sabato 31 agosto 2019

ELVIS & NIXON

(di Liza Johnson, 2016)

Tratto da una storia vera. Almeno in parte, in fondo l'incontro tra il Presidente Nixon e il Re del rock 'n roll Elvis Presley è documentato da una celebre fotografia, il resto è divertentissimo ricamo, cucito con garbo seguendo un'imbastitura che potrebbe avere dei risvolti tutto sommato credibili, ma questo difficilmente verremo mai a saperlo. Il succo di Elvis & Nixon è l'incontro surreale tra due personaggi lontanissimi all'apparenza e che in modo assolutamente imprevedibile trovano un contatto, basi comuni sulle quali poter accantonare tutte le iniziali e comprensibili diffidenze. La regista Liza Johnson sceglie un registro narrativo molto pacato, una regia discreta affidando le sorti del film alle prove di due protagonisti superbi; sia Kevin Spacey nei panni di Richard Nixon che Michael Shannon in quelli di Elvis tralasciano la mimesi limitandosi a indossare letteralmente gli abiti dei loro personaggi facendoli vivere con la sola abilità dell'interpretazione.

Siamo sul finire del '70, il mito di Elvis è ancora vivo nei giovani americani (soprattutto in quelli di sesso femminile) ma la parabola del Re è in fase discendente, i grandi successi sono ormai alle spalle rimpiazzati dall'ondata di musica nuova di Beatles e Rolling Stones, il fisico per ora regge, non siamo ancora di fronte all'Elvis irriconoscibile dell'ultimo periodo, quello grasso e abbruttito dalla vita. Quello che ci presenta la Johnson è un Elvis meditabondo, fuori fase, sicuro di sé stesso ma con convinzioni e pretese un po' fuori da quella che è la vita reale, cosa con la quale un personaggio che vive a Graceland è facile abbia perso aderenza. Richard Nixon è in carica da un paio d'anni, Presidente di vedute ultraconservatrici non ha in simpatia tutto ciò che è controcultura, fenomeni di protesta e manifestazioni giovanili, l'elettorato giovane infatti non lo ama mentre ancora apprezza Elvis. Ecco, Elvis, perché il vero protagonista è lui, senza nulla togliere al Richard Nixon di Spacey. Elvis sembra un uomo che non si ritrova nella società che vede cambiargli intorno, un mondo pieno di droghe, di capelloni, di proteste anti-americane, di nuovi corsi. Così Elvis decide semplicemente di aiutare il suo Paese, mosso anche dalla sua passione per le armi, per i distintivi e dalla sua superba conoscenza del karate, il Re pensa che potrebbe rendersi utile all'America con un lavoro sotto copertura da Agente Speciale Aggiunto, preferibilmente in forza alla narcotici. E allora Elvis cosa fa? Semplice, va a bussare alla porta della Casa Bianca per esporre il suo piano al Presidente degli Stati Uniti d'America il quale di primo acchito ritiene l'idea di incontrare Elvis una grandissima stronzata.


La trama è questa, flebile, lineare, basata sull'idea strampalata di Elvis e sull'opportunità colta dallo staff presidenziale (Evan Peters e Colin Hanks) di attirare le simpatie dell'elettorato più giovane proprio grazie all'incontro tra il Presidente e la star. Le dinamiche del viaggio verso Washington, organizzato da Jerry (Alex Pettyfer), amico d'infanzia di Elvis, l'attesa per l'eventuale incontro con il Presidente, la rigidità del protocollo della Casa Bianca e di Nixon a confronto con i comportamenti imprevedibili della star garantiscono una sequela di situazioni ridicole e divertenti che segnano il ritmo di un film che non disdegna di concedersi qualche passaggio più riflessivo. Lavoro pulito sulla messa in scena e sulle ricostruzioni, regia diligente, umorismo di una certa finezza, mai di grana grossa, garantiscono a questo film passato abbastanza inosservato di meritarsi almeno la possibilità di una visione. Il corpo centrale dell'opera è una grossa ipotesi, ma che bello sarebbe se davvero fosse andata così, sarebbe una roba tutta da ridere.

giovedì 29 agosto 2019

IRIS: A SPACE OPERA BY JUSTICE

(di André Chemetoff e Armand Beraud, 2019)

L'idea di Gaspard Augé e Xavier de Rosnay, il duo francese che sta dietro la sigla Justice, potrebbe all'apparenza non sembrare così rivoluzionaria, però...

I Justice sono uno dei più noti gruppi di musica elettronica francese (french house), sono in circolazione da ben più di un decennio, il loro primo album risale al 2007 e fino a oggi hanno all'attivo tre dischi in studio, un paio di live e una mole corposa di remix su brani di artisti i più disparati: da Britney Spears ai Metallica, dal compagno di etichetta Mr. Oizo agli U2 e via di questo passo. Come dicevamo l'idea che sta dietro a questo concerto/evento che è arrivato in contemporanea mondiale nelle sale cinematografiche il 28 Agosto 2019, potrebbe non sembrare poi così incisiva, ma a conti fatti possiamo dire che così non è, per realizzare questo Iris: A space opera by Justice le teste di Augé e Rosnay (e non solo le loro) hanno pensato molto. I Justice hanno riflettuto su quella che è la loro dimensione live, un'aspetto molto importante per il lavoro del duo, come dimostra il breve documentario che anticipa la proiezione del film, questo progetto nasce dall'insoddisfazione dei Justice per quella che è la resa in video delle loro performance, anche quelle più professionali, tanto da arrivare ad affermare di aver visto su youtube video girati dai loro fan ai concerti ben più interessanti del loro materiale ufficiale. Il succo del discorso è più o meno questo: un qualunque regista, filmando un'esibizione live dei Justice tenderà a perdersi dei particolari dello show, perché concentrato su qualcosa di specifico, distratto dalle manifestazioni del pubblico presente all'evento sul quale ogni video live indugia innumerevoli volte, insomma non avrà modo di concentrarsi sull'esibizione tout court. Con il progetto Iris: A space opera by Justice Augé e Rosnay hanno voluto controllare tutto, andando a registrare un loro show in assenza di pubblico, come fecero i Pink Floyd con il classico Live at Pompeii, preparando inoltre un set scenico adatto a valorizzare tutti i giochi di luce creati dal light designer Vincent Lérrison. In quest'ottica ogni distrazione è bandita, solo la musica dei Justice, lo spettacolo di luci, i pannelli riflettenti e il duo francese, in un'esperienza immersiva che in poco più di un'oretta ha lo scopo di catturare quella che è la vera essenza dello spettacolo della band.


Nonostante l'evento, almeno nella sala nella quale ero presente, sia andato praticamente deserto (sei persone in tutta la sala), lo show è avvicinabile anche da chi come me non mastica musica elettronica mattino mezzogiorno e sera, il ritmo dei Justice intrattiene a dovere, la produzione video è di alto livello, anche la regia ha dei movimenti di macchina interessanti e il tutto è aiutato da una durata contenuta che rende lo show alla portata di ogni spettatore con un minimo di apertura mentale nei confronti della musica. L'unico appunto che si potrebbe fare allo show, soprattutto dopo aver assistito al documentario introduttivo che ne racconta la genesi, è quello di una regia che indugia davvero poco sui due componenti della band, mi aspettavo qualche passaggio in più su di loro o sulla strumentazione, comunque poco male, ci si concentra su musica e light show, quello che in fondo era nelle intenzioni di Augé e Rosnay. Ottima la scelta di montare il piccolo palco per l'esibizione (una pedana più che altro) su uno specchio riflettente di pannelli neri capace di raddoppiare l'effetto scenico dei giochi di luce creati per l'esibizione ai quali le uniche concessioni sono il simbolo della croce che caratterizza da tempo la band e qualche immagine video (sporadiche a dir la verità) che dà un senso al titolo, quello della space opera, immagini che in realtà poco aggiungono a uno show che avrebbe potuto concentrasi anche integralmente sul duo.

Esperimento quindi molto interessante che più che nell'evento in sala troverà probabilmente un suo mercato nel circuito dell'home video, un pezzo originale e particolare che i fan dell'elettronica non si lasceranno scappare.

domenica 25 agosto 2019

I MITI DI LOVECRAFT

(Tales of the Lovecraft mythos a cura di Robert M. Price, 1992)

A cavallo tra il 2009 e il 2010 la Mondadori portò nelle edicole dello Stivale una collana dal titolo Epix che nasceva come supplemento a Urania e con ogni probabilità era nelle intenzioni destinata a diventare qualcosa più di questo. Purtroppo l'avventura di Epix, che si prefiggeva di portare al grande pubblico fantasy, sovrannaturale e horror proprio come Urania ancora oggi fa con la fantascienza, si concluse con all'attivo solamente una quindicina di titoli pubblicati. I nomi coinvolti garantivano tra l'altro la giusta dose di appeal rivolgendosi a un pubblico eterogeneo: diverse raccolte, testi di Valerio Evangelisti, Terry Brooks, Danilo Arona, Robert E. Howard e altri ancora. Nonostante il parterre di scrittori pubblicati fosse di un certo livello, con chiara evidenza l'esperimento non ha portato i risultati sperati; con la quindicesima uscita (Lupo nelle tenebre di Nicholas Pekearo) Epix chiude i battenti lasciando all'attivo una manciata di titoli interessanti. Tra questi compariva la raccolta I miti di Lovecraft di cui parliamo oggi, un libro che nell'edizione originale a cura di Robert M. Price vanta una mole più corposa rispetto all'edizione italiana, decurtata questa di una manciata di racconti, operazione da Mondadori giustificata con la mancanza di spazio disponibile per le pubblicazioni da edicola. Tralasciando le considerazioni sulla prassi di manomissione delle opere originali che in ogni caso non rende un buon servizio al lettore, la vicenda Epix porta alla mente un paio di riflessioni. La prima, quella più triste, è che operazioni come questa (fallimentari o di successo che siano) oggi non sarebbero più possibili dato un sistema di edicolanti al collasso e una scomparsa graduale sul territorio di tantissimi esercenti con conseguenti problemi di distribuzione e reperimento dei materiali (e quindi meno cultura a disposizione di tutti). Sono lontani i tempi in cui in edicola si potevano trovare grandi autori, certo in edizioni minimali, con poca spesa. La seconda riflessione verte sul fatto che tutto ciò che orbita intorno alla galassia Urania porta in sé un che di tradizionale che soprattutto nell'aspetto grafico, nel look, andrebbe svecchiato almeno per tentare di far presa su un pubblico più giovane. Epix in questo aveva osato l'esperimento con le prime uscite per poi ritrarsi ancora una volta nel campo del già noto, offrendo a volte, come nel caso di questa uscita in particolare, delle cover oggettivamente brutte. Ma veniamo al titolo in questione.

Howad Phillips Lovecraft è stato per l'horror uno degli scrittori più influenti del suo tempo, capace di appassionare e in qualche modo condizionare i gusti e gli scritti di molteplici colleghi di poco più giovani di lui che nei loro racconti omaggiarono a più riprese il loro predecessore, maestro e a volte amico, riprendendone i temi, le atmosfere ma spesso anche i luoghi, le mitologie e i personaggi che Lovecraft portò alla ribalta nei suoi numerosi racconti. Ne I miti di Lovecraft compaiono tredici testi i cui autori sono tutti di pochi anni più giovani di Lovecraft (1890 - 1937), nati in un arco temporale che va dall'ultimo decennio dell'Ottocento agli anni 10 del Novecento. I racconti, tutti di buona o discreta fattura (molto incide anche il gusto personale del lettore per atmosfere e ambientazioni), attingono ai miti di Chtulhu e alla cosmogonia degli Antichi creata dall'autore di Providence dove i temi principali sono la minaccia proveniente da divinità ultraterrene e indicibili ma soprattutto quel terrore cosmico che si instaura nell'uomo una volta che questi si trova a contatto con realtà a lui non solo sconosciute ma addirittura incomprensibili e non decifrabili con gli strumenti e i sensi che questo ha a disposizione (non di rado il contatto con queste nuove entità/realtà porta alla follia dei protagonisti). In quest'ottica ricorrono quindi entità (Nyarlathotep, Yog-Sothoth), oggetti (il Necronomicon) e luoghi (Arkham, la Miskatonic University) propri dei racconti di Howard Phillips Lovecraft.


Si parte con un dittico di racconti di Robert E. Howard, il papà letterario di Conan il barbaro, anche lui lanciato dalla rivista Weird Tales così come fu per altri autori presenti in questa compilazione. Nel primo racconto (La cosa sul tetto) troviamo un impianto molto classico e convincente tra testi maledetti, archeologi ossessionati, oggetti di potere e relativo rilascio di entità incontenibili, testo che emana la giusta tensione e le giuste atmosfere tanto care all'inventore di questo genere. Ambientazioni più esotiche nel secondo racconto a mio parere meno ficcante, così come accade per il successivo episodio scritto da Clark Ashton Smith (amico personale di Lovecraft) che ammanta la cosmogonia lovecraftiana di un fantasy personalmente fuori dalle mie corde. Perfetto per quella che è la costruzione e l'escalation del terrore il racconto Gli invasori di Henry Kuttner, qui presente anche con l'altrettanto riuscito Le campane dell'orrore. Si continua su questa falsariga con autori e racconti il cui elenco completo trovate a fine dello scritto. Segnalo ancora Per Arkham ad Astra di Fritz Leiber, sorta di crossover tra personaggi comparsi in vari racconti di Lovecraft ambientato nella città della fantomatica Miskatonic University.

Tirando le conclusioni per i fan dell'autore di Providence, che con tutta probabilità avranno già letto questa raccolta di racconti, c'è di che gioire, per tutti gli altri è un modo per conoscere l'universo lovecraftiano e magari, se affascinati dal genere, un input per indagare direttamente tra le pagine di Lovecraft alla scoperta dei tanti risvolti della cosmogonia conosciuta ormai da tutti come I miti di Chthulu.



La cosa sul tetto - Robert E. Howard
Il fuoco di Assurbanipal - Robert E. Howard
Le sette maledizioni - Clark Ashton Smith
Gli invasori - Henry Kuttner
Le campane dell'orrore - Henry Kuttner
Il signore dell'illusione - E. Hoffman Price
Il custode della conoscenza - Richard F. Searight
Il guardiano del libro - Henry Hasse
L'abisso - Robert W. Lowndes
La musica delle stelle - Duane W. Rimel
L'acquario - Carl Jacobi
L'orrore di Lovecraft - Donald A. Wollheim
Per Arkham ad astra - Fritz Leiber

giovedì 22 agosto 2019

LE VITE DEGLI ALTRI

(Das leben der anderen di Florian Henckel von Donnersmarck, 2006)

Nel 1984 la Germania era ancora divisa in due, da lì a qualche anno il muro sarebbe crollato e le vite di molti tedeschi sarebbero cambiate in maniera profonda. Ma nel 1984 i cittadini della DDR vivono ancora in una Repubblica Democratica Tedesca che di democratico ha davvero poco, la Germania Est, esponente del blocco sovietico, è in realtà un Paese in cui ogni forma di dissenso verso il Governo e l'impostazione socialista della società viene aspramente punita in maniera sistematica (o quasi), iniqua e vessatoria. È uno scenario dove oltre alla repressione degli avversari politici e delle menti illustri capaci di denunciare al mondo la situazione di grave mancanza di libertà in cui versa il popolo della DDR, anche l'abuso privato degli esponenti del Partito dominante diventa prassi comune, procedura incontrastabile dal cittadino costretto a vivere all'interno di uno scenario svilente e depressivo che produce gravi conseguenze nel tessuto della società. È in questo contesto che il regista Florian Henckel von Donnersmarck, nato a Colonia, ambienta il suo primo lungometraggio ricostruendo uno spaccato d'epoca immersivo e realistico, grazie anche a una scelta cromatica sulle immagini e alla fotografia di Hagen Bogdanski che traducono molto bene il senso di oppressione e bruttura nel quale gli abitanti della Germania Est sono stati costretti a vivere in quel dato periodo storico.


Il Capitano Gerd Wiesler (Ulrich Mühe) è un convinto sostenitore del socialismo, lavora per la Stasi, il corpo di polizia volto a scoprire qualsiasi forma di ribellione e dissenso nei confronti del Partito di governo, un'organizzazione temuta dall'intera popolazione di Berlino Est. Dopo aver assistito a un'opera teatrale insieme al suo superiore, il Tenente Grubitz (Ulrich Tukur), i due decidono di mettere sotto controllo lo sceneggiatore Georg Dreyman (Sebastian Koch), scrittore solitamente nelle grazie del Partito. Per Grubitz è un modo per assecondare un volere del ministro Hempf, invaghitosi dell'attrice Martina Gedeck (Christa-Maria Sieland), amante dello sceneggiatore, Wiesler è invece interessato alla donna in maniera più complessa e sincera. Iniziate le intercettazioni Wiesler avrà modo di entrare nelle vite di Dreyman e Gedek imparando a poco a poco quanto possa essere tragico perdere libertà e dignità in un Paese dove è troppo facile pagare per un capriccio, in situazioni di assenza di colpa o anche solo per un semplice e sacrosanto desiderio di poter pensare e assaporare un futuro libero e felice. L'esperienza porterà il protagonista a un'evoluzione che lo metterà di fronte a scelte difficili alle quali saprà far fronte anche grazie a freddezza ed esperienza accumulate in tanti anni di servizio.


Le vite degli altri è un grandissimo film alla fine del quale non sarà difficile ritrovarsi con gli occhi umidi. Nonostante la direzione di Von Donnersmarck sia perfettamente calibrata e quasi dimessa, lontana dall'eccesso e da qualsiasi forma di spettacolarizzazione, ci prendiamo noi la responsabilità del superlativo, dimensione comunicativa che nella descrizione di un'opera andrebbe sempre centellinata. Ribadisco, Le vite degli altri è un grandissimo film, capace di raccontare in un misto di pubblico e privato quella che per tante persone deve essere stata una vita di vero e proprio terrore psicologico (pensiamo alla figura marginale della vicina di casa di Dreyman per esempio) andando a creare un vero e proprio documento storico che potrebbe essere usato come strumento conoscitivo e soprattutto educativo. Il regista trova in Ulrich Mühe (purtroppo scomparso poco dopo l'uscita del film) un protagonista straordinario, di un'intensità rara nonostante l'attore non faccia ricorso a un catalogo espressivo molto ampio; pur appartenendo alla fazione di potere, il personaggio interpretato da Mühe lascia trasparire un'indole dimessa e più vicina al timore del popolo, costretto a vivere sempre sul chi va là, in contrasto con la lussuriosa prepotenza del ministro Hempf e con l'arrivismo del superiore Grubitz. E se all'esterno Mühe costruisce un personaggio compassato e in sottrazione, riesce in maniera ineccepibile a far trasparire mutamenti e tormenti appartenenti alla sfera dell'animo e della coscienza, sfere che subiranno un percorso di mutazione che apre squarci di speranza che, lo sappiamo da subito, otterranno poi conferme con la caduta del Muro di Berlino cinque anni più tardi. Dopo un film di grande bellezza, quando i giochi sembrano ormai fatti, il muro è caduto, arrivano ulteriori emozioni a confermare l'equilibrio di una sceneggiatura di grande valore (sempre di Von Donnersmarck) capace di portare lo spettatore fino alla commozione.

Sarebbe ingiusto non sottolineare come oltre al protagonista tutto il cast rende un grande servizio al film, così come tutte le maestranze hanno svolto un gran lavoro di ricostruzione d'ambiente. Le vite degli altri è uno dei più bei film recenti di genere storico/politico, un grande dramma, anche un'ottimo melò volendo. Il tutto da un regista che all'epoca dei fatti narrati, negli anni di quel particolare contesto, era poco più di un bambinetto di una decina d'anni.

martedì 20 agosto 2019

LA FREDDA ALBA DEL COMMISSARIO JOSS

(Le pacha di Gerorges Lautner, 1968)

Esce nel Sessantotto in Francia, con tutto quello che ciò comporta, La fredda alba del commissario Joss per la regia di Georges Lautner (che dirige film già da dieci anni) e con protagonista un Jean Gabin ormai monumento nazionale e che all'epoca contava ben sessantaquattro primavere, un ruolo composto, come si addice alla non più giovane età dell'attore, ma carico di un'energia e di una solidità difficilmente riscontrabili nelle interpretazioni dei suoi partner più giovani. La fredda alba del Commissario Joss è un polar secchissimo e molto duro, una durezza sottolineata dalle scelte non certo di comodo di un commissario di polizia che vede morire un amico d'infanzia, un collega, un frignone lamentoso e cacciaballe, un tormento d'uomo che forse nelle sue ultime ore ha commesso anche diversi sbagli, ma come dice Gabin nonostante tutto "cosa ci posso fare, era pur sempre un mio amico"; e allora a questo amico bisogna offrire un ultimo omaggio: giustizia, se necessario vendetta.

La vicenda muove da un colpo classico al portavalori. Un carico di gioielli di valore inestimabile sta per essere trasferito da Parigi verso altra destinazione, l'Ispettore Gouvion (Robert Dalban) è responsabile della scorta al portavalori. Durante il viaggio il convoglio viene attaccato da una banda di malviventi capeggiati dal già noto alla polizia Quinquin (André Pousse); nell'operazione muoiono degli agenti, qualche sospetto ricade su Gouvion, sarà compito proprio del suo amico d'infanzia, il Commissario Joss (Jean Gabin) fare luce sulla faccenda, purtroppo anche Gouvion non avrà un futuro troppo lungo ad attenderlo.


Il film è asciutto, durata breve, dialoghi secchi e ficcanti di Michel Audiard (padre dell'ottimo regista Jacques) che svolge un lavoro indovinatissimo, un Gabin che giganteggia anche solo con un'alzata di spalle, una scelta musicale che scandisce il film con partiture modernissime di Serge Gainsbourg (che compare nel film) e una regia esemplare, calibrata al millimetro nelle scene d'azione, anche queste essenziali nelle riprese e nei movimenti di macchina ma con perfetta scansione dei tempi, attenta a valorizzare l'espressività degli attori anche quando poco loquaci. Si intuiscono i movimenti sessantottini nei locali dove Joss indaga, c'è aria di trasgressione, liberazione, sessualità più aperta e naturale e ci sono gli elementi tipici del noir, il denaro ovviamente, ma anche la donna, la femme fatale che può portare anche l'uomo probo all'errore, al passo falso che gli costerà più di qualcosa. In uno scenario freddo, ghiacciato, quasi polare volendo usare un riferimento al genere, vediamo un uomo vicino alla pensione che con una certa indifferenza, un po' di fatalismo e un pizzico di cinismo, costruisce poco a poco la conclusione di tutta la vicenda in barba alle maglie dei regolamenti, della buona creanza e forse anche di una basilare umanità. Quello che rimane è una giustizia che travalica i confini della legge, addomesticata e benedetta anche dall'alto. Un finale crudo che non concede il passo al buonismo, scorretto e chissà in quanti casi anche veritiero.

Su tutto un Gabin che sarebbe da studiare, parola per parola, passo dopo passo, sguardo dopo sguardo e gesto dopo gesto. Un gigante francese, altro che Napoleone!

lunedì 19 agosto 2019

KNOCKOUT - RESA DEI CONTI

(Haywire di Steven Soderbergh, 2011)

Soderbergh è un regista parecchio prolifico e capace di esiti dai risultati altalenanti, ma in qualche modo questo ragazzo di Atlanta (56 primavere, eternamente giovane) riesce a confermarsi ogni volta quantomeno interessante o accattivante e a imprimere alle sue opere, anche quelle non particolarmente esaltanti come questo Knockout, quell'elemento sul quale vale la pena di soffermarsi. A volte questo elemento è dato dalla storia, altre volte dai mezzi usati per realizzare l'opera, altre ancora dalle scelte di regia o montaggio; in questo caso il fulcro del film è la sua protagonista, la campionessa di arti marziali miste Gina Carano. Sul suo corpo Soderbergh costruisce un film dove la trama (la trama?) è un mero pretesto per imbastire una storia di spionaggio con risvolti personali il cui unico scopo è farci ammirare le evoluzioni acrobatiche della Carano, un corpo femminile per una volta protagonista in maniera parecchio originale, lontano dagli ammiccamenti sexy (anche se la Carano non difetta di fascino) e sempre al centro dell'azione tra combattimenti, inseguimenti, fughe e sparatorie: la Carano è la donna forte al centro del film attorno alla quale ruota un cast di uomini decisamente più famosi di lei e ai quali l'attrice/atleta ruba tutta la scena, e parliamo di Michael Douglas, Ewan McGregor, Michael Fassbender, Antonio Banderas, Channing Tatum, Bill Paxton e l'attore e regista Mathieu Kassovitz. In tutto ciò, come dicevamo, la trama è un banale orpello ornamentale.

Mallory Kane (Gina Carano) è un'agente segreto di un'agenzia privata diretta dal suo ex Kenneth (Ewan McGregor) che appalta i suoi servizi a diversi clienti, compreso il governo degli Stati Uniti rappresentato da Coblenz (Michael Douglas). Dopo un'operazione a Barcellona svolta insieme ad un altro agente, Aaron (Channing Tatum), durante la quale la squadra avrebbe dovuto liberare un ostaggio, Mallory si dimette. Poco dopo, in memoria dei vecchi tempi, Kenneth chiede a Mallory di partecipare a un ultimo lavoro a Dublino, una cosetta facile facile dove dovrà impersonare la dama di un agente segreto inglese, un certo Paul (Michael Fassbender), ma le cose a Dublino non fileranno propriamente lisce.


Come in molte altre spy stories la trama sembra ingarbugliata ma più o meno, una volta giunti a fine film, i nodi si dipanano e tutto torna e come di consueto non manca la classica alternanza di tempi e location che attingono a scenari canadesi, messicani e capatine in città come Barcellona e Dublino. L'azione si spreca ed è appannaggio della protagonista femminile che Soderbergh segue senza tregua facendo ricorso ad alcune tecniche di montaggio e regia sempre piacevoli da guardare ma che tutto sommato dal regista ormai ci aspettiamo e che già conosciamo, da questo punto di vista nulla di nuovo sotto il sole, sebbene il già noto resti comunque piacevole. La novità sta in questa donna atletica capace di incantare nel gesto, che poi è quasi tutto quello che questo Knockout ha di interessante, lo sviluppo è abbastanza scontato e il film di per sé rimane un episodio trascurabile sia nella carriera del regista sia nella produzione cinematografica tout court, insomma, con tutto quel che c'è da vedere in giro questo film è consigliabile per gli amanti delle coreografie e delle arti marziali, a poco valgono poi i tentativi di attori bravi come Fassbender di donare il giusto apporto a un film che tutto sommato rimane poca cosa.

Però, come anticipato in apertura, Soderbergh l'elemento interessante lo trova sempre e in fondo la prestazione della Carano potrebbe stupire dove magari non ce lo si aspetta. Vuoi vedere che alla fine anche questa volta ha avuto ragione lui?

domenica 18 agosto 2019

AMMORE E MALAVITA

(dei Manetti Bros, 2017)

I fratelli Manetti (Marco e Antonio) fanno un'ulteriore passo avanti nella loro poetica cinematografica creando qualcosa di unico e bizzarro per il panorama della commedia italiana all'interno del quale, ibridando generi e visioni, avevano già lasciato segni forti di un'originalità personale e sinceramente spassosa che ha allietato le ore di tantissimi spettatori, creandosi anno dopo anno, tra film e serie televisive, un pubblico affezionato pronto a seguirli in ogni loro nuova mossa. Dopo il successo di Song'e Napule i due registi ridanno fiducia e per la seconda volta consecutiva riversano il loro amore sulla città di Napoli, scenario di una vera e propria storia di amore e malavita. Il cast è consolidato e si è probabilmente assemblato quasi da solo, i volti sono per lo più noti a chi ama il Cinema dei Manetti: viene giustamente dato più spazio rispetto a quello che aveva nel film precedente a quel mostro (in senso buono) di Carlo Buccirosso, alta scuola della recitazione, Morelli è immancabile e insieme a Serena Rossi forma la coppia protagonista di questa vicenda d'amore imbevuto di sangue, torna anche il Raiz (Gennaro Della Volpe, cantante degli Almamegretta) già visto in Coliandro, ottima la presenza di Franco Ricciardi (già Mazzadiferro in Song'e Napule) e sorprende un'ottima Gerini che pur lasciando intuire di non essere realmente d'origini napoletane offre un'ottima prova che ha raccolto diversi riconoscimenti grazie alla sua interpretazione di Donna Maria.


L'oggetto Ammore e malavita si può considerare quasi unico, una mistura che travalica anche i generi, andando a toccare la sceneggiata napoletana così come il musical di stampo più moderno, le derive criminali tanto care ai Manetti consolidate nella tradizione (cinematografica) nostrana mischiate a momenti di danza e ballo; Ammore e malavita è commedia e allo stesso tempo si concede la più classica delle "zeppate" napoletane con una esilarante e non troppo nascosta critica a chi di Napoli vuole esaltare solo il peggio, meravigliosa tutta la sequenza girata a Scampia con il gruppo di stranieri in visita turistica alle Vele, un passaggio che esalta il connubio tra situazione, canzone e momento danzante. Chapeau! I Manetti si concedono ancora all'effettaccio dal basso (il proiettile al ralenty) ma per il resto impiegano il budget tirandone fuori ottimo Cinema, di quello capace in qualche modo ancora di stupire, di lasciare lo spettatore soddisfatto per non aver visto la solita commediola da quattro soldi.

Don Vincenzo Strozzalone (Carlo Buccirosso) è il re del pesce sulla piazza di Napoli e sul porto di Pozzuoli, gestisce un'impero criminale minacciato da diverse famiglie avversarie. Scampato a un'agguato volto a toglierlo di mezzo, grazie all'intervento delle sue due "Tigri", Ciro (Giampaolo Morelli) e Rosario (Raiz), due inarrestabili killer in motocicletta, Don Vincenzo decide di sparire e, istigato nell'idea da sua moglie Donna Maria (Claudia Gerini), cinefila incallita, inscena un finto funerale con tanto di sosia a riempire la bara (James Bond docet). Ma una giovane infermiera, Fatima (Serena Rossi) primo amore di Ciro, vede il boss ancora vivo, diventando così uno scomodo testimone che proprio le Tigri dovranno togliere di mezzo. Ma Ciro non ce la può fare.


I Manetti stravolgono un poco l'utilizzo a cui siamo abituati di Giampaolo Morelli, qui un vero tenebroso, ancora capace d'amare ma che raramente si concede al suo lato più cazzaro così congeniale all'attore napoletano, lo fanno cantare e qui forse qualche limite dell'attore emerge, schiacciato in mezzo a tanta altra gente che col canto è molto più a suo agio o addirittura ne ha fatto un mestiere (Raiz o Franco Ricciardi ad esempio), per quel che riguarda il versante canoro la Gerini già aveva dimostrato di non essere estranea a questo mondo, la Rossi la conosciamo molto bene e anche Buccirosso di mestiere se la cava.  Le musiche amalgamano la tradizione napoletana a suoni più moderni conferendo al film un'identità difficile da catalogare tra musical, commedia e gangster story con l'aggiunta dei siparietti danzanti, identità di grande valore nell'ottica di portare il nostro Cinema da qualche altra parte, fuori dalla palude dove spesso si trova a ristagnare quando ci si avventura lontano dai grandi e noti autori riconosciuti da tutti.

venerdì 16 agosto 2019

L'AMORE MOLESTO

(di Mario Martone, 1995)

La scrittrice Elena Ferrante, pseudonimo di non si sa bene chi, è un fenomeno editoriale negli ultimi tempi sulla bocca di tutti soprattutto grazie al successo dei quattro libri che compongono la saga de L'amica geniale, tradotta in fiction televisiva l'anno scorso dalla Rai (con HBO, Fandango e TimVision) per la regia di Saverio Costanzo. Ma la Ferrante non nasce certo ora come scrittrice, già dalla metà degli anni 90 si fa conoscere con almeno un paio di romanzi divenuti altrettanti film: questo L'amore molesto di Mario Martone del 1995 e I giorni dell'abbandono trasposto per il Cinema da Roberto Faenza nel 2005. Sia la Ferrante che Martone sono napoletani di nascita e Napoli è proprio una delle protagoniste de L'amore molesto, insieme a un poker di splendide interpreti: Anna Bonaiuto e Carmela Pecoraro, nel ruolo di Delia, rispettivamente da adulta e da bambina, e Angelica Luce e Licia Miglietta nella parte di Amalia, la madre di Delia, da anziana e da giovane.

Martone mette in scena un dramma, tratteggiando almeno un paio di figure femminili di fortissimo interesse e grande personalità, un dramma che pian piano si sviluppa, o ancor meglio si dipana, come una sorta di giallo psicologico basato su false credenze e rimossi della protagonista Delia, una giovane disegnatrice napoletana ormai trasferitasi da tempo a Bologna per questioni di lavoro ma anche a causa di un'allontanamento voluto dalla figura materna con la quale Delia ha un rapporto conflittuale. Proprio durante una delle visite a Bologna di Amalia, la madre di Delia, si evince l'insofferenza di quest'ultima verso la figura genitoriale nonostante da parte della donna ormai anziana traspaia un affetto apparentemente sincero per la figlia. Quando Amalia riparte per Napoli il film innesta la marcia e diventa via via sempre più interessante e coinvolgente. Delia riceve un paio di telefonate strane dalla madre che non è mai arrivata a Napoli, chiamate durante le quali la donna si rivela volgare, non presente a sé stessa, probabilmente in compagnia di un uomo che sicuramente non è il padre di Delia. La preoccupazione della figlia aumenta, un evento tragico sul quale indagare la costringerà a tornare a Napoli e ripercorrere tra testimonianze e memoria la storia della sua famiglia: una madre piacente, un padre geloso e violento, uno zio di parte e un uomo misterioso.


Oltre al fascino della storia, alla recitazione eccellente di tutto il cast, le donne citate poco fa ma anche Giovanni Viglietti, un ottimo Gianni Cajafa, Enzo De Caro, Francesco Paolantoni e altri elementi ancora, quello che rende riuscito in maniera particolare questo film è proprio la regia di Martone che ci porta letteralmente nelle strade di Napoli, lo fa con le immagini, con il movimento della camera in mezzo alla gente ma soprattutto lo fa con i suoni, con il dialetto napoletano di cui è imbevuta l'opera ma anche con tutti i rumori della città, il traffico le voci fuoricampo che si amalgamano in maniera costante e mai fastidiosa con i dialoghi dei personaggi, una scelta di stile che ci restituisce una città vera, viva, in continuo movimento dentro la quale Delia sarà la pedina più importante per arrivare a capo di una matassa che si tradurrà più che altro in una presa di coscienza per la protagonista, in una crescita e non soltanto nella classica risoluzione dell'enigma che pure risulta per lo spettatore interessante.

È un film molto vivo L'amore molesto, vicino ai personaggi, vicino alla terra così come all'anima dei protagonisti, uno di quei film che ci riappacifica con il Cinema nostro e che con una buona dose d'umiltà ci mostra come il Cinema italiano può ancora essere grande.

sabato 3 agosto 2019

SPIDER-MAN: FAR FROM HOME

(di Jon Watts, 2019)

Questo secondo episodio dedicato all'amichevole Uomo Ragno di quartiere è diverse cose: è il sequel ufficiale di Homecoming, film che definiva il ritorno  del personaggio in casa Marvel (cinematograficamente parlando) e nel Marvel Cinematic Universe; è un'appendice e una chiusura ai mega eventi che hanno segnato la "fase tre" del grande progetto dei Marvel Studios, un breve addio a diversi dei suoi protagonisti e il primo sguardo verso il prossimo futuro; ma Far from home è soprattutto un teen movie, un film di stampo adolescenziale dove il supereroe non si mangia l'intera storia ma, proprio come accadeva nei fumetti dei 60 realizzati da Stan Lee e Steve Ditko, è elemento ben bilanciato con tutte le altre (dis)avventure del mite studente Peter Parker (Tom Holland). Il senso di colpa radicato nel personaggio cartaceo è qui sostituito dal dolore per la perdita del mentore Tony Stark, di cui Peter è almeno moralmente l'erede, beneficia infatti di parte della sua tecnologia (troppa sinceramente per un eroe che nasce urbano) e affronterà un percorso di crescita grazie a Happy Hogan (Jon Favreau), sodale storico di Tony, ma soprattutto grazie al roccioso Nick Fury (Samuel L. Jackson), un percorso nel quale leggiamo il motto trascurato nel primo episodio da grandi poteri derivano grandi responsabilità (e discreti mal di pancia).

Peter ha un suo piano, che non è quello di salvare il mondo, prendere a calci il cattivo di turno, diventare un Avenger (che non ci sono più e probabilmente non ci saranno per un bel pezzo) o altre super-cose da super-tizio. No. Peter vuole andare in gita con la sua classe in Europa, magari comprare un bel regalo per MJ (Zendaya), aspettare di essere a Parigi e una volta arrivato sulla Tour Eiffel consegnare il regalo, dichiararsi alla ragazza che riempie costantemente i suoi pensieri, magari cercando di farlo senza inanellare figure di palta, se possibile. Invece, suo malgrado, Peter in Europa si troverà a dover affrontare la minaccia di quattro forze elementali altamente distruttive contrastate dal misterioso Mysterio (Jake Gillenhaal), si dovrà relazionare (nonostante i tentativi di fuga) con l'arcigno Nick Fury e con la ferma Maria Hill (Cobie Smulders), sopportare Flash Thompson e alla fine sì, anche salvare un bel po' di vite. E l'impressione è proprio che tutte queste cose sia Peter a farle, non tanto l'Uomo Ragno, che nel suo costume classico rosso e blu compare veramente poco.


La parte meglio riuscita del film è proprio quella teen, la gita in giro per l'Europa (in un mare di locations) con una classe gestita da due idioti (J. B. Smoove e Martin Starr), i primi amori e l'amicizia con l'inseparabile Ned (Jacob Batalon), le dinamiche tra gli studenti e via discorrendo, tutte cose che avvicinano il film ancor di più, se possibile, a un pubblico adolescente (che dovrebbe essere il target di riferimento per questi prodotti, poi che piacciano anche a noi adulti è un altro paio di maniche). Imbarazzante la scelta di caratterizzazione dell'Italia in generale, con musiche di Tozzi in sottofondo e un paese che sembra fermo a cinquant'anni fa, esemplare la stoccata sui musei sempre chiusi. Forse meno riuscita la parte dedicata all'eroe, troppo poco inquadrato nel suo iconico costume e lontano dai suoi luoghi d'elezione, ne esce uno Spider-Man messo in secondo piano ma anche un poco snaturato (un delitto per quella che è sempre stata un'icona Marvel). Buono il lavoro fatto su Mysterio, modernizzato al meglio e reso credibile (parliamo di uno che va in giro con una boccia per pesci in testa) da un'interpretazione contenuta da parte di Gyllenhall, proprio le poche sequenze ambientate all'interno delle illusioni create dal personaggio risultano visivamente tra le più riuscite e accattivanti del film, senza contare che questo nuovo acquisto del MCU porta in dote diverse riflessioni sul come al giorno d'oggi si usino le immagini per manipolare informazioni, eventi e persino sentimenti.


Tirando le somme Far from home è un buon teen movie che si porta sulle spalle l'onere (più che l'onore) di dare una chiusa alla terza fase del Marvel Cinematic Universe, omaggiando i personaggi che lasceranno, dando qualche spiegazione sulle conseguenze "tecniche" di Endgame e aprendo a future avventure che, stando alle dichiarazioni della Marvel, vedranno un più massiccio coinvolgimento delle serie tv, faranno a meno degli Avengers per almeno un po' di tempo e che soprattutto potranno in futuro contare per la prima volta su brand di altissima importanza come quelli dei Fantastici 4 e degli X-Men. Molto interessanti le due scene dopo i titoli di coda, la prima tutta dedicata al futuro di Spider-Man (ottima) e la seconda... beh, la seconda sarà un po' da capire.


PS: ma lo Scorpione ventilato nelle scene post credits del film precedente che fine ha fatto?
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