domenica 30 gennaio 2022

REVENANT - REDIVIVO

(The revenant di Alejandro González Iñárritu, 2015)

Con due film a distanza di un anno uno dall'altro e due premi Oscar per la miglior regia consecutivi (Birdman e The revenant), Alejandro González Iñárritu a metà dello scorso decennio si conferma come uno dei registi più talentuosi in circolazione, non che ci fosse bisogno di premi a sottolinearlo, il direttore messicano è purtroppo assente da allora sul grande schermo (in seguito solo un progetto in realtà virtuale) e un po' se ne sente la mancanza. Le grandissime doti del regista, che i più critici tacciano di autocompiacimento, non sono in realtà mai fini a loro stesse, il lavoro di Iñárritu, anche quando più esibito come in Birdman o (l'imprevedibile virtù dell'ignoranza), è sempre al servizio di ottimi film dove la sua tecnica, questo è vero, è parte fondamentale della buona riuscita dei vari titoli; quella di Iñárritu non è una di quelle regie nascoste, invisibili, completamente a servizio della narrazione, caratteristica spesso apprezzata dalla critica, è una regia invece che c'è e si vede, si prende anche il suo spazio magari distraendo un po' dalla narrazione (che nel caso di Revenant ad esempio non è così impegnativa da seguire, anzi) regalando però un valore aggiunto inequivocabile che non si può contestare, Revenant senza la regia di Iñárritu, le sue scelte su come, dove e quando girare, non sarebbe in fin dei conti un film così memorabile.

Anni 20 del 1800. Un gruppo di cacciatori di pelli al comando del Capitano Henry (Domhnall Gleason) e sotto la guida dello scout Hugh Glass (Leonardo Di Caprio), vedovo di una donna pawnee e padre del ragazzo meticcio Hawk (Forrest Goodluck), cade in un'imboscata degli indiani Arikara. Il gruppo decimato è così costretto ad abbandonare la navigazione fluviale intrapresa fino a quel momento per riparare in territorio meno esposto, il viaggio tra le nevi e le temperature rigide dell'inverno del North Dakota non sarà per nulla semplice, il Capitano Henry sarà costretto a ordinare al gruppo di nascondere le pelli e lasciarle indietro per avere più libertà di movimento attirandosi l'animosità dei più venali tra i cacciatori tra i quali spicca il crudele ed egoista John Fitzgerald (Tom Hardy). Mentre sta cercando la strada migliore per proseguire Glass viene attaccato e lasciato in fin di vita da un grizzly; dietro indicazione del Capitano e soprattutto di un lauto compenso, Fizgerald e il trapper Jim Bridger (Will Poulter) accettano di badare all'uomo ferito fino alla sua morte per dargli poi degna sepoltura mentre il gruppo si dirige verso Fort Henry. Preoccupato per il possibile arrivo degli indiani, con un inganno Fitzgerald induce Bridger ad abbandonare Glass per dirigersi verso il forte, Glass però ha una tempra dura, riuscirà a riprendersi e a cercare la giusta vendetta nei confronti di Fitzgerald.

Prima ripresa sull'acqua e sembra di essere nelle paludi de La sottile linea rossa di Malick, regista con il quale il direttore della fotografia (splendida) Emmanuel Lubezki ha collaborato in passato; la camera di Iñárritu inquadra in maniera strepitosa location da urlo, la bellezza dei panorami della Columbia Britannica dove è stato girato il film vale il prezzo del biglietto, regia e fotografia magnifiche, un Di Caprio ad alti livelli che per questo The revenant vede arrivare il suo primo Oscar, meritato anche per le condizioni climatiche molto difficili in cui lui e tutta la troupe hanno lavorato (poi, per carità, Di Caprio ha offerto prove anche migliori di questa). Rimane alla memoria la splendida scena dell'orso, ricostruita in cgi in modo incredibile, che dura giusto un paio di minuti ma che lascia il segno. Nel complesso il film si gusta principalmente per la realizzazione tecnica strepitosa, la storia è quella di un classico revenge movie con la particolarità di raccontare fatti ispirati a personaggi realmente esistiti, (Hugh Glass, Jim Bridger); è un film essenziale che torna alla mera sopravvivenza, ai legami basilari di amore e odio, alla rinascita di un individuo messa in scena metaforicamente dal regista per ben due volte (una rinascita dalla tomba e una dal ventre materno), il ritmo tiene bene per l'intera durata del film (2 ore e 40 minuti), forse il nostro Hugh Glass può sembrare a più riprese baciato fin troppo dalla buona sorte, ma se non si pensa a questo la visione rimane sempre più che piacevole, gli scenari si ammirano a bocca aperta, il lavoro di Iñárritu anche. The revenant è un ottimo film, la prova fisica di Di Caprio, supportato da un Tom Hardy altrettanto grande (che attore), è di quelle che si ricordano, con tutta probabilità in mano a un altro regista e con un cast diverso un film come questo si sarebbe perso nel calderone della media, invece e per fortuna...

venerdì 28 gennaio 2022

WHAT DO WE SEE WHEN WE LOOK AT THE SKY?

(di Alexandre Koberidze, 2021)

What do we see when we look at the sky? è una sinfonia cittadina delicata, magica, romantica, accogliente, un film che lavora sullo spettatore con i ritmi naturali della gente di Kutaisi, terza città della Georgia, accompagnato dallo scorrere del fiume che è parte integrante di molte sequenze ritratte da Koberidze, in parte è anche una favola urbana resa tale anche dalle particolari scelte di regia e di narrazione adottate da Koberidze che instilla nella normalità quotidiana della città, e nell'animo dello spettatore, gocce di surreale che muoveranno storia e personaggi in una direzione originale e coinvolgente, come se tutto potesse davvero accadere. Con tutta probabilità, è questa una delle prime volte che mi trovo ad assistere a un film proveniente dalla Georgia (in realtà ho visto uno Iosseliani...), mercato cinematografico a me sconosciuto, l'esperienza è stata una sorpresa graditissima grazie a un film che cresce lentamente, lo sta facendo anche in questo momento, e che lascia una sensazione di serenità e gioia nello spettatore paziente, curioso di avvicinarsi a un modo diverso di dialogare con il cinema. All'interno della narrazione c'è anche un momento cruciale per la vicenda dove il regista, rivolgendosi direttamente allo spettatore, ci chiede di chiudere gli occhi per un attimo e poi di riaprirli, due segnali acustici stabiliscono il quando, creando un momento di partecipazione attiva semplice ma raro. Guardando What do we see when we look at the sky? quello che si percepisce è uno sguardo diverso, una sensibilità un poco differente e si prova la sensazione che questa sia una cosa bella, semplice magari, ma una cosa che ha valore.

Cosa vediamo quando guardiamo il cielo? Quanto è importante l'atto del riconoscimento, dello sguardo capace di ritrovare ciò che ci è noto e che ci è caro? Il film si apre su una scuola al termine delle lezioni: bambini che escono, tornano a casa. Lo sguardo di Koberidze si abbassa a livello della strada, due paia di piedi si incontrano, si scontrano in realtà, un uomo, una donna, poche parole, attimi di imbarazzo, noi vediamo solo le scarpe ma afferriamo tutto. Quelle scarpe, dopo quel primo incontro fortuito, si rivedranno, completate dai loro padroni; lei è Lisa (Ani Karseladze e Oliko Barbakadze), una giovane farmacista, lui Giorgi (Giorgi Bochorishvili e Giorgi Ambroladze) è un calciatore, tra i due scocca subito qualcosa di grande, si danno un appuntamento per la sera successiva. Scarto al surreale, mentre Lisa torna a casa alcuni oggetti le parlano, cose comuni le raccontano di un'invidia, di un malocchio, la gioia pregustata le sarà negata perché al risveglio Lisa non sarà più la stessa, un'auto impedisce alla giovane di sentire l'ultima parte della profezia. La mattina seguente Lisa si sveglia e si ritrova diversa, come farà Giorgi a riconoscerla? Sarà tutto lo stesso? Lisa si recherà all'appuntamento, un modo troverà per spiegare tutto a Giorgi, ma Lisa non sa che l'ultima parte di quella profezia, più un avviso, una confidenza in realtà, riguardava proprio Giorgi.

Koberidze gioca sull'immagine, su ciò che vediamo e come lo percepiamo, c'è una grande valenza in questo film nell'atto del guardare le cose, di come guardarle (dove è meglio guardare la partita dei mondiali? Al bar o dietro il teatro?), e nel mostrarci quella che è una storia romantica con un pizzico di magia ci porta a guardare un'intera città, i suoi particolari, la sua gente, i bambini che giocano a calcio (tutti ammiratori di Messi), i cani, i giardini, il fiume, i passanti. Mentre Lisa e Giorgi si cercano impossibilitati a trovarsi, una troupe cinematografica gira un film in città, sarà il cinema a trovare la giusta chiave che apre la porta sulla realtà? La regia di Koberidze, serena, rilassata, riesce a trasportare lo spettatore non solo dentro una storia ma lo porta a far parte di un luogo, ci si sente facilmente a casa in quella Kutaisi che non si è mai sentita nominare prima, si prova affetto per il gestore del bar (Vakhtang Panchulidze), per i due protagonisti, per il cane Vardy che ha le sue convinzioni in quanto a partite di calcio, sport onnipresente in questo film. Nel frattempo, senza dire niente, anche adesso, il film continua a crescere dentro, se non oggi, se non stasera, è probabile che domani sarà diventato un grandissimo film.

giovedì 27 gennaio 2022

2012 - L'AVVENTO DEL MALE

(Megiddo: The Omega code 2 di Brian Trenchard-Smith, 2001)

F4: basito. Chi ha visto la serie tv Boris può cogliere facilmente il riferimento, per gli altri il consiglio è quello di recuperare la serie prodotta da Sky, così la lettura di questo pezzo vi offrirà almeno un suggerimento di visione valido, perché per il resto... come dicevo, F4: basito. Basito, non c'è altro modo per definire la sensazione che si può provare dopo aver finito di guardare una porcheria del genere. Non è tanto la visione in sé di questo L'avvento del male a lasciarmi completamente basito, quanto piuttosto il cruccio che continua a riproporsi alla mia mente dal momento in cui sono partiti i titoli di coda di questo film: "Ma com'è che sono finito a guardare 2012 - L'avvento del male? Perché? Per colpa di chi? Per quale misterioso e deprecabile motivo? Al pensiero segue solitamente una chiosa poco elegante che qui non riporto".

Breve inciso: sono solito appuntare titoli di film e serie tv che vorrei prima o poi guardare, lo faccio da anni, l'elenco è ormai interminabile e credo anche inesauribile nell'arco di una sola vita umana; di norma ho la fortuna, e anche una discreta esperienza oramai, per distinguere con una certa sicurezza tra la mole enorme di proposte quelle che potrebbero non dico per forza piacermi ma quantomeno interessarmi, è un'arte affinata grazie ad anni e anni di recensioni lette, valutazioni di consigli e pareri, immedesimazione e affinità (e a volte disprezzo) per i gusti degli altri, il tutto con il risultato di aver saputo sviluppare la giusta capacità di mediare tra le parole della critica, i consigli degli amici e il gusto personale, saper leggere tra le righe per evitare clamorose cantonate e perdite di tempo. Eppure ecco arrivare 2012 - L'avvento del male, dove il male è tutto perpetrato contro la dignità della settima arte. Questo breve inciso solo per dirvi che non so bene per quale motivo io abbia guardato questo film e ovviamente non c'è nessun motivo per cui dobbiate guardarlo voi, a meno che non coltiviate un certo gusto per l'orrido, perché alla fine l'esito nemmeno come trash si può etichettare, e sì che già sarebbe stato qualcosa, il tutto con buona pace pure di Quentin Tarantino che, come segnala Wikipedia, cita il regista Brian Trenchard-Smith tra i suoi preferiti; beh, caro Quentin, da queste parti ti si vuole bene, parecchio, però anche sticazzi, eh! La locandina del film, o almeno una delle sue versioni, recita: dagli autori degli effetti speciali di Iron Man, I Fantastici 4, Ghost Rider (non dal regista di... che poi cosa avrebbero potuto citare, Leprechaun 4? Ma lasciamo perdere, parliamo del film.

Mi sono fatto l'idea che una piccola incomprensione mi abbia portato in passato ad accostare questo film al genere battuto da titoli come Omen - Il presagio, da qui probabilmente la maldestra scelta. Stone Alexander (Gavin Fink, Noah Huntley e infine Michael York) è figlio di un industriale ricchissimo e potente (David Hedison), fin da piccolo il ragazzino sembra essere preda di una straordinaria malvagità, dimostra una sorta di possessione innaturale che lo porterà anche a tentare di uccidere il fratellino neonato. In seguito a questo episodio il padre spedisce Stone in un collegio militare in Europa, qui il giovane crescerà sempre con le sue tendenze malvagie votate al sopruso e al dominio innamorandosi però della figlia del Generale Francini (Franco Nero), la bella Gabriella (Elisa Scialpi e Diane Venora), unica sua debolezza. Il demonio che c'è nel giovane punta in alto, a una carriera più che politica da vero dittatore del mondo (non) libero, un'ambizione che verrà con il tempo contrastata solo da suo fratello David (Chad Michael Murray e Michael Biehn), dagli Stati Uniti e dalla Cina.

Produzione non ascrivibile nemmeno alla serie b in quanto il film non può vantare l'appartenenza alla categoria di un onesto e a volte efficacissimo artigianato, qui siamo proprio di fronte a un'opera brutta, malriuscita e senza uno spunto interessante che sia uno se non forse, e sottolineo forse, per la progettazione di una sequenza finale vivace ma realizzata con effetti speciali tremendi (altro che Iron Man). L'ascesa verso la dominazione del mondo da parte del protagonista non vale la carta sulla quale la sceneggiatura è stata stampata, una vicenda priva di qualsivoglia interesse e credibilità, nemmeno nei personaggi, vicenda che purtroppo non suscita neanche risate involontarie. Alcune scelte visive sembrano riemergere da prodotti di seconda fascia come non si vedevano forse nemmeno vent'anni fa, ci si chiede come attori pur non propriamente di primissimo piano come Michael York possano aver accettato di partecipare a un progetto simile (credo che anche i soldi in ballo non fossero proprio tantissimi), il finale che si risolve con un intervento divino posticcio è quanto di più risibile visto, almeno da me, sullo schermo da molto tempo a questa parte. Diciamo pure che sarebbe bene non permettere ad alcuni produttori di buttare soldi in progetti di questo genere, ci si potrebbe fare piuttosto della sana beneficenza, pizzate con gli amici, metterli in mano a sceneggiatori capaci e chissà quante altre cose. Ecco, spero vivamente con queste righe di non aver incuriosito nessuno, lasciate perdere, dimenticatevi del film e anche di questo pezzo che servirà probabilmente solo a me stesso per ricordarmi di ponderare ancora meglio le mie scelte. Ma tu guarda...

martedì 25 gennaio 2022

THE CLOUD IN HER ROOM

(di Zheng Lu Xinyuan, 2020)

Come altri registi cinesi più quotati, Jia Zhang-ke su tutti, anche l'esordiente Zheng Lu Xinyuan racconta tramite il privato i cambiamenti del suo paese, lo fa concentrandosi sul contesto urbano di Hangzhou in maniera non troppo lineare, per concatenarsi di frammenti che vanno, uno dopo l'altro, a costruire il quadro della condizione interiore della protagonista che riflette in qualche modo anche ciò che accade al paese, una progressiva perdita di identità e di direzione seguita da confusione e spaesamento, un sentire che in parte si trasmette anche allo spettatore a causa della scelta della regista di non costruire una narrazione solida ma piuttosto fluida, con qualche inserto visionario e una scansione dei tempi non troppo definita. Tutto è in mutamento, inafferrabile, a volte poco riconoscibile proprio come il volto di Hangzhou trasformato dai cantieri in continuo movimento. Abbiamo quindi un'altra voce interessante, femminile questa volta, a testimoniare le difficoltà incontrate dal popolo cinese in seguito ai grandi cambiamenti affrontati dal Paese negli ultimi decenni che non per forza passano da situazioni di disagio materiale ma che possono coinvolgere in maniera ben più profonda l'autoaffermazione identitaria, mettendola in crisi e creando incertezza anche e soprattutto nelle generazioni più giovani.

In occasione del capodanno cinese la studentessa Muzi (Jin Jing) torna nella vecchia casa della sua famiglia ad Hangzhou; i suoi genitori ormai sono separati, il padre si è risposato e ha avuto una figlia con un'altra donna, la nuova moglie dell'uomo e soprattutto la piccola sorellastra sono molto affezionate a Muzi, la madre invece vive un'esistenza più tormentata portando avanti relazioni poco stabili. Il ritorno alla vecchia casa, ormai inabitata, in parziale disfacimento ma ancora piena di ricordi, è l'occasione per Muzi di tornare indietro nel tempo con i ricordi, a quando un vecchio amore poteva sembrare qualcosa di duraturo, i tempi si confondono, le nuove conoscenze non portano a esiti più solidi, Muzi così vive un'età di passaggio senza riferimenti, dove ciò che c'era in passato non c'è più, di ciò che avverrà in futuro non solo non c'è certezza ma non c'è nemmeno una vaga idea, senza appigli Muzi vaga in una Hangzhou che riflette all'esterno questa mancanza di punti fermi e di radici che la protagonista elabora dentro di sé, condizione riflessa in una città irriconoscibile, in mutamento marcato e continuo che non offre più certezze consolidate e salde.

La scelta di stile narrativo adottato da Zheng Lu Xinyuan è in maniera voluta inafferrabile, difficile da decifrare, è facile perdersi tra tempi, relazioni e rapporti, anche spaziali, tra Muzi e i genitori, tra la protagonista e gli uomini, tra persone e luoghi, tutto è etereo e inafferrabile in un concretizzarsi di un moto interiore incerto e ondivago. Tutto è ripreso con il bel bianco e nero di Matthias Delvaux, la camera spesso indaga il volto di Jin Jing da vicino per poi passare a panoramiche più ampie per finire anche in artifici visivi che rendono anche lo stile mutevole e consono al racconto. Lo sguardo della regista è interessante ma non semplice e non immediato, la struttura di The cloud in her room potrebbe respingere ben più di uno spettatore, l'esordio di Zheng Lu Xinyuan è di sicuro interesse, i numeri ci sono, qualcosa è ancora da rivedere per poter raggiungere gli ottimi esiti portati a casa da alcuni connazionali con gli stessi temi, The cloud in her room merita comunque la promozione, anche sulla fiducia, in attesa di una prossima prova che potrebbe rivelarsi senz'altro significativa.

lunedì 24 gennaio 2022

ENCANTO

(di Byron Howard e Jared Bush, 2021)

Dopo due prodotti davvero poco entusiasmanti se non proprio noiosi (Frozen II e Raya e l'ultimo drago) i Walt Disney Animation Studios tornano a regalarci un film d'animazione che, pur non essendo rivoluzionario, si rivela molto piacevole sia per gli adulti che per i più piccini e che ha il merito di presentare una morale che va un poco oltre l'accettazione di sé stessi e mette in luce i danni che le aspettative della famiglia e della società possono creare alle persone specialmente se in giovane età; è uno stop alla società della competizione, del vincente per forza, dell'individualismo sfrenato volto a emergere sulla massa in favore di un sacrosanto ritorno alla comprensione, alla gentilezza e all'accettazione non soltanto del proprio essere e dei propri limiti ma anche, e soprattutto, di quegli degli altri (e come si vivrebbe tutti meglio in un mondo del genere). Encanto è pieno dei colori e della vivacità mutuati dalla sua ambientazione colombiana, la musica la fa da padrona e i numeri musicali, parecchi a dire il vero, non sono intermezzi o divagazioni nella narrazione ma parti integranti della vicenda che possono fare la gioia di molti spettatori ma essere anche visti un po' come un ostacolo da altri, in primis da chi non apprezza film troppo cantati e inoltre perché, almeno nella versione italiana, non sempre si riesce a cogliere il contenuto delle canzoni in maniera chiara e così limpida.

La famiglia Madrigal è in fuga da un gruppo di aggressori armati; per permettere alla moglie Alma e ai tre gemellini neonati Julieta, Pepa e Bruno di salvarsi, Pedro Madrigal sacrifica la sua vita, il gesto dell'uomo scatena un incantesimo che proteggerà per gli anni a venire l'intera famiglia e tutto il villaggio che sorgerà attorno a Casita, l'abitazione magica dei Madrigal dei quali Abuela Alma diverrà la capostipite e guardiana della continuità magica che prevede per ogni discendente della famiglia, al compimento dei cinque anni d'età, di sottoporsi al rito della candela capace di donare a ognuno di loro un talento magico esclusivo che sarà messo a servizio di tutta la comunità. La protagonista di Encanto, Mirabel Madrigal, è l'unica discendente di Pedro a non aver ottenuto nessun potere, quello che è stato visto come un fallimento della cerimonia della candela, il primo e l'unico, mette in secondo piano la posizione di Mirabel all'interno della famiglia nonostante la giovane ragazza sia amatissima dai genitori e abbia un buon rapporto con gran parte dei suoi parenti, in special modo con il piccolo Antonio, il prossimo a doversi sottoporre al rito. In più, poco dopo la cerimonia di Mirabel, lo zio Bruno, portatore di visioni dal futuro, scompare misteriosamente e la famiglia fa di tutto per dimenticarlo (Non si nomina Bruno, già diventato meme sul web, è il pezzo più in vista della colonna sonora di Lin-Manuel Miranda). Dopo la celebrazione per Antonio, Mirabel ha un'improvvisa visione catastrofica sull'estinguersi della magia, un incubo che mostra l'imminente rovina di Casita e della famiglia Madrigal, per fare chiarezza sulla sua visione Mirabel cercherà di ripercorrere i passi dello zio Bruno.

È un buon prodotto sotto tutti i punti di vista questo Encanto (a parte forse una presenza ingombrante di sequenze cantate): del messaggio, molto condivisibile, abbiamo già detto, l'animazione non è forse innovativa ma è davvero indovinata tra il tripudio di colori, l'idea geniale di una casa "a servizio" dei suoi abitanti, la singolarità dovuta alle capacità peculiari di ogni personaggio, l'impatto visivo di Encanto è sempre più che appagante. L'idea alla base non è nuovissima (i Madrigal come gli Inumani della Marvel?) ma la vicenda è molto piacevole da seguire e riflette parecchio sulle dinamiche familiari e su come queste possano diventare frustranti e tarpanti per alcuni dei suoi componenti; Mirabel è un bellissimo personaggio, più convincente di tutte le principessine, battagliere o meno, che ci sono state propinate per anni, e non meno forte, di una forza più sincera, gentile ed efficace. Si inizia a sentire la mancanza negli ultimi film Disney di "avversari" di peso, comunque in questo caso bene così e ricordate... we don't talk about Bruno!

venerdì 21 gennaio 2022

WE CAN'T GO HOME AGAIN

(di Nicholas Ray, 1976)

Film sperimentale e ultima opera del regista Nicholas Ray (1), direttore di pellicole quali Gioventù bruciata (1955), La donna del bandito (1948), Johnny Guitar (1954), Dietro lo specchio (1956) e altri celebri titoli della Hollywood del secolo scorso. Tra i temi ricorrenti in alcune delle opere più conosciute di Nicholas Ray spiccano quelli legati alla ribellione giovanile, alla difficoltà dei ragazzi nell'accettare una società non costruita da loro e contraria a molti dei principi caldeggiati proprio da quella "gioventù bruciata", e ancora l'inadeguatezza, l'esclusione, il sentirsi altro dal modello comune spinto dalle generazioni precedenti e dalle autorità. Questi sentimenti, queste prese di coscienza, precedenti alle proteste che presero piede per poi crescere sempre più nella seconda meta dei Sessanta negli Stati Uniti, in We can't go home again incontrano la Storia, quella delle contestazioni, delle proteste contro la guerra in Vietnam, quelle per i diritti civili, quelle contro il razzismo, tornando oggi più attuali che mai, almeno in ambito cinematografico, in stagioni che ci hanno riportato agli eventi de Il processo ai Chicago 7, all'omicidio di Fred Hampton con Judas and the black messiah, alla questione razziale con One night in Miami... affiancati da tutta una serie di altri film a tema. In questo ritorno alla Storia la visione di We can't go home again trova, anche oggi, uno dei suoi motivi d'interesse, forse il più significante, l'altro è fuor di dubbio il lavoro di sperimentazione sulle immagini, oggi acquisito, che Nicholas Ray porta avanti in veste di insegnante insieme ad alcuni studenti del corso di cinema con i quali il regista si confronta, ai quali si apre, dai quali apprende e con i quali si scontra. Ma di cosa stiamo parlando e come nasce il progetto We can't go home again?

Seppur muovendosi nello stretto e avendo rischiato prematuri arresti di carriera a causa di malcelate simpatie per le idee comuniste che in quegli anni erano negli States benviste come una grossa e puzzolente merda di vacca appiccicata alla suola delle scarpe, Nicholas Ray riesce in un modo o nell'altro, a fasi alterne, a barcamenarsi, a vivere, a guadagnare e a essere anche molto apprezzato all'interno dell'industria del cinema hollywoodiano, questo almeno fino alla fine degli anni Cinquanta. Negli anni 60, in seguito a grosse difficoltà di gestione in produzioni colossali come quelle per Il re dei re e 55 giorni a Pechino, unitesi a diversi problemi di dipendenze sviluppate dal regista che in seguito verrà anche colpito dalla malattia (perderà la vista da un occhio, morirà poi di cancro ai polmoni), Nicholas Ray viene allontanato da Hollywood, il decennio dei 60 sarà un calvario alla ricerca di nuovi progetti e opportunità di produzione, spesso ricercate in Europa, che purtroppo naufragheranno una dopo l'altra. Dal 1963, anno in cui dopo mille difficoltà esce 55 giorni a Pechino, e il 1976 che vede approdare la versione definitiva di questo We can't go home again, il regista riuscirà a girare un solo cortometraggio. È in questo clima difficile, di chiusura e rifiuto per il cinema del passato e la sua industria, che Ray inizia a costruire questo film insieme agli studenti dell'Harpur College dove il regista è chiamato a tenere un corso di cinema; senza ruoli prefissati, nessun attore professionista, senza trama né sceneggiatura chiusa, con il contributo "attoriale" dello stesso Ray, il progetto inizia a prendere una forma, assolutamente non definita e per l'epoca innovativa.

We can't go home again tocca in maniera disordinata vari temi, alternati tra finzione ed evento storico, alcune immagini filmate nel corso degli anni dallo stesso Ray, a partire da quelle alla manifestazione di Chicago che portò al processo dei sette e dove Ray fu malmenato dalla polizia, si alternano al girato dei suoi studenti. Dentro ci finiscono i movimenti di protesta e le ideologie giovanili di una generazione che si sta confrontando ancora con la liberazione sessuale, si parla di droghe, prostituzione, suicidio, della contrapposizione tra ideali e forze dell'ordine repressive, di politica con la cocente delusione della vittoria di Nixon alle elezioni presidenziali. Il film ha una struttura quantomai libera, tecnicamente fa largo uso dello split screen arrivando a montare insieme fino a cinque riquadri, uno fisso di fondo e quattro in movimento simultaneo, si sperimenta molto sul colore e sulla distorsione delle immagini. Ciò che colpisce sono i paralleli tra le immagini storiche e il sentire ideologico dei protagonisti che creano spesso dei cortocircuiti emotivi di cui almeno uno molto forte e riuscito, quello della sequenza in cui uno dei ragazzi, disilluso dagli eventi, in uno slancio emotivo si taglia quella barba che era anche simbolo di un modo di essere, di un'idea ormai sconfitta. Per Ray probabilmente, al di là degli argomenti toccati, questo film era un'occasione di distacco da quell'industria in cui non si ritrovava più, un modo per andare avanti in maniera libera e abbracciare la voglia dei più giovani di rompere con la tradizione (quel "non ci importa niente di Hollywood" detto da uno degli studenti), purtroppo anche per We can't go home again le difficoltà non mancarono di farsi sentire: un primo montaggio provvisorio si vide a Cannes nel '73, l'editing finale non vide la luce fino al 1976 per mancanza di fondi, Ray morì tre anni più tardi non ancora completamente soddisfatto del risultato finale. Una versione più o meno definitiva uscì nel 2011 al Festival di Venezia supervisionata dalla moglie di Ray.

Film di non facile fruizione, un documento più che un vero film, opera libera, frammentaria, caotica, girata con l'ausilio dei supporti più svariati, discontinua, indicativa di un'epoca e di una fase di carriera di un regista importante e prossimo alla sua dipartita. Più interessante che non "bello" o "appassionante" intesi nel senso più comune dei due termini, uomo avvisato...

1 Ci sarà poi ancora un film, Lampi sull'acqua - Nick's Movie, realizzato durante i suoi ultimi momenti di vita e girato in gran parte da Wim Wenders.

martedì 18 gennaio 2022

VIAGGIO A TOKYO

(Tōkyō monogatari di Yasujirō Ozu, 1953)

Yasujirō Ozu è una sorta di monumento nazionale per ciò che concerne la storia del cinema nipponico, il regista di Tokyo ha contribuito all'evoluzione del cinema giapponese passando per varie fasi, esplorando il cinema del reale, la condizione della famiglia e dell'uomo nell'immediato dopoguerra, in un Paese che usciva non soltanto dalla brutalità della Seconda Guerra Mondiale ma anche dalle tragedie senza pari di Hiroshima e Nagasaki, per concentrarsi poi sui cambiamenti di un Paese che poco a poco andava incontro alla modernità e a un'occidentalizzazione sempre più ingombrante. All'interno della nutrita filmografia del regista Viaggio a Tokyo viene considerato il capolavoro di Ozu, un film che appare un classico moderno anche rivisto oggi, il più celebre lascito di un regista cresciuto a suon di film hollywoodiani e alcool. Se il cambiamento dei paesi asiatici sarà un tema ricorrente in diverse filmografie di registi orientali di nazionalità diverse (si pensi al lavoro di Jia Zhang-ke per quel che concerne la Cina degli ultimi decenni), un fenomeno di transizione visto spesso attraverso la sofferenza dei protagonisti, la visione di Ozu illustra questa fase di passaggio in maniera meno conflittuale, esplorandola attraverso un semplice viaggio di due anziani in occasione di un ricongiungimento familiare; tutto è molto naturale, realista appunto, lo sguardo di Ozu mostra cambiamenti epocali, che stravolgeranno anche le antiche tradizioni, senza strappi, mostrando gli eventi della vita più comuni, come farà in maniera superba anche Yoji Yamada nel 2013 proprio con il remake di Viaggio a Tokyo che nella sua versione diventerà Tokyo family.

La storia l'abbiamo più o meno già raccontata proprio quando parlammo di Tokyo family, tra il film di Yamada e quello di Ozu ci sono alcune differenze, anche nella composizione familiare, rimangono però inalterati il significato e il messaggio che i due film vogliono trasmettere. I signori Hirayama, l'anziano Shūkichi (Chishū Ryū) e sua moglie Tomi (Chieko Higashiyama), lasciano Onomichi per intraprendere il lungo viaggio che li porterà a Tokyo dove vivono due dei loro figli e una nuora, Noriko (Setsuko Hara), vedova del secondogenito Shōji deceduto durante la guerra; a casa gli Hirayama lasciano Kyōko (Kyōko Kagawa), la più giovane delle loro figlie, l'unica dei loro cinque discendenti ad abitare ancora a Onomichi. Una volta a Tokyo i due anziani saranno ospitati dal primogenito Kōichi (Sō Yamamura), un pediatra di quartiere che vive con la moglie e i due figli piccoli in un quartiere periferico, ad accogliere i genitori ci sarà anche l'altra figlia Shige (Haruko Sugimura), proprietaria di un salone da parrucchiera. I due anziani genitori si figurano giornate in compagnia di figli e nipoti passate a visitare Tokyo, atmosfera familiare, tempo piacevole passato con i propri cari, purtroppo sia il lavoro di pediatra di Kōichi sia il salone di Shige non lasciano tempo libero da dedicare ai genitori, i due figli non sembrano così intenzionati a fare degli sforzi per prendersi cura di Shūkichi  e Tomi, li manderanno anche in una località termale per non averli sempre intorno, ma il posto non è proprio adatto a una coppia della loro età. L'altro figlio, Keizō, vive in un'altra città, sarà così Noriko, l'unica a non avere legami di sangue con i due anziani, a occuparsi dei suoi genitori acquisiti e a far breccia nel loro cuore, per la sua gentilezza e anche per il lutto pluriennale che la giovane continua a portare nei confronti del loro figlio, saranno proprio i due anziani a spronarla a rifarsi una vita.

La narrazione per immagini di Ozu trasmette pacatezza e serenità, la camera si muove poco, le sequenze sono ammantate di un classicismo tenue, la vita scorre anche nel cambiamento in tutta la sua quotidianità. I nuovi ritmi imposti dalla vita moderna, che non sempre mantiene ciò che promette, sottraggono importanza ai legami familiari, a quel senso di onore e rispetto tanto importante nel paese del Sol Levante, gli affetti sono messi in secondo piano finché, una volta troppo tardi, non si avrà di che pentirsene. La sceneggiatura curata dallo stesso Ozu sottolinea come non siano i legami di sangue e carne necessariamente quelli in cui risiedono i sentimenti profondi, la vecchia generazione non può far altro che prendere atto del cambiamento, accettare qualche piccola delusione e, tirando le somme, riconoscere anche quanto di buono hanno avuto dalla vita durante la quale altri sicuramente sono stati più sfortunati di loro. Le generazioni cambiano, Ozu lo mostra bene già con il comportamento dei due piccoli nipoti non troppo rispettosi nei confronti della visita dei nonni, i due anziani sapranno mostrare la loro gratitudine a chi ha donato loro sincerità e devozione. Con uno sguardo lucido e sereno Ozu riflette su due mondi che sembrano essere sempre più distanti tra loro, in maniera inevitabile, il flusso del tempo scorre e alle sue spalle lascia immancabilmente alcune rovine. Film da recuperare, per chi avesse timore di cimentarsi con un'opera del '53, in giapponese con sottotitoli e in bianco e nero, una validissima alternativa rimane il più moderno Tokyo Family di Yamada altrettanto bello e significativo.

domenica 16 gennaio 2022

DON'T LOOK UP

(di Adam McKay, 2021)

Università del Michigan, dipartimento di astrofisica. La dottoranda Kate Dibiaski (Jennifer Lawrence) scopre durante le sue osservazioni una nuova cometa; dopo l'iniziale entusiasmo, sottoposta la scoperta al professor Randall Mindy (Leonardo Di Caprio), i due scienziati calcolano la rotta della cometa, una, due, tre volte, la Dibiaski la calcolerà per tutta la notte e niente... la cometa, del diametro approssimativo di una decina di km, impatterà contro la Terra nel giro di sei mesi, la futura catastrofe è di livello estinzione. Contattato il dottor Clayton Oglethorpe (Rob Morgan), referente alla NASA per minacce di questo genere, i due scienziati vengono accompagnati alla Casa Bianca per informare il Presidente Orlean (Maryl Streep) e il suo capo di gabinetto, suo figlio Jason (Jonah Hill), della minaccia incombente, spiegare la gravità della situazione e studiare un protocollo di contromisure da adottare. Peccato che i due siano un perfetto paio di imbecilli autoriferiti e che non riescano a guardare più in là del consenso dell'elettorato, viste anche le elezioni in arrivo il Presidente degli Stati Uniti decide che è meglio temporeggiare per non turbare l'opinione pubblica, Jason Orlean addirittura dileggia i due scienziati ai quali verrà intimato l'assoluto riserbo sulla faccenda. Inviperiti e sconcertati per non essere stati presi sul serio e soprattutto preoccupati dal fatto che la coppia di idioti al potere non si preoccupi minimamente della prossima estinzione del genere umano, Mindy e Dibiaski decidono di disobbedire e dare pubblica evidenza della minaccia attraverso i media, lo faranno ospiti del programma di grande popolarità condotto dall'avvenente Brie Evantee (Cate Blanchett) e da Jack Bremmer (Tyler Perry). Infilati in programmazione dopo il dramma della separazione della pop star Riley Bina (Ariana Grande) dal fidanzato DJ Chello (Scott Mescudi), i due scienziati sganciano la bomba che in mano ai due conduttori si sgonfia e diventa poco più di una barzelletta, Kate si lascia così andare a una crisi isterica in diretta che da subito diventa un meme virale sul web, Randall suo malgrado acquista lo status di scienziato sexy. Tra il disinteresse generale e l'idiozia dilagante intanto la cometa continua minacciosa il suo avvicinamento, ma ecco spuntare la multinazionale della tecnologia smart pronta a salvare la situazione e, ovviamente, a trarre profitto dall'evento.

Concentrato delle idiozie umane dalle quali non si salva proprio nessuno, dalla politica all'informazione (infotainment ormai...), dall'industria al pubblico dei social, ce n'è per tutti, anche per quelli che dovrebbero essere i protagonisti in positivo dell'intera vicenda e che non si rivelano esenti da difetti e slanci di vanità. Adam McKay non approfondisce troppo nessuno di questi temi, lancia bombe su tutti, nessuno escluso, andando a creare una sequela di situazioni tanto dementi quanto purtroppo riconducibili alla realtà, lo fa accumulando una serie di episodi molto, molto spesso divertenti, che arrivano dritti allo spettatore ma che nel cumulo creano anche un effetto stordimento, proprio come accade con il cumulo di stronzate alle quali siamo sottoposti tutti i giorni, il film sembra a causa di ciò perdere un po' di fuoco ed equilibrio, resta da vedere se l'intenzione di McKay non fosse proprio quella (oggi come oggi è sempre più necessario dubitare di tutto) al fine di rendere tutto più credibile nonostante la sua apparente incredibilità. Pur rimanendo leggero il film mio avviso centra bene il punto, la politica è diventata solo facciata, comunicazione vuota con obiettivi rivolti solo a sé stessa, in questo è aiutata da un'informazione becera, senza contenuto alcuno, fatta da bei volti (quello della Blanchett, inchino) e superficialità, chi cerca di far capire la realtà dei fatti diventa un meme sul web, viene deriso come fosse un povero cretino nonostante le sue competenze, ben presente l'asservimento della politica al capitale, alle multinazionali del profitto capeggiate da idioti sapienti che noi, nella realtà e non solo nel film, veneriamo come grandi uomini invece come la vera piaga che novantanove su cento delle volte si rivelano essere. Don't look up, slogan della classe politica che ha a cuore il fatto che ci si continui a guardare l'ombelico, è parecchio divertente, ci fa ridere dove da ridere non ci sarebbe proprio un bel niente, ridiamo mentre aspettiamo la cometa a braccia aperte, metafora più dell'indifferenza dei grandi poteri ai disastri annunciati e dovuti al cambiamento climatico che non come detto da molti alla situazione Covid di cui comunque, riguardo ai media, i paralleli sono vivissimi. Ridiamo grazie anche a un gran bel cast, Jonah Hill vince la palma d'oro del più imbecille e lo fa con grande stile, McKay schiera oltre ai nomi già citati sopra anche Mark Rylance, l'ormai onnipresente Timothée Chalamet (che a onor del vero a me piace parecchio), il roccioso Ron Perlman, Melanie Lynskey (la Rose di Due uomini e mezzo), Michael Chiklis (The Shield) e Himesh Patel (Yesterday). Applausi per la Streep che con coraggio mostra in tutto il suo splendore un lato b che, in maniera coerente con l'età, di splendido ha ormai davvero poco, in barba alla continua ricerca della perfezione estetica ostentata da altre star di caratura anche inferiore.

Non è perfetto Don't look up, non è un grande film ma potremmo vederlo proprio come un ottimo monito, perché nel caso che la cometa dovesse arrivare, noi purtroppo non siamo così dissimili da quelli là, occhi aperti quindi...

sabato 15 gennaio 2022

MI CHIAMO LUCY BARTON

(My name is Lucy Barton di Elizabeth Strout, 2016)

È un bel libro questo Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout, una lettura veloce che volendo si termina in un paio di giorni, una narrazione strutturata su diversi piani temporali e in differenti luoghi, suddivisa in capitoli molto molto brevi che riescono l'uno a tirare l'altro, come gli acini d'uva, in un'atmosfera tanto profonda quanto delicata e sincera. È un romanzo in parte autobiografico, alcune delle esperienze narrate nel libro richiamano in maniera diretta quelle vissute dalla Strout, prima tra tutte il fatto di essere una scrittrice che la accomuna alla protagonista del racconto Lucy Barton. Sono pochi i personaggi centrali del romanzo: Lucy, sua madre, tanti altri però sono quelli richiamati dai ricordi, dalla narrazione orale tra le due donne, tutti diventano vividi coprotagonisti per brevi momenti, squarci di altre esistenze sepolti nel passato o nel lontano Illinois, nel paesotto di Amgash, a più di mille chilometri da New York dove  Lucy ora si trova, costretta in un letto d'ospedale.

La narrazione inizia in flashback, Lucy racconta quando anni prima si trovò costretta a passare numerose settimane in un'ospedale di New York a causa di un batterio ostile scaturito in seguito a una semplice operazione di appendicite. La donna, costretta a letto, sente forte la mancanza delle sue due bambine, Chrissie e Becka, il marito William detesta gli ospedali e dovendosi prendere cura delle due piccine non passa a trovarla molto spesso, a farle compagnia un dottore gentile e le luci del maestoso Chrysler Building che scintillano fuori dalla finestra. Dopo diverse settimane di ricovero, in visita a Lucy arriva sua madre, una madre lontana che lei non vede da anni, il suo trasferimento a New York e il matrimonio con suo marito avevano allontanato Lucy dalla famiglia, una distanza apparentemente incolmabile, invece ecco lì sua madre, una donna ormai anziana che nonostante l'agitazione e la paura, per chissà quale motivo, è salita da sola su un aereo nell'Illinois per atterrare nel caos di New York e passare qualche giorno al capezzale della sua "bestiolina". Così Lucy ritrova il calore di quella madre, una calore che a dire il vero non è mai stato bruciante, e con la madre accanto si sente meglio, vuole sentire la sua voce, ancora e ancora, si affastellano così aneddoti, ricordi, resoconti e aggiornamenti, sul fratello e sulla sorella di Lucy, sulla gente del paese, su vecchi conoscenti. Alla memoria di Lucy tornano a essere vivide le esperienze della miseria, dell'esclusione, patite a causa di una vita di estrema povertà ad Amgash, episodi sepolti nel passato, una giornata con il padre, alcune vecchie frequentazioni, tutti ricordi che si mescolano ad altri più recenti e alla nuova vita da scrittrice intrapresa da Lucy. L'esperienza ripercorre il lungo percorso di affermazione della sua persona che, nonostante i vari errori e le recriminazioni, ha ora portato la donna a poter davvero affermare di essere Lucy Barton.

La storia di questa famiglia infelice, discriminata e poi separatasi con qualche rimasuglio di acredine e accumulata indifferenza, riportata da pensieri e parole della protagonista e di sua madre, non manca di coinvolgere e commuovere e acquista colore nei racconti riportati di tante altre persone che sono o sono state inquilini temporanei della vita di Lucy; ci sono l'infanzia difficile nella provincia americana, il presente con l'affermazione e il successo ma anche qualche rimpianto, per i grandi dolori inflitti suo malgrado alle due figlie da parte della protagonista, la vita a New York simboleggiata spesso dalla magnificenza del Chrysler Building ma soprattutto quell'amore perso ma mai sopito per una madre per troppo tempo lontana, fredda, che nonostante tutto ha lasciato un vuoto non facilmente colmabile. La protagonista affronta un percorso in cerca della certezza di sé stessa come donna e scrittrice, tale percorso è pennellato con piccoli tratti dalla scrittura della Strout che con un linguaggio semplice ci trasporta in un racconto particolare, quello dei Barton, dai risvolti universali, con onestà, senza timori e lasciando nel lettore un subitaneo affetto per i suoi personaggi.

venerdì 14 gennaio 2022

MA PAPÀ TI MANDA SOLA?

(What's up, doc? di Peter Bogdanovich, 1972)

Un classico che guarda al classico. Il regista Peter Bogdanovich, purtroppo da poco scomparso, è stato un'entusiasta della Hollywood che fu, un appassionato del cinema in bianco e nero; con questo Ma papà ti manda sola? il regista rinverdisce negli anni 70, epoca del movimento della New Hollywood di cui proprio Bogdanovich fu tra i protagonisti, la classica slapstick comedy e in particolare quella dai risvolti rosa nella quale la storia romantica (o più o meno romantica) tra i protagonisti è costellata da guai a profusione e situazioni rocambolesche che si scioglieranno nell'agognato lieto fine soltanto dopo aver inanellato una mole di pasticci e danni dalle proporzioni colossali, non siamo proprio dalle parti di Hollywood party ma la strada è quella, d'altronde chi sarebbe capace di provocare una serie di disastri come quelli messi in moto dal Hrundi V. Bakshi interpretato da Peter Sellers? Il risultato è davvero divertente e poggia sulla coppia d'assi, almeno per quell'epoca, composta dalla brava Barbra Streisand e da Ryan O'Neal reduce dal successo di Love story di un paio di anni prima, tra l'altro Bogdanovich trova anche una maniera esilarante per citare e omaggiare proprio il Love story di Arthur Hiller.

A San Francisco si tiene la fase finale di una specie di concorso indetto dal magnate Frederick Larrabee (Austin Pendleton) volta a premiare il più interessante studio a tema musicale. Uno dei finalisti è l'impacciato e trattenuto Howard Bannister (Ryan O'Neil) che presenta un progetto sulle reazioni delle vibrazioni musicali sulle rocce ignee (o qualcosa di simile); il musicologo è accompagnato dalla fidanzata Eunice (Madeline Kahn), una rompiscatole pedante e possessiva. Nell'albergo dove i due soggiornano c'è anche una sorta di spia (Michael Murphy) con una valigia dai motivi rossi nella quale sono nascosti dei documenti top secret, la valigia è accidentalmente uguale a quella in cui Howard conserva le sue rocce. Sulle tracce della spia c'è un altro funzionario (lo scrittore Philip Roth nientemeno) in caccia dei documenti; la ricca signora Van Hoskins (Mabel Albertson) invece, in una valigia del tutto identica (e che qualcuno cercherà di rubare) tiene dei gioielli di inestimabile valore, un'altro residente dell'albergo ha con sé soltanto biancheria, la valigia, va da sé, è sempre dello stesso modello. In mezzo al bailamme che consegue dall'inevitabile gioco degli equivoci Howard si imbatte in Judy Maxwell (Barbra Streisand) una ragazza spiantata ma coltissima che si invaghisce immediatamente di lui, tanto è imbambolato Howard quanto sveglia, vivace e portatrice sana di guai è Judy, gli opposti prima si respingono, poi si attraggono, nel mezzo c'è un divertentissimo su e giù per San Francisco con una sequela di casini che porterà tutti quanti davanti al giudice.

Commedia divertentissima dove l'aspetto legato agli equivoci nati dagli scambi di valige e quello puramente slapstick e fracassone prevalgono sulle linee rosa, tutti i protagonisti contribuiscono alla resa finale calibrata ad orologeria garantendo numerosi passaggi molto spassosi, la Streisand e O'Neil nella loro diversità sono una coppia comica molto indovinata, Madeline Kahn è perfetta nel ruolo della fidanzata da cui fuggire, ne darà prova anche in Frankenstein Jr. di Mel Brooks (taffetà caro...), in generale si ride parecchio e di gusto. Bogdanovich, in collaborazione con Robert Benton alla sceneggiatura, lavora in maniera magnifica sui tempi, basti vedere la sequenza con l'inseguimento per le strade di San Francisco (forse un po' poco affollate in qualche caso) o i movimenti dei vari personaggi all'interno dell'albergo, tutto studiato per garantire la riuscita perfetta delle varie gag. La Streisand si concede in apertura una canzone sulle note di Cole Porter ma si fa apprezzare anche per la messa in scena del suo irresistibile personaggio, uno dei principali motori dell'esilarante confusione alla quale, come ben dimostra la scena finale, non resta che arrendersi e alzare le mani.

mercoledì 12 gennaio 2022

FIRST COW

(di Kelly Reichardt, 2019)

Con First Cow la regista Kelly Reichardt ci mostra quella che in nuce avrebbe potuto essere una versione migliore degli Stati Uniti d'America (e di conseguenza una versione migliore delle civiltà moderne occidentali) se solo lo sviluppo del Paese più grande del mondo (metaforicamente) avesse trovato fondamento nell'amicizia, nella gentilezza e nella solidarietà invece che nella violenza. First cow è un western atipico ambientato in un Paese ancora tutto da farsi dove non si spara, non si cavalca a rotta di collo e i ritmi della vita sono lenti, ciclici, senza quelle emozioni forti derivanti da duelli al sole, pistolettate, saloon sfasciati, risse continue e grossi allevatori, anche perché in questo pezzo di ovest, quello ritratto nel film, di mucche ancora non se ne sono viste ed è proprio ora, nel momento in cui si svolge la storia dei nostri protagonisti, che arriva in zona la prima mucca, la first cow del titolo, un bell'esemplare di razza bretone. Ciò nonostante l'impressione che si ha di questa terra rigogliosa, ancora incontaminata, e della gente che si muove lì intorno in cerca di fortuna, non è quella del paradiso terrestre scevro di violenza e incorruttibile, tutt'altro, sono i due protagonisti, tre se contiamo la mucca, a rendere possibile una visione più gentile, educata, seppur non esente dal peccato e impossibilitata a non incrociare la strada del crimine, di ciò che avrebbe potuto essere l'America.

Oregon, metà del 1800. Siamo in un territorio ancora totalmente selvaggio, pochi gli insediamenti, la colonizzazione dell'ovest americano in questa zona è ancora agli albori. Otis "cookie" Figowitz (John Magaro) è un pasticciere che ha imparato il mestiere nell'est ora aggregato in qualità di cuoco a una rude spedizione di cacciatori di pelli; alla ricerca di cibo Otis si imbatte in King-Lu (Orion Lee), un cinese infreddolito e impaurito che si sta nascondendo dai suoi inseguitori. Otis aiuta lo sconosciuto e tra i due nasce una forte amicizia che li porterà a cercare di far fortuna insieme e di sfruttare le possibilità offerte da questo nuovo mondo. King-Lu, che ha girato mezzo mondo prima di arrivare in America, ha una spiccata mentalità imprenditoriale, ottimista, sposa il sogno ingenuo e non coltivato del più mite Otis di aprire un albergo, magari a San Francisco; per racimolare soldi sfrutteranno la bravura di Otis come pasticciere e inizieranno a vendere biscotti e dolcetti al mercato del vicino insediamento. Per cucinarli però a Otis serve il latte, non resta che rubarlo mungendo di nascosto l'unica mucca della zona di proprietà di un fattore benestante (Toby Jones) che, ironia della sorte, diverrà uno dei maggiori estimatori dei dolcetti di Otis. Ma si sa, prima o poi tutti i nodi vengono al pettine.

Le immagini di Kelly Reichardt ci riportano a un mondo antico, a partire dal formato di ripresa in 4:3 che ci fa tornare a uno stile di visione del passato, il west di First cow è molto verde, rigoglioso, dai ritmi lenti, non si vedono deserti e lande assolate, la fotografia di Blauvelt ci restituisce la sensazione di luoghi vividi e reali, all'apparenza più vicini di quelli che possono sembrarci i classici luoghi del western: i boschi, il fiume che corre, il paesaggio, hanno qualcosa di molto familiare seppur lontano. Anche l'incedere del racconto asseconda i luoghi, First cow scorre piano, come il fiume, le accelerate sono poche, ciò che ci mostra è un'alternativa a ciò che è stato e che non ha preso piede, seppellito sotto diversi metri di terra da una realtà più competitiva e violenta. C'è in embrione il discorso sul capitale; già allora, quando la civiltà occidentale era ancora tutta da fare, anche nel paese delle opportunità e del sogno di plastica, senza soldi non si andava da nessuna parte a meno di non rubare o peggio. Ma nella lentezza sconosciuta al sistema denaro rimangono altri valori: l'amicizia tra diversi, il rispetto della natura, una vita semplice, tutte cose che rendono possibile un'esistenza di valore in un mondo che va in tutt'altra direzione.

martedì 11 gennaio 2022

VOGLIO MANGIARE IL TUO PANCREAS

(Kimi no Suizō o Tabetai di Shinichirō Ushijima, 2018)

Tratto dal romanzo di Yoru Somino, Voglio mangiare il tuo pancreas è una di quelle narrazioni simili a tante altre per temi e che hanno imperversato nel segmento young adult negli ultimi anni, un racconto di formazione e di sentimenti dove incombe come un macigno la malattia di uno dei protagonisti, elementi che così elencati, in modo un po' freddo, potrebbero anche respingere e creare una sensazione di melenso o di pietismo. Invece l'anime di Shinichirō Ushijima, grazie alla vivacità della protagonista femminile, trova la misura per risultare brillante e allo stesso tempo toccante senza dar mai adito a sensazioni stereotipate o troppo trite e già viste. In questo il film è aiutato dalla scelta di non dettagliare troppo l'avanzare della malattia e non mostrarne la degenerazione fatta di dolore e deterioramento: la protagonista è malata, sappiamo che è destinata a una morte prematura ma la si segue in un momento in cui ancora c'è tanta forza vitale e la voglia di conoscere l'altro e magari innamorarsi ancora.

Haruki è uno studente molto schivo e riservato, innamorato della letteratura vive immerso nei suoi libri e nei suoi gesti quotidiani senza avere contatti umani con nessuno, ignora i compagni di classe, non ha amici, non è interessato alle donne. Haruki non ha nulla che non vada: è sveglio, intelligente, è anche un bel ragazzo, semplicemente non sente il bisogno di socialità o di amicizia e teme un po' il giudizio degli altri (anche se ammette che ogni tanto avere un amico potrebbe essere divertente). Sakura è l'esatto contrario, vivace, molto apprezzata e incline alla socialità, purtroppo la ragazza è affetta da un problema degenerativo al pancreas che prima o poi la porterà a una morte prematura; invece di abbattersi la giovane decide di godersi il più possibile il momento, cerca di andare a mangiare nei posti che la incuriosiscono, di muoversi un po' dalla città e soprattutto ha il desiderio di trovare un nuovo amico in Haruki, forse per il suo essere un solitario, forse per l'indifferenza dimostrata dal ragazzo verso la malattia di Sakura una volta venutone casualmente a conoscenza, oltre ai genitori della ragazza Haruki infatti sarà l'unico a conoscere le condizioni di Sakura la quale vuole mantenere segreta la sua malattia. Haruki comunque acconsente a passare un po' del suo tempo con Sakura, provando insieme qualche ristorante, facendo qualche passeggiata, chiacchierando, andandola in seguito a trovare in ospedale, la relazione tra i due nuovi amici crescerà così d'intensità in maniera molto naturale.

Pur presentando qualche difetto nelle scelte dei passaggi da approfondire (la malattia non è per nulla descritta o spiegata) Voglio mangiare il tuo pancreas si rivela una visione molto piacevole e capace di toccare le giuste corde emotive. Il nucleo centrale si può condensare nel processo con cui la giovane Sakura, conscia di avere un tempo limitato a disposizione, scuote la vita di Haruki che, pur sano, non sta per nulla godendo di ciò che offrono le relazioni con le altre persone e le meraviglie della quotidianità, e se nel processo il transfert diventa a poco a poco reciproco è sicuramente quest'ultimo a imparare ad affrontare un percorso di crescita emotiva e trarre giovamento dall'indole spumeggiante e trascinante di Sakura. È ben dosata la progressione del rapporto tra i due protagonisti, forzato in principio, caratterizzato poi da successivi avvicinamenti intervallati da un paio di sequenze più forti. L'animazione è semplice, fluida, ben realizzata e tratteggia i momenti della narrazione con la giusta efficacia. Il titolo del film nulla ha di orrorifico ma fa riferimento a una leggenda citata da Sakura a proposito della sua malattia. Se ci si vuole lasciare andare al flusso dei sentimenti Voglio mangiare il tuo pancreas assolve al bisogno regalando più d'una emozione e una visione delicata e coinvolgente.

domenica 9 gennaio 2022

SPIDER-MAN: NO WAY HOME

(di Jon Watts, 2021)

Jon Watts per questo nuovo capitolo delle avventure di Spider-Man fa le cose in grande, abbandona l'approccio da teen movie molto presente (e molto riuscito) nei primi due capitoli per tornare a quell'elemento fondante che poneva le basi della vera nascita di Spider-Man pensata da Stan Lee e Steve Ditko per i fumetti, nulla a che vedere con il morso di ragno, un mero accidente che dona a Peter i suoi poteri, Spider-Man, l'Uomo Ragno al quale tutti noi vogliamo bene, nasce con una forte presa di coscienza, una lezione impartitagli dallo zio Ben in seguito a un tragico evento che condizionerà la vita di Peter per sempre e che gli farà capire che "da grandi poteri derivano grandi responsabilità". Anche lo Spider-Man di Tom Holland giunge quindi al passaggio all'età adulta, perde un po' della sua innocenza, acquista consapevolezza e il racconto, almeno in parte, inevitabilmente si incupisce inanellando diversi momenti emozionanti. Maturità, senso di colpa, dolore, visione delle conseguenze... come cambierà quindi in futuro il Peter Parker di Tom Holland (sempre che l'attore decida di continuare a vestire il costume rosso e blu)? Gli scenari si ampliano enormemente, per questa e per altre ragioni ancora, non solo per Spider-Man, tutto verrà approfondito nel prossimo Doctor Strange nel multiverso della follia di cui questo No way home in qualche senso funge da apripista.

Ci eravamo lasciati con l'identità di Spider-Man svelata agli occhi del mondo, c'è quindi chi crede alle parole di Mysterio e bolla Peter Parker come un delinquente, J. Jonah Jameson (J. K. Simmons) lo dipinge come una minaccia, la polizia lo cerca, i giornalisti non danno tregua né a lui né ai suoi cari, le vite di zia May (Marisa Tomei), di M. J. (Zendaya) e di Ned (Jacob Batalon) sono rovinate, tutta l'esistenza di Peter e di chi gli sta intorno si è complicata parecchio. Senza riflettere molto sulle conseguenze delle sue azioni Peter, dopo aver cercato di sistemare le cose, ricorre all'aiuto del Dottor Strange (Benedict Cumberbatch) chiedendogli se non fosse possibile resettare l'accaduto o quantomeno far dimenticare alle persone la sua vera identità. Al contrario di ogni previsione anche Strange, dopo qualche iniziale ritrosia, adotta un comportamento poco maturo (ravvisato anche da Wong) e acconsente ad adoperare un incantesimo per far dimenticare alle persone la vera identità di Spider-Man; interrotto e distratto da Peter l'incantesimo non riesce completamente e il velo tra le dimensioni si squarcia portando nel Marvel Cinematic Universe (l'universo in cui vive Peter) personaggi provenienti da altre dimensioni in qualche modo legati a Spider-Man mettendo così in moto una serie di eventi ai quali sarà necessario "riparare" nel vero senso della parola. L'impresa non sarà né facile né priva di conseguenze.

Con questo terzo capitolo dedicato al Ragno si scombinano un po' le carte in tavola ma il risultato continua a essere davvero molto buono, sarà impossibile per i Marvel fan di lunga data non apprezzare tutti gli elementi noti che convergono in questo film, sempre più si fa strada l'ipotesi di un universo narrativo cinematografico che possa mettere ordine e unità a tutto ciò che finora si e fatto al cinema e, badate bene, anche in televisione, con tutti i personaggi Marvel, in attesa che siano della partita finalmente anche Fantastici 4 e X-Men, gli unici due brand di cui al momento non abbiamo ancora intravisto sullo schermo collisioni con il MCU (però, in effetti, c'è stato quell'Evan Peters in WandaVision...). Avvisiamo ora che seguirà qualche piccolo spoiler per chi ancora non avesse visto il film, letto mezza parola a riguardo ed evitato inoltre ogni trailer di sorta. Oltre a diversi nemici, dalla falla nel multiverso vengono attirati nella realtà del MCU anche le versioni di Spider-Man interpretate da Andrew Garfield e Tobey Maguire, ogni fan del personaggio può ritrovarne così la sua versione favorita: l'incontro tra i tre offre alcuni dei momenti migliori del film, i tre si confrontano in una sorta di dinamica sessione di sostegno reciproco che per Peter (quello di Holland) sarà il viatico finale per giungere a un'etica da eroe (in realtà da uomo) definitiva che dovrebbe permettergli di non prendere più decisioni importanti alla leggera e, come indica l'interessantissimo finale, a sacrificarsi in maniera enorme per gli altri, rinunciando più o meno a tutto, la curiosità per il futuro del personaggio quindi non manca. Sotto il punto di vista puramente visivo, fermo restando che finora troppa tecnologia nel costume ha un po' tradito l'immagine del personaggio, gli effetti speciali permettono di vedere delle versioni migliori di alcuni protagonisti (Electro per esempio) e di assistere a una sequenza con protagonisti Strange e Peter nella dimensione specchio di grande impatto, effetti già visti da Inception in avanti ma sempre di forte presa e qui realizzati in maniera ottima. Se poi ci fossero ancora dubbi sul fatto che valga la pena andare a vedere No way home aggiungiamo solo Willem Dafoe, Alfred Molina, Jamie Foxx, e più o meno abbiamo detto tutto.

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