altra narrazione popolare che affronta la questione meridionale ai tempi della migrazione di massa verso il nord, ma anche Paisà di Rossellini, La viaccia di Bolognini e poi i suoi Cronaca di poveri amanti, Le ragazze di San Frediano, Cronaca familiare, Metello e anche questo Un eroe del nostro tempo. I primi scritti di Pratolini sono radicati nelle strade, nei quartieri di Firenze, luoghi che Pratolini riesce a rendere vivi e farci amare anche a distanza, per dirne una anche io sono andato a visitare a Firenze il quartiere di San Frediano proprio in omaggio a questi romanzi, ci sono la Storia e le storie che si intersecano a meraviglia in quei primi libri, questo Un eroe del nostro tempo si discosta un poco da quell'approccio per focalizzarsi sull'animo di un protagonista affatto positivo, anzi, scavandone (la mancanza di) sentimenti e nefande azioni pur non mancando un contesto cittadino presente e vivo.

Siamo nel secondo dopoguerra, la contrapposizione tra fascisti e partigiani è ancora fortissima, in una casa condivisa da più famiglie si incrociano le vite degli occupanti di tre camere diverse: in una abitano Lucia, vedova di un fascista, con il suo figliolo Sandrino, un giovane che si avvia all'età adulta e vive con il mito del padre defunto nel cuore; in una seconda camera ci sono due giovani comunisti, Faliero e Bruna, che hanno militato attivamente nella resistenza a fascismo e nazismo, a occupare l'ultima camera arriva Virginia, una donna molto piacente che ha perso il marito, anch'esso fascista, e che viene subito soprannominata "la Repubblichina", straziata dal recente lutto e da una riservatezza da principio quasi patologica. Mentre gli altri occupanti della casa tentano invano di coinvolgere la giovane vedova nella vita comune della casa, Virginia, ancora in lutto, trova compagnia solo nella voce e nelle azioni di Sandrino che occupa la stanza accanto alla sua, è una compagnia silente e attiva solo nella testa di Virginia che troverà concretezza solo più avanti quando la donna avrà modo di conoscere, in maniera anche traumatica, il giovane ragazzo, forte e bello ma con una punta di crudeltà profittatoria che finirà per trascinare Virginia in un abisso di degrado che può identificarsi solo con la concezione del male. Mentre mamma Lucia è inconsapevole della vera natura del suo ragazzo, a tentare di far ravvedere Sandrino ci sono la coppia forte formata da Faliero e Bruna, anche questa tormentata da qualche segreto in cui, ancora una volta, avrà la sua parte proprio il lato più spregevole di Sandrino.

Un eroe del nostro tempo è il racconto di formazione (deviata) di un giovane la cui morale è traviata dai tempi bui che si è trovato a vivere e dall'idealizzazione di un padre ormai assente che lo porta, di riflesso, ad abbracciare la fede paterna per il fascismo con inconsapevole vigore, in odio a chi quel padre l'ha contrastato e glielo ha tolto, incurante di ciò che per la scena politica e umana la fazione di sua scelta ha comportato e significato e in maniera evidente continua ancora a significare. Di primo acchito il personaggio di Sandrino è repellente, anche di secondo in verità, perché oltre alla propensione ideologica che ogni lettore può avere, il ragazzo sviluppa punte di crudeltà e opportunismo indigeribili, approfittando di una donna, Virginia, dal carattere debole e sempre più succube di un uomo ragazzo che non può portarle altro che dolore o una felicità malata e distorta che affonda più nel bisogno morboso che non nella sincerità e men che meno nell'amore. Non è più tanto il contesto comune che Pratolini qui descrive, elemento pur sempre presente, quanto un viaggio in un animo nero (in tutti i sensi) che presenta però anche ambiguità da decifrare; perché Sandrino è un deprecabile, ma l'amore per la sua mamma è sincero, alcuni moti di pentimento e ravvedimento sembrano poter trovare un esito felice, l'intercessione di Bruna e Faliero verso aperture a vita nuova paiono poter attecchire, l'affetto per la giovane Elena sul finale sembra poter mutare e maturare Sandrino. Ma tutto è effimero e la natura vince, il brutto mangia il bello e le speranze in questo romanzo duro, denso, che si inscrive nel novero delle opere profondamente riuscite di uno scrittore di estrema intelligenza, uno dei nostri grandi del Novecento.

lunedì 27 marzo 2023

PICNIC AD HANGING ROCK

(Picnic at Hanging Rock di Peter Weir, 1975)

Questa volta abbiamo voluto provare il canale Youtube gratuito denominato Moviedome IT, un canale che offre una selezione di film (per ora ancora non nutritissima) visionabili gratuitamente pagando lo scotto di qualche breve interruzione pubblicitaria lungo la visione. Al momento Moviedome vanta poco più di una cinquantina di titoli disponibili; dopo una veloce scorsa al catalogo sembra emergere una predominanza di film action non proprio di primo livello, la proposta del canale non è una delle più entusiasmanti sulla piazza, a ogni modo non manca qua e là qualche titolo che possa offrire interessanti possibilità di recupero, vedi ad esempio questo Picninc ad Hanging Rock, una delle prime prove da regista dell'australiano Peter Weir (L'attimo fuggente, The Truman show) o cose come Adam Resurrected di Paul Schrader o il classico della nostra commedia Il vizietto con Ugo Tognazzi. Tenuto conto del catalogo striminzito e di non altissima qualità e l'invadenza delle interruzioni pubblicitarie, non si comincia certo il rapporto proprio con il piede giusto; durante la visione di Picnic ad Hanging Rock ho notato interruzioni in media ogni sette minuti nella prima parte del film (brevi bisogna dire, si possono "skippare" abbastanza in fretta), più diluite man mano che avanzava la visione, nel complesso sopportabili quantunque parecchio fastidiose, un'alternativa per chi non avesse a disposizione nessuna piattaforma a pagamento (nel caso consiglio piuttosto Raiplay) per recuperare giusto qualcosina, i film tra l'altro sono reperibili altrove per chi invece quelle alternative le può sfruttare, Picnic ad Hanging Rock è disponibile su Prime Video per esempio, Adam Resurrected pure, e via di questo passo. Ma veniamo al film di Peter Weir.

Australia, 1900, giorno di San Valentino. Le studentesse del collegio femminile Appleyard si preparano per una gita che prevede un picnic organizzato ai piedi dell'Hanging Rock, una formazione rocciosa non troppo alta nello stato della Victoria Centrale. Con le raccomandazioni della direttrice, la signora Appleyard (Rachel Roberts), saranno l'insegnante di matematica Miss McCraw (Vivean Gray) e quella di francese Mademoiselle de Poitiers (Helen Morse) ad accompagnare le ragazze nella loro uscita. Una volta giunte sul posto quattro delle giovani fanciulle riceveranno il permesso di inoltrarsi un poco all'interno della formazione rocciosa per effettuare alcune misurazioni. Il gruppetto è formato dalla bionda Miranda (Ann Lambert), bella come un personaggio di un quadro di Botticelli, Marion (Jane Vallis) e Irma (Karen Robson) e infine Edith (Christine Schuler), meno incline alla fatica in quanto un po' sovrappeso e notoriamente più lamentosa. Durante l'ascesa Edith inizia a stancarsi e a voler tornare indietro, sarà però la sola del gruppo a farlo in quanto delle altre tre ragazze si perderanno completamente le tracce. Inoltre, una volta sopraggiunta Edith dal resto del gruppo, le ragazze si rendono conto che anche la professoressa McCraw è sparita, probabilmente nell'intento di andare a recuperare le tre studentesse. Tra l'angoscia delle compagne e la paura della direttrice per il futuro del suo Istituto, le ricerche della polizia sembrano essere completamente infruttuose.

Il vero punto d'interesse in questo Picnic ad Hanging Rock è lo sguardo di Peter Weir sul mistero della natura; è quella sensazione di incontrollabile, alieno e misterioso che si respira quando le ragazze si addentrano nelle viscere di questo Hanging Rock (un'altura che per noi che viviamo sotto le Alpi apparirebbe come una collinetta rocciosa o poco più) a catturare l'attenzione e instillare un filo lievissimo di inquietudine. Dico lievissimo perché in realtà Weir non calca mai la mano né con la suspense né sul mistero, lo sviluppo è molto naturale, piano, e ciò che si apprezza davvero più che la storia sono la regia, con le inquadrature dal basso su una natura che appare più intrigante e maestosa di quel che probabilmente è in realtà, e la fotografia di Russell Boyd premiata ai BAFTA e in altre manifestazioni. Poi come ben sappiamo dentro un film ci si possono leggere tante cose diverse, per Picnic ad Hanging Rock si è parlato spesso di contrapposizione tra cultura (il severo collegio di stampo anglosassone o vittoriano) e natura, con l'evidente prevalenza di un'insondabile seconda, ma sono queste letture che a parere di chi scrive bisogna un po' voler trovare, nel complesso, tolta la visione sul mistero (inventato) dei luoghi non rimane poi tanto altro se non per il versante formale della pellicola. Ne ricordo ancora una prima visione collettiva durante un brevissimo corso di cinema alle scuole superiori (oltre a questo anche Ragtime di Milos Forman e West Side Story di Robert Wise) con tedio diffuso da parte di tutta la classe, rivisto ora l'impressione è stata di certo migliore ma credo che anche riproposto oggi, in un'ipotetica visione collettiva, nessuno si strapperebbe proprio i capelli per questo film di Peter Weir, continuiamo a tenerci cari L'attimo fuggente e The Truman Show.

sabato 25 marzo 2023

SOSPETTO

(Assumption di Percival Everett, 2011)

Dev'essere davvero un bel tipo Percival Everett, un talento letterario vero costruito su tanto studio, cultura e una vita colma di esperienze e passioni. Classe '56, nato nella base militare di Fort Gordon, Everett è laureato in filosofia e in biochimica e ha conseguito un Master of Fine Arts presso la prestigiosa Brown University di Providence. Appassionato di jazz, chitarrista, amante della vita all'aperto e degli animali, proprietario di un ranch e del mulo Thelonius Monk (sempre che sia ancora in vita, il mulo intendo) e grande esperto di pesca alla mosca, Percival Everett è un carattere eclettico capace di spiazzare il lettore, anche quello che non ne conosce ancora l'opera in maniera profonda. Prendiamo a esempio uno dei primi suoi libri pubblicati in Italia, Glifo, romanzo del 1999 uscito da noi per Nutrimenti nel 2007. In Glifo Everett racconta la storia di un bambino prodigio che nasce con un Q.I. altissimo e in pochi mesi di vita è già in grado di leggere e di sviluppare un pensiero critico finissimo, al suo confronto i genitori sembrano due perfetti idioti, ciò nonostante Ralph, questo il suo nome, non si reputa così intelligente perché non è ancora in grado di fare cose semplicissime come guidare o controllare la sua cacca. Bene, storia e romanzo molto divertenti ma Glifo è uno scritto complicatissimo, sfidante, zeppo di riflessioni sulla costruzione della lingua, di dissertazioni filosofiche, struttura ricca con appunti, note a margine, digressioni, un romanzo che richiede molto impegno e una buona preparazione nonostante la storia di fondo sia molto sfiziosa. Poi capita di riprendere in mano Everett dopo anni e trovi un Sospetto che è tutt'altra cosa, all'apparenza semplicissima (la lettura è più che agevole) ma spiazzante e profonda nella costruzione della storia travestita da semplice noir (che poi il vero noir non è mai troppo semplice, ma questo è un altro discorso).

Ogden Walker è un vicesceriffo in una contea poco popolata del New Mexico, vasti altopiani desertici ma anche poca distanza dalle montagne, quindi neve. Il romanzo si apre con una breve scena nei pressi di Las Cruces, a poca distanza da El Paso e Ciudad Juarez, alcuni dei luoghi più pericolosi al mondo. Ogden però è vicesceriffo di una località sperduta del New Mexico, un posto dove non succede mai nulla, pochi stranieri, vita monotona. Lo stesso Ogden fa difficolta a considerarsi un vero tutore dell'ordine: lavoro d'ufficio, giri di pattuglia di pura routine, il pensiero spesso alla natura e alla pesca, già passione del suo defunto papà. A movimentare la tranquillità del luogo ci pensa l'anziana signora Bickers, una donna che vive in una casetta indipendente con cortile, portico, recinzione e tutto il resto; una sera la donna sente qualcuno sul suo portico colpire pesantemente la porta, siamo nella patria delle armi, la Bickers spaventata esplode due colpi mettendo in fuga il potenziale (e sconosciuto) assalitore. In realtà la donna, interrogata da Ogden recatosi sul posto per requisire l'arma all'improvvisata pistolera, non ha idea di chi ci fosse stato su quel portico, avrebbe potuto essere un vicino, lo stesso vicesceriffo, il postino o chiunque altro, ma la donna si è presa la briga di sparare mettendo in pericolo la vita di chiunque fosse la persona alla porta, da qui la confisca dell'arma. La donna non prende bene la notizia della confisca, come se avesse paura di rimanere senza protezione ma Ogden non riesce a tirar fuori informazioni utili dalla Bickers, forse la donna è diffidente perché Ogden è uno dei pochissimi neri della zona, magari è anche un po' razzista, così il vice si allontana per tornare in ufficio. Poco tempo dopo la Bikers viene trovata morta in casa sua, Ogden si troverà a dover fare per davvero il suo lavoro, non senza un po' di senso di colpa per non aver saputo leggere il pericolo, e a indagare su un caso che in breve tempo coinvolgerà anche altre persone e persino il celebre Federal Bureau of Investigation.

All'apparenza semplice Sospetto ha in serbo per il lettore alcune sorprese. Qui la prosa di Everett è molto coinvolgente, immediata, si districa nei risvolti della trama con la maestria che il genere richiede, la struttura però è abbastanza originale perché quello che all'apparenza sembra un romanzo diviso in tre parti si rivela in realtà essere una raccolta di tre racconti con una continuità data dal protagonista, dalla sua vita e dai suoi legami: la mamma di Ogden, lo sceriffo Bucky Paz, il collega nativo americano Warren Fragua. Se nel passaggio dal primo al secondo racconto si può rimanere di primo acchito spiazzati, è nell'incedere della terza parte (o terzo racconto) che Everett è capace di far salire una progressiva inquietudine nel lettore per arrivare poi a dichiarare in modo palese un percorso sul male che attanaglia l'America (come altri paesi), un male che passa dall'omicidio al traffico di droga, dalla prostituzione all'inganno e geograficamente dal New Mexico all'attiguo Texas in una cronaca di violenza che arriva in questo caso a contaminare anche la provincia più sonnolenta. Se con libri come Glifo è possibile ammirare il lato più ostico e "alto" di Everett, con Sospetto ci si trova davanti a un narratore schietto, appassionante ma non meno intelligente, in entrambi i casi sempre appagante.

mercoledì 22 marzo 2023

L'AMORE SECONDO ISABELLE

(Un beau soleil intérieur di Claire Denis, 2015)

L'amore secondo Isabelle è un film che si regge almeno all'ottanta per cento sulla recitazione di una Binoche meravigliosa che è protagonista ma anche vero (e solo?) punto di grande interesse di questo film; il suo "bel sole interiore" (come da titolo originale) messo in scena dalla regista parigina Claire Denis è ciò che porta Isabelle a cimentarsi in diverse relazioni sentimentali con uomini di vario tipo per andare a colmare un vuoto, un bisogno acuito da un'età non più troppo tenera e che induce la donna a pensare a un futuro di solitudine senza amore, senza riferimenti, nonostante Isabelle sia ancora una donna bellissima, piacente e molto affascinante. L'idea iniziale era quella di una serie di cortometraggi collettivi che avrebbero dovuto tradurre in immagini i Frammenti di un dialogo amoroso di Roland Barthes, poi il segmento curato dalla Denis ha preso tutt'altra piega diventando una riflessione sui sentimenti e sulle relazioni di una donna matura il cui materiale di partenza è stato fornito proprio da esperienze passate della stessa Binoche e della scrittrice Christine Angot con la quale la Binoche aveva collaborato in passato. Rimaneggiata la materia e sceneggiata dalla stessa Claire Denis ne viene fuori un film molto parlato, senza una vera e propria struttura, che esplora le insicurezze, i desideri, le titubanze, le paure e gli slanci di vita di una cinquantenne divorziata, madre di una figlia che qui si vede pochissimo, alla ricerca di un nuovo amore, di un nuovo moto del cuore che possa ridare emozioni ma soprattutto fiducia a un futuro nel quale Isabelle non vuole vedersi come "roba passata".

Isabelle (Juliette Binoche) è separata, è una donna molto bella di cinquant'anni ben inserita nel mondo dell'arte parigina, affascinante, appassionata ma alquanto insicura per quel che riguarda le questioni di cuore. Isabelle ha l'impressione che i sentimenti forti della vita siano ormai alle spalle, per riprendersi quella vitalità ormai lontana si aggrappa a relazioni poco solide, frequenta infatti un banchiere sposato e un po' viscido con il quale si lascia coinvolgere in noiosi amplessi e in situazioni un po' umilianti come il momento in cui Vincent (Xavier Beauvois) le conferma che non lascerà mai sua moglie per lei. C'è poi un giovane attore di teatro (Nicolas Duvauchelle), un uomo invaghito di quei momenti di una relazione che precedono la prima volta per poi sgonfiarsi nell'entusiasmo una volta conquistata biblicamente la compagna, un uomo con il quale Isabelle inscenerà un tira e molla verbale a tratti imbarazzante. Non manca il ritorno di fiamma con l'ex marito François (Laurent Gréville) che non filerà proprio per il verso giusto ma nemmeno l'interessamento di un amico storico come Fabrice (Bruno Podalydès) confinato da Isabelle nella più classica delle "friend zone". Tra alti e bassi, confronti con le amiche e le colleghe, nuovi incontri e vari ripensamenti, Isabelle finirà per chiedere aiuto a un consulente sentimentale (o sensitivo, Gérard Depardieu) dispensatore di consigli da "biscotto della felicità".

Claire Denis tratteggia con il suo film una donna in un momento di crisi che non vuole rimanere ai margini della vita, non vuole essere messa alle corde dall'età e non vuole rassegnarsi alla mancanza di un legame profondo. Se la struttura è libera, semplice e a volte può dar l'impressione d'essere finanche ripetitiva, ogni piccola mancanza è qui sopperita da un'interpretazione di grandissimo talento di Juliette Binoche che costruisce una donna fragile in modo originale, che a volte fatica a terminare le frasi, a prendere decisioni, la porta in scena con un lavoro sulla parola fantastico (la visione in lingua originale sarebbe d'obbligo), in alcuni momenti la Binoche riesce a portare ilarità e disperazione nella stessa espressione, cambiando le sfumature nel giro di un millesimo di secondo, passando dal sorriso al pianto con una naturalezza da interprete d'eccellenza (e lo è senza dubbio). Da questo lavoro di rielaborazione viene fuori un film piacevole, non troppo profondo ma nemmeno troppo scontato, se non si grida al miracolo per il lavoro della Denis rimane almeno una delle migliori Binoche che si possano trovare sulla piazza.

martedì 21 marzo 2023

TAXI TEHERAN

(di Jafar Panahi, 2015)

Ancora oggi in alcuni paesi, come nell'Iran di Jafar Panahi, un semplice atto culturale come quello di girare un film può essere visto come un'azione criminale nei confronti del regime reggente e venire quindi punita con diversi anni di reclusione. Il regista iraniano nato nella provincia dell'Azerbaijan Orientale nel 1960 è stato costretto a soggiornare a più riprese nelle patrie galere proprio a causa dei suoi film che a detta del regime mettono in cattiva luce il sistema (oscurantista) che governa l'Iran. Dopo brevi periodi di detenzione Jafar Panahi viene arrestato formalmente nel 2010 con l'accusa di propaganda contro il governo; il regista sconta più di due mesi di reclusione prima di poter uscire su cauzione, qualche mese più tardi la sua condanna viene confermata con una pena a sei anni di carcere e un divieto di girare o scrivere film per un periodo di vent'anni, lo stesso divieto proibisce al regista di allontanarsi dal Paese per lo stesso arco di tempo. Dopo circa un anno di reclusione viene confermata la pena in appello ma vengono concessi a Panahi gli arresti domiciliari e un certo grado di libertà di movimento pur rimanendo valido il divieto di lasciare il Paese e di dedicarsi alla sua professione. È in questi anni che Panahi si dedica al cinema in maniera clandestina, prima facendo arrivare al Festival di Cannes, nascosto in una torta, il suo This is not a film su hard disk, poi partecipando al concorso con Closed curtain, film codiretto con il regista Kambuzia Partovi, per arrivare poi a girare in maniera furtiva questo Taxi Teheran nel 2015. Per far questo Panahi usa delle piccole camere montate sul cruscotto del suo taxi improvvisato, si affida a riprese interne all'abitacolo dell'auto o realizzate dall'interno dello stesso a guardare il mondo esterno; tramite alcuni incontri, dialoghi, discussioni, Panahi tratteggia un ritratto del suo Paese lieve e frizzante ma molto, molto severo, prendendosi ancora una volta grossi rischi nel seguire la sua passione e il suo senso di verità e giustizia.

Per Taxi Teheran Jafar Panahi, nei panni di sé stesso, si improvvisa tassista e gira per la sua città accompagnando, spesso non retribuito, clientela d'ogni tipo riprendendone idee e opinioni sulla società, carpendone le astuzie messe in atto per sopravvivere, anche culturalmente, in un Paese oltremodo difficile o semplicemente fungendo da testimone a situazioni di emergenza, a strane superstizioni o a profondi drammi etici e personali. Oltre al ruolo di tassista, osservatore e regista Panahi viene qui chiamato anche a svolgere quello di zio, accompagnando a casa una sua nipotina (Hana Saeid) dalla lingua lunga e svelta. Assistiamo così a un battibecco tra un uomo che sostiene la pena di morte per i ladri (si scoprirà esso stesso essere un borseggiatore) e una donna più ragionevole che cerca di andare a fondo delle questioni e capire le motivazioni dei gesti, sul taxi guidato da Panahi salirà poi un videonoleggiatore (illegale) che spaccia dvd proibiti di film esteri e che riconosce da subito il regista iraniano proponendogli di entrare in società con lui. Seguono un ferito da portare in ospedale con la moglie piangente al seguito, due donne superstiziose convinte che il buon prosieguo delle loro vite possa dipendere dal benessere di due pesciolini rossi da portare in un certo luogo entro una data ora, poi ancora un amico d'infanzia alle prese con dilemmi etici molto, molto profondi e la simpaticissima nipotina Hana. Un ruolo di rilievo lo ricopre la signora delle rose, una donna, un avvocato, che si batte contro le ingiustizie di un Paese dove l'ingiustizia è lo status quo.

Dopo due film nei quali Panahi ha raccontato le sue angosce e le ferite dell'animo derivanti da una reclusione ingiusta e assurda, ritrovato quel minimo di mobilità e libertà, il regista iraniano realizza con questo Taxi Teheran un film capace di far riflettere lo spettatore su tutte le storture di un Paese ormai fuori controllo senza per questo appesantire la narrazione o ammantare la sua nuova esperienza di toni cupi e deprimenti. Si riflette molto su ciò che nell'Iran odierno viene punito in maniera sproporzionata e su ciò che viene punito e che in un qualsiasi paese civile non lo sarebbe, è rinfrancante constatare come nell'animo di cittadini coscienziosi si chiuda un occhio di fronte a reati subiti sapendo quali pene in caso di denuncia cadrebbero sui colpevoli (colpevoli magari per mero bisogno); il timore dello Stato non ferma però la capacità degli iraniani di arrangiarsi, trovare soluzioni, sopravvivere e tentare di vivere in un Paese che alcuni decenni orsono era decisamente più aperto e vivibile di quanto lo è oggi sotto l'attuale governo. Taxi Teheran ha un piglio vivace, confidenziale, riesce ad apparire familiare nonostante racconti una realtà per tantissimi versi a noi lontana ed estranea, ne viene fuori il grande talento di Panahi non solo come regista ma anche come sceneggiatore e tuttofare (regia, sceneggiatura, soggetto, fotografia, produzione, montaggio e ruolo da protagonista, tutto realizzato in prima persona). Quando la necessità aguzza l'ingegno e affina il talento, opera da vedere senza ripensamenti.

sabato 18 marzo 2023

NIENTE DA NASCONDERE

(Caché di Michael Haneke, 2005)

Michael Haneke apre il suo Niente da nascondere con una delle sequenze meglio riuscite del cinema del nuovo millennio, lo fa senza dispendio di mezzi, tramite un piccolo inganno, una messa in discussione della veridicità dell'immagine, dell'occhio dello spettatore, instillando un dubbio che tornerà a ripetersi nel corso della narrazione donando al suo film fin dalle prime battute un'ambiguità che non si dissiperà fino alla fine e in realtà nemmeno allora. Camera fissa: dall'interno di una piccola strada, Rue des Iris, guardiamo la traversa prospicente e l'agglomerato urbano che la sovrasta. Di fronte una casa bassa, un cancelletto, delle automobili parcheggiate sul davanti; alle spalle alcuni condomini più alti. Su questo sfondo si compongono i credits del film, rumori di fondo, nessuna musica. Noi spettatori siamo lì, in Rue des Iris, insieme al regista guardiamo il civico 49 della strada di fronte; un uomo entra da destra nell'inquadratura, attraversa lo schermo, ne esce a sinistra. Dopo qualche istante Juliette Binoche esce di casa, si allontana nella stessa direzione verso la quale è andato l'uomo, da lì arriva un ciclista, si infila in Rue des Iris e ci passa accanto, si sentono delle voci, lui chiede "dov'era", in riferimento a qualcosa, lei risponde "in una busta di plastica davanti alla porta", la via si anima un po': un'auto, un paio di passanti. L'inquadratura si sposta, più vicina alla porta del 49, più laterale, dalla casa esce Daniel Auteuil, è evidentemente il padrone della voce maschile, subito dopo ne esce anche Juliette Binoche; ma non era già uscita qualche istante prima? Auteuil attraversa la strada, si ferma all'imbocco di Rue des Iris, guarda nella direzione in cui noi spettatori eravamo fino a pochi secondi prima, cerca perplesso qualcosa con lo sguardo, non trovandolo torna in casa insieme alla Binoche. L'inquadratura, e noi con essa, torna alla posizione originaria, la coppia scambia ancora qualche battuta fuori campo (loro ormai sono in casa). Qui cambia tutto, l'immagine si increspa, l'inquadratura è chiaramente una registrazione su videocassetta ora mandata avanti velocemente, noi spettatori non siamo mai stati in Rue des Iris, siamo sempre stati in casa anche noi, con loro, davanti al televisore a guardare la registrazione effettuata da qualcuno che da Rue des Iris ha spiato e ripreso la casa e i movimenti dei due protagonisti. Ma a che scopo?

Tutto il film di Haneke è una messa in discussione, non solo di ciò che vediamo ma anche di ciò che i protagonisti dicono, raccontano, ricordano. È una messa in discussione del loro passato, della loro onestà, dei loro rapporti. Georges (Daniel Auteuil) è un affermato conduttore televisivo, sua moglie Ann lavora nell'editoria; i due sono una coppia benestante, alta borghesia come Haneke ci fa capire dalla loro casa: benessere, pareti che straripano di cultura, familiarità, begli amici. La loro serenità è sconvolta da queste videocassette che mostrano chiaramente che qualcuno sta spiano la famiglia Laurent, Georges, Ann, ma anche loro figlio Pierrot (Lester Makedonsky). Poi arrivano i disegni, il volto di un bambino che all'apparenza sputa sangue. A questi disegni si accavallano flash enigmatici che mettono in dubbio la reale inconsapevolezza di George di fronte a questi nuovi eventi in seguito ai quali muta non solo il comportamento dell'uomo ma anche il suo rapporto con la verità, con il rimosso del suo passato, con la stessa Ann. Per Haneke il fulcro del film non sarà più (non è stato mai) lo scandagliare il mistero, la ricerca di un colpevole, di un motivo, quanto il rapporto che il suo protagonista instaurerà con gli eventi, con la nuova situazione che lo porterà a tornare alla madre, al suo passato di bambino nel quale c'era un amico di giochi che potenzialmente avrebbe potuto diventare qualcosa di più.

Haneke, come già in altre suo opere, racconta le sue storie con grande lucidità e freddezza, qui ammanta tutto in un'ambiguità celante, una sensazione di dubbio e incertezza che permarrà per tutto il film e nello spettatore anche oltre, così come alcune cose si svolgono nel film fuori dal quadro, per chi guarda alcune supposizioni si svilupperanno oltre il prodotto, a visione ultimata e digerita. Nessuna risposta, solo ipotesi, niente da nascondere ma nemmeno nulla da rivelare, almeno non apertamente. In realtà tornano i temi di una classe agiata (come in Funny games) travolta dall'esterno all'improvviso da un atto violento (sempre Funny games) anche se qui non fisico. Si sgretolano le sicurezze, le imperturbabilità, affiora un senso di minaccia, di agitazione e l'incapacità di far fronte alle crisi che l'altro ci presenta in conto (succede tutti i giorni su scala più ampia di quella familiare) da parte di una società appagata, egoista e finanche crudele nei confronti dell'altro da sé. All'apparenza Niente da nascondere può sembrare più semplice e meno finito di altre opere di Haneke, riletto a freddo si rivela invece come un'opera ricca di contenuti e incredibilmente compiuta.

martedì 14 marzo 2023

DJANGO & DJANGO - SERGIO CORBUCCI UNCHAINED

(di Luca Rea, 2021)

Sergio Corbucci è stato uno di quei registi che hanno lavorato tanto e che nel corso delle loro carriere hanno attraversato i generi, curandosi più di portare avanti un discorso su un modo di fare cinema artigianale e onesto che non di seguire un vero e proprio percorso autoriale inteso nel senso più stretto, come oggi noi lo intendiamo. Magari Corbucci in alcuni periodi autore lo è anche stato, nel novero ristretto di un genere o nell'approccio alla sua arte, non di meno il regista romano non si è fatto scrupolo di abbandonare i generi che lo hanno portato alla grande notorietà, lo spaghetti western su tutti, per inseguire le necessità di un pubblico che è sempre stato il suo primo referente. Nel 2021 arriva questo omaggio sentito e sincero a opera di Luca Rea (e Steve Della Casa) che per raccontarci il Corbucci regista, con un focus sul suo periodo western, chiama in causa quello che è senza dubbio uno dei suoi fan più affezionati, il Quentin Tarantino di Django Unchained e C'era una volta a... Hollywood che già nei suoi film ha più volte esplicitato il suo amore per il regista nostro connazionale. A dar manforte a Tarantino ci sono il regista Ruggero Deodato che con Corbucci lavorò in gioventù, e il suo attore feticcio, Franco Nero, interprete del ruolo più iconico della sua carriera e probabilmente di tutto lo spaghetti western che non fu di Sergio Leone che fu un discorso a parte. Il ruolo è ovviamente quello di Django. A tenere viva l'attenzione dello spettatore, oltre a un argomento di grande interesse non solo per chi ama il nostro western, c'è proprio la capacità affabulatoria di Tarantino che ha un talento esagerato nel raccontare i suoi punti di vista e nel trasmettere quell'amore e quella passione genuina che nutre per il cinema, per il lavoro di Corbucci e per il western, che se pure può trovare qua e là qualche forzatura non può mancare di avvincere il pubblico che un po' pende dalle sue labbra.

Django & Django si apre con un racconto nel racconto, è quello dell'incontro tra Rick Dalton, personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio in C'era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino, con il regista Sergio Corbucci, un incontro che si svolge nel "dietro le quinte" del film di Tarantino e che ovviamente, essendo Dalton un personaggio fittizio, non è mai avvenuto, ma questo poco importa. Sia come sia Dalton, noto attore di western americani, convinto dal suo manager vola in Italia per rilanciare la sua carriera nello spaghetti; giunto nel bel paese Dalton incontra per una cena il grande Sergio. Convinto per errore di aver davanti Leone e non Corbucci l'attore americano, che di spaghetti western non capisce nulla, infila un paio di figure di merda non da poco, rischiando di mandare a monte l'intera operazione. Ma Corbucci è un uomo comprensivo e alla fine Dalton riuscirà a lavorare con quello che si rivelerà essere un grande maestro del genere. Questa sequenza (animata) apre il documentario di Rea e dimostra più che la grandezza di Corbucci l'amore che per lui ha Quentin Tarantino, segue una riproposizione di filmati d'epoca che ci inseriscono nel contesto, nel periodo storico, con numerosi poster dei western di quegli anni esposti davanti ai cinema, la Roma del periodo, le Fiat 600 per strada, Renzo Arbore alla radio. Quentin inizia il suo show fatto di dedizione e ammirazione per il lavoro di Corbucci nel suo "periodo western", ne ipotizza anche un percorso d'autore (tutto da verificare in realtà) che vede i western di Corbucci in chiave di critica al fascismo e alle figure autoritarie, invise in effetti al regista come da lui stesso confermato in qualche intervista d'epoca. 

Ovviamente quella che qui ascoltiamo è la versione di Quentin, un'innamorato che traccia il suo percorso critico col cuore, focalizzando l'attenzione su alcuni film, tralasciandone altri, seguendo un fil rouge basato su fatti (e film) concreti dandone un'interpretazione che lo spettatore può decidere se sposare o meno, e tutto ciò è anche un po' il bello di quell'amore che trasuda da ognuna delle parole spese da Tarantino sull'argomento. Secondo il regista di Pulp Fiction c'è un Corbucci pre Leone (e quindi pre Trilogia del dollaro) e uno successivo, il primo più vicino al western e al cinema americano, il secondo indubbiamente italiano e lanciato verso il titolo di "secondo miglior regista dello spaghetti", perché Leone era pur sempre Leone, inarrivabile. La situazione di fermento del periodo ce la illustra Ruggero Deodato con alcuni aneddoti: all'epoca si giravano talmente tanti western che se un cavallo si allontanava troppo si trovava protagonista sul set di un altro film, dice Deodato. Tema centrale è la violenza nei western di Corbucci, uno crudele come afferma Deodato che dice di aver imparato la crudeltà proprio da Corbucci, con quella ci fece poi cose come Cannibal Holocaust. Tarantino analizza anche il timbro diverso della violenza in Corbucci e in Leone, regista più epico che cattivo, descrive il lavoro fatto su protagonisti, spalle e antagonisti con teorie molto interessanti, tra personaggi sexy e caratteristiche da fumetto, mentre Franco Nero sottolinea la valenza politica dei film fatti con Corbucci; dal canto suo Rea alterna le interviste frontali a materiali di repertorio con lo stesso Corbucci, sequenze prese dai film ad analisi su singoli elementi del cinema del regista romano. Quello che ne esce è un documentario sincero, appassionato, magari non esaustivo ma sempre avvincente e divertente da seguire e rivolto non per forza ai soli cultori. Per i fan di Corbucci, ma anche per quelli di Tarantino, un appuntamento da non perdere.

domenica 12 marzo 2023

LA CONGIURA DELLA PIETRA NERA

(Jianyu di Su Chao Pin, 2010)

Il wuxia (o wuxiapian) è un genere codificato di origine cinese nato non al cinema ma in letteratura ai primi del Novecento, almeno nelle forme che, pur con qualche scarto, sono a noi familiari proprio grazie a diverse opere cinematografiche che hanno riscosso in anni recenti ottimi successi anche dalle nostre parti. In letteratura il wuxia è una sorta di mix tra il poema cavalleresco e il genere occidentale del cappa e spada, quello de I tre moschettieri ad esempio, da non confondere con il forse ancor più apprezzato chiappa e spada. Nonostante ci siano dei punti di contatto con le narrazioni cavalleresche, nel wuxia in genere i protagonisti sono eroi solitari, a volte addirittura appartenenti a congreghe non troppo specchiate, spesso di estrazione affatto nobile ma ricchi in onore, o ancora, come nel caso de La congiura della Pietra Nera, personaggi redenti; il riferimento più calzante è quello alla cultura giapponese del samurai e della via del bushido, il codice d'onore e di comportamento proprio degli uomini virtuosi. Al cinema il genere si sviluppa in Cina negli anni 20, con forme un poco diverse da quelle moderne che anche noi abbiamo imparato ad apprezzare, giunge da noi tra la fine degli anni 60 e i 70 in seguito al successo dei film di kung fu, visto l'apprezzamento che riscuotevano i primi i distributori tentarono anche la via del wuxia portando in Italia titoli che però non sono rimasti nella nostra memoria; se tutti gli appassionati di cinema probabilmente sono in grado di citare i titoli di alcuni dei film con Bruce Lee, è possibile che molti di loro (compreso chi scrive) abbiano difficoltà a nominare qualcuno dei film wuxia distribuiti in quegli anni. Sparito a fine anni 70 e riproposto con qualche timido tentativo qua e là, il wuxia ricompare e ottiene questa volta una grande visibilità nel nuovo millennio grazie a titoli come La tigre e il dragone di Ang LeeLa foresta dei pugnali volanti di Zhang Yimou o The assassin di Hou Hsiao-hsien arrivando in piccola parte anche a contaminare l'universo Marvel in Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli nel quale recita anche Michelle Yeoh, protagonista di questo La congiura della Pietra Nera e molto in auge in questo periodo grazie alla suo ruolo in Everything everywhere all at once. Ma veniamo a noi...

Una leggenda narra che chiunque ritrovi entrambe le parti del corpo mummificato del monaco indiano Bodhi diverrà il solo e incontrastato maestro delle arti marziali; la setta della Pietra Nera, comandata dal Re della Ruota (Wang Xueqi), è alla ricerca delle spoglie del monaco. Una volta sottrattele all'attuale proprietario, la migliore guerriera della setta, Pioggia Lieve (Kelly Lin), tradisce i suoi compagni fuggendo con il cadavere mummificato e dandosi alla macchia. Alla sua ricerca si metteranno tre assassini agli ordini del Re della Ruota e vecchi compagni di Pioggia Lieve: Lei Bing (Shawn Yue), il Mago (Leon Dai) e Foglia Turchese (Barbie Hsu), allo stesso tempo la giovane donna, per sfuggire ai suoi ex compagni, si fa cambiare i connotati da un dottore assumendo le sembianze di una donna più matura e prendendo il nome di Zeng Jing (Michelle Yeoh). Questo avviene dopo che Zeng Jing ha passato del tempo con il monaco Jian Hui (Li Zonghan) il quale ha mostrato alla guerriera una nuova via grazie alla quale Zeng Jing si è redenta e ha iniziato una nuova vita fatta di semplicità, lavoro e forse, grazie all'incontro con il semplice Ah-sheng (Jung Woo-sung), d'amore. Ma la Pietra Nera è ancora sulle sue tracce alla ricerca del corpo di Bodhi, il confronto sarà inevitabile e scoperchierà verità inaspettate.

Qualcuno accredita la regia di questo La congiura della Pietra Nera al solo regista taiwanese Su Chao Pin, altri indicano una co-regia dello stesso insieme al produttore John Woo, nome decisamente più blasonato e molto più noto al pubblico occidentale grazie anche (e soprattutto) al suo periodo hollywoodiano durante il quale Woo ha siglato film action molto celebri come Face/off, Mission Impossible II, Senza tregua, Windtalkers, Nome in codice: Broken Arrow e altri ancora (anche se le cose migliori le fece indubbiamente a Hong Kong). In effetti il tocco di Woo è riconoscibile in alcuni elementi del film, pensiamo solo al cambio di identità della protagonista che avviene tramite un mutamento dei lineamenti, espediente narrativo già usato da Woo nello scambio di corpi tra Nicolas Cage e John Travolta in Face/off. Divisione dei meriti a parte, La congiura della Pietra Nera è un ottimo wuxia che presenta personaggi ben delineati ognuno con le proprie peculiari caratteristiche: la singolare tecnica di spada di Zeng Jing, il lancio degli aghi di Lei Bing, i trucchi da illusionista del Mago, tutti elementi che rendono riconoscibili i protagonisti e gli scontri accattivanti; questi sono coreografati in maniera splendida, sempre dinamici e mai troppo stucchevoli. Alla base una storia semplice che si segue con piacere, con le sue piccole rivelazioni e il giusto brio. Il wuxiapian non è un genere appetibile a tutti i palati, richiede allo spettatore un certo grado di abbandono e fiducia, non di meno è un genere che quando ben fatto non manca di ripagare lo sforzo, il film di Su Chao Pin e John Woo è una buona scelta nel caso si volesse tentare l'approccio.

venerdì 10 marzo 2023

MACHETE

(di Robert Rodriguez, 2010)

Quattro musicisti bravi ma ancor di più furbi incantavano grandi platee al grido di "You wanted the best! You've got the best! The hottest band in the world, Kiss!"; i fan della band di Detroit, e non solo loro, sapevano benissimo a cosa sarebbero andati incontro lasciandosi travolgere dal carrozzone magniloquente di Gene Simmons e soci, nessun fraintendimento, tutto alla luce del sole, magari nascosto giusto un po' da una bella dose di trucco, tutto però onestissimo. Non erano la band migliore del mondo e nemmeno la più calda ma tant'è, il pubblico si divertiva (e mi ci sono divertito anche io). Allo stesso modo è bene che il pubblico (quello di passaggio, i fan già lo fanno) con lo stesso approccio si avvicini al cinema di Rodriguez che di sicuro non è qui per scrivere pagine imprescindibili e indimenticabili della settima arte; il regista di San Antonio, Texas, è qui per divertirsi, cazzeggiare e dar vita alle sue fantasie più sfrenate che a volte, come in questo caso, si traducono in scorribande tamarrissime dietro le quali si può provare a vedere dei contenuti alti solo se si è ingenui o un po' scemotti. Prendiamo questo Machete, sì, ci sono gli immigrati messicani, la prepotenza U.S.A., lo sfruttamento, tutto vero, ma qui il succo sono le stronzate, nulla più, nulla meno, filosofia che se portata avanti in maniera onesta come fa Rodriguez alla fine è anche rispettabilissima. L'idea di Machete nasce già qualche anno prima dell'uscita di questo film: ricorderanno tutti il finto trailer di una pellicola con protagonista il nostro Danny Trejo comparire tra i due episodi del progetto Grindhouse, ovvero A prova di morte di Quentin Tarantino e il Planet terror di Rodriguez, ecco, l'indole giocosa e cazzara di Rodriguez ha fatto il resto trasformando quel piccolo divertissement in un lungometraggio circa tre anni più tardi.

Machete (Danny Trejo) è un federales messicano che durante le sue indagini incrocia la strada del fetentissimo signore della malavita Rogelio Torrez (Steven Seagal), uno duro da uccidere, pestandogli i piedi e incorrendo quindi nella sua ira. Torrez di conseguenza elimina la famiglia del Nostro e tenta di uccidere lo stesso Machete. Dato per morto il federale compare qualche anno più avanti negli Stati Uniti; costretto a cercare lavoro capita nelle mire di un altro fetentissimo, un riccastro di nome Booth (Jeff Fahey) che offre a Machete 150.000 dollari per far fuori il senatore razzista McLaughling (Robert De Niro), un politico che vuole fermare l'immigrazione clandestina dei messicani togliendo così a gente come Booth la possibilità di procurarsi mano d'opera a bassissimo costo da poter sfruttare a loro piacimento. Trovandosi però incastrato per il tentato omicidio del senatore Machete sarà costretto a darsi alla macchia, tallonato non solo dai cattivoni di cui sopra ma anche dall'agente dell'immigrazione Sartana Rivera (Jessica Alba) che presto si invaghirà di questa figura sospesa tra realtà e mito. A dar manforte al messicano ci sono suo fratello Cortez (Cheech Marin), un prete molto, molto sui generis, e la giovane Luz (Michelle Rodriguez), ufficialmente una venditrice di hot dog, in realtà comandante e figura simbolo di una resistenza volta a tutelare i messicani immigrati dalle prepotenze di gente come il vigilante Von Jackson (Don Johnson).

Annegato in una fotografia torrida e in ettolitri di sangue il volto indimenticabile di Danny Trejo trova qui finalmente un ruolo da vero protagonista, una cosa che con tutta probabilità poteva accadere solo per mano di Robert Rodriguez. Machete è infatti il balocco del suo regista, forse non l'unico ma in maniera indubbia uno dei suoi più desiderati. Il film è l'elogio all'esagerazione truce, grottesca e tamarra volta al puro divertimento; se pure si volessero prendere con un minimo di serietà le vicende di immigrazione qui raccontate, bastano scene come quella in cui Machete si cala da una finestra appeso agli intestini di un ormai ex delinquente, oppure la versione armed and dangerous di Lindsay Lohan vestita da suora e armata di tutto punto per demolire qualsiasi riflessione e riportare il tutto sul piano di un'exploitation ignorante alla quale il film orgogliosamente appartiene. Preso in questo senso Machete fa il suo e diverte, a Danny Trejo basta la mera presenza per iscrivere il suo personaggio nella sfera del mito, come accade nel film, il resto del cast, tutte facce indovinatissime, si diverte e diverte con ammiccamenti vari (Steven Seagal ridato al cinema in primis) e ruoli cuciti ad hoc. Siamo nel trash volontario realizzato con i giusti mezzi: sangue a fiumi, arti e teste che volano, immagini di rara demenza (le budella, le auto dei messicani) e accorgimenti come i finti segni sulla pellicola a valorizzare il tutto. Nessuna pretesa, Rodriguez ci si è divertito, noi pure, tanto basta, almeno fino al recupero di Machete kills...

lunedì 6 marzo 2023

LA NUBE PURPUREA

(The purple cloud di Matthew P. Shiel, 1901)

Nel complesso - parere personale - La nube purpurea è il romanzo più noioso pubblicato nella collana Urania - 70 anni di futuro almeno fino a questa undicesima uscita. La collana che celebra(va) i 70 anni di Urania in realtà ha già concluso la sua corsa con la quarantacinquesima settimana, dati però i tempi di lettura di chi scrive e l'alternanza di questi volumi con romanzi di diversa natura, qui per forza di cose si arriva a parlare de La nube purpurea con un certo ritardo, ancora non mi è possibile dire se ci saranno in futuro (o se ci sono state in passato se vogliamo abbandonarci al paradosso) all'interno della collana uscite più tediose di questa, per la mia traballante pazienza mi auguro vivamente di no. Nel dire ciò non voglio fare torto oltre misura né a Matthew P. Shiel né tantomeno alla sua opera, a cui parziale discolpa si può argomentare dicendo che in fondo trattasi di un volume pubblicato la prima volta nel 1901, ben più di un secolo fa, la sensibilità dei lettori è molto mutata da allora, l'approccio alla scrittura anche, non di meno sappiamo tutti benissimo come alcuni classici facciano ancora impallidire romanzi moderni indegni finanche di presenziare sugli stessi scaffali (e nelle stesse librerie) di alcuni dei loro illustri predecessori. Quindi sì, un occhio di riguardo ma nemmeno poi troppo. Shiel, nato britannico ma geograficamente antillano (è stato anche incoronato re di un'isola deserta dei Caraibi), vede proprio La nube purpurea come sua opera più nota, considerato uno dei primi romanzi in assoluto di stampo apocalittico.

Siamo in un periodo storico in cui impazza la febbre per la corsa al Polo Nord, le spedizioni si susseguono ma finora nessuno è stato in grado di raggiungere l'ambita meta. Il medico londinese Adam Jeffson ha dei contatti tra l'equipaggio di una delle prossime spedizioni per il Polo e così il dottore inizia a interessarsi all'argomento. Jeffson è fidanzato con la ricca e ancor più ambiziosa Clodagh, una nobile senza scrupoli molto interessata a ricchezze e posizione sociale; ora capita che il riccastro Charles P. Stickney, eccentrico come nessuno, lasci nel suo testamento un'indicibile eredità che finirà nelle tasche del primo uomo, e si badi bene non della prima spedizione, a raggiungere il Polo. La notizia farà da subito gola all'avida Clodagh che riuscirà a magheggiare affinché il suo Jeffson entri a far parte dell'equipaggio della Boreal, nave diretta proprio al Polo Nord. Nel frattempo si diffonde l'idea, perorata da alcuni predicatori, che se l'uomo ancora al Polo non ci è arrivato questo sia volere di Dio e il giungervi non potrebbe che portare distruzione e scempio all'umanità tutta. E alla fine così sarà; mentre la Boreal arriva al Polo una nube violacea si diffonde per il mondo lasciando una scia di morte ed estinguendo in breve la razza umana della quale unico esponente rimasto in vita sarà proprio Adam Jeffson che dovrà affrontare un viaggio alla ricerca di residui di vita e un percorso molto tormentato per non cadere nella più totale follia.

Il romanzo di Shiel in realtà parte con il piede giusto. L'autore originario della città fantasma di Plymouth sull'isola di Montserrat usa un espediente molto in voga nei romanzi dell'epoca a tema fantastico (perché proprio fantascienza non la si può chiamare), ovvero quello dello scrittore, lo stesso Shiel, che riceve da un conoscente un manoscritto contenente la storia che si andrà a narrare nel romanzo. Il prologo de La nube purpurea è invero parecchio affascinante come così è tutta la prima parte che descrive la spedizione al Polo ammantata da un senso di attesa che lascia presagire il meglio (o il peggio se preferite). Purtroppo nel momento in cui gli eventi precipitano inizia un peregrinare solitario del protagonista che non fa che esplorare luoghi e incontrare morte, incontrare morte ed esplorare luoghi senza soluzione di continuità. Non si mette in dubbio l'efficacia di alcune descrizioni di Shiel, degli stati d'animo di un uomo in pena, in preda a sprazzi di lucida follia, dei luoghi in cui Jeffson si trova a transitare, delle situazioni spesso uguali a loro stesse, sembra però quasi impossibile tenere a distanzia il tedio nel mezzo di questo mondo desolato, dove non ci sono stimoli né eventi. Il problema maggiore de La nube purpurea è che tutta questa parte centrale del romanzo è davvero troppo, troppo lunga, inutilmente dilatata, probabilmente uno degli effetti collaterali della nube tossica è quello di aumentarne ancora la percezione di interminabilità onestamente sfiancante. Sul finale si torna sui binari giusti grazie a un evento in particolare che dona di nuovo movimento al romanzo, a dimostrazione che sarebbe bastato poco di più per ottenere un risultato migliore. Come già detto, romanzo d'altri tempi, la noia però rischia di attanagliarci oggi, quindi uomo avvisato...

domenica 5 marzo 2023

THELMA

(di Joachim Trier, 2017)

Mentre Joachim Trier elaborava e poi girava in diversi momenti quella che è stata idealmente definita la sua Trilogia di Oslo (composta dai film Reprise del 2006, Oslo 31. August del 2011 e La persona peggiore del mondo del 2021), il regista norvegese - nato però a Copenaghen - con questo Thelma scombina un po' le carte in tavola dedicandosi a una narrazione di genere e andando a realizzare un ottimo thriller dalle tinte sovrannaturali molto ben riuscito sia dal punto di vista tecnico formale che da quello dei contenuti e della narrazione (aiutato da Eskil Vogt alla sceneggiatura). Nel farlo Trier non abbandona il focus sul personale, sulle difficoltà che l'individuo può incontrare nel sentirsi parte di una società che in qualche modo si può percepire come diversa o estranea da sé, sono sempre presenti quei percorsi intimi e per forza di cose solitari che i protagonisti di Trier si trovano ad affrontare per trovare la loro collocazione nel mondo, in questo caso a maggior ragione in quanto Thelma è una giovane donna che si trova a vivere un percorso di crescita in palese ritardo, come se il passaggio da un'adolescenza iperprotetta all'età adulta iniziasse solo nel momento in cui, causa studi universitari, diventa per lei inevitabile il confronto con gli altri con tanto di impatto con i primi traumi "da contatto", un po' quello che accade ai bambini con le malattie infettive la prima volta che si trovano a frequentare l'asilo o la scuola materna. Con Thelma Joachim Trier riesce a tenere insieme in maniera perfetta il lato emotivo e quello sovrannaturale della sua vicenda rendendo un ottimo servigio allo spettatore.

Thelma (Elli Harboe) è cresciuta in una località isolata della Norvegia; papà Trond (Henrik Rafaelsen) e mamma Unni (Ellen Dorrit Petersen) sono osservanti cristiani fino all'eccesso e hanno educato la loro figlia secondo i principi della religione in maniera molto severa, cosa che ha impedito a Thelma di fare le stesse esperienze che normalmente i suoi coetanei hanno già affrontato, e non parliamo solo del sesso e dei rapporti con le altre persone, ma anche dell'esperienza di un semplice bicchiere di vino o di birra, della sigaretta o della festa in discoteca con gli amici. O ancor più semplicemente quella di avere degli amici. Ciò nonostante Thelma ha (o è convinta di avere) un rapporto con il padre molto aperto, l'uomo è molto rigido e severo ma tenta in qualche modo di proteggere la figlia dai pericoli del mondo esterno ma anche da quelli che lei stessa, inconsapevolmente, potrebbe provocare. Giunta l'età per andare all'università Thelma si trasferisce a Oslo dove non conosce nessuno. Durante una sessione di studio in una delle sale comuni dell'università Thelma viene colta da una specie di crisi epilettica durante la quale si verifica qualche strano fenomeno non colto dagli altri studenti. La ragazza viene soccorsa da un'altra studentessa di nome Anja (Kaya Wilkins); nei giorni successivi le due giovani faranno amicizia, un'amicizia che presto diverrà qualcosa di più e che porterà Thelma a fare esperienze alle quali la sua famiglia e la sua educazione non l'avevano preparata. Insieme a queste novità che mettono in subbuglio l'animo della ragazza arrivano altre crisi e altri fenomeni difficili da spiegare in maniera razionale.

Come scritto da più parti il primo riferimento che viene in mente guardando Thelma di Trier è il Carrie di De Palma; in effetti è quasi impossibile non pensare al film tratto dal libro di King, i paralleli ci sono, ma Thelma è per fortuna anche qualcosa di molto diverso. Nel raccontarci la storia di questa giovane e bella ragazza Trier offre una prova di regia di altissimo livello; l'impatto visuale del film è sempre molto interessante, alcune sequenze come quella iniziale nei boschi innevati molto belle e capaci da subito di scombinare la serenità dello spettatore, ne esce quindi un film dall'apparenza molto elegante nel quale scorre sotto la superficie un'inquietudine sempre presente e pronta a deflagrare, caratteristica dosata in modo sapiente dal regista norvegese. I temi sono diversi a partire da quello dei potenziali danni derivanti da un'educazione molto rigida che può portare a un senso di inadeguatezza una volta arrivati al confronto con una società molto più liberale (senza nessuna necessità di cadere in estremismi), c'è il percorso di crescita ritardato e reso quindi più esplosivo (e che qui si sublima nelle crisi e nel paranormale). Detto questo Trier è poi bravo ad andare a ritroso e scombinare un poco le carte quando si torna al passato di Thelma, movimento intuibile fin dalla sequenza iniziale nei boschi. C'è poi quell'amore per un'altra donna, che potrebbe essere sincero, bellissimo, ma che il pregresso condizionamento di Thelma rende difficile da accettare, molto problematico. Trier riesce a gestire materiale non banale inserendolo perfettamente nel genere, senza troppi eccessi e ipotizzando una riscrittura della realtà che apre a segni di speranza che in altri suoi film, ben più radicati nella realtà, magari non comparivano. Girato con grandissima eleganza Thelma è un thriller sovrannaturale da tenere in gran conto.

venerdì 3 marzo 2023

A SINGLE MAN

(di Tom Ford, 2009)

È un peccato che Tom Ford non si dedichi con maggiore frequenza alla regia; l'attività del "fare film" non è infatti l'occupazione principale del sessantaduenne texano il cui nome arriva al grande pubblico in qualità di stilista emergente e di rottura per la maison Gucci nel 1990, momento importante per il mondo della moda che abbiamo avuto modo di rivivere nel troppo vituperato House of Gucci di Ridley Scott. Ma è poi davvero un peccato che Ford non si dedichi di più al cinema o che addirittura non sia nato regista? Probabilmente no, sembra evidente come i suoi film (finora solo due) siano influenzati profondamente dal rapporto vitale che Tom Ford ha con l'ambiente della moda e con un gusto per l'estetica che non teme confronti nemmeno nel mondo della settima arte; sia questo A single man, sua opera prima, che il successivo (splendido) Animali notturni del 2016 con Amy Adams e Jake Gyllenhaal, si apprezzano proprio grazie al connubio che Ford riesce a creare tra la sua passione per il cinema e l'ampio bagaglio di esperienze pregresse che trasporta nelle sue realizzazioni, esperienze senza le quali il suo cinema non sarebbe così efficace, così bello da guardare, accontentiamoci quindi di poche opere ma realizzate con una sapienza tale da permettere allo stilista di lasciare segni più che apprezzabili anche in quest'arte per lui "secondaria". Come sarà poi anche per Animali notturni, la sceneggiatura di A single man è adattata da un romanzo, nella fattispecie Un uomo solo di Christopher Isherwood pubblicato per la prima volta nel 1964.

Ed è proprio agli inizi degli anni 60 che è ambientata la storia del professor George Falconer (Colin Firth), uomo elegante e colto, omosessuale non apertamente dichiarato in quanto i tempi ancora non consentivano di vivere serenamente la propria sessualità quando questa si discostava da ciò che per il sentire comune era considerato giusto e accettabile. George è un inglese trapiantato in California, qui ha convissuto per più di quindici anni con il suo compagno Jim (Matthew Goode) conosciuto ormai molti anni prima in un bar frequentato da militari. Il professor Falconer deve ora fare i conti con la morte dell'amato Jim, deceduto in un incidente d'auto, con la perdita dell'uomo che per lui è stato tutto, il vero amore di una vita, un compagno al quale non può dare nemmeno l'ultimo saluto, negatogli dalla stessa famiglia di Jim. George si balocca con una pistola, sembra mettere in atto una meticolosa ed elegantissima serie di preparativi per un suo prossimo suicidio, nel frattempo va a scuola, tiene la sua lezione, incontra la sua amica di sempre Charlotte (Julianne Moore) con la quale ebbe una breve relazione da giovane, una donna che non l'ha mai dimenticato e con la quale ha condiviso anche il dolore per la perdita di Jim, una donna che non aspetta altro che buttarsi nuovamente e per sempre tra le sue braccia se solo ce ne fosse davvero la possibilità. Poi ci sono alcuni incontri, lo studente Kenny (Nicholas Hoult), lo spagnolo Carlos (Jon Kortajarena), ci sono la disperazione e ancora il dolore per un lutto inaccettabile, il meglio e il peggio della vita in attesa che l'equilibrio tra distruzione e speranza trovi il lato da cui pendere.

Il Tom Ford regista ha la capacità di costruire dietro una forma sempre impeccabile, di un'eleganza fuori dal comune, calibratissima, anche una profondità di racconto che risulta a più riprese molto toccante e sincera, aiutato qui dalla bella interpretazione di un Colin Firth capace di farci sentire tutto il dolore provato dal suo personaggio. Non c'è nulla che appaia fuori posto in A single man, c'è nelle inquadrature un'attenzione allo stile e al dettaglio maniacale che viene riflessa anche nei comportamenti del protagonista, pensiamo alla scena in cui George mette in ordine le cose sulla sua scrivania, dove colloca con precisione anche la pistola con la quale avrebbe poi intenzione di uccidersi: ogni oggetto ci parla, si muove (o resta immobile) per comporre un quadro di perfetta bellezza, décor e protagonisti hanno eguale importanza per la macchina da presa di Ford. In questo contesto un uomo che nel suo intimo è tutto fuorché in ordine, si alza al mattino e si prepara a interpretare un ruolo dove il suo dolore non può trovare sfogo, quello di un uomo elegante e impeccabile in realtà prossimo al tracollo. Il presente si alterna ai ricordi, straziante la sequenza in cui George condivide il suo lutto con Charlotte in una scena in cui urla e pianti sono completamente ammutoliti; molto fa anche un accompagnamento musicale indovinato e reiterato che sottolinea lo stato d'animo disperato del protagonista, sullo sfondo il contesto dell'epoca: la crisi di Cuba, l'America delle villette con vialetto e giardino, delle case di lusso e del benessere, di un benpensare che mette le minoranze controcorrente (simbolica l'entrata di George all'università). Ford indugia sui particolari, come è giusto che sia, è nella sua natura, stringe su un bacio, lo frammenta, chiude sui corpi sudati dei tennisti, sugli oggetti ricercati, sugli abiti, sugli arredi, riesce a sospendere gli istanti e circondare di meraviglia i momenti peggiori della vita di un uomo, lo fa scavando, in maniera profonda, senza mai rimanere solo in superficie, dietro la facciata c'è sempre qualcosa di vero e sentito che tutto sommato non ci spiacerebbe vedere più spesso.

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