(Chibinekotei no omoidegohan: Kuroneko to Hatsukoi Sandwich di Yuta Takahashi, 2020)
Non sono molte le informazioni che si possono trovare in rete in merito allo scrittore giapponese Yuta Takahashi. Sappiamo che l’autore è originario della prefettura di Chiba, una città di quasi un milione di abitanti situata a sud est di Tokyo e che fa parte dell’area metropolitana della capitale nipponica, importante porto affacciato sulla Baia. Sappiamo che Takahashi è un classe 1972 e che nel suo Paese ha pubblicato già diversi libri, alcuni facenti parte di serie pensate per più uscite, e che questo La locanda dei gatti e dei ricordi è il suo primo libro tradotto nella nostra lingua. Quello che invece possiamo desumere dello scrittore attraverso la lettura del libro, prendendo atto dell’intermediazione di Giuseppe Strippoli in sede di traduzione (che dal giapponese non deve essere compito troppo semplice), è l’uso di uno stile di scrittura piano, semplice, privo di asperità e marcate connotazioni, uno stile che ben asseconda l’incedere lieve del racconto, quasi come se la delicatezza degli eventi narrati richiedesse di poter prendere vita sulla carta in punta di penna, senza fare rumore, di potersi palesare anche nei passaggi più dolorosi senza creare clamori, proprio come fanno i dipartiti, che sono il cuore del libro, con i loro cari rimasti su questa terra. La semplicità di stile adottata da Takahashi non deve essere vista come sinonimo di sciatteria o mancanza di cura, anzi, è invece l’espressione lessicale di una sensibilità tutta giapponese con la quale l’autore affronta il dolore e le situazioni più delicate, una sensibilità che si ritrova per esempio anche nel cinema del maestro Yasuhiro Ozu, un vero alfiere della serenità, di quell’approccio positivo alla vita che a noi occidentali appartiene sicuramente in misura minore.Kotoko è una giovane ragazza di Tokyo, neanche vent’anni, che in apertura di racconto vediamo recarsi nella penisola di Boso, prefettura di Chiba, alla ricerca di una locanda chiamata “da Chibi”. La ragazza ha di recente dovuto affrontare il dolore profondo della perdita di suo fratello Yuito, investito da un’auto nel tentativo di salvare proprio la vita di sua sorella. La ragazza convive con il senso di colpa e con la lacerante sensazione che avrebbe dovuto esserci lei al posto di suo fratello, un senso di colpa acuito dalla convinzione che il fratello sarebbe stato in grado più di lei di prendersi cura dei genitori in questo momento così difficile per tutti. In un incontro con Kumagai, il maestro di recitazione di suo fratello, Kotoko apprende che Yuito aveva frequentato diverse volte la locanda da Chibi e che qui viene servito su richiesta il kagezen, il pasto del ricordo. Leggenda vuole che questo tipo di piatto possa per qualche momento mettere in contatto la persona che lo assapora con il caro estinto per il quale lo si è preparato: illusione? Suggestione? Presenza fantasmatica? Contatto spirituale? Non si sa bene cosa scateni quest’ultima visione dell’affetto perduto ma il kagezen da Chibi sembra funzionare sul serio. È così che Kotoko, cercando l’ultimo contatto con il fratello, trova il primo con il giovane Kai, figlio della titolare della locanda e cuoco, e con lo strano gatto Chibi, una figura enigmatica il cui ruolo non sarà mai davvero chiarito lungo tutto l’arco del breve romanzo.
La locanda dei gatti è dei ricordi è un libro che affronta i temi della perdita e della morte, del dolore profondo dovuto alla separazione definitiva da chi si ama; ciò nonostante quello di Takahashi è un libro che riesce a non essere mai deprimente e per molti aspetti sembra essere un testo consolatorio se non addirittura lenitivo, capace di far mettere sotto una prospettiva un poco più luminosa le esperienze negative che si sono dovute affrontare nel corso della propria vita legate alla perdita degli affetti più cari. Sembra che alla morte si accompagni una presenza confortante, una forza capace di farci riflettere e aprire gli occhi su possibilità diverse che non sono unicamente la discesa nell’abisso della sofferenza. In questo senso sono molti gli spunti che Takahashi dissemina tra le pagine con una certa grazia: permane a fine lettura una sensazione di continuità molto consolatoria, qui ad esempio esplicitata nella scelta di Kotoko di non far morire insieme al fratello anche quelle che sono state le sue passioni, avvicinandosi a esse, rinverdendole e trovando in questo modo anche vie nuove per una ritrovata felicità che potrà divenire più profonda e completa grazie alle interazioni con le persone che ci stanno intorno. Il rapporto con Kai, garbato e discreto fin dal primo incontro, è il chiaro esempio di come a volte sia necessario osare, dirsi le cose, magari con gradualità, rispetto, discrezione, ma senza lasciare sospesi, non detti, senza tenersi dentro (come spesso accade per mille motivi spesso non sempre validi) le cose belle che si vorrebbero esprimere alle persone che ci sono vicine, perché come accade con le persone che amiamo, anche le occasioni per essere felici a volte ci scappano e potrebbero non tornare più. Non mancano nemmeno accenni a quelli che sono i piaceri quotidiani della vita da cogliere; come spesso accade nelle narrazioni provenienti dal Sol Levante il cibo è uno di questi e trova uno spazio preponderante all’interno del libro, corredato non solo dalla descrizione invitante dei vari piatti del ricordo ma anche da vere e proprie ricette poste a chiusura di ogni capitolo. Tra passaggi sofferti (alcuni realmente toccanti), necessari chiarimenti e brevi ricongiunzioni (il tempo che i vapori dei cibi caldi evaporino), Takahashi confeziona un racconto di semplice purezza e rara sensibilità che riesce nel non facile intento di donare un poco di speranza e una visione positiva dei momenti di difficoltà, una visione di cui in fondo abbiamo tutti un poco bisogno.