lunedì 30 ottobre 2023

UN BACIO APPASSIONATO

(Ae fond kiss di Ken Loach, 2004)

Con Un bacio appassionato Ken Loach ci mostra un altro lato della sua poetica cinematografica dedicandosi per una volta a quella che a conti fatti può essere considerata una classica commedia romantica, un genere del quale il film di Loach mantiene la struttura, le dinamiche e anche i cliché più abusati, senza che per questo il regista inglese rinunci alla sua sensibilità per le asperità della nostra contemporaneità, andando a riflettere su temi di importanza fondamentale quali tolleranza, razzismo, religione e integralismo, tutti argomenti molto sentiti nella multietnica Terra d'Albione. Se il film non è ascrivibile nell'olimpo della commedia rimane comunque un buon esempio di come sia possibile unire generi popolari e temi importanti, connubio non nuovo e che non scopre di certo Loach ma che comunque il regista "rosso" riesce a maneggiare con cura e sincerità senza tradire il suo percorso d'autore, andando ancora una volta a raccontare le difficoltà di una classe media proletaria di fronte alla società e nel rapporto con gli altri, nella fattispecie Loach ci narra le peripezie di due giovani amanti provenienti da situazioni culturali e familiari molto diverse tra loro e che dovranno affrontare un processo d'integrazione e conoscenza dell'altro non troppo semplice e lineare.

La famiglia Khan, di origini pakistane, vive a Glasgow ormai da circa quarant'anni, i tre figli dei coniugi Khan sono nati e cresciuti in Scozia e qui hanno frequentato le scuole; ciò nonostante la famiglia è molto legata alle tradizioni del Paese d'origine, anche quelle che cozzano con l'impostazione più libertaria propria delle culture europee che consentono ai loro figli una maggiore libertà decisionale, cosa che per molti versi è negata ai tre ragazzi Khan: Casim (Atta Yaqub), Tahara (Shabana Akhtar Bakhsh) e Rukhsana (Ghizala Avan). Pur integrata nel tessuto sociale di Glasgow alla giovane Tahara capita ancora di avere qualche problema a scuola causato da qualche compagno stupido; in seguito a uno di questi episodi il fratello maggiore di Tahara, Cassim, fa la conoscenza della giovane insegnante di musica di sua sorella. Roisin (Eva Birthistle) è un'ottima insegnante, una ragazza di origini irlandesi con un matrimonio alle spalle e la speranza di un passaggio di ruolo nella scuola cattolica in cui insegna. Tra Cassim Roisin nasce qualcosa, lui però è promesso in sposo a una sua cugina, sua sorella Rukhsana ha il matrimonio combinato anche lei, i genitori di Cassim non possono infatti tollerare un matrimonio con un'occidentale pena l'imperitura vergogna per tutta la famiglia, Cassim però non accetterà di buon grado le imposizioni dei genitori anche se questa scelta provocherà in lui il dolore per aver tradito la fiducia della madre e parecchi problemi al suo rapporto con Roisin che è una donna decisa e che mal tollera le altrui ingerenze. Altri guai arriveranno dall'istituzione religiosa che proprio a causa del rapporto di Roisin con Cassim fuori dal matrimonio potrebbe negarle il posto di insegnante di ruolo nella scuola cattolica.

Un bacio appassionato inizia come una commedia briosa: gli screzi tra ragazzi di etnie diverse con una Tahara sempre capace di farsi rispettare (come si evince già dal suo monologo iniziale), le disavventure di papà Shy con i cani che continuano a pisciare davanti al suo negozio, i progetti di Cassim, promettente dj e contornato da un gruppo di amici scozzesi cazzari e divertenti. Poco a poco Loach sposta il tono verso la commedia sentimentale per poi confluire, in maniera lieve e aprendo diversi varchi alla speranza, verso le riflessioni sulle difficoltà sociali e culturali che più gli appartengono, donando la giusta profondità al rapporto tra due protagonisti che trovano nei rispettivi background familiari e culturali diversi ostacoli invece di una sacrosanta solidarietà. Loach, come fa sempre, esprime giudizi ma questa volta non prende le parti di nessuno, almeno sul piano culturale, ovviamente Ken sta dalla parte dei due giovani ragazzi: se la critica alle culture troppo integraliste è chiara nelle dinamiche interne alla famiglia Khan (i matrimoni combinati ma anche la volontà di decidere il percorso professionale e di studio dei figli), Loach non lesina nemmeno nel mettere in cattiva luce il bigottismo cattolico, poco incline a ben giudicare una giovane donna con un divorzio alle spalle e una nuova relazione non consacrata di fronte alla Chiesa; è proprio la figura del prete ad uscirne come la più odiosa dell'intero lotto. Nel tratteggiare le difficoltà di contatto tra culture diverse Loach accenna solamente alla questione pakistana (divisione tra Pakistan e India, esodo) concentrandosi sul rapporto tra i due ragazzi e sul presente difficile di una società ancora piena di contraddizioni, solo all'apparenza moderna e ed emancipata.

mercoledì 25 ottobre 2023

RIUNIONE DI FAMIGLIA

(En mand kommer hjem di Thomas Vinterberg, 2007)

Non è semplice inquadrare la prima parte della carriera da regista del danese Thomas Vinterberg, insieme al più noto Lars Von Trier fondatore del Dogma 95, movimento di cui abbiamo già parlato in passato proprio in occasione di un altro commento al cinema di Vinterberg (vedi Le forze del destino). Già il film d'esordio del Dogma, l'ottimo Festen, vide la critica non unanime, soprattutto in occasione di revisioni a posteriori rielaborate alla luce delle opere successive realizzate dal regista; in effetti il prematuro abbandono delle "regole" del Dogma condussero Vinterberg verso altri lidi che lo portarono a firmare l'incomprensibile e mediocre Le forze del destino per il quale in effetti il regista danese ha dato adito a più di un ragionevole dubbio, soprattutto a quello di trovarsi di fronte a un regista un po' perso, forse privo del talento tributatogli da qualcuno e un po' appannato dall'ombra del più incisivo Von Trier. Nel 2007, a quasi dieci anni dal suo Festen, Vinterberg torna sul luogo del delitto con Riunione di famiglia che di Festen, in maniera diversa, riprende alcune dinamiche, tanto che il distributore italiano in locandina ci piazzò un bel Festen: il lato comico. In realtà non si può proprio dire che questo film sia la versione comica dell'illustre predecessore; certo, alcune dinamiche si ripetono, il tono qui è più leggero, anche nel rapporto tra padre e figlio che in Festen faceva deflagrare la riunione di famiglia. L'operazione da parte di Vinterberg è furbetta, tutto ciò però non giustifica alcune critiche spietate ricevute dal film che, pur non essendo assolutamente necessario né memorabile rimane quantomeno piacevole, forse proprio nel nel gioco di paralleli e differenze con il parente più titolato.

Vinterberg torna in Danimarca, siamo in una piccola e accogliente cittadina. Qui vive Sebastian (Oliver Møller-Knauer), un bel ragazzo, alto, spalle larghe, con un pronunciato difetto di balbuzie dovuto al trauma legato alla prematura scomparsa del padre suicida. L'uomo, ubriacone e donnaiolo, si gettò sotto un treno fallendo il tentativo di ripensamento dell'ultimo secondo, da quel momento la madre di Sebastian, Marie (Karen-Lise Mynster) decise di proseguire la sua vita accanto a un'altra donna, il ragazzo è stato così cresciuto da due madri. Nel giorno in cui si festeggia il 750° anniversario della fondazione del paesino dove Sebastian risiede viene invitato a fare da padrino ai festeggiamenti il suo più illustre cittadino, Hans Kristian Schmidt (Thomas Bo Larsen), un tenore di fama internazionale. Ai preparativi per la festa partecipa anche Maria (Ronja Mannov Olesen), assunta nell'albergo dove si terrà il banchetto per fare le pulizie; la ragazza è una vecchia fiamma di Sebastian ora fidanzato con la bella Claudia (Helene Reingaard Neumann). Sebastian, che ha sempre voluto essere un uomo fedele per non emulare quel padre fedifrago, viene tentato da Marie, inoltre l'incontro con il celebre tenore scombussolerà tutte le sue certezze e le sue dinamiche familiari. Tutto conflagrerà, una volta ancora, durante un pranzo con molti invitati.

Per Riunione di famiglia Vinterberg non si attiene alle regole del Dogma, rispetto a Festen anche dal punto di vista formale ne esce un film più canonico ma non privo di segnali di stile, magari non tutti necessari e apprezzabili (la saturazione al seppiato di alcune sequenze, altri passaggi più bui e confusi che forse nelle intenzioni volevano richiamare proprio Festen) ma che tutto sommato non inficiano la godibilità dell'opera. Il tono è più leggero, questo è fuor di dubbio e certamente voluto, anche qui c'è un conflitto padre/figlio nato da un atto segnante ma che non si può definire grave come quello che muoveva il dramma in Festen, ripugnante e perseguibile, qui l'atto del contendere è decisamente più leggero in quanto involontario, addirittura figlio di una doppia inconsapevolezza. Senza rivelare troppo di ciò che in realtà è intuibile, si può dire che l'inconsapevolezza dei rapporti di parentela tra alcuni personaggi da parte di uno dei protagonisti dona quella giusta dose di freschezza alla narrazione tale da far sì che questa non risulti né noiosa né indigesta, lo spettatore poi è consapevole di star assistendo a una versione lieve (più che comica) della struttura di Festen della quale ritornano i rapporti padre/figlio, lo scandalo svelato in pubblico, il ritrovo in occasione della festa, il banchetto finale e altro ancora. In effetti anche qualche tocco più ridanciano non manca come quello dello stralunato chef che non si intende facilmente con la sua squadra o i passaggi a opera del direttore dell'hotel sempre pronto a licenziare qualcuno (e alcuni segmenti sono forse stati scorciati nella versione italiana). Nel complesso Riunione di famiglia risulta una commedia innocua ma gradevole, non certo un delitto contro l'arte del cinema come ai tempi qualche critico volle farci credere.

venerdì 20 ottobre 2023

SWEET SIXTEEN

(di Ken Loach, 2002)

Nonostante il cinema di Ken Loach viva sempre in funzione di un obiettivo ben preciso, di una comunicazione da veicolare, di un'urgenza da supportare, di un tema da esporre e sostenere, non di meno quello stesso cinema vive anche di numerose sfumature e variazioni, questo pur rimanendo sempre nei confini del sociale e sempre e comunque dalla parte dei deboli, dei vessati, degli svantaggiati e vicino ad alti ideali considerati dalla società odierna poco più che barzellette. Con Sweet sixteen Loach non mette al centro del discorso le contraddizioni e le storture del mondo del lavoro (inevitabile che siano comunque lì ad aleggiare) ma si occupa questa volta di adolescenza, di ragazzi cresciuti in famiglie ai margini, figli di drammi e criticità, nati in quartieri periferici difficili con poco da offrire, dove delinquenza e degrado minano le possibilità di erigere fondamenta per il futuro. È lo stesso Loach a dichiarare come, dopo l'esperienza della realizzazione di My name is Joe di qualche anno prima, sentisse la necessità di tornare su una storia più personale, che affrontasse drammi privati e familiari di un ragazzo che avrebbe potuto essere uno dei tanti che il Joe del film precedente allenava nella sua squadretta di calcio per tenerli lontani dai pericoli della strada (in effetti in entrambi i film siamo a Glasgow e vi compare un Liam che potrebbe essere lo stesso ragazzo).

Liam (Martin Compston) vive nella periferia di Glasgow con il nonno delinquente e con il compagno di sua madre Jean (Michelle Coulter); la donna è in prigione per vecchie storie di droga e dipendenza. Questa sorta di patrigno, Stan (Gary McCormack), vorrebbe usare Liam come una sorta di corriere per introdurre droga nel penitenziario dove è custodita Jean al fine di farle avviare un giro di spaccio dietro le sbarre. Liam, nonostante sia già cresciuto e anch'egli avviato sulla via delle delinquenza insieme al suo amico Flipper (William Ruane), nutre ancora un amore viscerale per la madre e si rifiuta di passarle la droga nel timore che questa possa ricadere nel vizio e prendersi altri mesi da scontare in galera. Liam viene così pestato da Stan e si rifugerà a casa della sorella Chantelle (Annmarie Fulton), una giovanissima ragazza madre che non ha un buon rapporto con Jean. Liam ha un sogno, comprare per sua madre un piccolo prefabbricato dove andare a vivere insieme quando Jean finalmente uscirà di galera; per realizzare questo sogno e anche per vendicarsi di Stan, Liam decide insieme a Flipper di rubare una partita di droga da casa di Stan per spacciarla poi per conto proprio, così facendo i due ragazzi si troveranno però a confrontarsi con i delinquenti del giro che conta, la posta in gioco si alzerà, i soldi aumenteranno ma con essi aumenteranno anche i rischi di un gioco più grande di loro.

Non ha nulla di dolce la vita di questo sedicenne di periferia, l'esistenza tragica e dolente di Liam è ben sottolineata da una Glasgow tetra e triste. Come molto spesso accade per i film di Loach anche per questo Sweet sixteen ciò che conta è il cosa il regista inglese vuole farci vedere, ciò che vuole raccontarci (miglior sceneggiatura a Cannes) e non tanto il come. Quello di Loach è un cinema spontaneo, che non si affida alla trovata di regia, all'inquadratura perfetta, alla scena spiazzante bensì a una narrazione coerente e carica di significato, sottolineata e resa credibile come sempre da attori indovinati e sconosciuti. Qui siamo di fronte alla società dello sconforto, quella fetta di mondo che sembra essere stata abbandonata non solo dallo Stato ma anche dall'istituzione familiare (con l'eccezione qui della sorella Chantelle per Liam). È una società che costringe un ragazzo di sedici anni alla prematura rinuncia ad ogni suo sogno, il film di Loach è un racconto di formazione della disillusione, dell'amarezza e della caduta, della sconfitta dell'individuo e soprattutto della società tutta di fronte a un'illegalità capace di creare più opportunità (ovviamente illusorie e alla fine tragiche) dello stesso Stato. Magari non tutti i personaggi sono a fuoco, non tutto è perfetto ma ancora una volta Loach in qualche modo riesce ad arrivare a coscienze e cuori, nel tentativo di smuovere qualcosa, di non far calare l'attenzione di fronte a problemi che affliggono migliaia di persone. Però, purtroppo, come spesso accade di fronte a opere come queste, e forse lo abbiamo già detto, il rischio è quello per un regista come Loach di parlare solo ai già convertiti. E ovviamente la colpa non è sua.

martedì 17 ottobre 2023

BARBIE

(di Greta Gerwig, 2023)

A qualche mese di distanza dall'uscita in sala di Barbie possiamo finalmente parlare dell'ultima opera di Greta Gerwig (le altre sono Ladybird e Piccole donne più la co-direzione di Nights and weekends) con serenità e senza dover sgomitare tra le centinaia di voci intente a discettare della stessa identica cosa nello stesso momento. L'uscita di Barbie è stata in qualche modo clamorosa, a incassi stellari si sono uniti piccoli fenomeni di costume (la gente che si recava al cinema vestita di rosa), l'immagine della meravigliosa Margot Robbie è stata sovrapposta più e più volte a quella di Barbie stereotipo (la protagonista del film), si è addirittura innescata una competizione virtuosa con il nuovo film di Christopher Nolan (Oppenheimer) distribuito negli Stati Uniti lo stesso giorno del film della Gerwig, creando così una curiosità che con tutta probabilità ha portato in sala a vedere entrambe le opere pubblico che di base era forse interessato a uno solo dei due film; il fenomeno ha anche generato il divertente nomignolo di Barbenheimer, cosa che tutto sommato ha giovato non solo ai film di Nolan e Gerwig ma soprattutto alle sale e all'industria cinematografica tutta, una bella boccata d'ossigeno anche in paesi come l'Italia dove le sale sono in calo e in crisi costante ormai da diverso tempo. Al di là del fenomeno, costruito anche su un buon battage pubblicitario, cosa rimane di questo film di enorme successo? Iniziamo con il dire che Barbie è forse il film meno interessante diretto finora dalla Gerwig a solo, sia Ladybird che Piccole donne mi sono sembrati meglio riusciti e forse portavano anche un apporto più concreto alla causa del femminismo che di questo Barbie risulta essere il nucleo centrale. A conti fatti Barbie è un film abbastanza divertente, ben costruito sul piano visivo, molto scoperto nei suoi intenti, legittimi e condivisibili, ma che rimane anche parecchio in superficie giocandosi come uniche armi quelle dell'ironia e della risata, che vanno molto bene, per carità, ma non inducono a riflessioni profonde fermandosi a una superficie critica e canzonatoria facilmente comprensibile da tutto il pubblico ma che nella realtà va a colpire poco nel profondo dello spettatore.

Barbieland è la terra delle Barbie, tra queste spicca Barbie Stereotipo (Margot Robbie), bellissima, bionda, perfetta, vestita di tutto punto in rosa, tacchi alti, sorriso smagliante, una vera e propria Barbie (che è diventato nel tempo un termine con il suo significato che rispecchia proprio quel modello lì). Ma a Barbieland ci sono moltissime altre Barbie e tutte ricoprono ruoli importanti e fondamentali per la loro società, un vero modello di auto affermazione per queste donne; abbiamo così Barbie Presidente (Issa Rae), la più alta carica di Barbieland, Barbie fisica (Emma Mackey), Barbie diplomatica (Nicola Coughlan) e così via. Tutte queste Barbie vivono in bellissime case rosa e sono super accessoriate: auto, motoscafi, abiti, tutto perfetto. Poi ci sono i Ken, sono diversi ma fanno più o meno tutti la stessa cosa (spiaggia!), sono poco più di dementi accessori agli occhi delle Barbie, uno in particolare (Ryan Gosling) è innamorato di Barbie stereotipo e trova senso alla sua esistenza solo quando visto dagli occhi di lei, Ken vive in funzione dell'interesse che Barbie stereotipo dimostra verso di lui (e questo di solito è parecchio scarso). In questo scenario Barbie stereotipo inizia a comportarsi in modo molto strano, cova pensieri di morte, trova sulle sue cosce perfette tracce di una strana deformità (è cellulite), i suoi piedi perdono addirittura la loro postura eretta e si ritrovano appiattiti. Dopo un consulto con Barbie stramba (Kate McKinnon) Barbie stereotipo scopre che il problema potrebbe nascere a causa della bambina che gioca con lei nel mondo reale; la bambina si chiama Sasha (Ariana Greenblatt) ed è figlia di Gloria (America Ferrera) la quale lavora per la Mattel, la casa produttrice di tanti giocattoli tra i quali la storica linea Barbie. Barbie, accompagnata da Ken, parte così per il mondo reale nella speranza di sistemare le cose che lei ovviamente non vuole che cambino.

La Gerwig e il suo compagno Noah Baumbach (sceneggiatura) giocano con il ribaltamento dei ruoli e non risparmiano nessuna critica al patriarcato imperante, lo fanno per tutta la durata del film ma sempre con un tono ilare e scherzoso che non permette grandi affondi. Se questa scelta risulta complice di un discorso che rimane sempre e solo in superficie, c'è anche da dire che per le mani la Gerwig si trova pur sempre il fortissimo brand commerciale di Barbie, un marchio che avrebbe potuto portare in sala anche un pubblico molto giovane, il risultato finale potrebbe quindi essere stato dettato anche da una sorta di compromesso, gestito in maniera comunque intelligente, per accontentare un po' tutti. Ci sono passaggi molto riusciti nel film, lampante l'azione di ribaltamento uomini/donne con l'arrivo di Ken nel mondo reale nel quale il bel manzo si accorge di poter essere più di quel che finora è stato (spiaggia!), una figurina in funzione unica del mondo femminile, apre gli occhi e comprende di essere stato sempre trattato in maniera ingiusta. Come si è detto da più parti il discorso vale anche come metafora dello sfruttamento della figura femminile nel mondo dello spettacolo che ha faticato, e ancora in parte fatica, a ritagliarsi il giusto ruolo da protagonista. Tanta (troppa?) carne al fuoco con accenni di critica al capitalismo ormai incontenibile (fatti però sbandierando il nome Mattel a destra e a manca) e ai modelli elargiti da Barbie, sia quelli positivi (puoi essere chi vuoi) sia quelli negativi (però se sei anche figa è meglio), a tratti si fa fatica a capire se gli autori vogliano riportare tutto il loro discorso alla prepotenza e all'ingiustizia del patriarcato o se vogliano elargire affondi qua e là anche su altro. Sul piano del primo livello di lettura, quello che potrebbe far presa sui bambini tanto per intenderci, abbiamo una sceneggiatura molto lineare e semplice che approfondisce poco i personaggi secondari che avrebbero potuto avere molto da dire, in special modo la figura molto (troppo) marginale di Sasha. I passaggi divertenti non mancano, Barbie risulta però essere un film più innocuo di come tante voci lo avevano dipinto, i temi ci sono ma, insomma, poco ci lasciano, non resta che guardare anche Oppenheimer e vedere se qualcuno è riuscito a vincere questa amichevole battaglia.

domenica 15 ottobre 2023

PIOGGIA AL NEON

(The neon rain di James Lee Burke, 1987)

James Lee Burke è uno scrittore texano nato in quel di Houston nel lontano 1936. Furono molti per il Nostro i tentativi di entrare nel mondo dell'editoria in qualità di scrittore, la sua produzione inizia già negli anni 60 senza però che questa riuscisse a smuovere troppo le acque di una carriera che a Burke ancora non permetteva di occuparsi di essa a tempo pieno. Negli anni 80 Burke inizia a insegnare scrittura creativa all'università nello stato del Kansas ed è proprio quello il decennio che presenta allo scrittore texano la chiave di volta della sua carriera letteraria. Per Burke il successo (finalmente) arriva proprio con questo Pioggia al neon del 1987, romanzo che vede l'esordio del personaggio più celebre di Burke, il tenente Dave Robicheaux in forza al Dipartimento di Polizia di New Orleans. Il personaggio piace ai lettori e le avventure di Robicheaux diventano così seriali, a tutt'oggi la serie dedicata al tenente di New Orleans contano ventitrè romanzi e due adattamenti cinematografici, Omicidio a New Orleans (1996) di Phil Joanou con Alec Baldwin nel ruolo del protagonista e L'occhio del ciclone (2009) di Bertrand Tavernier con Tommy Lee Jones. Texano ma con un forte legame con la Louisiana dove ha studiato e dove ancora oggi risiede, Burke riesce a trasmettere alle pagine di questo Pioggia al neon atmosfere e sapori di una regione degli Stati Uniti del Sud tanto fascinosa quanto pericolosa.

Un tenente della polizia di New Orleans, il cajun David Robicheaux, durante una battuta di pesca nelle paludi del bayou si imbatte nel cadavere di una giovane ragazza di colore all'apparenza morta per overdose. Dopo questa triste esperienza Robicheaux si reca nel carcere di Angola a trovare una sua vecchia conoscenza, un uomo che sta per finire i suoi giorni a causa di una condanna a morte, pratica ancora in vigore in Louisiana; qui Johnny Massina, il condannato, confida a Robicheaux il fatto che sulla testa del poliziotto gravi una taglia, qualcuno sembra lo voglia morto ma i dettagli della cosa non sono chiari. Poco a poco, spalleggiato anche dall'ambiguo e vizioso collega Cletus Purcell, Robicheux inizia a intuire che quella vaga minaccia alla sua esistenza, poi sempre più concreta, possa essere collegata proprio alla morte di quella ragazza, un caso non di sua competenza nonostante il ritrovamento. Robicheaux comincia così a indagare più a fondo nella faccenda a proposito della quale sembra che tutti cerchino di dissuaderlo dal portare avanti le ricerche sulla morte di una ragazza che presto viene etichettata come una poco di buono. Tra superiori poco collaborativi, agenti dell'F.B.I. ostili e poco propensi a condividere informazioni, i comportamenti poco ortodossi del fratello di David, le idee matte di Purcell e un ambientino criminale mica da ridere, Robicheaux dovrà adoperarsi per mantenere intatta la pelle, la sua e quella di tutte le persone che gli stanno accanto.

Burke confeziona un noir che poggia molto sull'ambiente della Louisiana e sui quartieri di New Orleans, un po' come farà in seguito la prima stagione di True detective che sui luoghi costruiva una buona parte del suo successo; il marciume e la violenza del contesto criminale della zona emergono nelle descrizioni di Burke con vivida ferocia; l'autore non si risparmia e riesce a infondere nei personaggi e nelle pagine di Pioggia al neon una brutalità di fronte alla quale non si riesce a rimanere indifferenti. Il protagonista, David Robicheaux, è uno dei tanti personaggi problematici che il genere ci ha regalato nel corso degli anni, capace di sporcarsi le mani quando serve, un passato in Vietnam, uscito con fatica da una dipendenza dall'alcol, destinato a essere un outsider anche all'interno del suo stesso dipartimento di polizia. A margine della vicenda centrale c'è un contesto fatto di tensioni razziali, corruzione, sfruttamento, connivenze, compartimentazioni e criminalità dilagante alla quale diventa sempre più difficile far fronte, ancor di più quando il protagonista dovrà preoccuparsi oltre che della sua pelle anche di quella dell'innocente Annie, perché in tutti i migliori noir c'è sempre una donna a detenere un certo peso nell'economia del racconto. Burke intesse una trama che va avanti spedita e che assesta più di un colpo basso, lo stile di scrittura è vivido e immersivo, capace di farci sentire da vicino la crudezza di situazioni a noi estranee, ottimo esordio per un Robicheaux che sembra calato in una terra senza speranza di redenzione.

venerdì 13 ottobre 2023

SWISS ARMY MAN - UN AMICO MULTIUSO

(Swiss Army Man dei Daniels, 2016)

Dietro il moniker dei Daniels si celano, in maniera del tutto scoperta, i registi Daniel Kwan e Daniel Scheinert (dai nomi lo pseudonimo), i due hanno un passato comune nell'industria dei video musicali nella quale arrivano a lavorare anche con band con un certo legame con il cinema, vedi i Tenacious D i quali componenti altri non sono che il grande Jack Black e Kyle Gass, entrambi attori. Swiss Army Man è il loro stralunato esordio nel lungometraggio che ha fatto si che i Daniels venissero da subito inquadrati come una voce fresca e originale (e fuori di testa) nel panorama cinematografico mondiale, impressione poi rafforzata e confermata dal successivo Everything, everywhere all at once premiato con ben sette premi Oscar comprendenti quasi tutte le categorie principali: miglior film, miglior regia, miglior attrice protagonista e non protagonista, miglior attore non protagonista, miglior sceneggiatura e miglior montaggio, un successo plebiscitario. Swiss Army Man non raccolse gli stessi risultati (comunque si aggiudicò la miglior regia al Sundance Film Festival) ma contribuì a far circolare per benino il nome dei Daniels, e se il film non è ancora un titolo da primissima fascia, uno di quelli che lasciano a bocca aperta, ha comunque tutte le caratteristiche per tener desta l'attenzione su due registi con potenzialità da vendere (poi in seguito confermate) e un approccio sghembo e laterale alla narrazione che riesce a far convivere assurdo e dramma in un'amalgama tutto sommato originale e poco battuto.

Hank(s?) è un naufrago (interpretato da Paul Dano) bloccato su un'isola deserta che, in preda alla disperazione e all'isolamento, sta tentando di togliersi la vita. Proprio sul più bello (sempre che un tentativo di suicidio possa definirsi "bello") Hank vede in lontananza il corpo di un uomo riverso sulla spiaggia. Abbandonati momentaneamente i propositi di suicidio Hank si avvicina a quello che sembra ormai un cadavere avviato alla putrefazione (Daniel Radcliffe) in preda a moti estremi di flatulenza; in fondo si sa che i cadaveri rilasciano e non trattengono. La performance gassosa di Manny, così si chiama il morto (?), fa vibrare e muovere il cadavere fino a farlo finire nuovamente in acqua dove Hank scopre che la potenza delle scorregge di Manny può essere usata come propellente e il cadavere del ragazzo come mezzo di locomozione acquatico. Con questo originale trasporto Hank arriva finalmente sulla terra ferma, su una spiaggia sconosciuta circondata da foreste; inizierà da qui un viaggio di ritorno alla civiltà e alla vita che Hank intraprenderà in compagnia di un morto che da principio si rivelerà utile come un coltellino svizzero (il Swiss Army del titolo) e poi via via come compagno di viaggio, sempre meno morto, come discepolo/maestro, come autocoscienza, come cos'altro bene non si sa, a voi scoprire tutto il resto.

C'è un dramma solo all'apparenza nascosto in questo film un po' demente dei Daniels, un dramma che esploderà nel finale ma che poco a poco emerge e si costruisce con il progredire del viaggio di Hank e Manny. I Daniels giocano con il cinema, in maniera indiretta così come in modo esplicito per bocca di Hank ("se non conosci Jurassic Park non conosci un cazzo"), e ci giocano anche grazie a un'idea di cinema strampalata alla quale applicano trovate che potrebbero facilmente scadere nel ridicolo se non gestite, come fanno i due registi, con una certa classe e una certa visione. Prima ancora del Guns Akimbo di Jason Lei Howden i Daniels hanno l'intuizione giusta nel vedere l'idolo dei bambini Daniel Radcliffe (per i più smemorati, è Harry Potter) ben inserito, e lo è davvero, nella parte di questo (mezzo) morto che grazie all'aiuto di Hank, tra una disavventura e l'altra, cerca di aprirsi alla vita, di capirla e di farci i conti, cosa che in fondo servirebbe più che altro a Hank stesso, che tra i due è quello vivo. Le trovate dei Daniels sono molto spesso parecchio divertenti, quasi sempre assurde, l'equilibrio tra il livello più profondo del film, che c'è e si vede, e la goliardia apparente non è forse perfetto, manca qualcosa a questo Swiss Army Man per essere davvero incisivo e memorabile, tenendo conto però che è un'opera prima (nel lungo) e che questa si discosta parecchio da quei prodotti medi facilmente dimenticabili, in merito all'esordio dei Daniels non si poteva che essere ottimisti, un'ottimismo che è stato subito confermato e ripagato con risultati concreti.

martedì 10 ottobre 2023

PAUL, MICK E GLI ALTRI

(The navigators di Ken Loach, 2001)

Dopo aver parlato dell'escursione nel film storico ai tempi della Spagna franchista da parte di Ken Loach con il suo Terra e libertà e della successiva trasferta in quel di Los Angeles per raccontare le rivendicazioni sindacali di un gruppo di lavoratori messicani immigrati in Bread and roses, torniamo ora ai luoghi e ai temi che al regista di Nuneaton sono più congeniali, ovvero le difficoltà lavorative e sociali della classe proletaria inglese. Paul, Mick e gli altri inquadra il periodo in cui nelle ferrovie inglesi arriva massiccia la pratica della privatizzazione con un numero sempre crescente di forza lavoro che viene "invitata" ad abbandonare il posto in ferrovia per passare sotto agenzie private che, in maniera del tutto teorica e ottimistica, promettono più lavoro e paghe orarie più alte. Lo spunto per la realizzazione di Paul, Mick e gli altri (The navigators in originale) nasce da un libro di Rob Dawber, oggi scrittore ma in passato alle dipendenze delle ferrovie britanniche, la sua testimonianza di prima mano illumina la dissoluzione del tessuto lavorativo garantito in favore di una libera concorrenza per la quale ormai le persone non contano più nulla, declassate a meri oggetti di consumo, utili da sfruttare per portare a termine i contratti con costi minimi e flessibilità massima, il tutto in nome di un capitalismo sempre più deregolamentato, senza freni e senza scrupoli dove efficienza vuol dire taglio dei costi (di solito quelli umani) e maggiori rischi a carico dei lavoratori.

Al centro del film un gruppo di operai in forza a un deposito delle ferrovie inglesi nella regione dello Yorkshire. Un giorno, recandosi a lavoro, Paul (Joe Duttine), Mick (Thomas Craig) e gli altri del gruppo trovano sul deposito un'insegna che riporta il nome di una nuova società, questa ha assorbito il magazzino in seguito alla privatizzazione dei servizi legati alle ferrovie, compresi quelli di manutenzione sui binari di cui il gruppo di operai dello Yorkshire è responsabile. Le decisioni calano dall'alto, il gruppo tenta di confrontarsi sul tema e sul da farsi, prima scherzandoci sopra, poi sempre più seriamente ma ormai nemmeno le rappresentanze sindacali hanno più peso, nessuno ha più voce in capitolo, alle persone che trattano tra azienda e lavoratori viene espressamente chiesto (con le brutte) di essere spietati e non fare concessioni. Qualcuno decide di accettare la buonuscita e andare subito via, altri resistono un poco ma la carenza di lavoro, le giornate vuote e la paga misera li spinge a provare la via dell'indipendenza e della flessibilità. Da principio sembra che la cosa funzioni, le paghe sono in effetti più alte, sembra facile allora rinunciare a ferie, mutua, diritti. Paul e Mick insieme a Jim (Steve Huison) e ad altri resistono, sono ancora in ferrovia, i problemi però si fanno sentire: Paul è separato, deve passare soldi alla moglie, ha due figli da vedere e mantenere, ha il desiderio di viziarli anche un poco di tanto in tanto, Paul è un bravo papà ma i soldi non bastano, così Paul cede, il miraggio della paga più alta fa gola, allora niente ferie, niente mutua, ma quando arriva il momento di tagliare anche sulla sicurezza? Mick ad esempio non ci sta...

Privatizzazione, perdita dei diritti, taglio dei costi, minore sicurezza, conseguenze a venire, tutte cose che abbiamo già visto e di cui continuiamo a vederne i riscontri nelle cronache di tutti i giorni. Loach, come fa sempre, prende a cuore le sorti dei suoi personaggi che sono proiezioni di persone e situazioni fin troppo reali, tra l'altro senza nasconderne difetti e mancanze, il regista non dipinge il lavoratore come un santo dedito al cento per cento al lavoro, l'uomo in fondo non è una macchina, ma proprio per questo va rispettato e il rispetto è proprio quello che spesso manca da parte della macchina del capitale, e questa per Loach (e dovrebbe esserlo per chiunque) è una posizione inaccettabile e quindi la condanna senza remore. Ancora una volta come già accade per altri film del regista inglese, anche Paul, Mick e gli altri è un film di contenuto, dove il messaggio e la denuncia contano più della forma, al film però giova il ritorno a casa, il muoversi nelle periferie inglesi, in situazioni vicine agli autori, tutto ciò dona alla camera di Loach quella naturalezza e quella spontaneità capaci di farci sentire vicini i personaggi e le loro disavventure. Come spesso accade non ci sono attori celebri a interpretare i ruoli centrali; volti veri, non riconoscibili che accompagnano queste storie proletarie con un tocco di verismo in più e che permettono, nei momenti salienti, di credere e di andare con la mente non a Hollywood ma alla cronache, ai disagi patiti da conoscenti, alle continue morti sul lavoro. Non è un cinema tirato a lucido quello di Loach, è un cinema sporco, diretto, magari meno studiato di altro, però quanto continuiamo ad averne bisogno...

sabato 7 ottobre 2023

SUBURRA

(di Stefano Sollima, 2015)

Stefano Sollima è cresciuto artisticamente sui set del padre Sergio, una scuola che gli è valsa più di tante accademie del cinema o corsi di regia; Sollima jr. ha respirato cinema fin dalla tenera età e dalle inclinazioni del genitore ha ereditato la fascinazione per l'ambiente criminale che in alcune occasioni anche papà Sergio aveva battuto (da regista si intende: Città violenta del '70, Revolver del '73). In questo campo il figliolo non ha nulla da invidiare al padre, anzi, Stefano è oggi uno dei maggiori esponenti del crime italiano avendo partecipato e diretto opere fondamentali come la serie televisiva Romanzo criminale, questo Suburra che genererà poi l'omonima serie tv, è stato tra i direttori dell'osannata Gomorra, e poi ancora ZeroZeroZero, in passato episodi per La squadra e Crimini e ancora film come A.C.A.B., Soldado e il prossimo, sempre in tema, Adagio. Per Suburra, come già fatto per Romanzo Criminale, Sollima torna a un testo dello scrittore e magistrato Giancarlo De Cataldo che scrisse l'omonimo romanzo insieme a Carlo Bonini, già autore del libro A.C.A.B - All cops are bastards; lo stile narrativo portato sullo schermo dal regista romano risuona delle stesse vibrazioni della scrittura di De Cataldo, entrambi gli autori sono infatti capaci di tradurre in finzione un'epica criminale realmente esistente senza per questo mitizzarne i protagonisti che escono dal racconto (quando ne escono) sempre come le figure negative e detestabili che in realtà sono, con un occhio all'attualità ma sempre con ben in mente la costruzione di una finzione che possa arrivare al pubblico nel migliore dei modi e, diciamocelo, Suburra arriva benissimo.

Siamo nel Novembre del 2011 a Roma nei giorni in cui la massima carica della Chiesa Cattolica sta pensando di abdicare al suo mandato. Anche la politica è in fermento, il Governo sembra possa cadere da un momento all'altro o quantomeno andare incontro a un forte rimpasto. In questo clima di confusione il parlamentare Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino) sta cercando di far passare una legge grazie alla quale sarà possibile riqualificare tutto il litorale di Ostia, un progetto enorme al quale sono interessate la vecchia criminalità romana, le famiglie del crimine organizzato del Sud Italia e i gestori della malavita di Ostia capeggiati da Aureliano Adami detto Numero 8 (Alessandro Borghi). Durante un festino a base di sesso e droga organizzato da Malgradi con due giovani prostitute una delle due muore; qui entra in scena Spadino (Giacomo Ferrara) chiamato dall'altra prostituta, Sabrina (Giulia Elettra Gorietti) per disfarsi del cadavere. Così ora c'è almeno un testimone di troppo, Malgradi diventa ricattabile e Spadino è fratello di Manfredi Anacleti (Adamo Dionisi), il capostipite di una schiatta criminale e spietata di zingari arricchiti, cosa che non promette per niente bene. Quando la situazione inizierà a scaldarsi a tutelare il politico arriverà Samurai (Claudio Amendola), nome storico, rispettato e temuto, della malavita romana, ovviamente non per amicizia ma per interessi tutti suoi. In mezzo a tutto questo caos verrà trascinato anche il giovane imprenditore Sebastiano (Elio Germano), amico di Sabrina.

Narrazione potente e calibrata quella di Sollima, sostenuta da un lavoro certosino in fase di sceneggiatura alla stesura della quale partecipano anche De Cataldo e Bonini. Sul piano squisitamente narrativo sembra che Suburra viva di pezzi ad incastro, chiari e leggibilissimi, che un poco alla volta vanno a chiudere un cerchio, andando però non a comporre un quadro o un puzzle, muovendosi invece fino a farlo deflagrare, come indica anche la scelta didascalica di Sollima che introduce i vari momenti del film con un conto alla rovescia verso l'apocalisse. È un po' come se dei rapaci volteggiassero su Roma per fiondarcisi sopra a chiudere su un finale esplosivo e nerissimo imbevuto di una punta di giustizia deviata, malata e sbeccata d'amore. Suburra inanella diversi momenti realmente drammatici, in cui il dramma, la paura, il dolore e la disperazione vengono avvertiti dallo spettatore in maniera profonda. È un film molto studiato Suburra, o almeno dà l'impressione di esserlo, un film che vuole arrivare a colpire lo spettatore e riesce a farlo senza usare mezzucci grazie anche a un cast di ottimo livello. La miscela respingente di politica, religione, imprenditoria e criminalità riporta a chiare lettere all'attualità contemporanea al film (che ha poco meno di dieci anni ma la storia in fondo è ancora sempre quella) e dipinge personaggi di una barbarie inconcepibile ma purtroppo ormai non così difficile da credere. Respiro internazionale per un film nostrano, molto italiano, molto romano, che non ha davvero nulla da invidiare a prodotti d'oltreoceano. Chapeau. 

martedì 3 ottobre 2023

TERRA E LIBERTÀ

(Land and freedom di Ken Loach, 1995)

Ken Loach non è un esteta e Terra e libertà né è la chiara dimostrazione; se in un film cercate l'immagine cool o patinata, l'innovazione, l'inquadratura estrosa, la scena limpia e scintillante o addirittura il virtuosismo tecnico credo che Ken Loach non sia il regista giusto al quale rivolgersi. Terra e libertà potrebbe sembrare a tratti un film tv, una produzione pensata per riempire le prime serate della televisione pubblica (e magari avessimo prodotti simili nei nostri palinsesti), bisogna ammettere come nel complesso il film non offra "grandi immagini", ha la capacità però di regalare alcuni ottimi momenti e una storia interessante e coinvolgente (i pareri qui non sono unanimi, il voto di chi scrive è a favore) che esplora un periodo storico molto importante per la Spagna e più in generale per l'Europa tutta, magari con qualche lieve imprecisione ma cogliendo bene lo spirito dei fatti e i retroscena che le macchinazioni politiche adottarono per influenzare il corso della Storia e i comportamenti delle genti meno preparate e scaltre rispetto a chi sa come (ab)usare il potere. Terra e libertà è un film politico, più apertamente politico rispetto a molte altre opere di Ken Loach il quale di per sé non ha mai nascosto i suoi pensieri e le sue appartenenze ideologiche. È un film questo che potrebbe suonare retorico per quanto è schierato e di parte, non di meno Terra e libertà è un'opera sincera, imperfetta e sentita, senza volontà di volerla svilire (qualcuno potrebbe pensare sia così) ottima per adempiere al cliché "dibattito a seguire". E che dibattito sia, soprattutto ai giovani sono queste le visioni che non possono che far bene per avere una maggior prospettiva sul mondo, passato, presente e futuro.

David Carr (Ian Hart) è un anziano inglese che muore davanti agli occhi della nipote. Nei giorni successivi alla morte del nonno la ragazza trova una valigia contenente i ricordi dell'uomo: scritti, lettere inviate all'amata di un'epoca lontana, resoconti di quando David, in un moto di idealismo e giustizia, partì per la Spagna per arruolarsi volontario nelle milizie rivoluzionarie del POUM (Partito Operaio di Unificazione Marxista) che avevano come scopo quello di combattere e rovesciare i fascisti di Francisco Franco arrivati al potere con un golpe militare dopo la vittoria alle elezioni delle sinistre socialiste e dei partiti dei lavoratori. Con i ricordi di David si torna quindi al 1936, dopo un addestramento sommario e dilettantistico David si unisce a una milizia formata da volontari inesperti e male armati, cameriere idealiste, disoccupati e proletari, marinai e giovani provenienti da Inghilterra, Italia (e lì di fascismo ne sanno parecchio), Francia, Scozia, Irlanda, Stati Uniti, Germania e altri posti ancora, tutti riuniti insieme per ricacciare i fascisti dal fronte di Aragona. La milizia è male assortita ma tenuta salda e unita dall'ideale di libertà, da forza di volontà, spirito d'unione (pur nelle dovute  differenze), amicizia, senso dell'esperienza comune, speranza in un futuro migliore, vicinanza al mondo contadino e operaio. Quando però si metterà di mezzo la politica, rappresentata dal Partito Comunista ufficiale e dalle correnti staliniste, gli animi si scalderanno e anche all'interno della milizia, tra amico e amico, compagno e compagno, si insinueranno crepe e punti di vista differenti che spaccheranno il movimento dall'interno.

Come si diceva più sopra Ken Loach non nasconde da che parte stiano le sue preferenze, il tutto è palesato quando nel film definisce i fascisti "difensori del privilegio" e in questa parola, privilegio, ci sta tutta l'ingiustizia sociale di questo mondo, non quella basata sul merito (che comunque dovrebbe avere limiti tangibili) ma quella poggiata sulla prevaricazione (sfruttamento, sopruso, abuso, inserite la parola che preferite). Dall'altra parte c'è la resistenza, il desiderio di una vita libera e dignitosa unita sotto il motto di "no pasarán", chiaramente in opposizione. Quello che Loach però vuole sottolineare dell'episodio storico  non è tanto lo scontro con la parte avversa, la mera resistenza, quanto il tradimento di ideali libertari da parte degli stessi partiti della sinistra ufficiale (corsi e ricorsi), piegati ai voleri non proprio limpidi di Stalin e a dettami di partito che non volevano le donne a combattere, non tolleravano rivoluzionari non irreggimentati, non amavano l'iniziativa libertaria. Indubbiamente Terra e libertà potrà risultare schematico agli occhi di molti spettatori, girato non in maniera superba, senza guizzi di regia (obiezioni comprensibili), ne esce però un film vitale, vibrante che tramite la storia di David e dei suoi compagni trasuda trasporto e passione con personaggi credibili (magari alcune situazioni un po' meno) e ben delineati con le loro storie, anche quelle d'amore, inserite nella Storia, inzuppate di un'ideale forse macchiato di retorica ma che non si può non sperare che prima o poi trovi la sua giusta realizzazione.

domenica 1 ottobre 2023

L'ULTIMO DEI MOHICANI

(The last of the Mohicans di Michael Mann, 1992)

L'ultimo dei Mohicani è uno dei grandi film d'avventura della Storia del cinema ed è anche uno dei massimi esempi dell'utilizzo della dimensione epica da parte di un regista come Michael Mann che sull'epica delle storie ci ha costruito una carriera (non solo su quello ovviamente). Il film di Mann, oltre che al romanzo di James Fenimore Cooper, guarda molto a Il re dei pellirosse diretto da George B. Seitz nel 1936, andandone a riprendere il finale che qui come allora differisce da quello descritto tra le pagine del libro di Cooper (il debito verso il film di Seitz è palesato in maniera limpida da Mann stesso). Valutando le fasi finali del film, sequenze di grande emozione e perizia immaginifica, la scelta di Mann, e quella di Seitz prima di lui, che spinge i due registi a tradire il testo originale, è un importantissimo contributo proprio alla causa dell'epica nel racconto, un risvolto che negli occhi e nella pancia dello spettatore lascia un senso di giustezza, una compiutezza inevitabile seppur raggiunta attraverso la vendetta, la violenza e il sangue. Nei momenti di sacrificio, nei passaggi di epoche al crepuscolo (qui c'è quello di un'intera tribù, il titolo parla chiaro), è qui che il ricordo deve costruirsi, la memoria viene a incidersi per poi perpetrarsi, il gesto diventa epica che diverrà narrazione da tramandare e in questo caso immagine (in movimento) da rinnovare decennio dopo decennio e conservare. In questo, a volte anche a discapito della costruzione della storia, qui molto lineare, Michael Mann è maestro, in equilibrio tra emozioni e fine estetica, studiatissima e sempre indovinata, arriva quasi infallibile a colpire nel segno, aiutato da collaboratori e attori di altissimo livello.

Territori del Nord America, lungo le rive del fiume Hudson; la guerra tra inglesi e francesi di metà 1700 trova le sue propaggini nel nuovo continente. In questo scenario una famiglia di mohicani cerca di condurre la propria esistenza rimanendo al di fuori delle dinamiche venutesi a creare tra i due eserciti, entrambi invasori. Nathan (Daniel Day-Lewis) è di origine inglese ma adottato in tenera età da Chingachgook (Russell Means) e cresciuto insieme al fratello mohicano Uncas (Eric Schweig). Bisognoso di combattenti da opporre all'esercito francese l'esercito britannico, nella persona del tenente Duncan Heyward (Steven Waddington), cerca di reclutare alla causa coloni e nativi della zona, offerta che viene rifiutata da Nathan e dai suoi. Durante uno spostamento verso il forte presieduto dal colonnello Munro (Maurice Roeves) la compagnia di Heyward viene tradita e attaccata da un gruppo di indiani uroni comandati da Magua (Wes Studi) il quale nutre un odio personale nei confronti di Munro. Tra gli assaliti figurano anche le figlie di Munro, Cora (Madeline Stowe) e Alice (Jodhi May), salvatesi solo grazie all'intervento tempestivo della famiglia di Chingachgook. Magua non rinuncerà alle sue prede, Heyward innamorato di Cora inizierà a vedere Nathan come un avversario, gli ultimi rappresentanti del popolo dei mohicani si troveranno così invischiati in una guerra che avrebbero voluto evitare a tutti i costi.

Oltre alla costruzione di momenti e situazioni tesi a esaltare l'epica del racconto, Mann lavora molto bene sul paesaggio e sui movimenti dei protagonisti. La prima e l'ultima sequenza si parlano da vicino: la prima è ingannevole, ci sembra di entrare nel film già in piena battaglia con un Daniel-Day Lewis impegnato insieme ai suoi compagni in un inseguimento, forse in una fuga, lanciati a rotta di collo nei boschi di una natura fotografata in modo sapiente dal friulano Dante Spinotti; in realtà quello a cui assistiamo è una caccia al cervo, le battaglie saranno di là da venire. L'ultima sequenza invece, girata su un costone di montagna, porterà al confronto finale, al culmine di quella sensibilità "manniana" che pervade l'intera sua filmografia, anche qui si palesa un piccolo inganno, uno di cui lo spettatore facilmente si è autoconvinto, l'ultimo dei mohicani non è il nostro protagonista, seppur di diritto appartenente alla tribù, bensì il suo padre adottivo. L'ultima sequenza è magistrale, tesa, emozionante, e se si ricorda il confronto finale tra gli esponenti delle due tribù rivali, mohicani e uroni, non è da meno quello breve tra la giovane Alice e Magua, un confronto dal quale il capo indiano esce inevitabilmente deprivato del suo valore, sminuito nella sua persona. Nel mezzo una storia d'amore abbastanza canonica ma impreziosita dall'ottimo affiatamento di tutti gli interpreti. Piccola curiosità: nessuno degli interpreti indiati ha discendenza dal popolo dei mohicani; Russell Means è un lakotah ed è stato anche un importante attivista per i diritti della sua gente, Wes Studi è di origini cherokee mentre Eric Schweig conta discendenze chippewa. A chiudere il tutto una bella colonna sonora con uno di quei temi che si ricordano per un film che resterà a futura memoria.

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