domenica 29 giugno 2025

LA LOCANDA DEI GATTI E DEI RICORDI

(Chibinekotei no omoidegohan: Kuroneko to Hatsukoi Sandwich di Yuta Takahashi, 2020)

Non sono molte le informazioni che si possono trovare in rete in merito allo scrittore giapponese Yuta Takahashi. Sappiamo che l’autore è originario della prefettura di Chiba, una città di quasi un milione di abitanti situata a sud est di Tokyo e che fa parte dell’area metropolitana della capitale nipponica, importante porto affacciato sulla Baia. Sappiamo che Takahashi è un classe 1972 e che nel suo Paese ha pubblicato già diversi libri, alcuni facenti parte di serie pensate per più uscite, e che questo La locanda dei gatti e dei ricordi è il suo primo libro tradotto nella nostra lingua. Quello che invece possiamo desumere dello scrittore attraverso la lettura del libro, prendendo atto dell’intermediazione di Giuseppe Strippoli in sede di traduzione (che dal giapponese non deve essere compito troppo semplice), è l’uso di uno stile di scrittura piano, semplice, privo di asperità e marcate connotazioni, uno stile che ben asseconda l’incedere lieve del racconto, quasi come se la delicatezza degli eventi narrati richiedesse di poter prendere vita sulla carta in punta di penna, senza fare rumore, di potersi palesare anche nei passaggi più dolorosi senza creare clamori, proprio come fanno i dipartiti, che sono il cuore del libro, con i loro cari rimasti su questa terra. La semplicità di stile adottata da Takahashi non deve essere vista come sinonimo di sciatteria o mancanza di cura, anzi, è invece l’espressione lessicale di una sensibilità tutta giapponese con la quale l’autore affronta il dolore e le situazioni più delicate, una sensibilità che si ritrova per esempio anche nel cinema del maestro Yasuhiro Ozu, un vero alfiere della serenità, di quell’approccio positivo alla vita che a noi occidentali appartiene sicuramente in misura minore.

Kotoko è una giovane ragazza di Tokyo, neanche vent’anni, che in apertura di racconto vediamo recarsi nella penisola di Boso, prefettura di Chiba, alla ricerca di una locanda chiamata “da Chibi”. La ragazza ha di recente dovuto affrontare il dolore profondo della perdita di suo fratello Yuito, investito da un’auto nel tentativo di salvare proprio la vita di sua sorella. La ragazza convive con il senso di colpa e con la lacerante sensazione che avrebbe dovuto esserci lei al posto di suo fratello, un senso di colpa acuito dalla convinzione che il fratello sarebbe stato in grado più di lei di prendersi cura dei genitori in questo momento così difficile per tutti. In un incontro con Kumagai, il maestro di recitazione di suo fratello, Kotoko apprende che Yuito aveva frequentato diverse volte la locanda da Chibi e che qui viene servito su richiesta il kagezen, il pasto del ricordo. Leggenda vuole che questo tipo di piatto possa per qualche momento mettere in contatto la persona che lo assapora con il caro estinto per il quale lo si è preparato: illusione? Suggestione? Presenza fantasmatica? Contatto spirituale? Non si sa bene cosa scateni quest’ultima visione dell’affetto perduto ma il kagezen da Chibi sembra funzionare sul serio. È così che Kotoko, cercando l’ultimo contatto con il fratello, trova il primo con il giovane Kai, figlio della titolare della locanda e cuoco, e con lo strano gatto Chibi, una figura enigmatica il cui ruolo non sarà mai davvero chiarito lungo tutto l’arco del breve romanzo.

La locanda dei gatti è dei ricordi è un libro che affronta i temi della perdita e della morte, del dolore profondo dovuto alla separazione definitiva da chi si ama; ciò nonostante quello di Takahashi è un libro che riesce a non essere mai deprimente e per molti aspetti sembra essere un testo consolatorio se non addirittura lenitivo, capace di far mettere sotto una prospettiva un poco più luminosa le esperienze negative che si sono dovute affrontare nel corso della propria vita legate alla perdita degli affetti più cari. Sembra che alla morte si accompagni una presenza confortante, una forza capace di farci riflettere e aprire gli occhi su possibilità diverse che non sono unicamente la discesa nell’abisso della sofferenza. In questo senso sono molti gli spunti che Takahashi dissemina tra le pagine con una certa grazia: permane a fine lettura una sensazione di continuità molto consolatoria, qui ad esempio esplicitata nella scelta di Kotoko di non far morire insieme al fratello anche quelle che sono state le sue passioni, avvicinandosi a esse, rinverdendole e trovando in questo modo anche vie nuove per una ritrovata felicità che potrà divenire più profonda e completa grazie alle interazioni con le persone che ci stanno intorno. Il rapporto con Kai, garbato e discreto fin dal primo incontro, è il chiaro esempio di come a volte sia necessario osare, dirsi le cose, magari con gradualità, rispetto, discrezione, ma senza lasciare sospesi, non detti, senza tenersi dentro (come spesso accade per mille motivi spesso non sempre validi) le cose belle che si vorrebbero esprimere alle persone che ci sono vicine, perché come accade con le persone che amiamo, anche le occasioni per essere felici a volte ci scappano e potrebbero non tornare più. Non mancano nemmeno accenni a quelli che sono i piaceri quotidiani della vita da cogliere; come spesso accade nelle narrazioni provenienti dal Sol Levante il cibo è uno di questi e trova uno spazio preponderante all’interno del libro, corredato non solo dalla descrizione invitante dei vari piatti del ricordo ma anche da vere e proprie ricette poste a chiusura di ogni capitolo. Tra passaggi sofferti (alcuni realmente toccanti), necessari chiarimenti e brevi ricongiunzioni (il tempo che i vapori dei cibi caldi evaporino), Takahashi confeziona un racconto di semplice purezza e rara sensibilità che riesce nel non facile intento di donare un poco di speranza e una visione positiva dei momenti di difficoltà, una visione di cui in fondo abbiamo tutti un poco bisogno.

giovedì 26 giugno 2025

LONDON BOULEVARD

(di William Monahan, 2010)

London Boulevard
è un prodotto di puro intrattenimento e come tale, a parere di chi scrive, andrebbe visto e giudicato. L’opera prima in veste da regista di William Monahan, già noto come sceneggiatore affermato, al momento della sua uscita non è stata accolta con troppa generosità dal pubblico e soprattutto dalla critica, forse per quei riferimenti al celebre Viale del tramonto (Sunset Boulevard in originale) considerato unanimemente come un capo d’opera nella Storia del cinema, film che qui però, se non per il titolo e per qualche similitudine di trama, è davvero poco richiamato. In realtà sembra che Monahan, imbevuto di cinema dalla testa ai piedi, abbia voluto abbozzare, come fatto peraltro con altri film all’interno della narrazione, un semplice omaggio senza pretesa alcuna di rinverdire i fasti di un’opera quasi intoccabile ed estremamente pericolosa da maneggiare. Ciò che a Monahan si potrebbe (forse) rimproverare, soprattutto visto la sua provata esperienza come sceneggiatore, è un accumulo di scrittura, la classica “troppa carne al fuoco” che apre all’interno di questo London Boulevard una serie di strade non tutte esplorate a dovere fino in fondo, un accumulo che però contribuisce alla costruzione di un viaggio piacevole e con diversi punti positivi da sottolineare, a partire dalla resa estetica di una Londra pericolosa e violenta per finire con diverse interpretazione degne di nota, magari non quelle dei due protagonisti che non sono proprio i migliori attori che il cinema recente abbia da offrire, ma di certo quelle di comprimari di peso come Ray Winstone, David Thewlis, Ben Chaplin e in misura minore l’ormai notissimo Stephen Graham.


Harry Mitchell (Colin Farrell) esce di prigione e si riunisce al suo ex compare Billy (Ben Chaplin) che tenta di sistemarlo e farlo rientrare nel giro. Harry però ha passato dei brutti momenti in carcere e si è ripromesso di non tornarci più e di rigare dritto il più possibile, in fondo Harry non nutre grandi ambizioni, non ha grandi pretese: un posto in cui stare, un lavoretto, sopravvivere onestamente, ma il vecchio giro non lo molla. Per rimettersi in carreggiata Harry accetta un lavoro in qualità di “guardia del corpo”, o qualcosa di vagamente simile, per la notissima attrice Charlotte (Keira Knightley), tormentata dai paparazzi e ritiratasi dalle scene per una sorta di esaurimento nervoso. In casa con Charlotte vive anche l’ex attore e amico della diva Jordan (David Thewlis), un uomo sempre fatto e con nessuna direzione ben in mente (oggi tutti si aspettano che tu sappia fare una cosa sola e per questo io, che sono eclettico, non faccio niente). Harry è inoltre legato a Joe (Alan Williams), un senzatetto che vive in una zona malfamata della città, e deve prendersi cura anche della sorella un po’ svagata Briony (Anna Friel) dedita all’alcool e agli uomini di una certa ricchezza. Nello svolgimento del suo nuovo lavoro Harry si avvicina sempre più a Charlotte, ma Billy e il suo datore di lavoro, lo spietatissimo Gant (Ray Winstone) non si rassegnano a lasciare Harry tranquillo. L’uomo sarà costretto a tornare ai metodi poco educati della sua vecchia vita.


Monahan abbiamo detto è più sceneggiatore che regista, vincitore di un Oscar per la sceneggiatura di The departed di Scorsese, vanta in curriculum anche gli scritti di cose come The tender bar, Nessuna verità, Le crociate e Sin City – Una donna per cui uccidere. Nel passare dietro la macchina da presa Monahan dimostra di sapersela cavare e dove qui “sbraca” è proprio nella scrittura, evidenziando una perdita di misura che però non inficia più di tanto la buona riuscita di un film che guarda più al Guy Ritchie londinese che non a Il viale del tramonto tanto citato. Tra battute indovinate, personaggi poco più che abbozzati, interpretazioni tutto sommato centrate, comprese quelle di Farrell e della Knightley, non due mostri ma qui ben inseriti nel contesto, London Boulevard si dimostra un buon prodotto di genere, magari risaputo e non innovativo ma capace di stupire con un finale affatto scontato e ben studiato che va a ripagare anche le svolte magari banalotte e prevedibili viste in precedenza. Non mancano i momenti più tesi, gli scoppi di violenza, i passaggi ilari (grande Thewlis in questo) che garantiscono la buona riuscita dell’operazione nonostante alcune mancanze (ci si aspettava ad esempio un interazione maggiore tra protagonista maschile e femminile, rapporto nel complesso poco esplorato). Qualche chicca nei dialoghi, qualcuna nello sguardo sulla città, nella fotografia e soprattutto una bellissima selezione dei brani musicali a cura di Sergio Pizzorno, frontman dei Kasabian… insomma, London Boulevard non sarà un film indimenticabile ma nemmeno quel fiasco che in molti hanno voluto dipingere. Un esordio onesto che coglie a parere di chi scrive l’obiettivo che si era prefissato.

domenica 22 giugno 2025

OUR BODY

(Notre corps di Claire Simon, 2023)

Con Our body la regista e documentarista francese Claire Simon ci accompagna nel reparto di ginecologia di un grande ospedale parigino nell’arrondissement di Ménilmontand. La Simon gira questo spaccato di dolori (parecchi) e gioie (parecchie di meno) con una troupe tutta al femminile nel massimo rispetto delle protagoniste le cui storie sono “offerte” allo spettatore per meglio capire tutto quello spettro di emozioni e problematiche che possono nascere in seguito a momenti delicati che il corpo e l’identità femminile possono trovarsi a dover attraversare; Our body si presenta così come un viatico importante per empatizzare ancor di più con le donne e con le sofferenze alle quali possono andare incontro e delle quali si parla ancora troppo poco. Perché conoscere, almeno un minimo, è il primo passo per comprendere (almeno un minimo). Quanti uomini sanno con una certa precisione cosa sia l’endometriosi? In quanti sono consapevoli che la presenza “fuori posto” di tessuto che solitamente sta all’interno dell’utero può provocare dolori lancinanti non solo durante il periodo delle mestruazioni o durante l’atto sessuale ma finanche nel momento di azioni quotidiane e considerate banali come l’atto di fare pipì? Per ogni caso affrontato dalla Simon ci sono aspetti del femminile che vengono svelati e analizzati, non in linea teorica ma sulla pelle di una donna che ha accettato di mettersi a disposizione per ampliare la conoscenza di tutti, nonostante il proprio dolore, la propria sofferenza, la propria angoscia, la propria paura.


Sono molti gli aspetti legati alla salute e alla natura femminile che vengono esplorati nel corso delle due ore e quaranta minuti circa di questo Our Body (Notre corps in originale). Il focus non è soltanto sui problemi medici, ci si sofferma molto anche sull’identità, sulle questioni di genere con le storie di pazienti in fase di transizione verso il sesso femminile, se ne valutano insieme ai medici dell’ospedale le complicanze e le conseguenze a livello fisico, si pensa in anticipo a futuri desideri di maternità, si ascolta, si spiega, si conforta, si consola, sempre con un’onestà di fondo spesso difficile nei casi più complessi e potenzialmente dolorosi per gli assistiti. Siamo in un ospedale, si affronta quindi la malattia, concentrandosi sempre sul femminile, si parla di cancro al seno, di malattie dell’utero, delle ovaie; si affrontano anche i problemi legati all’infertilità, agli aborti, spontanei e non, all’endometriosi, si copre l’intero spettro della vita, dalla nascita (sempre tra i momenti più commoventi), alla morte, anche questa affrontata con estrema dignità.


A parte una piccola introduzione iniziale da parte della regista Claire Simon, il documentario Our body sembra ripercorrere per stile gli insegnamenti del grande documentarista statunitense Frederick Wiseman; non c’è ingerenza dell’autrice infatti in questo Our body, non c’è giudizio, c’è la semplice cronaca e l’attenzione estrema, il rispetto totale per la struttura e per il funzionamento di un ente che ha come scopo l’aiuto alle donne, il supporto e la cura di una parte di popolazione affetta dai disturbi più variegati: assistiamo ai consulti, ai colloqui medico/paziente, alle nascite, agli interventi (alcune immagini sono molto esplicite), alle comunicazioni di cattive notizie, pessime a volte, ogni tanto anche di alcune buone per fortuna, al dolore. Poi la svolta. Durante le riprese la Simon scopre di essere anch’essa malata, si mette quindi in gioco in prima persona e diventa una delle pazienti presenti nel documentario, con tutti i suoi dubbi, il suo dolore e la sua straziante paura per una vita che potrebbe cambiare da un momento all’altro. Il documentario, già molto intenso di per sé, si carica di ulteriore significato palesando ciò che tutti già (non) sanno, ovvero che il domani può riservare novità belle o brutte per chiunque, empatizzare e capire diventa quindi fondamentale per aiutarci a superare le prove più difficili di fronte alle quali ci si può venire a trovare dal giorno alla notte. Our body è in questo di certo un aiuto, un veicolo di conoscenza e consapevolezza prezioso, spesso anche tecnicamente interessante (fecondazione artificiale, illustrazione delle patologie, etc…), quasi sempre emotivamente molto forte. Si chiude con una nota frustrante, anche l’ambiente medico, soprattutto quello ginecologico, è afflitto da abusi e mancanze di rispetto, film come questo possono essere un aiuto per una maggiore consapevolezza ma è chiaro come (purtroppo) ci sia sempre da lavorare contro storture che si potrebbero facilmente evitare con amore verso l'altro e buona volontà.

mercoledì 18 giugno 2025

BERLINGUER – LA GRANDE AMBIZIONE

(di Andrea Segre, 2024)

Andrea Segre, pur avendo già messo a segno diverse incursioni nel lungometraggio di finzione (Io sono Li del 2011, La prima neve del 2013, L’ordine delle cose del 2017) si è formato ed è conosciuto più che altro come documentarista. Per raccontare questo breve periodo della vita di Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano dal 1972 sino alla sua morte, Segre decide di adottare una forma ibrida, un racconto di finzione corredato da immagini di repertorio che non svolgono la funzione di mero orpello narrativo, del tocco d’epoca, sono reperti da leggere come un vero e proprio elemento atto a cadenzare i momenti della narrazione, a sottolineare il passaggio storico denso, a dimostrare quella che era una partecipazione diffusa, sentita e sincera di masse di cittadini, di lavoratori, di semplici uomini e donne che ancora credevano, che pensavano una politica più giusta e attenta alla dignità e al benessere delle classi proletarie fosse ancora possibile. Nell’ottica di realizzare un film a soggetto, cosa mai affrontata prima per la figura di Berlinguer, il regista veneto sceglie uno dei volti più riconoscibili del cinema italiano, un Elio Germano di indubitabile bravura e capace, senza voler mai aderire a una mimesi totale, di far riemergere nei ricordi di chi l’ha vissuto, il portamento, i gesti, l’indole di uno dei politici più ricordati e amati del suo periodo storico; ne La grande ambizione Segre esplora gli anni che vanno dal 1973 al 1978 con una rapidissima coda a chiudere fino ad arrivare ai partecipati funerali di Berlinguer, scomparso nel 1984 a causa di un malore (ictus) che lo colse durante uno dei suoi comizi in quel di Padova.


La grande ambizione si apre con il viaggio di Berlinguer (Elio Germano) a Sofia per incontrare i vertici del Partito Comunista bulgaro, un viaggio che terminerà per il Segretario del PCI con un attentato per fortuna senza gravi conseguenze. Siamo nel 1973, la Guerra Fredda è ancora ben radicata nell’opposizione tra blocco sovietico e blocco occidentale, le varie rappresentanze del Partito Comunista dei diversi Paesi parlano tra loro, si confrontano: in Russia però le posizioni molto democratiche di un politico seppur capace e appassionato come Enrico Berlinguer non piacciono troppo. Il Segretario è infatti un uomo retto che ha come primo interesse il benessere della base del partito, della gente, degli elettori, è un uomo a cui ancora stanno a cuore la giustizia sociale, la dignità del lavoro e quella delle persone, è un politico che sta tra la gente, con gli operai, con le donne, con le riforme e la difesa dei diritti acquisiti (emblematica la questione sul divorzio). Berlinguer è anche un padre amorevole, attento agli insegnamenti da passare ai suoi figli, ai giusti principi, alla coerenza. È anche un realista, un politico che ha capito che il PCI, seppur in costante ascesa, un governo da solo non lo può reggere, da qui la ferma convinzione di dover collaborare con il “nemico”, con quella Democrazia Cristiana di Moro (Roberto Citran) e Andreotti (Paolo Pierobon) che sembra andare da tutt’altra parte, almeno nella sua incarnazione più “andreottiana”. Prende corpo l’idea del Compromesso Storico, un’iniziativa che se avesse visto i suoi frutti avrebbe potuto anche (questo non lo sappiamo) cambiare il nostro Paese. Ma il rapimento prima e l’esecuzione poi di Aldo Moro, primo interlocutore di Berlinguer, segnarono la fine di ogni speranza per il Compromesso Storico e per quell’idea di una giustizia condivisa tra più forze politiche a favore finalmente dell’elettorato, della gente comune, del “popolo”.


Berlinguer – La grande ambizione è un film che mette in scena non solo la figura del Berlinguer politico e uomo, ma soprattutto una stagione in cui la politica era ancora pregna di ideali, di lotte, di speranze, una politica tra le ultime ad aver veramente coinvolto la gente alla cosa pubblica. A emergere dalle immagini di repertorio è un forte sentimento di partecipazione capace di commuovere chi ne serba ricordo ma anche lo spettatore più giovane che per meri motivi anagrafici non ha potuto vivere sulla propria pelle quella che è stata una vera e propria passione civica diffusa e oggi purtroppo in larga parte andata perduta. Nel film, la figura di Berlinguer diventa il simbolo di un’epoca in cui la politica non era solo viatico di interessi “ad personam”, ma un progetto di comunità, una possibilità di cambiamento reale. Uno degli aspetti più toccanti che il film riesce a cogliere è proprio il dramma della fine di quel sogno, un sogno naufragato nel sangue degli attentati e deturpato da una spinta capitalista sempre più forte della quale ancora non siamo riusciti a liberarci. Prezioso il contributo al ritmo e ai significati del film da parte del montatore Jacopo Quadri, giustamente premiato per l’incedere ottimamente dosato tra finzione e archivio che è riuscito a dare all’opera. Ne esce un film in cerca di un suo equilibrio (che trova), un po’ come si cercava di fare nel Paese con quel “compromesso storico” che, se le cose fossero andate diversamente, chissà a cosa ci avrebbe portato.

domenica 15 giugno 2025

FIORI D’EQUINOZIO

(Higanbana di Yasujirō Ozu, 1958)

Fiori d’equinozio, film di Ozu del 1958, è una sorta di spartiacque nella produzione del regista giapponese, una filmografia che, dopo questa, conterà ancora solo cinque opere. Con questo film assistiamo al passaggio da parte del regista dal classico bianco e nero alla modernità del colore, tecnica in realtà giunta in Giappone già qualche anno prima. Questo cambiamento, vista la reiterata contrapposizione tra tradizione e modernità all’interno del cinema di Ozu, diviene subito tema, considerando anche che l’avvicendarsi tra b/n e colore altro non è che un passaggio dalla tradizione del cinema “dei padri” a un cinema per l’epoca contemporaneo e innovativo. Guardando Fiori d’equinozio è facile capire come la scelta di Ozu di passare al colore proprio con questo film sia stata ponderata e affatto casuale. Il tema centrale dell’opera in questione è la diatriba tra matrimonio combinato, quindi “della tradizione” e approvato dalla famiglia d’origine, e matrimonio d’amore, finalmente perorato a gran voce soprattutto dalle giovani donne, dalle nuove generazioni in cerca di una libertà sentimentale nuova e sincera, desiderio non solo lecito ma ormai dovuto in un Paese che aveva già riconosciuto diritti come quello all’aborto. Mancano qui quelle figure femminile che in altre opere del maestro, dopo tanti pensieri e tentennamenti, decidevano di ritornare alle vecchie consuetudini, al calore di un nucleo familiare noto (e assemblato da altri) ma magari stretto e in potenza poco felice; le giovani ragazze protagoniste sono qui decise e fermamente convinte nel voler sposare solo chi dicono loro (e ci mancherebbe pure), la vera novità è che anche l’andamento del film, e quindi la visione dello stesso regista, sembra finalmente dar loro ragione e condannare l’ipocrisia da vecchi barbogi della generazione precedente qui ben incarnata dall’ottimo Shin Saburi.



Fiori d’equinozio si apre sulla scena di un matrimonio al quale presenzia anche il signor Wataru Hirayama (Shin Saburi), un amico dei genitori della sposa che viene invitato a dire qualche parola d’augurio alla novella coppia di sposini. Hirayama si lancia così in una lode del matrimonio d’amore, quello scelto dai due giovani che non hanno aderito a un matrimonio combinato, lasciando trasparire anche una buona dose di rimpianto, in maniera anche poco elegante vista la presenza della moglie Kiyoko (Kinuyo Tanaka), per non aver potuto in gioventù seguire la stessa strada ed essersi dovuto adeguare alle scelte impostegli dalla propria famiglia. Sono diversi gli amici e gli ex commilitoni che chiedono aiuto e consiglio a Hirayama in merito ai rapporti tra padri e figlie in un’epoca di cambiamenti difficili da gestire da questi padri così legati alle vecchie usanze (e alla società patriarcale), uno su tutti il vecchio Shukichi Mikami (Chishu Ryu) la cui figlia è andata via di casa e ha trovato lavoro in un locale di dubbia fama per poter mantenere la sua indipendenza. Hirayama a più riprese da l’impressione di essere un uomo illuminato ma quando sarà sua figlia Setsuko (Ineko Arima) a rifiutare il marito pensato per lei dal padre a favore di un altro uomo inviso a Hirayama verrà fuori l’attaccamento dell’uomo a un mondo vecchio e ormai sorpassato. Per fortuna nel cinema di Ozu le divergenze si appianano molto spesso.


Il passaggio al colore, oltre ai significati di contenuto di cui abbiamo già detto, porta con sé una ventata d’aria fresca alla visione dell’opera di Ozu che finalmente ci permette di ammirare in completezza tutto il décor e la messa in scena che con tanta precisione e accuratezza il regista si premura di allestire per le sue narrazioni; piace anche l’idea di poter gustare nello splendore dei loro colori gli abiti tradizionali delle protagoniste così come la moda del tempo nei costumi delle impiegate, dei giovani uomini, dei frequentatori dei locali. Per quel che riguarda le mere scelte di regia Ozu continua per la sua strada portando avanti un discorso ormai noto ai fan del suo lavoro senza aggiungere ulteriori stravolgimenti a quello già portato dal passaggio al colore. Fiori d’equinozio è forse il film più moderno, femminista e vicino alle nuove generazioni che Ozu ha girato finora (il riferimento è al 1958); se nei film precedenti la nostalgia del passato (ancora presente anche qui soprattutto nella sequenza finale) era dal regista in qualche modo illustrata come la “via corretta” (pensiamo alle conseguenze della modernità in Viaggio a Tokyo), qui si assiste a un cambio di prospettiva per il quale il vecchio viene visto come desueto e costrittivo in favore di usanze più moderne e più giuste per i giovani dell’epoca che iniziano a rivendicare indipendenza e diritto alle proprie scelte (pensiamo a quanto possa essere brutale l’imposizione di un/a compagno/a e la negazione di un amore sincero e sentito). Scampoli di modernità anche nel linguaggio, allusioni moderate ai rapporti sessuali, scherzi sul concepimento, locali equivoci, tutti segnali di un cambiamento e di un passo ulteriore anche per il cinema del maestro verso quell’innovazione vista finora sempre con un certo grado di sospetto.

martedì 10 giugno 2025

GLI INCANTATORI

(The enchanters di James Ellroy, 2023)

Gli incantatori avrebbe dovuto essere il terzo capitolo di quella che era stata definita la seconda quadrilogia di Los Angeles (The second L.A. quartet), una sorta di nuova immersione nel cuore nero dell’America che arrivava ad ampliare quella splendida prima quadrilogia composta da alcuni dei più noti romanzi dello scrittore losangelino: Dalia nera (1987), Il grande nulla (1988), L.A. Confidential (1990) e White jazz (1992). Abbiamo usato il tempo al passato perché sembra che ora questo ultimo progetto di James Ellroy si sia trasformato in una pentalogia rinominata L.A. quintet, dobbiamo quindi aspettarci altri due (presumibilmente corposi) romanzi che andranno ad aggiungersi a Perfidia del 2014, a Questa tempesta del 2019 e a questo Gli incantatori del 2023 prima di poter ritenere conclusa questa nuova fase del lavoro di quello che viene considerato uno dei grandi maestri del crime moderno. C’è da dire che con Gli incantatori pare esserci una cesura abbastanza netta tra ciò che Ellroy ci ha narrato con i primi due romanzi della pentalogia, passiamo infatti da eventi legati alla Seconda Guerra Mondiale, all’attacco di Pearl Harbour e alla successiva segregazione dei cittadini americani di origine giapponese a un epoca più recente collocabile con esattezza ai primi anni Sessanta del secolo scorso, più precisamente ai mesi che precedono e seguono l’agosto del 1962, momento storico in cui viene trovata morta la diva del cinema per antonomasia: Marilyn Monroe. Cambiano quindi gli anni, cambiano molti dei protagonisti e cambia anche, almeno in parte e per alcuni aspetti, l’approccio di Ellroy alla sua materia, sempre fatta di miriadi di personaggi, di una mix di Storia vera e finzione, di marciume e corruzione a volontà, concentrata però su un solo focus che presenta sì collegamenti e diramazioni, spesso difficili da far collimare, ma che non alimenta la visione ad ampio raggio che avevano alcuni dei capolavori di Ellroy, uno su tutti l’ormai celebre American Tabloid, per chi scrive vero capo d’opera dello scrittore losangelino.

Il protagonista principale e voce narrante de Gli incantatori è Freddy Otash, personaggio realmente esistito e ricorrente in diverse opere di Ellroy. Ex poliziotto e ora detective privato Otash viene contattato dal capo dei teamsters (il sindacato dei trasportatori) Jimmy Hoffa per mettere sotto sorveglianza l’abitazione di Marilyn Monroe; Hoffa sta cercando del materiale compromettente che possa provare le relazioni extraconiugali dei fratelli Kennedy, sia John che Bobby, con l’attrice, in modo da poter ottenere una leva politica da usare al momento giusto tramite ricatto. Nello stesso periodo Otash, insieme ad altri poliziotti chiamati in gergo il gruppo dei cappelli, viene coinvolto nelle indagini sul rapimento di un’attricetta minore, Gwen Perloff, indagine lungo la quale scappa il morto, omicidio causato proprio dal caro vecchio Freddy. Il detective si convince del fatto che il rapimento dell’attrice sia in qualche modo collegato alla morte (si dice suicidio da barbiturici), avvenuta negli stessi giorni, di Marilyn Monroe. Sotto pressione di uno dei pezzi grossi della polizia di Los Angeles, Bill Parker, manovrato dallo stesso Bobby Kennedy, Otash viene reintegrato nel corpo di polizia con il compito di screditare la figura di Marilyn Monroe disinnescando di fatto le potenziali mosse di Hoffa (e dei suoi soci della mala) ai danni della famiglia Kennedy con la quale Freddy ha più d’un legame, è stato in passato amante di Pat, la sorella di Bobby e John Fitzgerald.

Da appassionato da tempo immemore dell’opera di Ellroy mi duole non poco dover ammettere di aver avuto l’impressione, leggendo questo Gli incantatori, di essermi trovato di fronte al lavoro di un autore un poco autocompiaciuto (forse anche più di un poco). Ellroy imperversa tra le pagine del romanzo con il suo stile secco, frammentario, conciso, fatto di frasi brevi, vere stilettate al lettore non aduso alla sua scrittura, più abbordabile per il lettore già consapevole, comunque ostico, difficile. I personaggi che compongono la trama del libro, alcuni protagonisti, altri assolutamente comprimari, sono settanta, e anche per un amante di Ellroy posso garantirvi che è un numero spropositato di caratteri ai quali star dietro. Molti passaggi sono confusi, chi è chi? Chi fa cosa? Si fa in effetti una certa difficoltà a ricollegare i pezzi anche se ogni tanto qualche click nel cervello non manca di scattare. Ma, a parte l’immagine stropicciata a dir poco che Ellroy dipinge di una Marilyn Monroe in preda al vizio (cosa che tutto sommato può anche non interessarci), i delitti perpetrati ne Gli incantatori sono almeno due a parere di chi scrive. Il primo è una trama non solo confusa ma tutto sommato poco interessante e per nulla stratificata come può sembrare di primo acchito; tutto ruota intorno alle intercettazioni e ai pedinamenti di Marilyn, alla sua biografia del prima di adesso, ma in fondo non c’è nulla di davvero nuovo né di così appassionante che Ellroy sembri dirci a riguardo. Il secondo, ancor più grave, è l’assenza di personaggi di peso. Ok Freddy Otash, che già non è il protagonista migliore scritto da Ellroy, ma dove sono i Dudley Smith? I Kemper Boyd, le Kay Lake, i Ward J. Little, i Lee Blanchard, i Wayne Tedrow Jr, i Pete Bondurant? Dove sono? Purtroppo la tendenza a un compiacimento che sembra prendere il sopravvento sulla freschezza della narrazione sembrava intuirsi già ai tempi di Questa tempesta, libro comunque migliore di questo, Gli incantatori è una conferma di un trend che si spera Ellroy possa invertire con i prossimi romanzi, il rischio è quello di una pentalogia che nella sua interezza potrebbe rivelarsi indigesta per più di un lettore. Ellroy sa di essere una delle voci più interessanti all’interno del genere crime, indubbiamente lo scrittore non è uno rivestito di umiltà, diventa così difficile capire cosa aspettarsi da lui nel prossimo futuro, la speranza è che qualcuno riesca a fargli notare che un occhio alla misura ogni tanto lo si può anche buttare.

sabato 7 giugno 2025

DUMB MONEY

(di Craig Gillespie, 2023)

Craig Gillespie è uno di quei registi il cui nome dirà poco o nulla al grande pubblico, eppure il regista australiano ha siglato diversi film che hanno avuto un buon riscontro in termini di popolarità a partire dal riuscito e decisamente stralunato Lars e una ragazza tutta sua con un giovane Ryan Gosling che portava avanti un rapporto sentimentale con una bambola gonfiabile; in tempi più recenti ci sono stati il film sulla pattinatrice Tonya (interpretata da Margot Robbie) e la giovane Crudelia in versione Emma Stone. A seguire queste ultime due opere abbastanza conosciute arriva un film “minore” distribuito qui da noi direttamente su piattaforma (Prime Video); Dumb moneyNon chiamateli sprovveduti sfoggia un buon cast e una storia vera assurta agli onori della cronaca grazie alla presenza del marchio GameStop, catena di negozi di videogiochi nuovi e soprattutto usati, un brand conosciuto più o meno in ogni dove. La storia narrata è quella del boom inaspettato del valore delle azioni di GameStop che nel periodo dei primi mesi del 2021, con tutti gli strascichi della pandemia da Covid-19 ancora ben presenti, videro un rialzo pazzesco favorito dalla collaborazione di tanti piccoli investitori unitisi attorno alla peculiare leadership del piccolo analista Keith Gill, a.k.a. Roaring Kitty, un giovanissimo padre di famiglia capace di far appassionare al titolo migliaia di giovani che insieme hanno reso il loro atto di “comprare e tenere” una sorta di lotta contro il sistema dei grandi fondi di investimento i quali furono costretti a “barare” e ad alterare illecitamente il mercato per evitare ai loro appartenenti perdite più che disastrose dimostrando, come se ce ne fosse ancora bisogno, che il gioco è sporco e truccato sempre a favore di pochi schifosi privilegiati.

Siamo all’incirca a inizio 2021: videochiamate, incontri a distanza, posti di lavoro con obbligo di mascherina, volti coperti, distanziamento sociale e via discorrendo. In un contesto ancora pandemico alcuni manager di diversi hedge fund statunitensi (fondi comuni di investimento) come Kenneth Griffin (Nick Offerman), Gabe Plotkin (Seth Rogen) e Steve Cohen (Vincent D’Onofrio) scommettono, tra le altre cose, sulla perdita di valore delle azioni di diverse società tra le quali c’è anche la catena che si occupa di videogiochi GameStop. Un piccolo analista finanziario indipendente, Keith Gill (Paul Dano), che di mestiere fa altro e per la finanza coltiva più che altro una consapevole passione, è invece molto attratto dal titolo GameStop, tanto da comprarne un buon quantitativo di azioni (parliamo di cifre insignificanti per la finanza mondiale) e spingere tramite video YouTube e post su Reddit altri piccoli acquirenti a fare lo stesso e a tenere il titolo, comportamento virtuoso che presto diventa non solo un buon investimento per chi decide di seguire i consigli di Gill ma anche una sorta di lotta dei piccoli investitori contro i colossi del sistema che piano piano vedono salire alle stelle le quotazioni del titolo contro il quale avevano scommesso. Così, poco alla volta, l’infermiera coperta dai debiti Jennifer Campbell (America Ferrera), la studentessa in canna Harmony (Talia Ryder), il dipendente di GameStop Marcus (Anthony Ramos) vedono i loro miseri risparmi diventare sempre più corposi. E tengono, senza vendere le loro azioni di GameStop. Per questa comunità in crescita di piccoli investitori Gill diventa un punto di riferimento, un maestro da seguire, le grosse compagnie non troveranno altro sistema per arginare le loro perdite che quello di truccare il mercato, spingendo la piattaforma di negoziazioni Robinhood gestita da Vlad Tenev (Sebastian Stan) a inibire la possibilità di ulteriori acquisti del titolo. Il caso finirà in mano al Congresso degli Stati Uniti.

Il limite maggiore di un film come Dumb money, godibile ma mai abbastanza coinvolgente, potrebbe essere considerato il tecnicismo di fondo che permea un settore, quello finanziario, che parla ad adepti, conoscitori e appassionati. Tra Hedge Fund, titoli azionari, Short squeeze, Reddit, Wallstreetbets, Robinhood e via discorrendo più di uno spettatore potrebbe trovarsi spiazzato, anche se nel corso del film le cose divengono tutto sommato abbastanza comprensibili. Il film pecca anche sul piano puramente emotivo, per le vicende dei vari protagonisti non si sente mai un forte moto di empatia, si prova un sentore di schifo per il sistema, quello sì, ma tutto sommato Dumb money non riesce quasi mai a toccare le corde giuste nelle nostre pance e nei nostri cuori. Tutto da buttare quindi? No, direi proprio di no. La vicenda narrata è interessante, il film assolve più al compito di informare su una storia curiosa (sulla quale è bene anche riflettere un poco) che non a quello di offrire del buon cinema, per godere del quale ci sentiamo di dire che sarebbe meglio rivolgersi altrove. La regia abbastanza anonima di Gillespie non offre guizzi né soluzioni memorabili, compensa però, almeno in parte, la scelta di un bel cast nel quale il protagonista Paul Dano offre una bella prova e alcuni attori di razza gigioneggiano da par loro (Vincent D’Onofrio). Diciamo pure che si consiglia la visione a chi ha un interesse per l’argomento o una predisposizione per la materia, in caso contrario questo Dumb money lo si può tranquillamente trascurare.

lunedì 2 giugno 2025

IL SAPORE DELLA CILIEGIA

(Ta'm-e gilās... di Abbas Kiarostami, 1997)

Il sapore della ciliegia, una delle opere più note del regista iraniano Abbas Kiarostami, esce nel 1997 e nello stesso anno conquista l’ambita Palma d’oro alla cinquantesima edizione del Festival di Cannes. Grazie anche alla visibilità data all’opera dal riconoscimento francese (insieme a diversi premi riscossi negli Stati Uniti d’America), Il sapore della ciliegia si crea la fama di piccolo capolavoro, di film rappresentativo di un autore che è già un maestro e che però, a parer mio, in passato aveva realizzato opere anche più toccanti e meglio riuscite di questa, una per tutte Dov’è la casa del mio amico?, un film capace di donare uno sguardo sulla purezza dell’infanzia tale da aprire anche il più insensibile dei cuori. Con questo non si vuole sminuire il valore di questa Palma d’oro che comunque affronta temi delicati per i quali vengono toccati i massimi valori dell’esistenza stessa: la vita, la morte e il valore che ogni uomo può dare all’una e all’altra. Da appassionato e “discepolo” del neorealismo italiano, Kiarostami mette in scena il dramma interiore di un uomo comune vinto dalle asperità della vita, circostanze che tutti noi, in qualità di spettatori, non verremo mai a conoscere nel dettaglio, il regista si concentra e sofferma sulla reazione del protagonista alle difficoltà del vivere e sul confronto dello stesso con le altre persone in quella che diventa una riflessione sul bene più prezioso che abbiamo.


Il signor Badī (Homāyun Eršādi) guida la sua auto per le strade di Teheran apparentemente alla ricerca di qualcuno. Sono diversi gli uomini che si avvicinano al suo finestrino aperto, convinti che l’uomo stia cercando un manovale o qualche operaio per portare a termine qualche tipo di lavoro. In realtà da principio il signor Badī non dichiara in maniera esplicita le sue intenzioni. L’uomo in realtà più che di un lavoro vero e proprio necessita di qualcuno che porti a termine per lui un compito semplice: Badī ha infatti deciso di togliersi la vita; l’uomo ha già scavato una buca in una zona fuori Teheran, un luogo aspro e collinare pieno di escavatori e lavori di non si sa bene che tipo. Ora Il signor Badī, probabilmente non ancora convinto di riuscire a portare a compimento l’opera, cerca qualcuno che il mattino seguente (il suicidio l’ha pensato in notturna) vada a controllare la situazione, se il volonteroso aiutante troverà Badī ancora vivo lo aiuterà semplicemente a uscire dalla buca, in caso contrario lo dovrà coprire con almeno venti palate di terra. Per il volontario ci sarà ad aspettarlo una buona sommetta in denaro. Badī proporrà l’accordo prima a un giovanissimo soldato curdo (Safar 'Ali Murādi) ora rifugiato in Iran, poi a un seminarista (Mir Hossein Nuri), un religioso ovviamente contrario all’atto del suicidio, infine a un anziano impiegato di un museo, il signor Bagheri (Abdelrahman Bāqiri), più propenso ad assecondare i voleri del suo concittadino ma anche deciso a fargli capire a quante cose meritevoli d’esser vissute il suo gesto potrebbe porre fine.


Quello di Abbas Kiarostami è un cinema che lascia solo intravedere le difficoltà dell’Iran del suo tempo, senza parlare apertamente di regime; il malessere esistenziale del signor Badī non trova qui esplicita chiarificazione, potrebbe nascere dalle difficoltà di vivere nell’Iran contemporaneo (quello del 1997) ma potrebbe essere imputabile più semplicemente a un privato infelice, Kiarostami questo non ce lo dice. Pur essendo un film lontano dal presentare un forte impianto politico, Il sapore della ciliegia ha trovato problemi di distribuzione in Iran a causa del tema del suicidio, argomento tabù nel Paese del regista. Kiarostami pone lo spettatore accanto al suo protagonista principale girando molte sequenze dentro l’auto, come a guardare la città e il mondo fuori di essa; se prendiamo questo come segno di stile, insieme alle dure zone montane che fanno da sfondo alla vicenda, troviamo un approccio riconoscibile anche nei lavori più recenti di Jafar Panahi (fresca Palma d’oro con Un semplice incidente), dichiarato discepolo di Kiarostami e regista che appunto ne riprende alcune caratteristiche in film come Taxi Teheran o Tre volti. In una serie successiva di incontri Kiarostami vuole riflettere con approccio laico sul dramma esistenziale di un uomo che decide che la sua vita non vale più la pena d’esser vissuta; nei tre dialoghi si sviluppa il dramma privato dell’uomo e si palesano tre visioni differenti sul suo potenziale gesto suicida. La struttura è semplice e anche in un certo qual modo ripetitiva, l’incontro che dovrebbe/potrebbe essere risolutivo con il vecchio impiegato del museo offre una visione del tema lineare e forse finanche banale, magari efficace e veritiera ma semplificata all’osso per un tema troppo importante da liquidare con una certa semplicità. In un film dove non c’è storia ma che vive di riflessione e di un tema (nulla di male in questo), ci si aspetterebbe una profondità maggiore, un tono più ficcante. Insieme al personaggio centrato del soldato, alla buona interpretazione di Homāyun Eršādi e al confronto finale con il signor Bagheri, rimane la buona mano di un regista capace e lo spunto di indubbio interesse, resta il dubbio di come forse Il sapore della ciliegia goda di una fama anche maggiore rispetto ai reali meriti di un film buono e interessante ma, a mio avviso, non così fondamentale come è stato spesso dipinto.

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