martedì 30 ottobre 2018

THE DISASTER ARTIST

(di James Franco, 2017)

Metacinematografico a dir poco. The disaster artist non solo parla di Cinema ma ricalca in maniera puntuale una vicenda particolare - in tutti i sensi - legata al mondo della Settima Arte. Probabilmente qualcuno avrà già sentito parlare di The Room, alla sua uscita etichettato come il film più brutto della storia del Cinema e proprio per questo divenuto un piccolo culto che continua a raccogliere spettatori nonostante (o proprio per) la sua scarsa qualità. Chi meglio di James Franco poteva dirigere una pellicola come questa? Franco, che a differenza del protagonista del film di acume e talento ne ha da vendere, ha con lo stesso in comune una passione viscerale, quasi bulimica, per il mezzo Cinema. Sembra quindi naturale che proprio lui si sia voluto accaparrare la possibilità di portare in scena la storia della creazione di The Room, ricalcando in tutto e per tutto la figura del protagonista Tommy Wiseau: proprio come il suo predecessore anche Franco qui ricopre le vesti di regista, produttore e attore protagonista, lasciando però il compito di redigere la sceneggiatura a Greg Sestero, uno dei reali motori della vicenda, interpretato nella finzione da Dave Franco, fratello dello stesso James.

Tommy Wiseau (James Franco), durante una lezione di recitazione e improvvisazione, colpisce l'attenzione del giovane aspirante attore Greg Sestero (Dave Franco) grazie alla sua spontanea esuberanza. Sestero al contrario è un attore totalmente bloccato, di trascurabile talento se non proprio incapace nell'arte della recitazione. Dopo un primo contatto, tra i due nasce una sincera amicizia cementificata dalla comune aspirazione di sfondare nel mondo del Cinema; "il sogno" legherà i due indissolubilmente per un lungo periodo di tempo. Ma anche le migliori amicizie possono celare qualche segreto: di Tommy infatti non si conosce l'età precisa, il suo bizzarro accento riporta ai paesi dell'est Europa ma Tommy giura di essere originario di New Orleans, inoltre il suo patrimonio sembra infinito e nessuno conosce la provenienza di questa enorme disponibilità finanziaria, tutte informazioni di cui anche lo stesso Greg è completamente all'oscuro. La montagna di soldi in possesso di Wiseau permetterà ai due amici di trasferirsi a Los Angeles e, dopo diversi tentativi falliti di entrare nello show business, di produrre, girare e interpretare un film tutto loro: The Room.


Alla fine di The disaster artist a colpire è la mimesi tra il Wiseau interpretato da Franco e quello reale, un personaggio sul quale aleggiano ancora alcuni dubbi (vero nome, provenienza, etc...) e sul quale ci si interroga sulla facilità di spesa: il solo The Room sembra sia costato circa sei milioni di dollari, non proprio noccioline per quello che a tutti gli effetti dovrebbe essere un perfetto Signor Nessuno. A prescindere dai contenuti incoerenti di The Room, il film nel film, Franco mette sotto i riflettori la fragilità del suo protagonista, un tipo fuori fase che ha enormi difficoltà a farsi prendere sul serio, a farsi accettare e apprezzare dalle persone che gli stanno intorno. Fobico del tradimento, Wiseau non vede di buon occhio i piccoli successi ottenuti dal suo amico Greg, è geloso delle sue relazioni con le donne e anche la lavorazione del suo film sarà tutt'altro che una passeggiata di salute. Sì, perché nonostante quell'energica prova d'improvvisazione dalla quale tutto comincia, anche Wiseau non si può dire che sia un talentuoso, anzi, tutto si muove solo grazie ai suoi soldi, le giornate sul set di The Room risultano deliranti, i conflitti sono all'ordine del giorno e fino alla serata della prima Wiseau continuerà a sentirsi un escluso, un reietto che alla fine solo il suo amico Greg saprà consolare.

Messa da parte la curiosità per il prodotto finale nato degli sforzi di Sestero e Wiseau, curiosità che è possibile soddisfare in pieno recuperando proprio The Room, quello che resta è una commedia dai toni spesso amari che tratteggia un personaggio che a Franco deve stare molto a cuore (da qui la scelta di una mimesi esemplare), andandone a sottolineare sia le debolezze, sia la debordante spavalderia di facciata. The disaster artist risulta così essere un perfetto biopic hollywoodiano, un film calato completamente nell'industria mainstream che ci narra di come anche un prodotto che è outsider fin nel midollo possa ritagliarsi il suo posto al sole. Beh, magari non proprio al sole visto che The Room è diventato un cult principalmente grazie alle proiezioni di mezzanotte, ma insomma... il concetto è chiaro.

Chiudiamo citando la bellissima definizione che lo studioso di Cinema Ross Morin ha creato per The Room, bollandolo come "il Quarto potere dei film brutti", appellativo geniale che la dice lunga sull'oggetto principale di The disaster artist.

giovedì 25 ottobre 2018

52 GIOCA O MUORI

(52 pick-up di Elmore Leonard, 1974)

Elmore Leonard, come già in altre occasioni, fa un passo indietro e lascia campo libero ai suoi personaggi e alla costruzione della vicenda. La prosa di Leonard non è mai invasiva: lineare, non eccede, tanto da non far sentire una mano esterna e superiore a manovrare le azioni dei protagonisti. Tutto procede con naturalezza, lo scrittore si lascia dimenticare, richiamato a volte solo da una traduzione non proprio ineccepibile (ho in mano un'edizione un po' datata del libro in verità), negli altri casi tutto scorre, fluido.

Torniamo un momento all'edizione in mio possesso. Sperling Paperback, datata 1991. Tralasciando la cura non eccezionale di questa specifica collana di libri, è particolarmente strana la scelta fatta per la copertina di un libro che è a tutti gli effetti un romanzo giallo o al limite un thriller. La Sperling sceglie una cover in stile Harmony, da romanzo rosa o al massimo buona per un potenziale antesignano dei vari 50 sfumature di (inserire un colore a piacere); scelta voluta mi chiedo o semplice abbaglio? Difficile per chi non conoscesse lo scrittore e fosse in cerca di un bel giallo, soffermarsi su 52 gioca o muori con una cover di questo tipo. Riflessioni di poca importanza comunque, torniamo al punto.

52 gioca o muori ha una di quelle trame buone per tirarci fuori un bel filmetto da serie b senza troppe pretese, cosa che tra l'altro è stata fatta prontamente, affidando la regia anche a Frankenheimer, mica l'ultimo arrivato. Il film non l'ho visto ma credo rientri proprio nella serie b di cui sopra, indagherò in un prossimo futuro. Trama semplice, lineare, personaggi se non proprio tagliati con l'accetta poco ci manca, tutto risaputo ma anche tutto molto funzionale. L'intreccio funziona, i capitoli sono brevi, il ritmo serrato, non ci sono divagazioni o perdite di tempo, alla fine la successione degli eventi cattura il lettore, l'intrattenimento è assicurato e anche a piccole dosi quotidiane si arriva al finale in poco tempo. Nessuna novità ma formula rodata e vincente.

Harry Mitchell è un uomo benestante, proprietario di un'azienda che produce macchinari industriali, è sposato con Barbara, una donna quarantenne, di classe, ancora in forma e molto attraente. Preso dalla classica crisi di mezza età, Mitchell, marito finora fedele, intreccia una relazione con la giovane Cini, una ragazza semplice e alla mano conosciuta in un locale. La relazione si protrae per qualche tempo, finché un terzetto di loschi figuri inizierà a minacciare il protagonista con foto incriminanti e filmati che testimoniano la relazione adulterina. Filmati piccanti che lasciano presupporre la complicità della ragazza nell'intera faccenda. Il trio di ricattatori non scherza, le loro richieste si trasformeranno nella classica escalation alla quale Mitchell dovrà decidere come reagire. Purtroppo Mitchell non è il classico tipo remissivo; freddo e lucido deciderà di non seguire le vie più canoniche per risolvere la questione che invece affronterà di petto mettendo in moto una serie di eventi che avranno per tutti le dovute conseguenze.

52 gioca o muori (titolo un po' fuorviante) non cambierà la vita a nessuno, è uno di quei libri che leggi con piacere, riponi sullo scaffale e poi dimentichi. Non male, buono per gli amanti del genere, per gli spostamenti, prima di andare a dormire, seduti sul wc...

Elmore Leonard

martedì 23 ottobre 2018

BEKET

(di Davide Manuli, 2008)

Il Beket di Davide Manuli è una sorta di U.F.O. nel panorama cinematografico italiano dell'ultimo decennio. Indubbiamente la definizione di "oggetto non identificato" calza a pennello all'opera del regista milanese, qui in trasferta in terra sarda. Per il "volante" se ne può discutere: se nelle intenzioni del regista c'era quella di volare alto non è dato sapere, però i riferimenti poco canonici (fin dall'ortografia del titolo) all'opera di Samuel Beckett, "Aspettando Godot", già poco canonica di suo, qualche pretesa di spessore la lasciano intendere. Beket è un insieme di frammenti insensati ai quali, volendo, lo spettatore può tentare di dare un senso tutto suo, un'interpretazione che potrebbe riguardare il concetto di "attesa", come potrebbe riferirsi all'insensatezza delle nostre esistenze, alla ricerca di qualcosa di più alto di noi, o semplicemente all'attesa di quel Godot che alla fine nessuno sa chi o cosa cazzo sia, e che tutt'al più si può intuire non arriverà mai, e comunque non oggi, come conferma un ragazzino ai due protagonisti del film e a quelli dell'opera teatrale di Beckett.

Lo scenario è straniante, arido, ampio, solingo, stonante. Il bianco e nero d'effetto, maturo, graziato dalla fotografia di Tarek Ben Abdallah, rende il paesaggio sardo quasi lunare, alieno tanto affascinante quanto spopolato. All'interno di esso si muovono figure inaccessibili, irrazionali, di poca azione e di qualche parola, sicuramente di poche connessioni coerenti, amanti della ripetizione e di quello che diventa a tutti gli effetti, sia come omaggio che come cifra stilistica propria, un teatro dell'assurdo.


Un pugile (Simone Maludrottu) tira di boxe su una base techno dance. In un deserto abbacinante un uomo cammina solo, una radiolina nella sua mano emette scariche, voci incomprensibili. L'uomo cammina, cammina, cammina, si siede su una pietra. È francese, è Jajà (Jérôme Duranteau), incontra un surreale mariachi (Freak Antoni degli Skiantos) che discetta d'amore e di belli e buoni, brutti e cattivi e avanzi di galera, puttane, mammasantissima e magnaccia, tossicomani e burloni, banditi e massoni, santi, navigatori e poeti, froci, lesbiche e lavoratori, brava gente, contadini e militari... e militari. Entra in scena Freak (Luciano Curreli), si cambia le scarpe. Sarà compagno di viaggio di Jajà, insieme corrono verso una fermata d'autobus, un bus che nulla ha da invidiare per stramberia al Nottetempo di Harry Potter o al Gattobus di Totoro, soprattutto se calato nel contesto spettrale di una terra disabitata. Da qui in avanti confronti e dialoghi nonsense tra i due, alcuni spassosi per quanto fuori fase, accompagnano un viaggio spezzato da ritmi elettro dance e incontri allucinati, come quelli con l'Agente 06, un tipo dalla parlata strana che gira con una vecchia Fiat Panda interpretato da Fabrizio Gifuni. Concede un cameo il comico Paolo Rossi, l'Agente 08, uno l'avvenente Letizia Filippi... insomma, gli incontri non mancano, l'unico che non si vede è proprio questo Godot.

Non c'è meta, c'è viaggio, i ruoli si invertono (ma ruoli di che cosa?), non c'è significato. C'è significato? "Tutto vecchio. Nient'altro mai. Sempre tentato. Sempre fallito. Non importa. Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio".

Una scheggia impazzita quella di Manuli. Non catalogabile, insensata, bene interpretata, veloce, rispettosa, probabilmente inutile, comunque affascinante. Difficile da giudicare, giudicare non è importante. Guardare lo è, vivere lo è (forse). Dove va Beket? Chi lo sa, intanto Freak e Jajà mi han riportato alla mente Totò e Ninetto, contesti diversi, però così è, mica tutto deve avere un senso.

giovedì 18 ottobre 2018

RAMPAGE - FURIA ANIMALE

(Rampage di Brad Peyton, 2018)

Se cercate un modo per spendere due ore della vostra vita in maniera davvero poco proficua, Rampage - Furia animale potrebbe essere il film che fa per voi. Tenete conto che queste due ore le butterete più o meno nel cesso. Premettendo che non disdegno a prescindere il blockbuster hollywoodiano, anzi, che guardo più o meno tutti i cinecomics Marvel e Dc e che anche cose come i nuovi Jurassic World (per dirne una) riescono a divertirmi, qualche limite bisognerà pur darselo.

Le fonti di idee (e di soldi) dalle quali il Cinema americano attinge non hanno limiti: questa volta si va a pescare addirittura da un vecchio videogioco del 1986 che personalmente giocavo sul mitico Commodore 64. Lo scopo di Rampage era quello di impersonificare un grosso mostro a scelta tra un lupo mannaro, un enorme gorilla e un dinosauro, e con questi distruggere le varie città degli Stati Uniti facendone crollare i grattacieli mentre polizia ed esercito si industriavano per ammazzarti. Stop. Da questo concetto fino e stratificato la New Line Cinema è riuscita a tirar fuori questo film che ovviamente ha incassato una bella montagnola di soldini, complice probabilmente la presenza di Dwayne "The Rock" Johnson che pare piaccia parecchio. E per un film del genere The Rock non è malaccio, tutt'altro, ha la presenza fisica giusta, sa essere ironico dove serve, il livello attoriale rimane sopra i livelli di guardia. Ciò che qui è davvero carente è il plot, di una linearità e una banalità disarmante, neanche il tentativo di un colpo di scena... nulla. "Ma ti sei guardato Rampage" — direte voi —, "che cosa ti aspettavi?" Avete ragione, alla fine Rampage più o meno offre quel che ci si poteva aspettare, colpa mia.


Però un pochino ci hanno ricamato sopra, diamogliene atto. Una di quelle mega aziende che sono il male del mondo sperimenta una nuova sostanza capace di accrescere dimensioni e aggressività di chi viene a contatto con le sue esalazioni. La sostanza, per vicissitudini varie, si trova su una piattaforma spaziale: casino, esplosioni, quindi precipita sulla Terra. Qui contagia un gentile scimmione albino, George (Jason Liles in motion capture), uno dei gorilla seguiti dal primatologo Davis Okoye (Dwayne Johnson), un coccodrillo che diventa Godzilla e un lupo che si trasforma in... beh, in un superlupocattivissimo. La mega azienda malvagia ha tutto l'interesse a insabbiare la faccenda e a eliminare le creature, per far questo le attira in città (Chicago) dove queste si scateneranno e tireranno su davvero un bel casino. Ma una genetista ex dipendente dell'azienda (Naomie Harris), licenziata per aver superato il periodo di comporto della mutua, dice che c'è un antidoto; vuoi vedere che se lo diamo a George quello ci aiuta a fare il culo agli altri due? E cazzo sì, ottima idea, perché non ci ho pensato io? L'unico che potrà metterla in pratica questa idea sarà proprio Dwayne, e sì che a risolvere la situazione ci sta provando anche il re degli stronzi Jeffrey Dean Morgan.

George in fin dei conti è uno scimmione simpatico, ha un suo senso dell'umorismo, fa il dito medio e gli scherzetti; gli effetti speciali usati per realizzarlo non sono niente male, così come a livello visivo il film è più che dignitoso, la sequenza meglio riuscita è infatti quella della distruzione in città, welcome to the jungle mi vien da dire, probabilmente su grande schermo anche divertente. Non mi vengono in mente altri motivi per cui potrei consigliarvi la visione di questo film se non per buttare un paio d'ore e vedere dei grossi animali che buttano giù dei palazzi. Però per quello potete cercarvi un emulatore del C64, caricare Rampage e via...

mercoledì 17 ottobre 2018

MANIAC

Inizi a guardare Maniac e da subito hai l'impressione di non capirci molto; così ti fai l'idea che la nuova miniserie Netflix sia uno di quei prodotti cervellotici che pian piano andranno a disvelare le fitte trame nascoste dietro il complicato intreccio. Guardi puntata dopo puntata cercando di capire, ma in realtà non capisci e solo sul finale arrivi a capire che in fondo non c'era proprio nulla da capire. Capito? Sembra tutto molto complicato nella nuova fatica di Cary Fukanaga, regista della prima stagione di True Detective, ma in realtà non lo è. Maniac di per sé è un prodotto dallo sviluppo singolare ma abbastanza lineare, la grande capacità di scrittura da parte degli sceneggiatori, lo stesso Fukanaga e Patrick Somerville, sta nell'essere riusciti a dare l'idea di una storia fatta di ramificazioni e scatole cinesi ma che in fin dei conti si rivela essere di una semplicità disarmante, e alla fine ti ritrovi a pensare che sì, a conti fatti, quei due ti hanno proprio fregato per benino. Tutto ciò nulla toglie al fatto che Maniac sia una serie capace di regalare diverse ore di piacevole intrattenimento (nel complesso la miniserie non è così lunga), ottime interpretazioni, alcune puntate deliziose nonché momenti sparsi di ottimo Cinema (sì, anche se è una serie Netflix). Si va a crescere, le prime puntate gettano le basi di quello che si vorrebbe far credere essere l'intricato intreccio di cui sopra: intrigano ma non colpiscono in pieno. Il divertimento vero inizia tra la terza e la quarta (meravigliosa) puntata e poi sarà un saliscendi incostante, ma qualitativamente proiettato verso l'alto, di emozioni, sorprese e soddisfazioni, fino ad arrivare alla scena finale che andrà a chiudere in modo coerente tutta la narrazione. Il grosso del corpo dell'opera, tutto quello che sta nel mezzo, è un divertissement di classe che omaggia i generi, il mezzo televisivo e cinematografico, l'amore per le storie.


Un quasi irriconoscibile e dimagritissimo Jonah Hill interpreta Owen Milgrim, un uomo timido proveniente da una famiglia facoltosa che nel suo passato annovera episodi di schizofrenia e che di tanto in tanto fatica a capire se determinati episodi o persone siano frutto di fantasie della sua mente o tasselli concreti appartenenti alla realtà. La sua famiglia, in primis il padre Porter (Gabriel Byrne), esercita su Owen pesanti pressioni affinché testimoni in tribunale a favore di suo fratello Jed (Billy Magnussen), colpevole di un qualche tipo di violenza sessuale. Annie Landsberg (Emma Stone) è invece una giovane donna in crisi, ossessionata dalla perdita della sorella con la quale non aveva il rapporto che avrebbe voluto avere, sola, dipendente dai farmaci, vive un'esistenza spezzata. Entrambi i personaggi decidono di partecipare a un trial medico sperimentale tenuto dai dottori Muramoto (Rome Kanda) e Mantleray (Justin Theroux) e coordinato dalla dottoressa Fujita (Sonoya Mizuno). Lo scopo della sperimentazione, suddivisa in tre fasi (pillole A, B e C), è quello di rimuovere i traumi del passato attraverso una sorta di catarsi virtuale, per affrontare e vivere al meglio la realtà presente. I due protagonisti, insieme ad altri soggetti, verranno calati nel corso della sperimentazione in diverse realtà fittizie create dalla loro stessa mente all'interno delle quali avranno modo di fare i conti con i disturbi che gli avvenimenti della vita reale hanno provocato alle loro menti.


Sono diversi gli elementi interessanti in Maniac che spingono alla visione rapida del progetto di Fukanaga e Somerville (binge watching, avete presente?). Intanto c'è un'ambientazione affascinante che potrebbe essere un passato riconducibile per diversi aspetti agli anni 80 del secolo scorso ma che presenta qualche elemento futuristico per l'epoca, una sorta di retrofuturismo aggiornato agli eighties se vogliamo, con trovate visive che richiamano molto l'estetica di quel decennio. L'effetto è un poco spiazzante ma in maniera decisamente riuscita. Da non trascurare l'affiatamento tra due attori capaci di offrire ottime prove di recitazione ma anche di trasformismo, sia Hill che la Stone ce li possiamo godere in diverse versioni di loro stessi, tutte riuscitissime e con look agli antipodi l'una dall'altra. Questo grazie un gioco basato sulla rielaborazione dei generi che è il vero punto forte di Maniac, il quarto episodio (il mio preferito) ci offre schegge di Cinema postmoderno dove i due protagonisti, inspiegabilmente connessi nella stessa visione, sono una coppia di "grezzi" invischiata in una faccenda che vede al centro un lemure di una razza rara, i dialoghi sono grotteschi e tutta la vicenda divertentissima, in un episodio che nulla ha da invidiare a film giunti nelle sale che cavalcano lo stesso filone. Con uno scarto decisamente ampio da quella che è la cifra stilistica principale della miniserie, la Stone viene immersa anche in una realtà fantasy derivata dall'immaginario tolkeniano de Il signore degli anelli dove avrà modo di ripercorrere il suo rapporto con la sorella; efficacissimo il truce risvolto crime con un Gabriel Byrne violento fino al parossismo e un Hill semplicemente magnifico. Altra nota di merito per la versione finnica di Jonah Hill, scombinata e di rara imbecillità: meraviglioso. Dopo Suxbad - Tre menti sopra il pelo si ricompone una coppia dalla chimica irresistibile.


Intorno ai due protagonisti la vicenda si muove, anche qui portata avanti con merito da grandi interpreti, con il rapporto di amore/odio tra il Dottor Manterlay e sua madre (un'ottima Sally Field) e in generale tra i membri del progetto e il computer di kubrickiana memoria GRTA che nella sua A.I. contiene caratteristiche proprie della madre di Manterlay. Si esplorano allo stesso tempo i recessi del Cinema toccandone i vari generi e quelli della mente andando ad affrontare traumi e malattie con classe ed intelligenza. Alla fine può sembrare che Maniac non mantenga le promesse, che non ci dia quello che all'inizio ci eravamo prefigurati, ma non perché l'esperienza sia deludente, al contrario proprio perché la serie è capace di sorprendere e di lasciarsi passare agli occhi dello spettatore per quello che non è, risultato poi non proprio così banale da raggiungere. Forse a rientrare su binari più consueti e prevedibili è proprio il finale, e va bene così, in fondo cosa avremmo potuto sognare e sperare di meglio per i due protagonisti ai quali ormai ci siamo tanto affezionati?

giovedì 11 ottobre 2018

PIANETA STREGATO

(The flying sorcerers di David Gerrold e Larry Niven, 1971)

Ohibò. Qualche anno fa in uno slancio di entusiasmo, in un periodo in cui ero un po' più preso del solito per la fantascienza, decisi di iniziare ad acquistare qualche numero di Urania; spesa modica, in più la decisione arrivava con l'inizio di una serie di ristampe che avrebbero dovuto essere una sorta di "classici moderni" della fantascienza, cadenza bimestrale, sottoetichetta marchiata I capolavori. Presi una dozzina di numeri in tutto con la consapevolezza che, alternandoli con altre letture di diverso genere, me li sarei portati avanti per anni. Ad oggi ne ho letti più o meno la metà e voglio sperare vivamente che i veri capolavori della fantascienza non siano tutti di questo livello, oppure, più semplicemente, posso prendere atto che tranne per alcune eccezioni (vedi Philip Dick ad esempio) questo genere trasposto su carta non sia esattamente la mia tazza di tè. Intendiamoci, nessuna di queste letture si è rivelata spiacevole, semplicemente questo lotto di romanzi per ora non ha soddisfatto le mie aspettative.

Pianeta stregato non fa eccezione. Partiamo però dal pregio principale del libro introducendo allo stesso tempo la trama. Siamo su un pianeta alieno dominato da due soli (uno blu, Virn, e l'altro rosso, Ouells) e diverse lune. È un pianeta ancora primitivo per i nostri standard, tutti gli aspetti della vita comunitaria sono regolati dalla magia di cui lo stregone Shoogar è l'unico portavoce nel villaggio qui preso in esame. Gli uomini sono ancora dotati di folto pelo, credono in moltissime divinità da rabbonire con riti propiziatori, le donne sono sottomesse e considerate alla stregua di una mera proprietà da parte degli uomini, organismi da fatica e riproduzione. La storia è narrata dal punto di vista di Lant, un intagliatore di ossa e poi portavoce del villaggio. Un giorno sul pianeta giunge una nave spaziale a forma di uovo, a bordo un pacifico studioso proveniente dallo spazio che a causa della tecnologia in suo possesso e delle sue conoscenze avanzate verrà scambiato per un potentissimo stregone a cui verrà dato il nome di Porpora. Nonostante l'indole pacifica del nuovo arrivato, a causa dell'insicurezza di Shoogar, tra i due "maghi" ci sarà uno scontro che porterà a conseguenze devastanti e all'impossibilità per Porpora di poter tornare sul suo pianeta.

David Gerrold

Da quel momento tutti si adopereranno per trovare un modo per far tornare Porpora sul suo pianeta, gli indigeni per toglierselo dai piedi, Shoogar col fermo intento di farlo fuori, Porpora stesso per il desiderio legittimo di tornare alle sue terre.

Torniamo al pregio. È interessante vedere come i due autori, dietro la storia semplice di un ritorno a casa, mettono in scena l'evoluzione di una società che viene a conoscenza di nuove tecniche e come questa evoluzione si porti dietro quasi inevitabilmente quelli che spesso, tranne alcune eccezioni, sono diventati poi aspetti negativi delle nostre società moderne. Si potrebbe pensare ad esempio all'arrivo dello straniero, alla mancata accettazione dello stesso e al conflitto che ne consegue (armi e disastri compresi); possiamo pensare alle piccole e progressive conquiste da parte delle donne anche se dietro ad alcune di queste non mancano interessi opportunistici da parte degli uomini. Con l'avvento tecnologico si assiste a un passaggio da una vita più improntata "alla vita" verso una più dedita al lavoro, alla produzione con conseguente passaggio da un'impostazione più tesa alla spiritualità e all'inspiegabile a una molto più terrena e materiale (o materialista). Quindi lotte per il prestigio e per il potere, introduzione del denaro che da subito diventa oggetto vuoto, privo di sostanza, dietro al quale Gerrold e Niven descrivono già i primi movimenti dei mercati e della finanza. Con il denaro arriva il crimine, l'atto per il quale si dovranno trovare provvedimenti, cosa che fino a quel momento mai si era resa necessaria, così come sconosciuto era il concetto di punizione (se non per le donne che venivano battute, ma mai per dei crimini). Con la tecnologia arriva la distruzione dell'ambiente.

I sottotesti sono indubbiamente interessanti e anche molto, purtroppo nel racconto non ci sono sviluppi che facciano gridare al miracolo, manca un po' il ritmo, mancano coinvolgimento ed empatia, anche la curiosità non viene solleticata più di tanto, si finisce per apprezzare più che il libro in sé giusto le riflessioni antropologiche sulla società che, per carità, non sono poco, ma che non bastano a dare il giusto gusto alla lettura. Comunque io non demordo, ho ancora diversi Urania lì da parte, con tutta calma vi farò sapere.

Larry Niven

venerdì 5 ottobre 2018

CARGO 200

(Gruz 200 di Aleksej Oktjabrinovič Balabanov, 2007)

U.R.S.S., 1984. L'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche vive i suoi ultimi anni di esistenza prima dell'epoca Gorbačëv, della Perestrojka e della sua definitiva dissoluzione. In questo contesto incerto, di transizione, il regista Balabanov decide di ambientare il suo film, Cargo 200, ispirato da un fatto di cronaca avvenuto proprio verso la metà degli anni 80. Erano gli anni in cui era ancora in corso la guerra russo-afghana, all'epoca venivano denominati cargo 200 gli aerei con cui le salme dei militari sovietici morti in Afghanistan tornavano su suolo patrio. In realtà il titolo del film e il suo significato hanno un'importanza solamente a latere nell'economia del racconto messo in scena da Balabanov. Quello che preme al regista è con tutta probabilità ritrarre lo stato di abbandono e incertezza in cui versava il paese attraverso le vicende di pochi protagonisti, uomini e donne nei quali sembra non trasparire più speranza, colmati di durezza, pessimismo e crudeltà instupidita. Proprio a fronte di queste sensazioni, più che in virtù di scene o sequenze particolari, Cargo 200 risulta un pugno nello stomaco reso ancor più vivido e feroce da alcune scelte del regista, principalmente musicali, che cozzano con l'asprezza del quadro d'insieme in maniera volutamente ridicola.

Il professor Artem (Leonid Gromov) sta andando a trovare la madre che abita nei pressi di Leninsk; sul tragitto si ferma in città a salutare il fratello Mikhail (Yuri Stepanov), colonnello dell'esercito, a casa del quale ha modo di incontrare sua nipote e conoscere Valera (Leonid Bichevin), un amico della ragazza. Sulla strada verso la casa della madre l'auto del professore rimane in panne, il luogo è isolato, Artem cerca aiuto in un casolare di campagna. Qui abitano Aleksey (Aleksey Serebryakov), quello che in America probabilmente definirebbero un redneck ubriaco con pretese da filosofo e pensatore, politico e teologo, e Antonina (Natalya Akimova), una coppia di produttori di vodka di contrabbando. Nei pressi del casolare gravita anche un altro personaggio ambiguo, il taciturno Capitano Zhurov (Aleksey Poluyan) che contribuisce a rendere l'atmosfera del luogo inquietante e malsana. In tempi diversi e per ragioni diverse, nello stesso luogo si troverà anche Valera, arrivato in compagnia dell'amica Angelika (Agniya Kuznetsova). Purtroppo per quest'ultima comincerà un calvario di violenze, umiliazioni e sopraffazioni che troveranno seguito nell'abitazione di Zhurov. Le crudeltà alle quali la ragazza verrà sottoposta saranno indicibili.


Guardando Cargo 200, ricevendo questi colpi bassi insieme ai protagonisti del film, viene quasi da chiedersi quale sia il punto, cosa voglia dirci con un film del genere Aleksej Balabanov. Poi ricordi che tutto è la narrazione di un fatto di cronaca e allora diventa superfluo cercare ogni significato, non c'è un punto. E se c'è è la stortura, sono le crepe nell'animo umano che una società degradata, squallida, allo sbando contribuisce a portare alla luce, a esasperare. Non c'è giusto, non c'è sbagliato, c'è la distruzione prossima di un paese che va a braccetto con la distruzione morale dell'uomo in uno scenario apocalittico che poi apocalittico non è e proprio per questo risulta ancor più irricevibile.

Balabanov propone un film duro, breve, che non strizza l'occhio a niente e nessuno, sicuramente un film non per tutti, in questo caso nemmeno per molti, difficile da capire non per la trama che è lineare e facilmente leggibile quanto per i contenuti, per i messaggi, per la visione che veicola, non tanto difficile da cogliere quanto da accettare. Duro anche nella messa in scena, secca, essenziale e squarciata da sprazzi di ridicolo affidati alle musiche che stonano con il contesto brutale, scelta palesemente voluta del regista. Balabanov è scomparso qualche anno fa lasciando circa una quindicina di film dei quali temo non tutti e non molti siano reperibili nella nostra lingua. Varrebbe la pena approfondire.

mercoledì 3 ottobre 2018

READY PLAYER ONE

(di Steven Spielberg, 2018)

A intervalli più o meno regolari Steven Spielberg torna a tirare fuori il fanciullino che da sempre alberga nella sua anima, confezionando quei prodotti spettacolari, spesso rivolti all'attenzione di un pubblico giovane, capaci di veicolare un messaggio positivo avendo per protagonisti eroi adolescenti, giusti, per i quali non è possibile non parteggiare o non provare affetto. A tutto questo con Ready player one Spielberg unisce l'immaginario fantascientifico al quale è legato da sempre, andando ad adattare il romanzo di Ernest Cline che ha come tema portante gli avatar e i mondi costruiti all'interno di realtà completamente virtuali.

In un futuro non troppo remoto la realtà virtuale è alla portata di tutti, la vita nelle baraccopoli, agglomerati di povertà e miseria, è davvero dura; la possibilità di evadere e poter essere qualcun'altro, qualcuno di migliore, anche se in un mondo finzionale, inizia a essere allettante per tutti. Il mondo virtuale frequentato da milioni di persone è OASIS, un software nato con scopi ludici e divenuto un fenomeno culturale ed economico di livello mondiale. Alla morte del suo creatore James Halliday (Mark Rylance) viene alla luce una sorta di testamento per mezzo dell'avatar dello stesso Halliday, un mago di nome Anorak L'Onniscente: il giocatore che per primo troverà un easter egg nascosto dal suo creatore all'interno di OASIS, diventerà proprietario e gestore di OASIS stesso, un lascito multimiliardario dalle possibilità infinite. Alla ricerca partecipa tra i tanti anche il giovane Wade Watts (Tye Sheridan), orfano cresciuto in una baraccopoli insieme alla zia, aiutato dal suo amico virtuale Aech (Lena Waithe) e in seguito dalla ribelle Art3mis (Olivia Cooke). A metter loro i bastoni tra le ruote la corporation informatica IOI guidata dallo spietato Nolan Sorrento (Ben Mendelsohn) al quale ovviamente fa gola la possibilità di mettere le mani su quella montagna di denaro sonante che è OASIS. Per arrivare per primo all'easter egg Parzival (l'avatar di Wade) dovrà superare diverse prove cercando di non farsi "azzerare" durante il gioco e tentando di sfruttare gli indizi che Halliday ha disseminato in giro nel corso della sua terrena esistenza.


Nonostante Ready player one sia per lo più un giocattolone votato all'intrattenimento ci sono diverse riflessioni che si possono sviluppare sull'ultimo film di Spielberg. Partiamo dalla dualità. Sono diversi i contrasti netti che si possono rilevare guardando il (e al) film: intanto quello più evidente tra la realtà e il mondo virtuale. La realtà ci prospetta un futuro impoverito, dove le classi medie sono ridotte a vivere in baraccopoli verticali che in qualche modo richiamano uno stile abitativo della popolazione povera già visto nel cinema fantastico degli anni 80 (penso al paesino fatto di roulotte nel film Giochi stellari ad esempio), richiamo quello agli eighties presente in maniera totalizzante per tutto il film. È un realtà ben misera quella che ci presenta Spielberg e che non lascia intravedere possibilità di bellezza pur non essendo marcatamente cupa o futuristica. La realtà virtuale è quella dove invece ci si può sentire appagati, si fanno amicizie, si compiono imprese, si ha la possibilità di vivere in maniera immersiva delle esperienze altrimenti impossibili. È affascinante il concetto dell'evasione totale, che per noi ancora può essere identificata con un libro, con il Cinema, con le serie tv, con i videogiochi o in senso più lato con la cultura pop; un'evasione portata agli estremi che identifica non solo la fuga dalla realtà quotidiana, ma guardando oltre anche la fuga dalla possibile infelicità, dalla mancanza di stimoli, gratificazioni, emozioni, amore. In ultimo esame è possibile fare un parallelo tra le esistenze virtuali che gli avatar in Ready player one portano avanti e quelle che alcuni di noi "vivono" sui social, dove a volte si arriva a costruire dei veri e propri "personaggi" scollati dalla realtà dei fatti. Spunto molto valido sul quale riflettere e che in maniera educativa viene affrontato nel film che sostiene la tesi di come in fin dei conti, accantonate le apparenze, i rapporti, quelli veri, quelli capaci di regalarti ciò di cui si ha realmente bisogno, si trovino solo con il contatto umano con le altre persone e non tramite qualcosa di artefatto (ma in ogni caso la pop culture rimane una gran figata e questo Spielberg è il primo a saperlo e condividerlo).


Altro contrasto è quello tra la parte live action del film e quella in CGI, entrambe immerse nel citazionismo più sfrenato, tanto che il gioco della ricerca del personaggio, del logo, della musica, del veicolo, dell'arma o di chissà cos'altro, risulta divertente quanto la visione del film stesso. Due tecniche molto diverse ma realizzate entrambe con grande maestria e che rendono il dualismo del film sempre ben marcato. Infine non è difficile notare come in Spielberg convivano due anime, personalmente ho apprezzato molto alcuni dei suoi film più impegnati, cose come Munich o Schindler's List ad esempio (ma i film "seri" del regista sono parecchi) che contrastano piacevolmente con il fantastico di questo film, di E.T., dei Jurassic Park, di Hook, del GGG o di Tintin. L'uomo e il ragazzino in un corpo solo.

Citazionismo: qui arriva a livelli forse mai visti prima, c'è qualcosa di noto in quasi ogni inquadratura, tutto richiama gli anni 80 ma non solo, è un bombardamento continuo di cose celebri che oscilla tra distrazione e subdolo piacere. Poi, per concludere, al netto delle riflessioni, Ready player one è principalmente un blockbuster d'intrattenimento rivolto a ragazzi e nostalgici, ai bambini come Spielberg, che assolve per benino alla sua funzione primaria. Alla fine, vuoi per un motivo, vuoi per un altro, ci si diverte. Insert coin. Ready player one.

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