Il sapore della ciliegia, una delle opere più note del regista iraniano Abbas Kiarostami, esce nel 1997 e nello stesso anno conquista l’ambita Palma d’oro alla cinquantesima edizione del Festival di Cannes. Grazie anche alla visibilità data all’opera dal riconoscimento francese (insieme a diversi premi riscossi negli Stati Uniti d’America), Il sapore della ciliegia si crea la fama di piccolo capolavoro, di film rappresentativo di un autore che è già un maestro e che però, a parer mio, in passato aveva realizzato opere anche più toccanti e meglio riuscite di questa, una per tutte Dov’è la casa del mio amico?, un film capace di donare uno sguardo sulla purezza dell’infanzia tale da aprire anche il più insensibile dei cuori. Con questo non si vuole sminuire il valore di questa Palma d’oro che comunque affronta temi delicati per i quali vengono toccati i massimi valori dell’esistenza stessa: la vita, la morte e il valore che ogni uomo può dare all’una e all’altra. Da appassionato e “discepolo” del neorealismo italiano, Kiarostami mette in scena il dramma interiore di un uomo comune vinto dalle asperità della vita, circostanze che tutti noi, in qualità di spettatori, non verremo mai a conoscere nel dettaglio, il regista si concentra e sofferma sulla reazione del protagonista alle difficoltà del vivere e sul confronto dello stesso con le altre persone in quella che diventa una riflessione sul bene più prezioso che abbiamo.
Il signor Badī (Homāyun Eršādi) guida la sua auto per le strade di Teheran apparentemente alla ricerca di qualcuno. Sono diversi gli uomini che si avvicinano al suo finestrino aperto, convinti che l’uomo stia cercando un manovale o qualche operaio per portare a termine qualche tipo di lavoro. In realtà da principio il signor Badī non dichiara in maniera esplicita le sue intenzioni. L’uomo in realtà più che di un lavoro vero e proprio necessita di qualcuno che porti a termine per lui un compito semplice: Badī ha infatti deciso di togliersi la vita; l’uomo ha già scavato una buca in una zona fuori Teheran, un luogo aspro e collinare pieno di escavatori e lavori di non si sa bene che tipo. Ora Il signor Badī, probabilmente non ancora convinto di riuscire a portare a compimento l’opera, cerca qualcuno che il mattino seguente (il suicidio l’ha pensato in notturna) vada a controllare la situazione, se il volonteroso aiutante troverà Badī ancora vivo lo aiuterà semplicemente a uscire dalla buca, in caso contrario lo dovrà coprire con almeno venti palate di terra. Per il volontario ci sarà ad aspettarlo una buona sommetta in denaro. Badī proporrà l’accordo prima a un giovanissimo soldato curdo (Safar 'Ali Murādi) ora rifugiato in Iran, poi a un seminarista (Mir Hossein Nuri), un religioso ovviamente contrario all’atto del suicidio, infine a un anziano impiegato di un museo, il signor Bagheri (Abdelrahman Bāqiri), più propenso ad assecondare i voleri del suo concittadino ma anche deciso a fargli capire a quante cose meritevoli d’esser vissute il suo gesto potrebbe porre fine.
Quello di Abbas Kiarostami è un cinema che lascia solo intravedere le difficoltà dell’Iran del suo tempo, senza parlare apertamente di regime; il malessere esistenziale del signor Badī non trova qui esplicita chiarificazione, potrebbe nascere dalle difficoltà di vivere nell’Iran contemporaneo (quello del 1997) ma potrebbe essere imputabile più semplicemente a un privato infelice, Kiarostami questo non ce lo dice. Pur essendo un film lontano dal presentare un forte impianto politico, Il sapore della ciliegia ha trovato problemi di distribuzione in Iran a causa del tema del suicidio, argomento tabù nel Paese del regista. Kiarostami pone lo spettatore accanto al suo protagonista principale girando molte sequenze dentro l’auto, come a guardare la città e il mondo fuori di essa; se prendiamo questo come segno di stile, insieme alle dure zone montane che fanno da sfondo alla vicenda, troviamo un approccio riconoscibile anche nei lavori più recenti di Jafar Panahi (fresca Palma d’oro con Un semplice incidente), dichiarato discepolo di Kiarostami e regista che appunto ne riprende alcune caratteristiche in film come Taxi Teheran o Tre volti. In una serie successiva di incontri Kiarostami vuole riflettere con approccio laico sul dramma esistenziale di un uomo che decide che la sua vita non vale più la pena d’esser vissuta; nei tre dialoghi si sviluppa il dramma privato dell’uomo e si palesano tre visioni differenti sul suo potenziale gesto suicida. La struttura è semplice e anche in un certo qual modo ripetitiva, l’incontro che dovrebbe/potrebbe essere risolutivo con il vecchio impiegato del museo offre una visione del tema lineare e forse finanche banale, magari efficace e veritiera ma semplificata all’osso per un tema troppo importante da liquidare con una certa semplicità. In un film dove non c’è storia ma che vive di riflessione e di un tema (nulla di male in questo), ci si aspetterebbe una profondità maggiore, un tono più ficcante. Insieme al personaggio centrato del soldato, alla buona interpretazione di Homāyun Eršādi e al confronto finale con il signor Bagheri, rimane la buona mano di un regista capace e lo spunto di indubbio interesse, resta il dubbio di come forse Il sapore della ciliegia goda di una fama anche maggiore rispetto ai reali meriti di un film buono e interessante ma, a mio avviso, non così fondamentale come è stato spesso dipinto.
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